Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea
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Edizioni • Il centro • di Arturo Carola
A. GIANNETTI Architetto e ingegnere G. DAL CANTON Le scuole di critica d'arte in Italia
A. PIROMALLO GAMDARDEIJ.A
L'immaginario nella cultura di massa Libri, riviste e mostre
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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Pasquale Belfiore, Cettina Lenza, Agata Piromallo Gambardella, Maria Luisa Scalvini, San dro Sproccati, Angelo Trimarco.
Architetto e ingegnere ANNA GIANNETTI
Il termine architetto deriva etimologicamente dal greco iipxw, comando, e 't'ÉX't'O'II, costruttore, quindi letteralmente vuol dire capocostruttore 1; mentre ingegnere deriva dalla voce del latino volgare ingenium, macchina e particolar mente macchina bellica 2, per cui l'ingeniarius sarebbe stato in origine l'ingegnere militare 3• Ovviamente le interpretazioni dei due termini e le loro attribuzioni sono state diverse nei secoli, ma mentre il si gnificato etimologico primario della parola architetto è ri masto immutato dal '400 in poi, sulla natura dell'ingenium latino si è ampiamente dibattuto, soprattutto durante il se colo scorso, legandolo variamente all'ingegno o talento ne cessario per esercitare la professione, alla meccanica e ai meccanismi in generale, o addirittura ad un verbo incingere del latino medievale e quindi alla recinzione delle città con palizzate o mura 4• Il termine greco apx�'t'ÉX't'O'\I, con il suo significato di pro gettista, chiaramente distinto dai comuni operai, comincia solo con l'epoca classica a prevalere sul più antico 't'ÉX't'O'IIE<;, costruttore di legname, usato da Omero. Pur circondato dal disprezzo per la propria attività manuale, come tutti gli ar tisti, l'architetto greco è un libero professionista che presta la sua opera allo stato, unico grande committente del tempo, e che opera in un vasto campo disciplinare che va dal Par tenone di Ictino, ai Propilei di Mnesicle, all'intervento ur ban,istico di Ippodamo di Mileto, abbracciando ugualmente 5
l'idraulica e le opere militari, la creazione di macchine e l'invenzione di ordigni di uso civile e bellico. L'ampiezza del ·1a sua attività professionale e la scarsissima considerazione in cui sono tenute in Grecia tutte le forme di specializza zione e di abilità particolare, limitative della 1tCXLO Elcx. plato nica, escludono la presenza di ingegneri nel mondo greco, mentre fanno sì che pittori come Bupalo di Chio e Mandro cle di Samo, o scultori come Fidia siano anche architetti. Sono invece per ora i matematici e i filosofi ad occuparsi di alcuni settori divenuti poi tradizionali dell'ingegneria: l'agri mensura, la livellazione e la topografia sono per loro oggetto di studio come branche della geometria applicata, mentre la meccanica e le leggi del movimento fanno parte della (j)VCTLXT). Nella Roma di Catone l'accettazione delle arti dei vinti è controversa e combattuta, eccezion fatta per l'architettura alla quale fin dall'epoca di Tarquinio era stato riservato un posto d'onore. Soltanto l'Architettura ha diritto di cittadi nanza: ma soprattutto come tecnica utile ai fini del governo della cosa pubblica e, come ingegneria militare, delle ope razioni belliche 5 • Su tale qualità civile dell'architettura ro mana, data per certa la grandezza delle opere realizzate, si è trascinata dalla metà del '700 agli inizi di questo secolo una vivace querelle intorno alla natura di tali opere e dei loro artefici. Dalla disputa di Piranesi con i francesi Mariette e Le Roy intorno alla maggiore grandezza dei Romani o dei Gre ci, a lungo i critici si sono interrogati sulla questione se i cittadini dell'Urbe siano stati architetti o ingegneri, artisti o tecnici, e se, quindi, la loro produzione appartenga alla storia dell'Architettura o dell'Ingegneria e, nel primo caso, se gli autori di tali opere siano stati quegli stessi dominatori · del mondo o piuttosto i molto più civili e artisticamente do tati abitanti della Grecia, condotti schiavi dopo la conquista del loro paese.
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I primi architetti romani, secondo alcuni, erano stati sa cerdoti etruschi chiamati da Tarquinio a costrurre i templi più antichi... sul monte capitolino e dove più tardi a fianco
dei cittadini romani come Colluzio e C. Muzio... vidersi nu merosi architetti greci, condotti schiavi dopo la conquista della Grecia, dirigere le più notevoli costruzioni della Roma imperiale 6 • Secondo altri invece gli architetti Romani tali (cioè artisti) non furono mai, ma essenzialmente ufficiali del• la pubblica amministrazione e costrutorl nella più nobll si gnificazione... (poiché) L'antica e vera architettura di Roma non fu mai un'arte, sempre adoprata essendo quale lnstru mento di governo ad agevolare le operazioni di guerra, a munire e far accessibili le frontiere, a render più comoda, sana e sicura la vita urbana 7• Al contrario, per l'allievo di Viollet-le-Duc, Choisy e quanti pensavano che la tecnica non fosse il contrario dell'arte, an che presso i Romani (come i Greci) il campo dell'Architet tura abbraccerà le scienze meccaniche tutte intere, la co struzione delle macchine e come la decorazione dei templi: gli antichi giudicavano necessaria una sorta di universalità del sapere per la conduzione dei lavori dove intervengono tutte le branche dell'industria e dell'arte 8• La disputa ha trovato nell'esistenza di due termini ro mani per indicare gli architetti e nella tarda e lenta ado zione del termine greco o:pxvtÉX'tWV uno dei suoi punti di forza. L'antico termine di origine latina magister indica in fatti il capo degli operai, sia nelle opere civili che in quelle militari, nonché il direttore dei lavori, senza avere quella implicazione artistica e creativa che è propria del vocabolo greco. Inoltre l'architectus o architector compare solo in tòrno al 200 a. C. nei testi latini, in Plauto e poi in Seneca, il quale in una delle sue lettere (90, 9) ancora usa la scrittura Greca quando compara il lusso dei suol giorni con la so brietà del passato che era stato « slne à:pXL'tÉX'tOVEc; ,. il che dimostra che il periodo di adozione del termine non è an cora finito alla metà del primo secolo d. C. 9 e conserva un valore negativo, su cui pesa, è evidente, la radicata ostilità contro i fenomeni artistici corrotti e corruttori, anche in Marziale che consiglia ai genitori di far diventare i figli di durum ingenium architetti o sovraintendenti 10• Secondo alcuni inoltre lo stesso termine ingeniarius com- 7
-parirebbe intorno al II secolo d. C. 11, ma fino al Mille non se ne hanno prove storicamente accettabili. Nello stesso De re aedificatoria vitruviano è stato letto tanto il tipo ideale dell'ingegnere 12 che dell'architetto ro mano: il celebre passaggio iniziale in cui si richiede che l'architectus sia esperto in ratiocinatio e fabrica e che co nosca in maniera più che sufficiente le lettere, la storia, la filosofia, la musica, la medici.ila e l'astrologia si è prestato a tale duplice interpretazione, facendo nascere la leggendaria figura dell'ingegnere romano, archetipo di quello ottocen tesco . -Sta di fatto che l'architetto romano gode di un notevole prestigio e rispetto, molto maggiore degli altri artisti e che la sua qualltà di tecnico e l'importanza delle sue prestazioni assicurano all'architetto, nella società romana, una posizione di privilegio rispetto a quella degli scultori e dei pittori, la cui attività era considerata servile: su sessanta architetti ro mani, di cui si conosce il nome, venticinque erano cittadini romani, ventitré liberti e solo dieci schiavi 13• Con la fine dell'Impero, solo una attenta indagine filolo gica ci consente di seguire le _tracce dell'architetto-artista greco-romano e di individuare che tipo di personaggio e di professionista si sia venuto a formare dietro la parola inge niarius al suo comparire intorno alla fine del XII secolo. Il termine latino architectus entra rapidamente a far parte della cultura cristiana, conservando il significato originario e anzi accentuandone il valore creativo e intellettuale, così da essere utilizzato nella Volgata e negli scritti dei Padri della Chiesa, e da diventare con la I epistola di San Paolo ai Corinzi un attributo di Dio e, col De Civitate Dei agosti niano, di Cristo, chiamato appunto architectus ecclesiae. Vero è che per tutto l'Alto Medioevo, l'architectus com pare .frequentemente e con l'antico valore teorico e pratico: Cassiodoro lo usa infatti sia in una lettera inviata da Teodo rico a e Aloisio architecto» sul restauro di alcuni edifici ... sia in una formula per lettera al e Praefectus Urbis • sulla assunzione di un architetto per sovraintendere agli edifici 8 pubblici a Roma 14•
Un secolo divide Teodorico da Isidoro da Siviglia che nel suo Etimologiarum Libri XX - composto intorno al VII sec. - dedica due paragrafi all'architetto e al suo lavoro, Architecti autem caementarli sunt qui disposunt in funda mentis. Unde et Apostolus de semetipso: Quasi sapiens, in quit, architectus fundamentum posui 1s. Tale definizione, co me tutta la sua opera del resto, segna il passaggio dal mon do tardo-romano al pieno Medioevo: l'architetto infatti pur essendo già simile al muratore è ancora un particolare cae mentarius, avente il compito preciso di disegnare le fonda menta, come attività distinta dal lavoro pratico e orna mentale. Dall'VIII al XIII secolo il termine greco-latino scompare, soprattutto nell'Europa del Nord, per essere sostituito da un gran numero di espressioni come artifex, magister, lapi cida, magister operis, etc: da ciò prese origine un'altra tra dizionale polemica che accompagnò nel secolo scorso il rin novato interesse storiografico e disciplinare per l'architet tura di questi secoli. Non solo critici e storici, ma anche scrittori e letterati tentarono di risolvere l'apparente con traddizione tra la novità e l'altissima qualità tecnica delle opere e la scarsissima documentazione sui loro artefici. La molteplicità dei termini usati, la confusione continua tra il committente e l'esecutore e il poco interesse di quei tempi per la personalità creatrice fecero nascere le ipotesi più disparate su chi erano stati, se mai erano esistiti, gli artefici delle architetture romaniche e soprattutto gotiche: a monaci architetti, a vescovi o abati menzionati negli atti del tempo, ad anonimi artefici presi dal ranghi stessi della popolazione civile di cui traducevano lo spirito e le tenden ze 16, allo stesso epos popolare autore di queste opere collet tive di tutto un popolo 17, ai grandi architetti.- nati per la maggior parte nel domini reali e più particolarmente usciti , dall'Ile-de-France 18 di cui si è persa in molti casi la memo ria, si attribuì di volta in volta il ruolo di architetto me dievale. Vale la pena di ricordare, però, come durante la cosiddetta Rinascenza ·carolingia il termine architetto e le sue attri- 9
buzioni tradizionali ricompaiano, unitamente alla più antica edizione medievale del testo vitruviano, pubblicata proba bilmente a Colonia nell'850. Così come è sulla scia della rina scita intellettuale del XIII secolo che il confuso magister si riavvicina dopo quattro secoli all'architetto vitruviano: la Chiesa con la Summa contra gentiles di S. Tommaso d'Aquino riscopre per mezzo di Aristotele l'antico valore speculativo del termine usato da S. Paolo 19, mentre da un documento della metà del secolo, di Nicolas de Biard, apprendiamo che anche nel campo professionale qualcosa si sta trasformando: nei grandi cantieri, a differenza dei minori, « c'è di abitudi ne, un maestro che li guida e regola solo con la parola, senza entrarci altro che raramente, e senza metterci mai mano, e tuttavia riceve salari più alti degli altri » 20•
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Così pur restando tipico l'architetto che lavora da sé nel la loggia e si sente artigiano proprio come gli altri capi arti giani 21, è ormai altrettanto diffusa la nuova figura dell'ar chitetto medievale che viaggia per l'Europa, prestando la sua ope1a o la sua consulenza, e che si fa rappresentare come Peter Parler accanto ai suoi predecessori e donatori princi peschi nella cattedrale da lui realizzata. Molteplici erano state, e tali continuano ad essere, le competenze dell'arte fice gotico, non soltanto ingegnere o tecnico, ma anche au tore del disegno delle modanature, della decorazione, e an che delle opere scultoriche, e pittoriche 22 e di molti, nono stante tutto, conosciamo i nomi e le opere. Anche se volendo, come alcuni critici del Ventennio han no fatto, si può definire l'architetto medievale come inge gnere, è solo con la fine del XII secolo che compare con certezza tale termine in Italia e in Francia nella forma di incignerius o encignerius. Tale titolo è riferito ad ingegneri militari incaricati di provvedere alla difesa di città con mura e con palizzate, di costruire macchine militari e di dirigere i lavori relativi alle costruzioni idrauliche e stradali... Le per sone che attendono a questi e simili lavori... sono dapprima chiamate semplicemente 'magistri '... L'antica parola, che già i classici Romani usarono per designare l'ingegnere e che nel latino medievale si presta a tanti e cosi vari significati...
Ne sono esempio ... le carte di alcuni fondi dell'Archlvio di Stato bolognese, in particolar modo quelli dell'Ufficio del Giudice delle Acque, Strade, Ponti, Calanchl, Selciati, Fango, Corone ed Arme, una specie di Ufficio di Polizia, alle dipen denze del Podestà. Fino a mezzo il trecento vi troviamo re gistrati assai spesso i 'magistri ingegneri ' 23 di cui si spe cifica sovente la dipendenza dal comune o dal signore. In Italia però fin dall'XI secolo qualcosa era già mutato nella condizione degli architetti, manifestandosi una tenden za simile a quella registrata per i paesi del Nord. Contra riamente a quanto avvenuto finora, compare un sorpren dente numero di iscrizioni su edifici che lodano il muratore responsabile della loro erezione e lo scultore che li ha de corati, in termini di 'Magistri doctissimi ', 'nobilis et doctus' ... Ed è anche difficilmente per caso che cosi spesso nelle iscrizioni italiane si distingua il 'fecit', riferito all'artista, e il ' fieri fecit ' dove i committenti dell'edificio o dell'opera sono menzionati 24• Basti per tutti il caso di Lanfrancus ar chitector, autore delle nuove opere intraprese intorno al 1099 nella cattedrale di Modena, di cui nella Relatio Traslactionis Corporis Sancti Geminiani del 1200 si descrivono minuzio samente tutte le numerose mansioni, definendolo sempre in termini di mirabilis artifex e mirificus aedificator. Siamo così giunti alle soglie del Rinascimento che, dap prima in Italia e poi in tutt'Europa, segna la riscoperta dei valori dell'antico termine vitruviano e l'ingresso dell'Archi tettura tra le Artes Liberales. La nuova era nella storia del la condizione sociale degli artisti e in quella professionale degli architetti si apre con l'incoronazione di Petrarca e la nomina di Giotto a capomastro della cattedrale e della città di Firenze da parte delle autorità civiche perché erano per suasi che l'archltetto civico dovesse essere sopratutto un 'uomo illustre'. E quindi per la sola ragione che essi 'rite nevano ' che in tutto il mondo non si potesse trovare uno migliore di Giotto in questa e molte altre cose', essi lo pre scelsero benché non fosse un capomastro 25• Ed è particolarmente sintomatico... che le nazioni stra niere comincino a far rivivere l'uso di 'architector' e 'ar- 11
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chltectus ' esattamente nel momento in cui diventano co scienti dell'umanesimo e Rinascimento italiani... In Francia il termine rimane... inusuale durante il XV secolo ed entra nel favore generale solo quando i re francesi cominciano a chiamare gli artisti italiani nel paese. Domenico da Cortona è chiamato 'archltecte ' nel 1533 e ' archltectur ' nel 1545, e a Serlio nelle Lettres Patentes del 1504 è dato lo stesso ti tolo 216• Ugualmente in Spagna la parola comincia ad essere usata dal 1537 in poi con la nomina di Alonso de Covanubias ad arquitecto major di Carlo V e lo stesso fenomeno si veri fica in Germania e in Inghilterra dalla metà del '500 in poi. L'architetto riscoperto in Italia gode di una posizione so ciale prestigiosa fin qui ignota e vede accentuarsi quella in terdisciplinarità che dall'Antichità al Medioevo aveva carat terizzato la sua professione: I grandi architetti non passano generalmente attraverso un addestramento specifico. E d'ora innanzi i grandi artisti furono onorati, ed ammessi a posti che non rientravano nella loro specialità, soltanto perché erano grandi artisti n. La diversità sostanziale rispetto al l'architetto gotico è che alla base di ciò c'è ora la fondamen tale novità della concezione artistica del Rinascimento... l'idea del genio e la concezione dell'opera d'arte come creazione dell'autonoma personalità: questa è superiore alla tradizio ne, alla scuola, alla regola, alla opera stessa, che anzi da essa trae la propria legge 28• Che cosa sia o che cosa debba essere esattamente l'archi tetto rinascimentale è la stessa fiorente letteratura teorica del tempo a dircelo e principalmente il prologo del celeber rimo trattato di Alberti, il De re aedificatoria, pubblicato per la prima volta a Firenze nel 1485. Credo utile - dice l'autore - chiarire che cosa, secondo me, si debba intendere per architetto. Giacché non prenderò certo in considerazione un carpentiere, per paragonarlo ai più qualificati esponenti delle altre discipline: il lavoro del carpentiere infatti non è che strumentale rispetto a quello dell'architetto. Architetto chiamerò colui che con metodo si curo e perfetto sappia progettare razionalmente e realizzare .praticamente, attraverso lo spostamento dei pesi e mediante
la riunione e la congiunzione del corpi, opere che nel modo migliore si adattino ai più importanti bisogni del l'uomo 29• Infiniti sono i compiti e le discipline abbracciate da tale architetto, non solo scultore come Brunelleschi, o pittore come Giotto, ma ideatore di « ingegni » di pubblica e privata utilità: utili al singolo e alla salute come viali, piscine, ter me; alla vita quotidiana come i mezzi di trasporto, l forni, gli orologi... E ancora i mezzi per condurre in superficie le acque sotterranee ... cosi pure l monumenti commemorativi, i santuari, i templi, i luoghi santi in genere. Utili alla civiltà e al commercio come il taglio delle rupi, il traforo delle montagne, il livel1amento delle valli, il contenimento delle acque marine e lacustri, lo svuotamento delle paludi, la co struzione delle navi, la retificazione del corso dei fiumi, lo scavo degli sbocchi delle acque, la costruzione di ponti e porti e infine utili alla patria e alla comunità come le armi da lancio, gli ordigni bellici, le fortezze, e tutti gli strumenti utili a conservare e a rafforzare la libertà della patria ... e ad estenderne e consolidarne i domini 30• Molto più sinteticamente, questo campo sterminato di attività si ridurrà per i trattatisti successivi alle quattro branche, divenute poi tradizionali, dell'architettura civile, militare, idraulica e navale. Di queste, l'architettura militare è quella che, oltre alla civile, assume maggior importanza per tutto il secolo, non solo per l'urgenza politica del problema delle fortificazioni, ma anche per lo stesso principio innova tore esposto da Francesco di Giorgio Martini nel suo trat• tato del 1482, ossia per la scoperta della dipendenza della resistenza delle mura, non dal loro spessore, ma dalla forma della pianta su cui sono costruite. Abbiamo così numerosi ingegneri-artisti o architetti mi litari che dir si voglia, come lo stesso Francesco di Giorgio Martini a Urbino, Giuliano da Sangallo a Firenze, Bramante e Leonardo alla corte di Ludovico il Moro. Mentre nessun trattato d'Architettura tralascia d'ora in poi di dedicare almeno un capitolo alle fortificazioni e al l'architettura militare, compare il primo libro d'Ingegneria
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pubblicato per le stampe 3i, il De militari di Roberto Valtu rio del 1472. A dire il vero gli ingegneri fra il Tre e il Quattrocento hanno in parte mutato e in certo senso allargato il loro campo professionale: progetto e costruzione di strade, lavori di restauro ad opere civili e militari e loro progetto, costru zione e riattamento di ponti di legno e murari... costruzione di argini, regolazione di torrenti e di fiumi, costruzione di mulini 32 e soprattutto cominciano ad occuparsi di perizie e stime. Questa attività tecnico-legale, fonte cospicua di reddito e sovente l'unica possibile, sarà oggetto di contese furibonde con le altre categorie professionali a questa patentate, i vari tipi di estimatori presenti negli stati italiani e gli architetti, per tutto il secolo successivo, protrattesi fino alla metà del '700. Un decreto di Lodovico il Moro (22 dicembre 1479) de finisce il campo di attività degli ingegneri con queste parole: « architectores seu agrlmensores et livellatores acquarum qui omnes vulgo ingeniarii appellantur » 33• Per tutto il '500 sono ancora numerosi gli architetti mi litari o ingegneri-artisti, come Antonio da Sangallo il Vec chio e suo nipote Antonio da Sangallo il Giovane, mentre gli ingegneri militari italiani prestano la loro opera negli altri paesi europei e nascono vere e proprie dinastie di celebri in gegneri, come i Martinengo o i Savorgnan del Friuli. Nel 1540 viene pubblicato il trattato di Vannoccio Biringuccio De la Pirotecnia, dove per la prima volta i problemi tecnici sono distinti da quelli dell'arte militare, e numerosi sono gli autori tecnici italiani fino ai primi decenni del '600, come Agostino Ramelli, Bonaiuto Lorini e Fausto Venanzio, per citarne solo alcuni. Gli architetti intanto per tutto il Cinquecento continuano la loro escalation sociale, al seguito dei pittori, ormai giunti . al sommo della gloria e della potenza. Nonostante· la fio rente letteratura teorica del secolo, la figura dell'architetto definita dall'Alberti non subisce trasformazioni sostanziali, se non nel suo raffinarsi culturalmente e socialmente: Pal14 ladio si forma in un clima di severi studi umanistici, è al-
lievo. di Falconetto e Io protegge e dirige Gian Giorgio Tris sino, dilettante architetto e letterato. Il sempre più stretto rapporto con l'Antichità e le sue virtù non solo accentua quelle caratteristiche di nobiltà di animo e di modi richie ste da Vitruvio, ma porta all'elevarsi del livello medio delle conoscenze non specificatamente tecniche di questi archi tetti-gentiluomini. Non c'è soluzione di continuità tra questi professionisti e quelli del secolo successivo, tutt'al più si può registrare il maggior numero di onori che ricevono accademici e artisti affermati: Bernini è architetto, scultore, pittore, autore di teatro, scenografo e universalmente riconosciuto e osannato come genio del secolo. Interessante è invece il rinnovarsi all'inizio del '600 di quei legami, risalenti a San Paolo, tra Architettura e rive lazione cristiana. All'inizio del secolo un gesuita spagnolo, Juan Bautista Villapanda aveva pubblicato, nel suo ampio commento a Ezechiele, la ricostruzione dell'ordine che era stato usato nel Tempio di Gerusalemme e che si asseriva ba sato direttamente sul precetto divino ... esso attirò l'interesse di molti architetti. Nel corso del Seicento ci furono vari ten tativi di ricreare l'ordine del Tempio 34, stabilendo così la diretta discendenza del lessico architettonico dal verbo del1'Architetto del mondo. Ma la querelle des anciens et des modernes, che in campo architettonico vede contrapposti intorno all'esemplarità del la storia, i fautori di una rigida imitazione a quelli di una maggiore libertà espressiva dei moderni, non muta per ora le qualità, né il ruolo professionale e sociale dell'architetto. Molto più carica di conseguenze è invece la fondazione a Parigi, nel 1671, ad opera di Colbert, dell'Académie Royale d'Architecture, che assorbe all'interno dell'amministrazione statale i membri di tale organismo e crea la nuova figura dell'architetto di stato, esperto e consulente reale per le que stioni pratiche e teoriche della disciplina. Altrettanto determinante per gli sviluppi futuri è l'accen tuarsi del predominio delle arti grafiche all'interno della pratica architettonica, si avvia infatti inavvertitamente una pro- 15
fonda trasformazione che esploderà nella seconda metà del secolo successivo: la radicale frattura che si crea da questo momento in poi tra l'architetto e l'ingegnere provocherà, in fatti, una crisi disciplinare i cui effetti non sono stati an cora completamente assorbiti ai giorni nostri. Nonostante il disprezzo del secolo per la loro professio ne, gli ingegneri, che si nascondono volentieri, come i grandi idraulici toscani e emiliani, sotto il nome di matematici, e che quantunque vengano detti Architetti e in italiano con ' speciosissimo ' nome ingegneri, di nessuna cosa... fan meno uso che dell'ingegno e sono nelle scienze del tutto rozzi e inesperti e non salutarono neanche dalla soglie le buone arti e son tutti intenti nel delineare e rappresentare graficamente le cose 35, pure vengono ad assumere un valore teorico fon damentale come deuteragonisti dell'architetto. Nel suo diffusissimo trattato per i collegi, del 1714, Gi rolamo Fonda scrive Tutte e due (architettura civile e mili tare) benché discordanti nel fine, convergono ne' materiali, ed hanno molti principj, e regole comuni, onde siccome chi della Civile ne sapesse solamente i precetti, direbbesi con ra gione Architetto per metà: cosi sarebbe Ingegnere imper fetto chi dalla Civile non ricavasse de' lumi nella costruzione dei diversi pezzi di una piazza fortificata 36• Sostituendo ai termini Civile e Militare quelli di teoria e pratica, si hanno esattamente definiti i legami che alla fine del Seicento in poi intercorrono tra gli artisti-architetti, sem pre più vicini alle arti grafiche, e gli ingegneri-tecnici, ormai unici depositari delle componenti scientifiche della disciplina. Con la metà del '700 la frattura tra queste due figure si formalizza: nel 1747 viene fondata a Parigi l'Ecole des Ponts et Chaussées per preparare il personale dell'omonimo Corps, istituito nel 1716, e nel 1748 viene creata l'Ecole des Ingé nieurs de Mézières. Sebbene la risonanza storica di tali scuo. le sia stata senz'altro maggiore e la loro vita più felice, vale la pena di ricordare come analoghe scuole o accademie ven gano create un po' in tutt'Europa, sancendo in maniera ine quivocabile la separazione delle due professioni, o piuttosto, 16 la nascita di quella di ingegnere.
Si pubblicano anche trattati per gli ingegneri, come le Istituzioni pratiche per l'Ingegnere Civile di Giuseppe Anto nio Alberti, la cui edizione veneziana è del 1761, o i testi molto diffusi in Francia e in Italia di M. Bélidor, come La
Science des lngénieurs dans la conduite des travaux de for tification et de Architecture Civile, del 1729. Al contrario gli ambiti professionali degli architetti subi scono una notevole riduzione: Architettura - dice d'Aviler nel suo Dictionnaire d'Architecture et Hydraulique del 1755 - l'arte del costruire, questa definizione è forse troppo gene rale... definiamo l'Architettura l'arte del costruire edifici di abitazione e di magnificenza n e le branche della disciplina, con la scomparsa dell'Architettura Militare e dei Ponti e Strade, ormai appannaggio esclusivo degli ingegneri, si ridu cono all'architecture de treillage, ossia dei giardini e dei portici; a quella en perspective, ossia dei teatri; a quella feinte, ossia dipinta e infine, a quella hydraulique, ossia del l'acqua, per gentile concessione dell'autore 38• L'architetto si limita ad essere colui che, sapendo la teo ria e la pratica dell'Architettura, disegna i progetti di tutti i tipi di edifici, ne conduce la esecuzione, comanda a tutti gli operai e ne regola le spese 39• Ancor più significativamente nell'Encyclopédie si legge, sempre alla voce architetto: SI intende con questo nome un uomo le cui capacità, l'espe• rienza & la onestà meritano la fiducia delle persone che fan no costruire 40, preannunciando la violenta polemica che di li a poco si accenderà sulle qualità morali, ossia sull'onestà, degli architetti e sulla loro pericolosità per le finanze di na zioni e privati. La generalizzata esigenza della formazione professionale di stato porta alla nascita in tutt'Europa di scuole. o acca demie che, ricollegandosi alla vecchia tradizione accademica cinque-seicentesca, si occupano, per delega statale, dell'edu cazione e della istruzione dei futuri architetti. L'architetto membro della Accademia è però nel '700 ancora una delle tre categorie di professionisti che si possono incontrare in Francia come in Italia: la seconda è quella degli Architetti Esperti-Borghesi, che hanno il titolo di Esperti, attraverso
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l'acquisizione di un incarico di periti e la terza è quella degli Architetti che non appartengono né all'Accademia, né alla Comunità degli Esperti, e esercitano l'Architettura liberamen te, come Arte libera 41• Anche gli ingegneri, come ci informa l'Encyclopédie, sono di tre tipi: gli uni per la guerra; essi devono sapere tutto quanto concerne la costruzione, l'attacco & la difesa delle postazioni. I secondi per la marina; che sono versati in ciò che ha rapporto con la guerra & il servizio del mare; & i terzi per i ponti & strade, che sono eternamente occupati al per fezionamento delle grandi strade, alla costruzione dei ponti, all'abbellimento delle strade, alla conduzione & riparazione dei canali et. Tutti questi uomini sono educati nelle scuole, da cui passano al loro servizio 42• La Rivoluzione segna quella fondamentale svolta nella storia dell'ingegneria e del pensiero tecnico europeo che è legata alla fondazione dell'Ecole Polytechnique di Parigi. Creata nel 1795 al posto delle istituzioni dell'ancien régime, questa scuola è destinata alla formazione teorica degli al lievi ingegneri che, dopo un biennio unitario, passano a spe cializzarsi nelle varie écoles spéciales. Sotto la guida di uo mini come Monge, l'Ecole rivoluziona il vecchio insegna mento tecnico, fornendo una strumentazione scientifica e matematica valida per ogni singola disciplina. Al suo interno nasce con L. M. H. Navier la moderna scienza delle costruzioni: Navier, entrato come allievo nel 1802, vi svolge dal 1821 al 1836, anno della sua morte, la sua attività didattica, prima come supplente e poi come titolare della cattedra di Meccanica presso la sezione des Ponts et Chaussées. Le sue lezioni pubblicate nel 1826 diventeranno in breve tempo la Bibbia dell'ingegnere moderno, mentre l'Ecole stessa viene assunta a modello da tutte le succes sive scuole europee di ingegneria, che ne ricalcano fedel mente l'organizzazione didattica e l'impostazione teorica degli studi. L'avvento di Napoleone al potere, contrastato vivacemen te dai polytechniciens, trasforma l'Ecole in caserma e gli ingegneri in ufficiali, ma la loro fortuna professionale non
ne risente mm1mamente: quel processo di espansione del l'ingegneria, che tende ad inglobare nel suo ambito anche i settori tradizionali dell'architettura, avviatosi nei primi de cenni del '700, trova ora il suo compimento e si apre la felice stagione dell'ingegneria ottocentesca. Per gli architetti al contrario la Rivoluzione segna l'ini zio di un lungo periodo di gravissime difficoltà professionali e disciplinari. Gli anni della Francia repubblicana sono anni di enormi incertezze anche personali per questa categoria professionale troppo legata al passato regime. La scomparsa della classe sociale ai cui si erano venute legando le sorti della loro attività, la diffidenza che li circonda, di cui le pa role dell'Encyclopédie erano state un avvertimento, per l'al to costo delle loro opere e per il superfluo che le caratteriz za, decretano la fine di quella figura di architetto, artista e genio, che si era mantenuta costante, pur con le dovute dif ferenze, dal '400 in poi. Gli sforzi compiuti dal pensiero neoclassico per adeguare l'Architettura alle mutate esigenze sociali, creando una sorta di architetto-tecnico, che fosse privo di tutti i difetti legati alla libertà creativa e che rispondesse ai requisiti di qualità ed economia del prodotto universalmente richiesti, portano ad una rivalutazione teorica della disciplina nell'am bito delle Belle Arti. Ma, diversamente da quanto abbiamo fin qui registrato, alla carica ideale di tali proposte, agli sforzi di mettere l'Architettura al servizio dei governi repubblicani, e poi napoleonici, corrisponde il sospetto, la diffidenza gene rale e la abolizione degli ordinamenti e degli antichi privilegi da parte della Convenzione in Francia e dei governi rivolu zionari in Italia. Nel 1795 viene riaperta la scuola della soppressa Aca démie, col nome di Ecole Spéciale d'Architecture e a di stanza di pochi anni anche le accademie italiane riaprono i battenti, ma per tutto il periodo napoleonico la condizione degli architetti europei non registra grosse novità, perdu rando lo stesso atteggiamento ostile dei tempi della repub blica. La concezione « scientifica » della progettazione architet- 19
tonica che si instaura nelle riaperte accademie avvicina in un modo nuovo gli architetti e gli ingegneri, una similitudi ne metodologica lega le ricerche neoclassiche a quelle che conduce Durand nell'Ecole Polytechnique: la ricerca comu ne di un metodo scientifico, appunto, per controllare il pro dotto architettonico favorisce la nascita dell'ingegnere-ar chitetto, figura professionale ufficialmente riconosciuta, che sopravvive fino agli inizi del '900. Tuttavia ancora per tutta l'età della Restaurazione, archi tetti e ingegneri costituiscono due figure professionalmente distinte e separate: in Francia, l'Ecole Spéciale d'Architec ture assume nel 1816 il nome di Ecole Royale des Beaux-Arts e recupera, almeno sul piano teorico, l'antico potere, sotto la guida dell'onnipotente Quatremère de Quincy. Gli archi tetti che escono dalla scuola conoscono i principi & sanno ap plicarli agli edifici che sono di loro invenzione 43• Ma non hanno nessun riconoscimento ufficiale dei loro studi, tranne il primo classificato nei concorsi finali, subendo così la con correnza di chiunque voglia acquistare il titolo di architetto, liberalizzato durante la Rivoluzione. Ugualmente gli ingegneri continuano a uscire dall'Ecole Polytechnique. I loro prodotti di questi anni, in Francia, in America e in Inghilterra, attirano l'interesse dei critici, an che contemporanei, per la novità formale di cui sono l'in conscia espressione, facendo nascere il mito dell'architettura degli ingegneri. Da quel tempo in poi l'ingegnere invade uno dopo l'altro l campi dell'architetto. Con assoluta inconsape volezza li costruttore, durante l'Ottocento, fece la parte del pioniere per conto dell'architetto... Egli infranse i formali smi rituali e artificiosi dell'architetto, bussò con forza alla porta della sua torre d'avorio 44• In Italia invece la condizio ne di tale categoria professionale è per ora ancora essenzial mente arretrata, ci si limita infatti a mantenere faticosa. mente in vita le istituzioni di origine napoleonica: i corsi per ingegneri e architetti creati presso la• Università di Pa via, la scuola di Napoli, quella di Applicazione di Roma ri fondata da Pio VII nel 1817. Tra tutte, la scuola napoletana è quella che gode di maggiore vitalità e trova più ampi con20
sensi da parte del sovrano restaurato, tanto che intorno agli anni venti dà i suoi frutti migliori con l'opera di uomini come Carlo Alfan de Rivera. Gli architetti italiani vivono come i loro colleghi d'oltral pe una ultima stagione di relativa tranquillità teorica e professionale all'interno delle napoleoniche accademie di Belle Arti. La più totale indifferenza dei governi circonda, però, per tutta la Restaurazione il mondo artistico: gli sta tuti e i privilegi corporativi, ovunque sospesi al loro ritorno dai sovrani, vengono mantenuti in forma provvisoria general mente fino al terzo decennio del secolo, quando un nuovo in teresse per le « arti applicate » si risveglia soprattutto nel Lombardo-Veneto. Dal 1830 in poi, inoltre, con la rottura del residuo equili brio e internazionalismo accademico, il panorama italiano e .europeo si frantuma in una serie di singole situazioni parti colari: in Francia, sebbene l'organizzazione didattica dell'Eco le des Beaux-Arts permanga immutata fino al 1863, la scuola e il mondo artistico sono scossi dalla violenta polemica che per più di trent'anni vede contrapposti, dentro e fuori l'Ecole, goticisti e classicisti. L'eclettismo modifica, anche se non direttamente, la figura dell'architetto, moltiplicandone le immagini professionali e culturali, anche se di fatto, oltre alla ormai sclerotizzata riflessione accademica sulla figura professionale, nessuno si pone direttamente tale tipo di problemi. t:. l'effetto delle varie figure di architetto del passato a cui ci si rivolge, a trasformare il professionista ottocentesco, accentuando in maniera abnorme le diverse componenti tradizionali: è la pra tica di certi prlncipj attinti dalla natura... e secondo certe regole che divengono l'espressione del bisogno e del piacere che i nostri occhi e lo spirito nostro attendono dall'archi tetto 45, che consentono all'architetto accademico di essere tale, specchiandosi nell'Antichità. Mentre sono la condizione etico-sociale e le qualità architettonico-ingegneresche della produzione del '400 inglese a servire da modello a Pugin per rispettare la razionalità richiesta al prodotto architettonico, gli architetti del Medioevo furono gli unici a trarre vantag-
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gio appieno dalle caratteristiche dei materiali, trasformando la meccanica in uno degli aspetti della loro arte 46 •
Ritorniamo così a parlare degli ingegneri e della loro « ra zionale » produzione. Ben 11 sono diventate intorno al 1830 le classi di ingegneri che si possono incontrare in Francia: accanto a quelle tradizionali degli ingegneri militari, idrau lici, meccanici, navali e di Ponti e Strade, ci sono quelli del le miniere, i topografi e geografi, i geometri e geodeti, gli ingegneri civili che trattano dell'architettw-a civile, o cittadi nesca, i quali se sono ristretti alle sole fabbriche dire si do vrebbero più propriamente architetti, e gli ingegneri-archi tetti, che professano ad un tempo alcun ramo dell'ingegne ria e dell'architettura e qtùndi devono aver percorsi gli studi che alle due speciali professioni convengono 47.
L'ampia diffusione, anche nel campo dell'architettura ci vile, della attività degli ingegneri, che ben si addice a que sta epoca eclettica tradizionalmente senza architettura degli architetti, fa del problema del rapporto tra le due profes sioni uno dei temi più dibattuti fino alla fine del secolo. Il problema in Italia si colora di particolare attualità e realtà dopo l'unità. Con la estensione a tutti i capoluoghi del nuovo regno della Legge Casati (varata nel 1859 per le città di Milano e Torino) che prevede la creazione, in ognuno di questi, di Regie Scuole di Applicazione, a cui si accede dopo un biennio fisico-matematico, svolto presso l'università locale o presso la sezione fisico-matematica dell'Istituto Tec nico Superiore di Milano, e da cui vengono diplomati dopo tre anni ingegneri o ingegneri-architetti, a seconda della scuola scelta, e abilitati all'esercizio della professione, l'ar chitetto scompare dalla scena professionale italiana. Il suc cessivo decreto del 1873, esautorando le superstiti accade mie dall'insegnamento dell'Architettura, crea al loro posto gli Istituti di Belle Arti, abilitati a licenziare i professori di disegno architettonico che giuridicamente dovrebbero sosti tuire gli architetti, intesi come artisti, ma la cui posizione professionale resterà un mistero insoluto per più di venti anni. 22 La stessa legge Casati istituisce in tal modo anche le
scuole superiori per gli ingegneri, denominate intòrno agli anni '70 Politecnici, che ricalcano ancora una volta il proto tipo francese nell'impostazione degli studi, ispirandosi però anche a quello prussiano nel prevedere una scuola di appli cazione per ogni arma che richieda una specializzazione tecnica. La presenza della sezione di Architettura all'interno di tali organismi assume un valore puramente formale, il nu mero degli iscritti a tale sezione è infatti bassissimo, fino a diventare nullo nel tempo, e il livello degli studi degno del la funzione di rifugio che svolge per gli allievi-ingegneri man cati. Inoltre col r.d. del 1876 il titolo di ingegnere o archi tetto può essere conferito soltanto dai Politecnici avallando di fatto lo strapotere di tali istituzioni, anche socialmente espressione delle classi dominanti, e la soggezione dei pro fessori di disegno architettonico ai loro colleghi ingegneri civili. L'Architettura diventa così uno dei tanti rami dell'inge gneria 48 e le sue opere ingegneria sbagliata, essendo suffi ciente aggiungere a questa quel tanto d'arte che basti per dare veste agli edifici 49• Scrive Boito in quegli anni, S'ha un bel dire che altro è ingegnere, altro è architetto; ma la distinzione in Italia o non si capisce, o in alcune provincie, la Lombardia per esempio, e il Piemonte, torna a favore del primo, anche per ciò che spetta ai monwnenti ed agli edi fici architettonici so. In Francia la forza dirompente degli ingegneri è ancora contenuta dalla resistenza delle strutture dell'Ecole des Beaux-Arts: gli sforzi di Viollet-le-Duc di modificarne l'or ganizzazione didattica, sfociati nella riforma del 1883, ven gono rapidamente assorbiti, perdendo il loro carattere di rompente; soltanto la introduzione del diploma, avvenuta an che in Italia nel 1876, ha effetti destabilizzanti su tale istitu zione, ma che si verificano solo un ventennio più tardi. L'ingegnere però è dotato della stessa incrollabile fede nel potere della ragione 51 che anima Viollet-le-Duc, e la Aca démie des Beaux-Arts, ossia la sezione artistica dell'Institut,· è costretta nel 1877 a tentare un'ennesima compromesso, 23
teorico, bandendo addirittura un concorso sul tema dell'unio ne o separazione dell'ingegnere e dell'architetto. Il vincitore, l'architetto Davioud, risponde in questi termini: L'accordo non diverrà mal reale, completo e fruttuoso, finché l'inge gnere, l'artista e lo scienziato non saranno fusi nella stessa persona 52• Ipotesi di difficile atuazione , se solo nel 1889, al primo Congresso Internazionale degli Architetti di Parigi, si dice: Parecchio tempo fa l'influenza dell'architetto decadde, e l'Ingegnere, l'homme moderne par excellence, comincia a sostituirlo s.1.
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In Italia intanto gli ultimi fedeli seguaci dell'Architettura si raccolgono attorno ai soppressi organismi accademici, compreso lo stesso Boito che pure li aveva strenuamente combattuti, dando vita a quella lunga e sterile lotta, protrat tasi per più di un quarantennio, contro i potentissimi Poli tecnici per ottenere il riconoscimento giuridico della profes sione e la riorganizzazione a livello universitario dell'inse gnamento. Le posizioni del dibattito sono sostanzialmente simili a quelle francesi: nel 1879 al Congresso Nazionale de gli Ingegneri-Architetti si vagheggia ancora il superamento della dicotomia professionale tra le categorie auspicando la nascita dell'architetto, ingegnere e artista, mentre in quello di Venezia del 1887 si giunge finalmente alla proposta uffi ciale di separare le due qualifiche, La cosa è egualmente vo luta dagli ingegneri e dagli architetti: I primi per l'evidentis simo divario culturale, i secondi per non rinunciare alla pre rogativa di unici intenditori dell'estetica del costruire a loro tradizionalmente attribuita 54• Il dibattito teorico sugli ingegneri e sulla loro architet tura prosegue a livello internazionale ancora ai primi del nuovo secolo; nel 1901 Henry van de Velde scrive: la straor dinaria bellezza insita nell'opera degli Ingegneri si basa ap punto sull'assenza di qualsiasi consapevolezza delle sue pos sibilità artistiche - appunto come i creatori delle cattedrali ignoravano Io splendore delle loro creazioni 55• Anche se il parallelo tra i moderni ingegneri e gli artefici medievali è or mai tradizionale, la valenza positiva attribuita alla loro inconsapevolezza fa parte di quelle qualità morali di innocenza
e spontaneità che per tutto il primo ventennio del '900 ven gono loro universalmente riconosciute. La corruzione di cui sono portatori gli architetti, sostanzialmente malati di tra dizione e di Storia, diventa il tema principale della passio ne struggente che provano nei confronti degli ingegneri gli stessi padri del cosiddetto Movimento Moderno. Ma ormai, e questa citazione di van de Velde lo dice chiaramente, an che l'homme moderne par excellence e la sua architettura sono diventati oggetto storico per le nuove generazioni di architetti, né più né meno di tutto il patrimonio formale di cui tentano di liberarsi. Scrive ancora Loos, nel 1906: ...davanti a Dio non cl sono architetti buoni o cattivi... E perciò domando: come mai qualunque architetto, buono o cattivo che sia, oltraggia il lago? Il contadino non lo fa. E non lo fa neppure l'ingegne re che costruisce una ferrovia lungo la riva oppure col suo battello scava solchi profondi nello specchio limpido del lago. Essi operano diversamente 56: inconsapevolezza, naturalità quasi animale, forza primitiva sono le doti comuni dell'in gegnere e del contadino. Aggiunge Le Corbusier nel 1920: gli ingegneri sono sani e virili, attivi e utili, morali e gioiosi. Gli architetti sono disil lusi e oziosi, chiacchieroni e malinconici. II fatto è che pre sto non avranno più nulla da fare... Gli ingegneri provvedo no al bisogno, ed essi costruiranno... Gli ingegneri fanno del l'architettura perché impiegano li calcolo derivato dalle leg gi della natura, e le loro opere ci fanno sentire i'ARMONIA sr. Armonia strettamente legata a quelle qualità morali ormai tradizionali, attribuite agli ingegneri e ai loro prodotti, im pregnati della concretezza che deriva dal contatto creativo con l'industria. Anche Gropius nel 1923 scrive: L'architetto ha soprav valutato la propria utilità... l'ingegnere invece, non ostaco- · Iato da pregiudizi estetici·e storici, è arrivato a forme chiare, organiche 58• Tuttavia in questi anni Venti, il mondo professionale dell'architettura è in continuo fermento: Gropius fonda nel 1919 il celebre Bauhaus, Le Corbusier rilancia a Parigi
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la tradizione di autonomia degli ateliers e F. LI. Wright apre la comunità di Taliesin. Gli anni Venti in Italia sono quelli in cui si compone finalmente, anche se parzialmente, la que stione dell'insegnamento universitario dell'architettura: nu merose proposte di legge (Coppino, Borselli, etc.) sono ca dute, dalla creazione degli Istituti di Belle Arti in poi, per l'opposizione dei Politecnici e dei parlamentari-ingegneri ad ogni tentativo di regolamentare l'esercizio della professione. Gli architetti intanto, ancora nel convegno del 1903 di Ve nezia, si combattono tra loro sulla sterile ed annosa pole mica, nata con l'Unità d'Italia, della maggiore o minore arti sticità del futuro architetto. A quanti chiedono a gran voce al governo la creazione di un insegnamento di livello universitario, a cui si acceda do po la licenza liceale e che integri educazione artistica e scien tifica, superando la tradizionale ignoranza degli architetti o professori di disegno, si contrappongono i sostenitori della assoluta e incontrollabile libertà artistica degli architetti: né diplomi, né insegnamenti scientifici devono corromperne la purezza e la forza naturale. Ma lo spinoso problema dell'insegnamento trova il mag gior ostacolo alla sua risoluzione nell'altra fondamentale questione della istituzione degli albi professionali e quindi, - non potendo iscriversi a tali albi i professori di disegno architettonico, ma solo gli ingegneri e gli architetti prove nienti dai Politecnici pur non esistendo più figura professio nale da molti anni -, della equiparazione dei titoli delle due categorie, provvedimento che a sua volta rende neces saria la riforma dell'insegnamento, chiudendo così il circolo. Gli architetti si organizzano intanto in comitati e federa zione per esercitare una maggiore pressione sul governo, finché nel 1914 l'on. Rosardi fa approvare con un autentico colpo di mano un decreto attuato dalla sola Accademia di Belle Arti di Roma, con cui si pone in funzione un Istituto Superiore di Architettura. Il governo è così posto dinanzi al fatto compiuto, ma lo strenuo boicottaggio dei Politecnici riesce a far annullare la scuola e a rimandarne il riconoscimento ufficiale in Parlamento al 1919.
Il 31 ottobre, infatti, il decreto n. 2593 sancisce l'istitu zione della Scuola Superiore di Architettura di Roma, affi. liata all'Università, e l'abolizione delle Scuole di Architettura presso i Politecnici. Le altre scuole superiori vengono isti tuite nei decenni sul modello romano, presso le accademie di belle arti: a Venezia il 2 dicembre 1926, a Torino il 19 lu glio 1929 e a Napoli e Firenze il 26 ottobre 1933. Ma queste scuole, per le quali si erano battuti disperata mente gli architetti delle generazioni precedenti, risultano oramai un po' anacronistiche: come negli altri paesi euro pei anche in Italia la cultura architettonica si diffonde attra verso canali diversi da quelli ufficiali, riviste, pubblicazioni, concorsi, ateliers privati, le prime storie di architettura, né l'antiquato sistema didattico adottato risolve o affronta quei problemi disciplinari e di qualificazione professionale per cui le scuole erano state, almeno teoricamente, create. Gli ingegneri italiani dal canto loro, sempre più raffor zati socialmente e professionalmente dal crescente sviluppo tecnologico, anche se hanno perso un po' lo smalto della loro virile e sana attività, continuano a svolgere, come inge gneri edili, un ruolo determinante nella storia delle nostre città. Fedelmente legati al modello ottocentesco di matrice pa rigina, i Politecnici, ancora organizzati sul principio del bien nio unitario e del triennio di studi specialistici, si riorganiz zano in questi anni in base al r.d. del 1923 n. 2102 che, dan do un nuovo ordinamento all'istruzione superiore, stabili sce che gli insegnamenti siano coordinati in Facoltà e Scuole e che queste ultime siano quelle di Farmacia, Ingegneria e Architettura, autorizzando tali organismi a ristrutturare i propri statuti e le modalità e materie di insegnamento. Così senza generalmente mutare troppo l'ordinamento degli studi, si introduce la fondamentale novità della sosti tuzione dei due diplomi precedentemente conferiti, di inge gnere e architetto, con ben quattro titoli di laurea, articolati sulle quattro sezioni speciali, di cui quella Industriale sud divisa in tre sottosezioni. Ma già nel 1926 col r.d. del 7 ottobre, n. 1977 si riordina- 27
no nuovamente gli studi superiori di ingegneria, modificando gli statuti delle scuole e istituendo un esame di licenza dopo il corso biennale per accertare il grado di maturità e l'ido neità degli studenti, prima dell'ingresso al triennio speciali stico, nonché l'esame di stato per l'abilitazione professio nale. Di fatto, l'ingegneria, ancora per tutta l'epoca compresa tra le due guerre, aveva occupato ormai tutta l'area delle lniztatlve valide, conformi alla crescente industrlallzzazione. La architettura era relegata al restauro e agli interventi au lici S9.Jnoltre, con la creazione delle scuole speciali per l'ar chitettura, la storia professionale delle due discipline e del loro insegnamento scorre parallela · fino allo scoppio della guerra, finendo col perdere nell'autonomia, che l'ha fin qui caratterizzata, rispetto al sistema universitario, in cui viene fatta confluire nel 1935.
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In tale data, le scuole di Architettura e di Ingegneria su biscono la loro ultima trasformazione istituzionale, diven tando facoltà universitarie in base all'articolo unico della legge n. 1100 del 13 giugno, che autorizza il ministro compe tente a disporre entro tre anni la soppressione, l'istituzione o la fusione di facoltà, scuole e insegnamenti universitari, nonché l'aggregazione di regi istituti superiori alle regie uni- , versità60• Tutti gli istituti subiscono tale sorte, tranne quello mila nese e il torinese, i quali riescono a conservare la loro autono mia, facendo riconoscere la loro diversità amministrativa, e a conservare il titolo di Politecnici. L'istituto milanese, infatti, riesce a dimostrare di essere già formato da due facoltà dal 1933, anno in cui era stata approvata la costituzione della fa. coltà di Architettura; similmente il potentissimo Politecnico torinese si rifà alla aggregazione ottenuta nel 1935 dell'lsti• tuto Superiore di Architettura per non rientrare nei casi di legge. La laurea in Ingegneria in questi anni contempla sei se zioni: di ingegneria civile ( con le sottosezioni edile, idraulica, e trasporti), di ingegneria industriale (con le sottosezioni di meccanica e elettrotecnica), di ingegneria navale e meccanica,
di ingegneria chimica, di ingegneria aeronautica e di inge gneria mineraria. La laurea in Architettura invece, pur essen do similmente articolata in biennio e triennio, non prevede né sezioni, né specializzazioni. Finisce così con tale aggregazione, alla vigilia della guer ra, la storia delle trasformazioni dell'insegnamento e della professione nelle loro reciproche interrelazioni, sia per gli architetti che per gli ingegneri. L'ingresso nel meccanismo universitario italiano è fatale infatti per quella certa mobi lità che tutto sommato ha caratterizzato l'esperimento na zionale di Ecole Polytechnique dalla sua nascita in poi, cosl come lo è per le tanto attese scuole di Architettura. Siamo giunti in tal modo al dopoguerra e agli anni della ricostruzione, in cui per" più di un ventennio, costruiscono e si arricchiscono tutti: geometri, ingegneri civili, architetti. Si modifica certo la loro figura professionale a contatto con questa nuova committenza, così come lo stesso ruolo del settore edile e il suo rapporto con le opere pubbliche: di scipline e professionalità usciranno distrutti dall'euforia del boom. Nell'ondata travolgente delle offerte del mercato, ar chitetti e ingegneri ampliano il loro ambito disciplinare, la sciando immobile quello universitario: gli studi d'ingegneria ricevono però un'ulteriore riorganizzazione col D.P.R. del 31 gennaio 1960 n. 53. Partendo dalla premessa, ormai d'ob bligo . dagli inizi dell'800 in poi, che tali studi siano orga nizzati in un biennio propedeutico seguito da un triennio specialistico, ci si limita ad aumentare il numero delle se zioni a nove 61, prendendo atto dell'ampliarsi dell'ambito di sciplinare e fissando, come per tutte le altre facoltà, gli in segnamenti obbligatori a livello nazionale e della singola facoltà, e quelli facoltativi. Anche la facoltà di Architettura conserva il vecchio im pianto da scuola speciale, ma come nella scuola, il triennio non è diviso in sezioni, né dà diritto a specializzazioni, re stando delegata al biennio solo la funzione burocratica di se lezione e di filtro. Globalmente però l'organizzazione degli · studi e la scelta delle materie è sempre ancora ispirata al l'antico sogno ottocentesco dell'architetto, artista, letterato, 29
ingegnere e scienziato; impresa affascinante, ma ciclopica, soprattutto per le strutture universitarie italiane. All'ondata del '68 segue quel fermento culturale e poli tico che tutti conosciamo, e quel silenzio istituzionale che ci è altrettanto drammaticamente noto. Se si escludono i fret tolosi decreti destinati alla sistemazione del personale uni versitario, o alla liberalizzazione degli accessi all'università e delle materie, dobbiamo concludere che l'ultimo atto, l'ul tima trasformazione del rapporto professione-insegnamento è quello del 1935, prima che i problemi disciplinari si per dessero nel magma di quelli dell'università italiana. E concludiamo, dopo questo elenco di fatti legislativi ed istituzionali, con un cenno alla sostanza pratica del proble ma. Da un lato, la facoltà di Architettura laurea un solo tipo di professionista, dall'altro, quella di ingegneria laurea parec chi 62 tipi di ingenere, tant'è che può considerarsi come l'ag gregazione di altrettante facoltà universitarie. Ora, relativa mente al binomio che costituisce il tema del presente arti colo vanno raffrontate quell'unica figura di architetto, con tutti i suoi ben noti limiti, con quell'unica figura di inge gnere laureato nella sezione civile, sottosezione edile, i cui limiti sono altrettanto noti e simmetrici. Per tale simmetria, e in presenza della situazione che so pra abbiamo definita magmatica dell'intera università, per ché non pensare, sia pure come provvedimento di base, al l'unificazione delle scuole, che in pratica producono la stessa figura professionale? Non siamo così ingenui da non capire perché ciò non avvenga, ma d'altra parte quanto più ovvia è tale unifica zione, tanto più è utopistica e priva di credito qualunque proposta di riforma delle due facoltà che non tenga preli minarmente conto di essa.
Cfr. D.A.U., voce Architetto. Cfr. Enciclopedia Italiana, voce Ingegneria. J Cfr. G. AI.BENGA, « Le vicende del nome Ingegnere", L'ingegnere, n. 9, 1928. 4 Ibidem. 1
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s G. C. ARGAN, Storia dell'arte italiana, Sansoni, Firenze 1968, p. 127, voi. I. 6 Nuova Enciclopedia Italiana, G. Boccardo revisore, voce Archi chetto, p. 836, 1877-80. 7 C. PR0MIS, Gli Architetti e l'Architettura presso i romani, memoria di... , Stamp. Reale, Torino 1871, pp. 7-8. 8 A. C1-101sv, Histoire de l'Architecture, Librairie Béranger, Paris 1929 l" ed. 1841-43), voll. 2, p. 506. 9 N. PEVSNER, « The Term 'Architect' in the Middle Ages ,., Speculum, voi. XVII, 1942, p. 549. 10 Ibidem. Il Cfr. G. ALBENGA, op. cit. 12 Cfr. Enciclopedia Italiana, voce Ingegneria, op. cit. 13 G. C. ARGAN, op. cit., p. 133. 14 N. PEVSNER, op. cit., p. 550. 1s Ibidem. 16 A. CI-IOTSY, op. cit., p. 518. 1 7 L. GR0DECKT, Architetttlra Gotica, Electa, Milano 1978, p. 18. 18 E. VIOLLET-LE·DUC, Dictionnaire Raisonné de l'Architecture Fran çaise du X/e au XV/e siècle, More! et Editeurs, Paris 1882, voce Ar chitect, p. 115. 19 Cfr. N. PEVSNER, op. cii., p. 559. 20 L. VINCA M,,srn1, « La cattedrale gotica come denotazione e indi viduazione di spazio» in Le grandi cattedrali gotiche, Sadea/Sansoni, Firenze 1968, p. 12. 21 A. HAUSER, Storia sociale dell'arte, Einaudi, Torino 1956, voi. I, p. 269. 22 L. GR0DECKI, op. cii., p. 18. 23 G. ALBENGA, op. cit., p. 550. 24 N. PEVSNER, op. cit., p. 558. 25 N. PEVSNER, Storia dell'Architettura europea, Laterza, Bari 1976, p, 106. 26 N. PEVSNER, « The term... », op. cit., pp. 562-563. 27 N. PEVSNER, Storia... , op. cit., p. 106. 28 A. HAUSER, op. cit., p. 354. 29 L. B. ALBERTI, De re aedi-{i.catoria, ed. it. L'Architettura, G. Orlandi trad., P. Portoghesi ed., Polifilo, Milano 1966, pp. 2-3. 30 Ibidem. 31 Enciclopedia Italiana, op. cit. 32 G. ALBENGA, op. cit., p. 550. l3 Ibidem. 34 J. RYKwERT, La casa di Adamo in Paradiso, Mondadori, Milano 1972, p. 96. 35 SJ. N. FERRARIENSIS CADEI, In quat11or libros Meteorologicorum Aristotelis Commentaria et quaestiones, Corbelletti, Roma 1646, p. 353. 36 G. FONDA, Elementi di Architettura Civile e Militare, Roma, Mai nardi 1764 (1• ed. 1714), p. III. 37 A. C. o'AVILER, Dictionnaire d'Architecture Civile et Hydraulique..., Nouvelle ed., Jombert, Paris 1755, voce Architecture. 38 Ibidem. 39 A. C. o'AVILER, op. cit., voce Architecte. 40 L'Encyclopédie, voce Architecte. 41 R. LE VIR0LYS, Dictionnaire d'Architecture Civile, Militaire et Na vale, Librairies Ass., Paris 1752, voce Architecte; anche in Encyclopédie Méthodique, Paris 1792, voce Architecte, Q. de Quincy ed. 42 L'Encyclopédie, op. cit., voce Ingénieur. 43 Q. DE QUINCY, op. cit., p. 102.
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4' S. GIEDION, Spazio, tempo ed architettura, Hoepli, Milano 19 5 4, p. 204. 45 Q. DI! QUINCY, Dictionnaire Historique, Paris 1832, ed. it.; Man tova 1842, voce Architecte. 46 A. W. PuGIN, The True Principles of Pointed or Christian Archi tecture, Set Fourth in Two Lectures, London 1841, p. 2. 47 Q. DE QuINCY, Dictionnaire ..., op. cit., voce Ingénieur. 41 G. GIOVANNONI, e Architetti e Studi di Architettura in Italia" Ri vista d'Italia, Roma, Anno XIX, vol. I, p. 169. 49 Ibidem. so C. Botro, Questioni Pratiche di Belle Arti..., Hoepli, Milano 1863, p. 353. 51 J. RYKWERT, op. cit., p. 48. sz Encyclopédie d'Architecture, Paris 1878, p. 67. 53 s. GIEDION, op. cit., p. 207. 54 M. NicoLEJTI, L'architettura liberty in Italia, Laterza, Bari 1978, p. 47. 55 H. VAN Dll VllLDE, « Die· Rolle der Ingenieure in der modernen Ar cl1itektur,. in Die Renaissance in modernen Kunstgewerbe, Berlin 1901. 56 A. Loos, Gesammelte Schriften, Wien 1962, pp. 302 sg. 57 LE CoRBUSIER, Verso una Architettura, Longanesi, Milano 1973,
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58 H. WINGLER, Das Bauhaus, Kèiln 1968, p. 62. .59 R. GABETTI - P. MARCONI, « L'insegnamento dell'architettura nel si stema didattico franco-italiano (1789-1922) "• in Controspazio. n. 4, ott. nov. 1971, p. 43. 60 Legge 13 giugno 1935, n. 1100, G.U. 4 luglio 1935, n. 154. 61 Le sezioni sono le seguenti: civile (con le tre sottosezioni edile, idraulica e trasporti); meccanica; elettrotecnica; chimica; navale e mec canica; aeronautica; mineraria;, elettronica; nucleare. 62 Altre sezioni si sono infatti aggiunte alle nove del D.P .R. 1960; ad esempio l'Università della Calabria offre per la Facoltà di Inge gneria, oltre alla laurea della sezione civile, quelle in « difesa del suolo e pianificazione territoriale » e in « tecnologie industriali "·
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Le scuole di critica d'arte in Italia GIUSEPPINA DAL CANTON
Premessa Dopo circa due anni (il '78 e il '79) di fitto dibattito, ta lora con punte notevolmente polemiche alimentate da im portanti avvenimenti culturali (congressi, imprese editoriali come la recente Storia dell'arte italiana di Einaudi, ecc.) e con dotte prevalentemente su settimanali e quotidiani, è il caso che in questa rivista, senza voler aggiungere polemiche alle polemiche - di cui peraltro è dimostrata la tempestività solo in certi spazi e in certi luoghi -, si tenti di fornire un'intro duzione ai modi di far critica d'arte in Italia al lettore even tualmente disorientato da discussioni e contese talora legate ad antiche 'incompatibilità', ma spesso anche occasionate da schieramenti del tutto contingenti. Benché il panorama delle scuole di storia dell'arte risulti oggi in · buona parte polverizzato, anche perché gli studiosi più aperti hanno avvertito l'esigenza di aggiornare le meto dologie tradizionalmente impiegate dalle scuole con stru menti interpretativi mutuati da discipline per lo più d'im portazione e fino a non molto tempo fa ritenute estranee al campo storico-artistico (antropologia, psicoanalisi, semiotica, ecc.), questa breve rassegna sulle tendenze della critica d'arte in Italia coincide praticamente con una rassegna sulle scuole di storia dell'arte nel nostro paese. Infatti, al di là del pre- 33
giudizio settecentesco per il quale la storia dell'arte e la cri tica d'arte opererebbero in sfere separate (la prima occu pandosi soltanto dell'arte del passato e la seconda, invece, limitandosi ai giudizi sull'arte contemporanea senza peral tro esser tenuta a procedere secondo metodi storici), tra il campo storico e il campo critico non hanno ragione di sus sistere separazioni: non sono infatti pensabili operazioni critico-valutative che non comportino uno studio storico né è pensabile una storia dell'arte che non includa accertamenti critici. Per un'esposizione ben informata sarebbe utile tracciare delle mappe ovvero degli alberi genealogici delle diverse scuole e seguire la storia dell'intrecciarsi dei vari rami e fi loni che se ne dipartono. Ma i confini di un'intervento di questo genere non sarebbero certo quelli consentiti ad una rassegna, sicché pare opportuno, in questa sede, procedere ad alcune schematizzazioni, identificando innanzitutto le ten denze critiche con le metodologie da queste applicate nello studio e nella valutazione dell'opera d'arte. Le schematizza zioni adottate comportano però delle conseguenze: la prima è che parecchi nomi, anche di un certo rilievo, dovranno es ser sacrificati, la seconda che critici la cui impostazione ini ziale è andata via via evolvendosi al punto da differenziarsi anche notevolmente, da quella _della scuola a cui fanno capo, verranno comunque inquadrati entro il filone di partenza al quale pur sempre si richiamano, così come altri critici, che per l'indubbia originalità delle loro ricerche potrebbero oc cupare una posizione a sé stante, verranno ricondotti a quel la fra le tendenze nella quale i loro contributi risultano più determinanti o più cospicui. Infine, per il momento, sono stati deliberatamente accantonati anche alcuni dei ' nodi ' più fre quentati dai dibattiti in corso, dei quali, data l'importanza e l'ampiezza delle questioni in gioco si potrà eventualmente trattare, con l'impegno richiesto, in altra occasione: ruolo e funzioni del critico d'arte con le relative specificazioni del rapporto critico/artista e di quello critica/mercato dell'arte, crisi e/o morte della critica in relazione alla crisi e/o morte 34 dell'arte, ecc.
1.
I conoscitori
Il conoscitore è colui che attribuisce un'opera d'arte rav visandone l'Autore [ ... ]. Ma il conoscitore è inoltre chi sa riconoscere l'autenticità, originalità e qualità estetica dell'ope ra stessa. La figura del conoscitore, in tale più ampia acce zione, tende pertanto ad identificarsi con il critico d'arte [ ... ], il quale definisce lo stile, il carattere di un'opera, ma anche la qualità 1• Il conoscitore, come storico e critico d'arte - e non già come collezionista, antiquario o amatore d'arte, che qui non ci interessa esaminare -, si serve di una metodologia che risale all'abate Lanzi e poi soprattutto al Cavalcaselle e al Morelli. È infatti da questi ultimi che prende l'avvio il mo derno attribuzionismo, grazie al quale autori e scuole ven gono distinti con l'aiuto della filologia ed in base ad un ri goroso esame dei particolari stilistici. Sebbene oggi prevalgano correnti critiche per le quali il fine della storia dell'arte non è l'individuazione dello stile delle opere, la figura del connaisseur non è tramontata, così come, nonostante certe apparenze, non può dirsi in de clino la metodologia dell'attribuzione, che ha solo cambiato alcuni procedimenti applicativi. Per avere conferma di ciò, consultiamo, ad esempio, l'Encyclopaedia universalis: qui, un capitoletto della voce Attribution, firmata da E. Castel- . nuovo, è addirittura intitolato Actualité de l'attribution. Vi si legge, fra l'altro: La condizione il più delle volte anonima delle opere d'arte non autoriu.a in alcun modo a considerare . superata la pratica attributiva; verosimilmente essa presenta, per la storia dell'arte, un valore irrinunciabile in quanto per mette di precisare le coordinate spazio-temporali di un'ope ra e di costituire dei gruppi che in seguito potranno esser combinati in diverse maniere, di preparare il terreno e i ma teriali per qualsiasi teoria, in una parola di imporre un pri mo ordine nell'apparente disordine dei fatti. « Prima cono scitore, poi storico »: questa affermazione di Pietro Toesca conserva tutto il suo valore 2• Ma quali sono i grandi conoscitori italiani del nostro se35 colo?
Un posto di primo piano spetta, prima di tutti, ad Adolfo Venturi che, superando il positivismo insito nel metodo mo relliano, basò la lettura dell'opera sull'analisi dei suoi valori formali, ricostruendo le singole personalità degli artisti sen za trascurare quegli aspetti della cultura che servissero ad illuminare l'opera stessa 3• Per influsso dei suoi allievi più dotati e più vivaci, egli fu anche sensibile a quelle che, nel panorama culturale di allora, erano le ventate di aria nuova: la 'pura visibilità• e la critica crociana. Con Adolfo Venturi, della cui rivista, «l'Arte», fu anche collaboratore e successivamente (1904) redattore capo, bi sogna ricordare Pietro Toesca. La robustezza filologica e la concretezza del terreno storico, sulle quali imperniò tutta la sua ricerca, sono le caratteristiche più apprezzate di un metodo che riuscì a dare apporti fondamentali ad intere cul ture artistiche (ad es., la civiltà figurativa lombarda del Me dioevo, il Trecento ecc.) 4• Adolfo Venturi ebbe come allievi Giuseppe Fiocco (pre cedentemente discepolo di Supino), che contribul ad am pliare e a rinnovare in maniera determinante il campo delle ricerche sull'arte veneta; Antonio Morassi, che metodologi camente poi inclinò per la scuola di Vienna e per Dvorak, il figlio Lionello - di cui diremo nel paragrafo successivo e Roberto Longhi, a sua volta «padre», se cosl si può dire, dell'attuale generazione di conoscitori. 1:: proprio su Roberto Longhi e su Lionello Venturi che ci soffermeremo più a lun go che su altri, nei primi due paragrafi della nostra rasse gna, perché è da questi due maestri che si possono far di scendere, nel secondo quarto del '900, due filoni critici di versamente caratterizzati. Il giovane Longhi studiò dunque a Torino con Pietro Toe sca e a Roma con Adolfo Venturi, sentl, in parte, l'influsso dei puro-visibilisti e quello di Bernard Berenson, staccan dosi poi tanto dai primi che dal secondo, e soprattutto ma turò in sé il pensiero di Croce, dal quale derivò il metodo della lettura della concreta opera d'arte 5• In opposizione alla storia dell'arte come ' storia della 36 cultura', 'storia degli artisti' e 'storia del divenire delle
arti', egli rivolse l'attenzione ai problemi intrinseci all'opera, proponendosi di evitare ogni impostazione di natura teorico-fi losofica. Nel 1951 arrivò infatti ad affermare di aver ferma mente stabilito di non più usare in critica d'arte - salvo i pochi casi recenti ove siano stati i fatti medesimi a pro durle - parole a desinenza concettuale e cioè inadatte ad esprimere cose che non sono nate come concetti: le opere d'arte, per l'appunto 6• A queste ultime egli si accostava con un linguaggio che intendeva mimarle, in una prosa molto personale, che è stata oggetto di indagini lessicali da parte di Gianfranco Contini 7• Dall'opera di questo straordinario ' maitre écrivain ' emer ge, come ha ben dimostrato E. Hiittinger, un'autentica mol teplicità di stili linguistici , le cui diverse possibilità egli sag gia ed elabora con squisita raffinatezza [ ... ] per avvicinarsi il più possibile all'opera d'arte, per attuare l'incontro con essa 8: innanzitutto il parnassianesimo francese e il simboli smo fin de siècle dei critici-poeti da Baudelaire a Valéry, D'Annunzio per il gusto della parola talora eletta talora ar caizzante, gli antichi scrittori d'arte dall'Alberti al Boschini al Lomazzo, fino a toccare note di ' concettismo ' barocco 9• Non è possibile tracciare qui un panorama almeno dei più importanti scritti dal Longhi 10, ma basterà ricordare che questi abbracciano un raggio molto vasto, che include, oltre al Trecento e al Quattrocento fiorentino e al Caravaggio e la sua cerchia, la pittura lombarda, ferrarese, bolognese e ve neziana di diversi secoli. Questo ammirevole ricupero di in tere « province » pittoriche dell'arte italiana avvenne proprio grazie alla sua singolare ' sensibilità' di conoscitore e al me todo storico-filologico al quale rimase sempre fedele. Furono invece estranee al Longhi alcune metodologie, tra cui l'iconologia che, crocianamente, bollò come un appesan timento erudito e un impaccio alla reale comprensione del l'opera: Dio ci guardi [ ... ] dalla pessima specie di immagina zione che è quella dei pedanti sempre pronti ad addossare agli artisti e persino ai più svagati e incolpevoli, le some del la loro erudizione supererogatoria 11• Quantunque non abbia dimenticato la ricostruzione del-
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l'ambiente in cui si collocano personalità artistiche ed opere, egli rimase lontano anche dalla storia sociale dell'arte nel l'accezione attuale e dalle relative problematiche. Se è illu minante circa una sua apertura ad una generica storia so ciale dell'arte quel passo del 1950 in cui afferma che l'opera d'arte, dal vaso dell'artigiano greco alla Volta sistina, è sem pre un capolavoro squisitamente «relativo», [che essa] non sta mai da sola, [ma] è sempre un rapporto [e che la] rispo sta critica [ ...] non involge soltanto il nesso tra opera e ope re, ma tra opera e mondo, socialità, economia, religione, po litica e quant'altro occorra 12 , non ne siano però autorizzati a ricavarne l'immagine di un Longhi a tutti gli effetti storico sociale. Come dimenticare, del resto, la tagliente critica che nel 1963 egli rivolgeva da Hauser, accusandolo di una gene ricità critica tipica di chi non ami ricevere alcuna comuni cazione specifica delle opere d'arte in quanto tali 13 ? O, pen sando agli indirizzi etno-antropologici di una parte degli studi storico-sociali, sempre più rivolti alle culture subalter ne, come non rammentare che, nel saggio del '63 appena ci tato, a proposito della ' fortuna storica ' di Piero della Fran cesca, Longhi osservava: si era intanto fuori della guerra [ ... ] II Rinascimento italiano, da noi fin troppo nazionalisti camente vantato, cominciava a recedere fra le preferenze dell'Unesco. t:. una storia lunga e complicata che libera fin troppo le arti coloniali, i folclori più scadenti e si conclude riducendo in schiavitù il Rinascimento a servizio della Ban tu-culture 14• La frase, chiaramente, non ha bisogno di com menti. Se Longhi non fu dunque uno storico sociale nel senso più proprio - e difficilmente avrebbe potuto esserlo tanto per formazione quanto per ragioni che definirei generazionali -, da Longhi discendono però alcuni studiosi che integrano il metodo del conoscitore e l'indagine filologica con la storia · sociale dell'arte. Ci riferiamo specialmente ad Enrico Castel nuovo 15, Ferdinando Bologna 16, Giovanni Previtali 17• Restano da ricordare, a questo punto, altri allievi di Lon ghi che hanno dato al panorama degli studi italiani dei con38 tributi riccamente documentati in senso storico-filologico e
sempre molto tempestivi: fra gli altri, Federico Zeri 11 , Giu liano Briganti 19 e lo scomparso Federico Arcangeli, che si è anche largamente occupato della contemporaneità 20, stac candosi così dagli interessi di una buona fetta dei Longhiani, tra i quali, per riserve, anzi, per dichiarata avversione nei confronti delle avanguardie contemporanee, spicca Giovanni Testori con le sue ben note polemiche sul « Corriere della Sera».
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2. Gli eredi del puro-visibilismo In principio era» dunque, come s'è detto, la scuola di Adolfo Venturi. Nei primi saggi che i suoi discepoli più gio vani, il figlio Lionello e Roberto Longhi, andavano pubbli cando, già si potevano intravvedere i segni dei rispettivi svi luppi futuri, che avrebbero portato ad una divergenza non solo negli interessi di ricerca, ma nei metodi: se il Longhi sottilmente indagava attraverso quali filtri e quali impre vedibili combinazioni e reazioni la cultura dell'artista si de cantasse fino a consumarsi nell'opera d'arte, il Venturi risa liva alle idee direttrici della cultura dell'epoca e ricercava come ad esse reagisse, spesso mutandole, quel nuovo fatto culturale che era l'opera d'arte 21• Docente all'Università di Torino. dal 1915, il Venturi, nel 1926, pubblicò il famoso Gusto dei primitivi, che ebbe vasta risonanza nella cultura italiana ed europea del tempo. In quel saggio egli distingueva il concetto di arte, intesa come lo stile particolare, l'apporto creativo ed originale di un ar tista, dal concetto di gusto, inteso come l'insieme delle pre ferenze nel mondo dell'arte da parte di un artista o di un gruppo di artisti 22, cioè come la cultura istituzionalizzata en tro la quale l'artista opera le proprie scelte. Il rapporto tra gusto e arte si configura[va] così come il rapporto tra una cultura data, già storica, e una cultura in fieri, che l'artista fa facendo arte. Per questo suo aspetto volontaristico e pragmatistico il concetto di gusto di Venturi si ricollega[va] al concetto di 'volontà dell'arte ' del Riegl, trasponendolo però dal piano metastorico dell'ethos «
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popolare e delle costanti etniche e nazionali, al piano storico della cultura consapevolmente posseduta ed elaborata dagli artisti con i mezzi stessi dell'arte 23• Idealista e crociano, co me egli si definiva, il Venturi coniugava quindi, anche in quel testo, l'idealismo con la critica della 'pura visibilità', evitando però di cadere nei rischi più frequentemente corsi da quest'ultima: intese principalmente definire la cultura formale dell'artista, in linea con i principi dei viennesi per i quali l'arte è conoscenza della forma, ma non fece preva lere astratti modi della visione sulla concretezza delle opere. Egli infatti si rese conto che, se i « concetti fondamentali » della storia dell'arte (i Grundbegriffe di Wolfllin) avevano una matrice positivistica, occorreva « spiritualizzarli », che poi significava storicizzarli ovverosia ricuperarli, come com ponenti culturali integrate, nel contesto delle opere d'arte 24• In seguito, nella Storia della critica d'arte, trattando del concetto di gusto all'interno del processo creativo, Venturi ermava che, pur non essendo ancora critica, ma, appunto, gusto', una preferenza in arte è sempre un inizio di critica �arte 25• Per questa via, intendendo cioè le stesse scelte arti che come l'avvio di un esercizio critico, egli giungeva ad sumere la storia della critica come giusto procedimento metodologico della storia dell'arte 211•
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Da quel poco che finora si è riferito appare quindi fonda mentale, nel pensiero di Venturi, l'identificazione della storia dell'arte con la storia della critica d'arte, diretta conseguenza della concezione dell'opera come realtà significante solo in quanto recepita da una coscienza né altrimenti o altrove af ferrabile che nella coscienza che si ha del reale, della cul tura, della storia ri e dunque come realtà oggettuale che non si risolve nel momento della genesi, ma che, attraverso il tempo, continua ad esercitare un'influenza, spesso determi nante, sul pensiero umano. Diversamente da Longhi, che dell'arte del nostro secolo si occupò occasionalmente e prevalentemente negli scritti giovanili 28, Venturi si impegnò ad interpretare e a difen dere, con singolare ardore, l'arte contemporanea. Con un at• teggiamento di apprezzamento equanime degli antichi .e dei
moderni, in quel testo divulgativo che è Come si comprende la pittura. Da Giotto a Chagall '29, Venturi tentava di attualiz zare il passato e di storicizzare il presente. Quel libro, come ha notato M. M. Lamberti, richiamava, nello stesso titolo, l'altrettanto divulgativo Come si guarda un quadro di Mat teo Marangoni 30, altro critico crociano e puro-visibilista, ol tre che consumato conoscitore. Ma mentre Marangoni, oltre a non misurarsi con l'arte contemporanea, appare più por tato a comprendere le ragioni della tecnica, inclinando, nel l'apprezzamento dei valori formali, verso un appagato esteti smo 31, Venturi, anche in quell'occasione, risulta propendere per una problematica (anche di giudizio critico) aperta alla storia delle idee e di fi all'estetica e alla filosofia 32• Del resto, per lui - lo si è già accennato - la stessa esperienza lingui• stica dell'arte contribuisce alla conoscenza in senso lato, ed include un momento di più universale moralità, manifestan do l'intima coerenza dell'artista, in cui si sublimano i vari elementi del suo essere uomo fra gli uomini e nella storia 33• Ne conseguiva che, mentre per Marangoni la critica doveva essere, soprattuto, interpretazione e valutazione del linguag gio dell'opera ed il fine del suo baedecker, quindi, l'educa zione alla conoscenza visiva, per Venturi, la tecnica del ve dere, al limite, non è che un pretesto all'azione del critico come maestro di umanità 34: concezione, quest'ultima, in cui il crocianesimo venturiano si fa evidente e condizionante. Nonostante i limiti derivanti dal suo crocianesimo, Ven turi diede l'avvio ad un procedimento metodologico i cui li neamenti sono dilatabili fino alla possibilità di includere nuovi interessi interdisciplinari, come è accaduto per alcuni suoi discepoli ed in primis per Giulio Carlo Argan. Questi, partito da quella base - peraltro comune a di versi critici della sua generazione - consistente nell'inne sto dell'idealismo crociano sul puro-visibilismo, è andato progressivamente elaborando una « filosofia della storia » im bevuta di fenomenologia ed un metodo di lettura delle ape• re d'arte, nel quale confluiscono diverse metodologie tra cui, in primo luogo, la ricerca sociologica e quella iconologica. Gli interessi di Argan spaziano dai problemi della tutela 41
del patrimonio artistico ai problemi specifici della lettera tura artistica, alla ricostruzione storica dell'arte - e spe cialmente dell'architettura - di diverse epoche, con parti• colare attenzione all'arte contemporanea. Per Argani, se l'arte è uno dei grandi tipi di struttura cul turale, l'analisi dell'opera d'arte deve concernere da un Iato la materia strutturata, dall'altro il processo di strutturazio ne [ ... ] Il processo strutturale è necessariamente quello del fare, cioè il seguito delle operazioni mentali e manuali con cui un insieme di esperienze culturali di diversa entità ed estrazione si comprime e compendia nell'unità di un oggetto per darsi simultaneamente, come un tutto, alla percezione. II dinamismo strutturale dell'opera d'arte è dunque quello della relazione funzionale tra l'operazione tecnica e il mec canismo della memoria e dell'immaginazione [ ... ]. Non v'è ragione per cui questo processo non debba ritenersi meno consapevole e controllabile del pensiero intellettivo, ed i suoi risultati non possano essere storicizzabili alla stessa stregua dei risultati del pensiero filosofico e scientifico 35• La storia dell'arte è quindi, per Argan, studio delle strut ture culturali, sociali e tecniche, che consente di comprendere l'opera d'arte come atto liberamente creativo rispetto alle strutture storicamente date. Il corollario - di ascendenza venturiana - che ne consegue è che l'artisticità dell'opera non è altra cosa dalla sua storicità, e che il giudizio critico è giudizio storico 36.
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Infine, per Argan, compito della critica contemporanea è [ ... ] sostanzialmente di dimostrare che ciò che viene fatto come arte è veramente arte 37, e che, in quanto tale, si col lega organicamente ad altre attività della sfera sociale, sic ché la critica può considerarsi come un prolungamento o un tentacolo col quale l'arte tenta di agganciarsi alla società 38• Un posto di primo piano nella critica d'arte italiana spetta a Carlo Ludovico Ragghianti, discepolo di Matteo Maran goni. II Ragghianti ha elaborato un peculiare metodo criti co-storico ( « storicismo estetico ») 39, basato sul pensiero mo derno da Vico a De Sanctis a Croce, nonché sul puro-visibilismo in generale, debitamente 'riveduto e corretto', e in
particolare sugli apporti del Fiedler, che egli considera il pri mo autentico linguista dell'arte figurativa o della visibilità come attività generale della coscienza 40•
Nell'occuparsi, con contributi copiosissimi, non solo del le arti figurative, ma di cinema e di spettacolo, egli è rima sto sostanzialmente sempre fedele al pensiero di Benedetto Croce, definito « congeniale maestro». Dopo Croce - affer ma Raggianti - non veggo assolutezza o universalità se non nel particolare concreto e [ ... ] mi riesce impossibile [ ... ] pen
sare a una qualunque operazione umana che non abbia in trinseco carattere di processo, arte compresa. [ ...] Solo in questo modo si riesce a « umanizzare » (nel senso dell'uni• versalità del sentimento come forma teoretica aurorale del lo spirito) la critica, o per meglio dire a leggere umanamente e non astrattamente un'opera d'arte storicamente espressa da un poteta, uscendo dall'aridità alla perfine infeconda e
anzi
m?tilatrice degli schemi figurativi esaurienti, e anche a evitare'· la riconversione, solita e facile, su tali schemi, nel tentativo di « umanizzarli », di supposti « equivalenti » �
sentimenti e meglio di psicologia, con una manovra di sim boli che si rivela come un rinnovato inevitabile contenuti smo 41.
La sua stessa nozione di arte visiva come linguaggio è quindi riconducibile al concetto crociano di estetica come linguistica generale, con la conseguenza che all'analisi lin guistica o figurativa spetterebbe il compito di cogliere in modo adeguato i caratteri di poesia o di prosa delle opere d'arte 42• Da questo assunto Ragghianti non sembra disco starsi anche nei saggi più recenti, in cui, pur sottolineando la necessità di distinguere il linguaggio visivo dal linguaggio verbale o discorsivo 43 e pur negando l'assimilazione banal mente metaforica della « linguistica dell'arte » alla « lingui stica della parola» 44, continua a trattare del linguaggio delle arti visive senza concessioni di sorta ad improduttive mode semiologiche, ma anche senza ricorrere a certi specifici e - a nostro avviso - irrinunciabili procedimenti di analisi delle opere ricavabili da alcuni studi semiotici seriamente impegnati (in qualche saggio si nota anzi un atteggiamento 43
di sufficienza nei confronti di problemi ed istanze recente mente posti da una parte della critica semiologica 45 ). Una particolare attenzione egli ha dedicato, invece, negli ultimi tempi, alla « verifica esatta » delle opere d'arte attraverso strumenti elettronici come il computer o il plotter 46, il quale sperimentalmente confermerebbe la giustezza della sua con cezione dell'arte come linguaggio formale 47. Impegnato nell'attività storico-filologica, nei problemi del la conservazione e del restauro delle opere d'arte e nella spe culazione estetica, Cesare Brandi, che fra l'altro è anche poeta, ha dato alla critica d'arte contributi molto consi. stenti 48• Muove anch'egli da premesse idealistiche e da in fluenze puro-visibilistiche, ma perviene ad una sintesi di pensiero assai personale, nella quale s'intrecciano la feno menologia d'impronta husserliana e l'esperienza della più recente critica strutturalistica (dei suoi apporti a questo tipo di critica diremo l;ll paragrafo 5). Alla scuola di Vienna e specialmente ad Alois Riégl si è rifatto anche Sergio Bettini, che nei suoi studi ha costante mente accompagnato al saldo impianto filologico, derivato gli dalla scuola di Fiocco, il controllo dei procedimenti e strumenti metodologici. Specialista di storia dell'arte bizan tina e medioevale 49, ha però spaziato in un orizzonte che dal la tarda romanità si estende fino all'arte d'oggi, proseguendo un aggiornamento critico basato sui testi più stimolanti della cultura contemporanea e, per gli specifici problemi estetico fìlologici, soprattutto sui testi della fenomenologia di Hus serl e di Merleau-Ponty, sullo strutturalismo e sulla semio logia 50. L'elenco di coloro che, in diversa misura, si sono richia mati alla scuola di Vienna potrebbe continuare ancora: basti pensare all'influsso esercitato dal metodo puro-visibilista su un archeologo come Ranuccio Bianchi Bandinelli o su uno storico dell'architettura come Bruno Zevi. Ma anche tenen do conto soltanto degli storici qui sommariamente passati in rassegna, appare evidente che di quel metodo e delle teorie dei suoi rappresentanti ciascuno dei critici italiani ha accol44 to alcuni aspetti, tralasciandone o criticandone altri che me-
no si prestavano ad un accordo con la propria formazione e con i propri orientamenti ideologici e preferendo, general mente, l'integrazione del puro-visibilismo con altre meto dologie. 3. Iconologi e psicologi dell'arte
Al formalismo della « pura visibilità » comunemente si suole contrapporre il contenutismo del metodo iconologico che, accentrando l'interesse critico sul significato delle im magini, tende all'interpretazione culturale della forma arti stica (Schlosser). Quest'ultimo metodo non ha avuto, in Ita lia, molta fortuna e solo in tempi recenti, cioè grosso modo dagli anni sessanta in poi, è stato oggetto di interessi anche notevoli. Le ragioni del prolungato ostracismo all'iconologia van no principalmente individuate, come giustamente ha notato Calvesi, sia nell'eredità crociana e idealistica, che tendeva a risolvere l'arte nella categoria rarefatta della « poesia » e collocava quest'ultima in una stratosfera Irraggiungibile dal l'analisi semantica sia nella viva presenza fisica dell'opera d'arte nel contesto ambientale del nostro paese (per tale presenza fisica delle opere d'arte, infatti, avviene che la prio rità sia data, e giustamente, ad esigenze di classificazione, schedatura, tutela, restauro, alle quall l'iconologia è relativa mente, o sembrerebbe essere di scarso ausilio) 51 • Schematizzando, si può dire che vi sono almeno due di versi modi di applicare il metodo interpretativo di Panofsky e, più generalmente, della scuola di Warburg: il primo con siste nel privilegiare il significato conscio e razionale, anche se spesso volutamente mascherato, di una creazione artistica, il secondo, invece, consiste nell'inoltrarsi nell'interpreta zione dei significati inconsci dell'opera. Nel primo caso il modello è costituito dall'ultimo Panofsky, per cui il lavoro critico non è rivolto a fornire spiegazioni ' profonde ', ma piuttosto alla ricostruzione di codici culturali nel cui con testo rientrano le opere e gli autori in esame; nel secondo caso, invece, ci si rifà a certi passi teorici di Panofsky che 45
sembrano autorizzare la fusione dell'iconologia con la psico logia dell'arte e addirittura anche con la psicoanalisi (il pa dre dell'iconologia, però, di fatto, nei suoi saggi applicativi non si allontanò gran che dalla filosofia cassireriana delle « forme simboliche », sicché è piuttosto su queste ultime che non sulla nozione di inconscio in senso freudiano o junghiano o altro ancora che risultano pur sempre far perno i cosid detti significati ' non intenzionali ' ossia inconsapevolmente espressi dagli artisti nelle opere) 52• Entrambi i modi di applicare l'iconologia hanno trovato seguito fra gli studiosi italiani. Vi è dunque chi investiga, nelle opere d'arte, il versante dei significati intenzionali, an che se « occultati », e, in parecchi casi, analizza anche il ver sante dei significati inconsapevolmente espressi dall'artista, ma comunque ricostruibili in base a codici culturali, evitan do prudentemente, invece, l'indagine dei significati inconsci in senso propriamente psicoanalitico: è il caso di Eugenio Battisti 53, sul quale torneremo più avanti, di Salvatore Set tis 54, e, in parte, di Michelangelo Muraro e di Lionello Puppi 55 (in questi ultimi però sugli interessi iconologici prevalgono gli interessi filologici). Ma vi è anche chi tende ad aprire le porte alla psicologia junghiana, come fanno alcuni studiosi della cerchia di Argan, fra i quali Maurizio Calvesi 56 e Mau rizio Fagiolo dell'Arco 57•
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Inoltre, poiché, secondo Panofsky, si può parlare di ico nologia laddove l'iconografia sia sottratta al suo isolamento e integrata con ogni altro metodo storico, psicologico o cri tico, che possa servire per tentare di risolvere l'enigma della sfinge 58, appare chiaro che ai due modi di fare iconologia dei quali si è appena detto, ne vanno aggiunti altri, che de rivano dalla natura polivalente di tale disciplina e cioè dalla sua costitutiva tendenza alla fusione con altri strumenti me todologici. Così awiene che, oltre che con la psicologia del l'arte, negli studi più recenti l'iconologia tenda a fondersi con discipline come lo strutturalismo e la semiologia, la cri tica sociologica e la critica dell'ideologia. Per l'integrazione con la semiologia basti pensare al francese Schefer 9J, per l'integrazione con il metodo marxiano della critica sociolo-
gica ed ideologica si segnalano interessanti contributi di stu diosi ungheresi, cecoslovacchi e tedesco-orientali (N. Aradi, R. Chadraba, H. Zschelletzschky). Anche in Italia dunque si assiste alla fusione dell'icono logia con altre metodologie: lo dimostra, ad esempio, la ri vista « Psicon » (il cui comitato di consulenza è, peraltro, internazionale). Questa, fin dal primo numero (1974), ha pro grammaticamente inteso offrire alla critica 'operativa ' un quadro di riferimento nel quale si intrecciassero l'iconologia, la critica ideologica e le valenze positive dell'analisi psicolo gica tJJ (per analisi psicologica vi si intende soprattutto il me todo della psicologia junghiana). A dirigere tale rivista (una rivista - si noti - di architettura, cioè di quella fra le arti che forse più ha incontrato resistenza ad essere considerata portatrice di valori ' simbolici ') troviamo, con Marco Dezzi Bardeschi e Marcello Fagiolo dell'Arco, quell'Eugenio Battisti che, ispirandosi a Warburg, è stato fra i primi studiosi italiani ad avvalersi degli apporti di campi di ricerca rite nuti estranei alla tradizione della critica delle arti figurative (la fiaba, il folclore, la storia delle religioni, con riferimenti che vanno da Propp a Kerenyi, ecc.). Scorrendo poi l'elenco dei nomi degli storici dell'arte italiani che fanno capo a « Psicon », si osserva che si tratta di studiosi per lo più legati - per effettiva formazione o per elezione, direttamente o, nel caso dei più giovani, tramite Argan - alla scuola ven turiana, e vien fatto di chiedersi come possa esser avvenuto uno slittamento di metodo da un'area grosso modo puro-vi sibilistica e quindi formalistica ad un'area prevalentemente contenutistica. A questo punto vale la pena sia di sottoli neare una volta di più la vocazione interdisciplinare dei « venturiani » sia di ricordare che, del resto, lo stesso me todo iconologico, almeno nelle formulazioni di Panofsky, pur privilegiando l'analisi dei contenuti, non sacrifica l'analisi delle forme e che l'accusa di esclusivo contenutismo rivolta al Panofsky si attenuerebbe qualora si tenesse conto che proprio il padre dell'iconologia a più riprese sottolineò l'in separabilità di forma e contenuto in ciascuna opera d'arte. Osse1:va inoltre Argan che il metodo iconologico deve non 47
poco, malgrado l'apparénte discrepanza, al metodo della pura visibilità perché ovunque un'immagine viene portata alla per cezione mediante un procedimento tecnico c'è sicuramente intenzionalità o volontà dell'arte 61• Argan tende poi a dimostrare che l'iconologia non esclu de, ma piuttosto, in un certo senso, promuove giudizi di va lore sulle opere esaminate in quanto nella trasmissione di un . tema iconico avvengono mutamenti [ di ordine formale e quindi] qualitativi sui quali è sempre possibile pronunciare giudizi di valore 62• A differenza di Argan, un certo versante critico, legato a pregiudizi idealistici, tende invece a vedere nell'interpretazione iconologica un intralcio all'approccio este tico-formale all'opera d'arte e quindi alla valutazione della qualità dei fatti artistici 63, e, d'altra parte, da posizioni di verse, ma con pari vis polemica, la critica improntata ad un materialismo testuale e meccanico tende a ritenerla un'inu tile alleggerimento spirituale in quanto ' extrastrutturale ' ri spetto alla strutturalltà [ ...] materiale e fisica [ ... ] dell'ogget to artistico 64•
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Tornando ad esaminare la cerchia di Argan, si osserva, in conclusione, che da questa provengono sia contributi in cui l'iconologia si fonde con la critica sociologica - in quanto lo studio dei significati e della cultura a questi soggiacente comporta l'indagine sui fatti politici, sociali ed economici da cui dipendono o a cui sono collegati i fenomeni cultu rali -, sia contributi aperti ad una lettura psicoanalitica del fenomeno artistico. Su questa linea di un'iconologia poliva lente, Maurizio Calvesi - che, fra l'altro, è redattore di « Storia dell'arte», rivista di Argan e ad indirizzo spiccata mente iconologico, - è giunto a proporre di fare dell'icono logia un'icono-logica o e logica • della produzione d'imma gini 65• Gli appare infatti opportuno ridefinire in tale maniera questa disciplina sia perché essa, al di là dello sterile com piacimento enigmistico della decrittazione, potrà esser utile ad intendere anche le essenziali valenze ideologiche dell'ope ra d'arte e a testimoniare come essa non sia l'espressione di una personalità Isolata, ma di una convergenza culturale e sociale, ed una manifestazione anche conflittuale della sto-
lo più iconologi - si è già detto, mentre restano da segnalare sia coloro - iconologi o non - che rivisitano Freud (' l'altro Freud ' e non il Freud dei ben noti e ormai superati saggi specificamente dedicati alla critica d'arte) sia coloro che si collegano alle tesi di Lacan, per il quale l'inconscio è strut turato come linguaggio: le indagini di questi ultimi si spo stano dagli artisti e dai fruitori alla struttura inconscia del l'opera, spesso attuando confluenze tra psicoanalisi e semio tica, alla maniera dei francesi Pleynet e Lyotard. Notiamo però che, ad interrogare la pittura ed altre arti mediante la psicoanalisi, sono sempre più non tanto gli sto rici dell'arte o i critici d'arte di professione 72, quanto piut tosto psicoanalisti (lo dimostra l'ultimo saggio di Franco Fornari 73) e studiosi di altre discipline, che - a nostro av viso - possono fornire strumenti interpretativi ai critici ed affiancarne il lavoro, ma non sostituirsi completamente ad essi. Del resto interventi come quelli di Contardo Callegaris 74 e dei giovani studiosi del gruppo di Sergio Finzi o legati ad Armando Verdiglione non costituiscono - e nemmeno in tendono costituire - degli apporti alla storia dell'arte e alla critica d'arte intese come discipline ermeneutiche nel senso corrente 75•
4. Storici sociali e critici dell'ideologia
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Storici dell'arte di diversa formazione, ma accomunati dall'ispirazione alle teorie marxiane, seguono quello che ge nericamente si definisce il « metodo sociologico», spesso fon dendolo con altre metodologie. La critica di ispirazione sociologica studia le attività arti stiche in rapporto alla società, mirando a spiegare l'opera come il prodotto della situazione sociale e culturale 76• Una sua filiazione può essere considerata la critica dell'ideologia, intendendo quest'ultima nello specifico senso marxista. Il metodo storico sociale, anticipato dagli studi di H. A. Taine, che però peccano di determinismo positivistico, e da quelli di M. Dvorak, ha aperto notevoli prospettive critiche.
ma bisogna dire che, al di là dal crescente interesse, i con tributi sono eterogenei, sicché risulta problematico traccia re un quadro non ambiguo e non contraddittorio della di sciplina. Possiamo solo indicare qualcuno dei contributi più signicativi ai diversi campi di indagine e ai ' nodi ' più dibat tuti: quelli di L. Benevolo 80, di M. Tafuri (quest'ultimo an che con interventi specifici di critica ideologica) 81, di M. Ma nieri Elia 82 per la storia dell'architettura, quelli di A. Del Guercio sull'arte dalla seconda metà del Settecento alle avan guardie storiche 83, quello di F. Poli sul mercato dell'arte fi gurativa contemporanea 84, il saggio-inchiesta sulla ' profes sione ' dell'artista nell'età contemporanea di G. P. Prandstral ler as, gli interventi sui beni culturali di Andrea Emiliani 86 e quelli sulla gerarchizzazione degli oggetti artistici di F. Bo logna � ed infine quelli sulla pittura italiana dalle origini, su Giotto ed ancora su artisti e problemi di diversi periodi del lo stesso Bologna e di altri conoscitori passati alla storia so ciale come i già citati Giovanni Previtali ed Enrico Castel nuovo 88. Un ampio saggio di E. Castelnuovo, pubblicato su « Para gone» 89, fornisce un quadro completo della situazione inter nazionale delle ricerche di storia sociale dell'arte, che con verrà qui tener presente anche perché i nodi critici che vi si passano in rassegna praticamente caratterizzano, anche nel nostro paese, il dibattito su questo indirizzo. Il primo problema da affrontare riguarda le stesse nozio ni di 'storia sociale dell'arte ' e di ; sociologia dell'arte ', che tutt'oggi vengono usate come se fossero intercambiabili, con un'indistinzione che rispecchia la difficoltà di definire gli am biti e gli strumenti rispettivi delle due discipline 90•
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Si potrebbe dire che per lo più lo storico dell'arte, an che quando sl proclama sociologo, opera all'interno di un campo la cui legittimità non mette in discussione, mentre il sociologo si preoccupa dl definire e dl studiare questo cam po, le sue funzioni e le sue variazioni rispetto al muoversi e allo scontrarsi delle classi sociali; che le prospettive dell'ap proccio sociologico sono essenzialmente più generalizzanti di quelle della ricerca storica, e che d'altra parte i tempi sono
diversi, tempi lunghi della storia [ ...], tempi brevi della so ciologia 91• Mentre quello dei committenti (siano questi singoli indi vidui, famiglie o gruppi e collettività quali le corti, la chiesa, la città) è uno dei problemi su cui convergono maggiormente gli interessi degli ultimi decenni, il problema del pubblico è stato fra i meno trattati. Nel pubblico, ovviamente, rien trano i collezionisti (un'utile serie di indicazioni sugli orien tamenti culturali di costoro si può ricavare, ad esempio, in nanzitutto, dall'esame dei cataloghi di collezione), ma anche il pubblico dei non collezionisti, quel pubblico che fruisce delle opere accessibili a tutti, che le apprezza, che le inter preta secondo certi criteri, certe abitudini, certi modi che si tratta di ristabilire facendo appello ad una sorta di archeo logia del giudizio che va al di là dalla storia del gusto per diventare una storia delle esperienze e delle abitudini per cettive 9'2. Con la sua vocazione interdisciplinare, l'iconologia pa nofskiana - lo si è già accennato - aveva condotto alcune analisi in questa direzione, mettendo in relazione i prodotti artistici con i testi letterari e filosofici coevi: lo dimostrano bene, fra gli altri, il saggio sull'abate Suger 93 e quello sul l'architettura gotica in rapporto al pensiero scolastico 94• Mentre in Inghilterra hanno orientato la loro ricerca in questo senso storici dell'arte come M. Baxandall 95, che si è occupato del Quattrocento fiorentino, da noi tentativi di ana lisi del genere non sempre provengono da storici dell'arte: ricordiamo, ad esempio, qualche interessante intervento di un esponente della nuova storiografia italiana, Carlo Ginz burg 96. Le istituzioni, cioè le diverse istanze, più o meno istitu zionalizzate, che assicurano la fase generalmente indicata co me. ' distribuzione ' 'R dei prodotti artistiqi, rivestono una 'funzione mediatrice', sociale ed ideologica, molto impor, tante. Di particolare urgenza appaiono, oggi come oggi, i pro blemi collegati a certe istituzioni quali le gallerie, i museì, gli enti per la tutela dei beni culturali. A quest'ultimo pro- 53
posito, ad esempio, si può osservare come la stessa nozione di 'bene culturale' sia tutt'ora abbastanza ambigua perché frequentemente chi ne tratta, magari pur non ignorando le nuove acquisizioni etno-antropologiche, resta più o meno an cora legato al concetto di 'artisticità' di quella tradizione che definisce come 'bene ' cioè come portatrice di valore l'arte delle classi dominanti, con la conseguenza di un con dizionamento anche delle politiche dei beni culturali più ben intenzionate e più impegnate. Ecco che allora una storia so ciale dell'arte, proprio a questo riguardo, avrebbe molto da indagare e da insegnare, perché potrebbe portare alla luce i processi e le contraddizioni che intervengono nella vita e nella gestione degli organismi pubblici addetti alla salva guardia del patrimonio culturale. Nel 'campo artistico', inteso come sistema di forze so ciali interagenti 98, devono rientrare, s'intende, anche gli sto rici dell'arte in quanto la coscienza della storicità del campo e il fatto che anche gli storici dell'arte vi siano inclusi potrà permettere di prendere le proprie distanze rispetto alle ri correnti tentazioni dell'assoluto cui i membri del campo van no soggetti, dimenticando di analizzare la propria posizione e scambiando per qualità immanenti e permanenti delle ope re o degli artisti quei caratteri che sono stati in realtà fissati da un processo del tutto storico di canonizzazione 99• Quanto alla storia sociale degli artisti, si può constatare che finora questa si è occupata o delle condizioni del lavoro artistico, cioè delle condizioni economiche e sociali degli ar tisti, del loro reclutamento, delle loro associazioni, dell'or ganizzazione del loro lavoro nonché della loro formazione e della loro cultura, oppure dalla psicologia, del comportamen to e del mito degli artisti. Gli atteggiamenti di costoro, ta lora ribelli e anticonformistici, frequentemente sono stati interpretati alla luce di una dialettica interna al sistema, il quale non ne sarebbe stato compromesso, ma, per certi versi, rafforzato (si vedano, a questo proposito, le interpre tazioni del ruolo dell'architetto e dell'intellettuale, specie nell'età contemporanea, date da M. Tafuri 100). 54 Per quanto riguarda la lettura delle opere, la storia so-
ciale - osserva giustamente Castelnuovo - non conosce una propria via maestra, può aver al massimo una pluralità di vie preferenziali 101, che possono anche integrarsi in un progetto unico: essa può considerare il rapporto opera d'ar te-società nel momento della genesi dell'opera, ma anche nei diversi momenti in cui questa diventa oggetto di un ripetuto filtro sociale 102 e infine, può studiare la posizione occupata dalla singola opera nel sistema da cui dipende ossia esami nare l'opera in relazione alla tradizione iconografica e alla ' serie ' cui appartiene. In questo modo, alla fine, la proposta di Castelnuovo mostra parecchi punti di contatto e sembra convergere con la proposta di « metodo globale » di Ferdi nando Bologna che, a sua volta, sottolinea la necessità di costruire una storia sociale dell'arte non già, come ad onta dei propositi s'è continuato a fare finora, in funzione di set tori astrattamente distinti da essa (personalità, monumenti, pittura, scultura, architettura, arti applicate, estetiche,· ideo logie, ecc.); ma in funzione di una intelligenza davvero glo bale del fenomeno storico a cui tutte queste cose apparten gono: cioè in quanto ciascuno di tali presunti settori e cia scuna di quelle che chiamiamo opere d'arte, sono collegati senza gerarchie e senza separatezze non solo alle serie si mili, bensì alla più vasta trama delle componenti esisten ziali attive in momenti dati e in unità collettive date 103•
5. Strutturalisti e semiologi Nella prospettiva semiotico-strutturale si studia l'opera d'arte come sistema di segni, la si esamina dal punto di vista della significazione e della comunicazione, ed infine se ne mettono in luce il livello estetico e l'originalità del mes saggio. Fra i primi a considerare l'arte da un'angolazione seman tico-strutturale, in Italia, sono stati Sergio Bettini 104 e Gal vano della Volpe 105• L'interesse per lo strutturalismo e per la semiologia è andato aumentando negli anni sessanta, quando ai numerosi e talora determinanti contributi teorici degli studiosi di este- 55
tica (si pensi ad Umberto Eco 106 o ad Emilio Garroni 107) hanno fatto riscontro gli scritti degli storici dell'arte. Da questi ultimi ci si sarebbero attesi soprattutto dei contributi applicativi, ma non è stato così, perché anche da parte di costoro si è assistito ad un fiorire di interventi al dibattito teorico, mentre hanno continuato a scarseggiare le verifiche pratiche del metodo. Della metodologia strutturalista - è noto - sono stati considerati anticipatori, oltre Panofsky con la sua iconolo gia, alcuni studiosi ' viennesi ' della « pura-visibilità », qua li K. Fiedler, A. van Hildebrand, A. Riegl, A. Schmarsow e soprattutto H. Wolfllin che, con le famose « cinque coppie di concetti fondamentali della storia dell'arte », potrebbe essere indicato come lo ' strutturalista precursore ' per ec cellenza. Non stupisce quindi se, nel nostro paese, tra i pri mi ad accostarsi, nella duplice sede teorica ed applicativa, allo strutturalismo siano stati studiosi in diversa maniera le gati al puro-visibilismo quali Brandi, De Fusco, Zevi. Brandi è intervenuto a più riprese nel campo semiotico strutturalista: nel 1966 con Le due vie (Bari, Laterza), nel 1967 con Struttura e architettura (Torino, Einaudi), nel 1974 con Teoria generale della critica (Torino, Einaudi), che co stituisce una specie di summa delle sue posizioni estetiche, in cui si fondono fenomenologia, strutturalismo e semiologia. Brandi non rinuncia agli strumenti interpretativi offerti dal la semiologia (si vedano i saggi di architettura contenuti nel suo libro del 1967), ma sostiene che l'essenza dell'arte è « astanza », cioè che l'opera d'arte è oggetto estetico che non significa, ma si dà come pura presenza (quindi tale og getto per la sua natura non già semantica, ma- ' parusiaca ' renderebbe illegittimo o comunque inadeguato l'approccio di tipo semiotico) 1as. Dopo gli apporti di alcuni architetti-teorici, come Italo Gamberini e Giovanni Klaus Koenig che, fra gli anni cin quanta e gli anni sessanta, affrontarono l'architettura da un punto di vista semiotico-comunicativo (e non dimentichiamo che anche Umberto Eco, ne La struttura assente (1968), dimostrò come fosse possibile cogliere perfino le funzioni ar56
chitettoniche sotto l'aspetto comunicativo) t()I), bisogna ricor dare che, quasi contemporaneamente a Brandi, contributi strutturalistico-semiologici di rilievo alla storia dell'archi tettura venivano da Renato De Fusco. Questi, dopo aver af frontato il problema dell'architettura nell'ambito delle co municazioni di massa in uno studio del '67 110, in un vasto saggio del '68 111 ricuperava la trattatistica sull'architettura, da Vitruvio a Palladio, individuandovi, per la sistematicità e per il costante ricorrere del rapporto norma/licenza, l'og getto privilegiato di una lettura di ispirazione strutturalista. In seguito, in diversi studi 112, De Fusco ha elaborato l'ipotesi metodologica di associare la linguistica saussuriana alla teo ria fieldleriana della pura visibilità e alla concezione, mutua ta da Schmarsow, dell'architettura come Raumgestaltung, preoccupandosi di definire « la specificità » del segno archi tettonico, i livelli di articolazione di tale segno nonché i ca ratteri del segno urbanistico. A verifica delle proprie tesi De Fusco ha condotto un certo numero di letture di fabbriche di diversi stili ed età. Alla semiologia egli fa assumere dun que una concreta applicabilità ed attribuisce un'utilità che, non limitandosi alla storia dell'architettura ma estendendosi alla pratica progettuale, le conferisce un ruolo operativo fon damentale nel quadro di una nuova politica della cultura. Anche da parte di Zevi, fin dagli anni sessanta, si sono avuti numersi interventi al dibattito sulla semiotica archi tettonica, che sono confluiti e si sono compendiati ne Il lin guaggio moderno dell'architettura (Torino, Einaudi, 1972), un saggio in cui il sistema linguistico dell'architettura moder na viene individuato attraverso le « sette invarianti del co dice anticlassico ». Poiché solo l'architettura classica è codi ficata, Zevi ricava tali « invarianti » dalle eccezioni alle re gole classiche contenute nei più importanti testi architetto nici odierni. Senza dilungarci ad esaminare ulteriormente i contributi alla semiologia architettonica - e il panorama diventerebbe eccessivamente vasto, perché meriterebbero di essere men zionati, quanto meno, gli interventi e le proposte di Maria Luisa Scalvini 113 o le critiche di Manfredo Tafuri 114 -, pas- 57
siamo ora in rassegna i contributi semiologici alla storia del le arti visive. In questi altri settori le letture delle opere rea lizzate sono più ridotte sia per numero sia, soprattutto, per consistenza delle applicazioni del metodo: le opere restano ancora in attesa di un'analisi puntuale condotta caso per caso (non mi risulta che la critica semiologica italiana finora abbia esaminato in maniera ampia e dettagliata qualche sin golo dipinto, come ha fatto, ad esempio, Schefer per la Par tita a scacchi di Paris Bordone ll5). Così, in sostanza, non offrono estese applicazioni metodo logiche né i contributi, pur ricchi di spunti, di Dorfles 116 né quelli di Barilli 117, che piuttosto affrontano problemi teorici o esaminano i fenomeni contemporanei da un punto di vista prevalentemente di buona informazione sull'attuale dibat tito semiotico. Più puntuali sono alcuni interventi di Cor rado Maltese 118, anche perché questi si dimostra partico larmente attento alle tecniche artistiche e ai loro procedi menti, mentre il saggio di Menna del '75 119 appare decisa mente valido ed efficace come paradigma interpretativo del l'arte contemporanea in generale, ma relativamente preoc cupato di indagare volta per volta sullo specifico dei segni costitutivi delle singole opere. Alla base di molta critica di ispirazione semiotica è, in ogni caso, il proposito di dare una spiegazione «oggettiva » e « scientifica» dei fatti artistici, talché le contestazioni di parte idealista a questa corrente si riducono sostanzialmente al timore di vedere intaccati concetti come quelli dell'ineffa bilità e dell'irripetibilità dei fenomeni artistici. Ma d'altro canto anche da alcuni studiosi marxisti le vengono mossi attacchi come quello di perseguire un approccio sterilmen te formalistico alle opere e quello di esser incapace di spie gare i1 « perché» delle stesse 120• In effetti però il rischio della destoricizzazione dei fatti artistici è corso solo da que gli studi strutturalisti che, nelle diverse analisi, sono portati a privilegiare il taglio sincronico rispetto a quello diacro nico e a ritenere le strutture non già dei modelli e delle ipo tesi strumentali, ma delle realtà «ontologiche» 121• Se dun58 que un rischio del genere è stato da tempo segnalato ed evi-
tato dalla parte più avvertita dei critici italiani 122, restano invece ancora da scrivere - e questa sl è davvero una man canza sempre più sentita - dei saggi non teorici, ma concre tamente rivolti all'esame di opere realizzate, nei quali la cri tica semiotica si fonda in modo non superficiale con la cri tica propriamente sociologica e con la critica semiologica di ispirazione marxista 123• Per gli studi di semiotica applicata - qualsiasi ne sia l'impostazione ideologica - di cui la critica italiana è an cora, come si è detto, scarsamente provvista e che ci si au gura possano venir a colmare quanto prima le carenze di cui finora essa ha sofferto, sarà in ogni caso utile tener conto di quanto, per la critica letteraria, ha recentemente osser vato Cesare Segre: Un atteggiamento e un'esperienza filolo gici sono indispensabili per affrontare lo studio dei codici e dei sistemi culturali, di testi e di contesti perché di fatto proprio l'atteggiamento filologico può (.] salvare la semio tica dal narcisismo della parola, dall'ebbrezza di fughe senza ritorno 124• Infatti, sotto l'unico denominatore della semio tica - che pure abbiamo vista esser per lo più animata da finalità 'scientifiche' - si ritrovano anche tendenze criti che opposte, di carattere, per così dire, irrazionalistico e soggettivistico. La Nouvelle Critique, ad esempio, è un pun to di riferimento imprescindibile per ogni critica avanzata ed aperta, ma ha anche contribuito ad introdurre pesanti equivoci. Quando infatti, sulla linea di Barthes, si ·giunge all'eliminazione della differenza tra opera e critica, in no me di un'unica attività, quella della « scrittura », e alla sop pressione di qualsiasi gerarchia dei significati di un testo, si aprono per il critico - sia letterario che d'arte - delle pro spettive tanto affascinanti quanto rischiose. A questo punto solo un atteggiamento correttamente filologico può evitare il pericolo di una caduta nel soggettivismo più sfrenato. Una volta di più quindi il recupero e la restituzione dell'opera d'arte alla storia si rendono necessari e si qualificano come operazioni imprescindibili tanto per chi si serve di un'unica metodologia, quanto per chi, in un progetto globalizzante, utilizza gli apporti di diverse discipline. 59
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1 L. GRASSI - M. PEPE, voce Conoscitore, in Dizionario della critica d'arte, Torino, U.T.E.T., 1978, p. 124, col. 2. 2 E. CASTEi.Nuovo, voce Attribution, in Encyclopaedia universalis, voi. II, Paris, Encyclopaedia universalis (Lahr, Kaufmann), 19702, p. 782, coli. 23. 3 Di A. Venturi bisogna ricordare almeno la Storia dell'arte ita liana, Milano, U. Hoepli, 1901-1940, voli. 25. 4 Di P. Toesca ricordiamo almeno: Il Medioevo, Torino, U.T.E.T., 1927, 2 voli.; Il Trecento, Torino, U.T.E.T., 1951; La pittura e la mi niatura nella Lombardia, Torino, Einaudi, 1966 (I ed., Milano, 1912). s A questo riguardo si veda: E. HUTIINGER, Pluralismo di stili nel l'opera di Roberto Longhi. Un tentativo di storiografia dell'arte, in e Paragone"• N. 311, 1976, p. 16. 6 R. LoNG!Il, Il Caravaggio e la sua cerchia a Milano, in Da Cima bue a Morandi. Saggi di storia della pittura italiana scelti e ordinati da Gianfranco Contini, Milano, Mondadori, 1973, pp. 883-884. 7 G. CoNTINI, Sul metodo di Roberto Longhi, in « Belfagòr"• IV. marzo 1949, pp. 205-210; ID., Altri Eserciti (1942-1971), Torino, Einaudi, 1972, p. 102 sgg. a E. HtlrnNGER, op. cit., ·p. 28. 9 ID., op. cit., p. 23. 10 Si rinvia perciò alla Bibliografia di Roberto Longhi, a cura di A. Boschetto, Firenze, Sansoni, 1973. 11 R. LoNGHI, Il Correggio e la Camera di San Paolo a Parma, Ge nova, SiglaEffe, 1956, p. 25. 12 ID., Proposte per una critica d'arte, in • Paragone" n. 1, 1950, p. 16. 13 ID., La 'fortuna storica ' di Piero della Francesca dal 1927 al 1962, in e Paragone "• n. 159, 1963, p. 21. 14 ID., op. cit., p. 14. IS Di E. CASTELNUOVO si vedano, ad es.: Un pittore italiano alla corte di Avignone. Matteo Giovannetti e la pittura in Provenza nel secolo XIV, Torino, Einaudi, 1962; Arte e rivoluzione industriale, in '«Paragone"• n. 237, 1969, ora nell'introduzione a F. D. KLINGENDER, Arte e rivoluzione industriale, tr. it., Torino, Einaudi, 1972; E. CASTELNUOVO e C. GINZBURG, Centro e periferia, in Storia dell'arte italiana, parte I, voi. I, a cura dì G. Previtali, Torino, Einaudi, 1978, pp. 285-352. 16 Di F. Bologna si vedano, fra gli altri saggi: La pittura italiana delle origini, Roma, Ed. Riuntiti, 1962; Novità su Giotto. Giotto al tem po della Cappella Perui.ti, Torino, Einaudi, 1969; Dalle arti minori al l'industriai design. Storia di un'ideologia, Bari, Laterza, 1972. 11 Di G. Previtali si vedano, ad es.: La fortuna dei primitivi. Dal Vasari ai neoclassici, Torino, Einaudi, 1964; La pittura del Cinque cento a Napoli e nel vicereame, Torino, Einaudi, 1978; Le periodi1.za1.ioni della storia -dell'arte italiana, in Storia dell'arte italiana, parte I, voi. I, a cura dello stesso, Torino, Einaudi, 1978, pp. 5-92. ia Cfr., ad es., F. ZERI, Pittura e controriforma, Torino, Einaudi, 1957 e 1970; Diari di lavoro, I, Bergamo, Emblema, 1971; Diari di la voro 2, Torino, Einaudi, 1976. 19 Cfr., ad es., G. BRIGANTI, La maniera italiana, Roma, Ed. Riuniti, 1961; I pittori dell'immaginario, Milano, Electa, 1977. 20 Cfr. F. ARCANGELI, Dal romanticismo all'informale, Torino, Einau di 1977 2 voll Su Arcangeli di fronte all'arte contemporanea si veda: R.' B.uui.u, Arcangeli e la contemporaneità, in «Paragone"• n. 317-319, 1976, pp. 266-276. 21 G. C. ARGAN, Prefazione a L. VENTURI, Il gusto dei primitivi, Torino, Einaudi, 1972, p. XVI.
22 L. VENTURI, Il gusto dei primitivi, ed. cit., p. 14. 23 G. C. ARGAN, voce Critica d'arte, in Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1975, voi. I, p. 1119, col. 2. 24 ID., Prefazione a L. VENTURI, op. cit., p. XVIII. 25 L. VENTURI, Storia della critica d'arte, Torino, Einaudi, 19663, p. 28 (I ed. it., Firenze, Edizioni U, 1945). 26 G. C. ARGAN, Prefazione a L. VENTURI, op. cii., p. XXV. 'Il ID., Ree. a L. VENTURI, Cézanne, Ginevra, Skira, 1979, in e L'Espres so •, n. 10, 11 marzo 1979, p. 117. 2! Si vedano, ad es., alcuni saggi (sui pittori futuristi, sulla scul tura di Boccioni, ecc.) contenuti negli Scritti giovanili, Firenze, San soni, 1961. 29 L. VENTURI, Come si comprende la pittura. Da Giotlo a Chagall, Torino, Einaudi, 1975 (I ed. in inglese 1945; I ed. it., LA PITTURA. Come si guarda un quadro. Da Giotto a Chagall, Roma, ed. Capriotti, 1947). JO M. MARANGONI, Come si guarda un quadro. Saggio di educazione del gusto sui capolavori degli «Uffizi"• Firenze, Vallecchi, 19722, com pletamente rimaneggiato e diventato poi: Come si guarda un quadro. Letlura del linguaggio -figurativo, Firenze, Vallecchi, 1948. 3I M. M. LAMBERTI, Nota introduttiva a L. VENTURI, op. cit., 1975, p. XVIII. 32 ID., Nota introduttiva cit., p. XIX. 33 Ibidem. � 'ID., Nota :introduttiva cit., pp. XXI-XXII. 35 G. C. ARGAN, La storia dell'arte, in « Storia dell'arte,. n. 1-2, 1963, p. 13. 36 ID., voce Critica d'arte, cit., p. 1117, col. 2. 37 ID., voce Critica d'arte, cit., p. 1115, col. l. 38 Ibidem. )I} Un'utile introduzione alla critica di C. L. Ragghianti, fino al 1956, è quella di G. BAGLIONI, La critica dello storicismo estetico: Carlo L. Ragghianti, Pisa, Libreria goliardica editrice, 1956. 40 C. L. RAGGHIANTI, Arti della visione. III: Il linguaggio artistico, Torino, Einaudi, 1979, p. 50. 41 Iii., Arti della visione. I: Cinema, Torino, Einaudi, 1975, p. 62. 42 ID., op. cit., 1975, p. 61. 43 Si veda il saggio Percorso e discorso (1975), in Op. cii., 1979, pp. 5-32. 44 Si veda, ad es., il saggio Lingua della critica e linguistica del l'arte (1966), in Op. cit., 1979, pp. 46-58. 45 Si veda, ad es., il saggio Semiologia, linguistica (1974), in Op. cit., 1979, p. 63: Francamente si resta sorpresi vedendo affermare come esl• genze o programmi da attuare quelle che per noi sono acquisizioni ben
salde dagli inizi almeno di questo secolo. 46 C. L. RAGGHIANTI, Capire l'arte col computer, in « Critica d'arte•, n. 160-162, 1978, pp. 3-13; ID., Lettura cibernetica delle opere d'arte (1964), in Op. cit., 1979, pp. 287-294. 47 C. L. .R,\GGHIANTI, op. cit., 1979, pp. 293-294. 43 Citiamo solo qualcuno degli importanti saggi di C. Brandi: Eli cona I. Carmine o della Pittura, Torino, Einaudi, 1962 (I ed., Firenze, Vallecchi, 1947); Elicona II. Celso o della Poesia, Torino, Einaudi, 1947; Elicona III-IV. Arcadio o della Scultura. Eliante o dell'Architet tura, Torino, Einaudi, 1956; Scritli sull'arte contemporanea, Torino, Einaudi, 1976; Teoria del restauro, Torino, Einaudi, 1977. 49 Si vedano almeno: L'architettura di S. Marco (origini e signi-
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ficato), Padova, Le Tre Venezie, 1946 e Lo spazio architettonico da Roma a Bisanzio, Bari, Dedalo, 1978. so Si vedano, tra gli altri saggi: Poetiche del «Realismo» e del l'« Irrealismo» nell'arte dei nostri giorni e Presenza dell'arte nella cultura contemporanea, entrambi in Arte e cultura contemporanea, a cura di P. Nardi, Firenze, Sansoni, 1964; Problemi di semiologia, in « Bollettino del Centro Internazionale di Studi d'Architettura Andrea Palladio», XI, 1969, pp. 319-337. 51 M. CALVESI, Per una iconologia come icono-logica, in AA. VV., Teoria e pratiche della critica d'arte, Atti del Convegno di Monteca tini - Maggio 1978, a cura di E. Mucci e P. L. Tazzi, Milano, Feltri� nelli, 1979, n. 47. 52 Sulle diverse tendenze dell'iconologismo e sui relativi problemi si veda la rassegna curata da chi scrive: Attualità dell'iconologia: al cune questioni metodologiche, in e Op. cit. », n. 35, 1976, pp. 23-47. 53 Di Battisti, che viene da una preparazione filosofica e che, dopo aver frequentato per alcuni anni Lionello Venturi, ha lavorato a lungo in America, ricordiamo almeno: Rinascimento e Barocco, Torino, Einau di, 1960 e L'antirinascimento, Milano, Feltrinelli, 1962. SI Di Salvatore Settis, docente di archeologia classica a Pisa, ma studioso anche di arte moderna, ricordiamo: La «Tempesta,. inter pretata, Torino, Einaudi, 1978. 55 M. Muraro è stato allievo di G. Fiocco e di E. Panofsky, mentre L. Puppi è stato allievo di S. Bettini. 56 I saggi iconologici di Calvesi sono ormai parecchi ed abbrac- · ciano un arco di tempo che va dal Rinascimento all'età contempora nea; basterà citarne alcuni particolarmente significativi: M. CAL \'ESI, Saggio introduttivo all'ed. it. di H. FocILLON, Piranesi, Bologna, A!pha, 1967; A noir (Melancolia I), in « Storia dell'arte• n. 1/2, 1969, pp. 37-96; La morte di bacio. Saggio sull'ermetismo di Giorgione, in e Storia dell'arte», n. 7/8, 1970, pp. 179-233; Duchamp invisibile. La co struzione del simbolo, Roma, Officina, 1975; Iconologia dell'astrattismo, in M. BoNEI.LI, Astrattismo e costruttivismo, Milano, Fabbri, 19TT; Essendo dati 1) la fame 2) il sesso, in Avanguardia di massa, Milano, Feltrinelli, 1978. si Su questa linea, di M. Fagiolo, si vedano, ad es., Il Parmigia nino. Un saggio sull'ermetismo nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1970 e, per l'arte contemporanea, la monografia su Picabia, Milano, Fab bri, 1976. 58 E. PANOFSKY, Iconografia e iconologia. Introduzione allo studio dell'arte del Rinascimento, in Il significato nelle arti visive, tr. it., To rino, Einaudi, 1962, p. 37. 59 J. L. ScHEFER, Scénographie d'un tableau, Paris, Seuil, 1969 (tr. it., Roma, Ubaldini, 1973). tlJ Editoriale Pro memoria, in « Psicon », n. 1, 1974, p. 3. 61 G. C. ARGAN, Iconologia, psicanalisi e metodo marxiano, in « Psi con », n. 1, 1974, p. 10. 62 ID., voce Critica d'arte, cit., p. 1120, col. 2. 63 Prevenzioni nei confronti dell'iconologia si trovano ad es. anche che in C. L. RAGGHIANTI, op. cit., 1979 (cfr. i saggi: Iconografia e arte, 1957 pp. 303-311, e Warburg retrospettivo, 1970, pp. 340-345). 64 M. CALVESI, op. cit., 1979, p. 48. Un atteggiamento per certi aspetti riconducibile al secondo tipo di anti-iconologismo indicato da Calvesi è riscontrabile anche in F. Bologna, I metodi di studio dell'arte ita liana e il problema metodologico oggi, in Storia dell'arte italiana, To rino, Einaudi, 1978, parte I, voi. I, specialmente pp. 253-260 e pp. 270-273. 65 M. CALVESI, op. cit., 1979, p. 49.
66 Io., op. cit., 1979, p. 52. Ibidem. 68 Ibidem. M F. B0UlGNA, op. cit., 1978, pp. 270-271. 10 Cfr. R. PICARO, Nouvelle critique ou nouvelle imposture, Paris, Pauvert, 1965 e R. BARTHES, Critique et vérité, Paris, Seuil, 1966, (tr. it., Torino, Einaudi, 1969). Un richiamo alla polemica Picard-Barthes è anche in M. CALVESI, op cit., 1979, p. SI. 71 Su questa linea cfr. U. Eco, Opera aperta, Milano, Bompiani, 1962. 72 F. FoRNARI, Coinema e icona. Nuova proposta per la psicoanalisi dell'arte, con un'introduzione di F. Menna, Milano, il Saggiatore, 1979. 73 Un'eccezione - sempre che si voglia batter l'accento sulle pro pensioni psicoanalitiche anziché su altre componenti della sua pratica della critica d'arte - è rappresentata da Achille Bonito Oliva, critico militante e docente di « Istituzioni di storia dell'arte• all'Università di Roma. 74 Cfr. C. CALLEGARIS, Il quadro e la cornice, Bari, Dedalo, 1975. 75 Si vedano ad es. i contributi raccolti nel n. 9 del gennaio 1979 di «Ve!», collana-rivista di psicanalisi diretta da A. Verdiglione, con tenente i materiali del Convegno Internazionale di Psicanalisi (« Del l'arte... i bordi ») tenutosi a Milano dal 23 al 25 novembre 1978, e AA. VV., L'arte, la psicanalisi a cura di A. Verdiglione, Milano, Feltri nelli, 1979, raccolta di saggi dello stesso Convegno (saggi del Convegno succitato anche in « Spirali », n. 2, novembre 1978). 76 G. C. ARGAN, voce Critica d'arte, cit., p. 1120, col. 2. 77 G. DELLA VOLPE, Critica del gusto, Milano, Feltrinelli, 19663 (I ed. 1960), p. IX. 1s Io., op. cit., p. 7. 79 Di Maltese qui citiamo almeno la Storia dell'arte italiana (17851943), Torino, Einaudi, 1970. 80 Citiamo soltanto: L. BENEVOLO, Le origini dell'urbanistica mo derna, Bari, Laterza, 1964; L'architettura della città nell'Italia contem poranea, Bari, Laterza, 1968; Storia dell'architettura del Rinascime11to, Bari, Laterza, 1968; Le avventure della città, Bari, Laterza, 1973. 81 Di M. Tafuri si vedano almeno: Teorie e storia dell'architettura, Bari, Laterza, 1968; L'architettura dell'umanesimo, Bari, Laterza, 1969; Progetto e utopia, Bari, Laterza, 1973. 82 Tra gli altri saggi di M. Manieri Elia si vedano: William Morris e l'ideologia dell'architettura moderna, Bari, Laterza, 1976; Città e la voro intellettuale dal IX al XVIII secolo, in AA. VV., Storia dell'arte Italiana, parte I, voi. I, Torino, Einaudi, 1978. 8J Di A. Del Guercio si veda almeno: Conflittualità dell'arte mo derna, Roma, Ed. Riuniti, 1976. 84 F. Pou, Produzione artistica e mercato, Torino, Einaudi, 1975. 85 G. P. PRANDSTRALLER, Arte come professione, Venezia - Padova, Mar silio, 1974. 86 Tra questi: A. EMILIANI, Una politica dei beni culturali, Torino, Einaudi, 1974. lf1 F. BoUlGNA, Dalle arti minori all'industriai design, cit. ss Per i saggi di Bologna, Previtali e Castelnuovo cfr. rispettiva mente le note: 14, 13, 15. 89 E. CASTELNUOVO, Per una storia sociale dell'arte, parte I, in e Pa ragone», n. 313, 1976, pp. 3-30; parte II, in « Paragone», n. 323, 19n, pp, 3-34. Per problemi e bibliografia relativi alla sociologia dell'arte si veda anche: S. Lux, Appunti bibliografici sulla sociologia dell'arte, in « Critica sociologica », nn. 29, 31, 32, 1974-'75. 67
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!IO E. CASTELNUOVO, op. cii., 1976, p. 8. 91 Io., op. cit., 1976, pp. 8-9. 92 Io., op. cit., 1977, p. 15. 93 E. PANOFSKY, Suger abate di Saint-Denis, in Il significato nelle arti visive, cit. 94 Io., Gothic Architecture and Scholasticism, Latrobe, Pa., 1951. 9S M. BAXANOALL, Pittura ed esperienze sociali nell'Italia del Quat trocento, tr. it., Torino, Einaudi, 1978. 96 Cfr. C. GrnzsuRG, Tiziano, Ovidio e i codici della figurazione ero tica nel '500, relazione presentata al Convegno su Tiziano organizzato dall'Università di Venezia nell'ottobre 1976. 'TI E. CASTELNUOVO, op. cit., 1977, p. 19. 9& Secondo le indicazioni date da P. Bordieu nel saggio Champ intellectuel et projet créateur, in • Les Temps Modernes », 1966, II. 99 E. CASTELNUOVO, op. cit., 1977, p. 20. 100 M. TAFURI, op. cit., 1968; op. cit., 1969; op. cit., 1973. 101 E. CASTELNUOVO, op. cit., 1977, p. 24. 102 Ibidem. 103 F. BOLOGNA, op. cii., 1978. 104 Cfr. S. BETTINI, Critica semantica e continuità storica dell'ar chitettura europea, in • Zodiac "• n. 2, 1958. IQS G. DELLA VOLPE, op. cit. 106 Si vedano almeno: U. Eco, La struttura assente, Milano, Bom piani, 1968; Le forme del contenuto, Milano, Bompiani, 1971; Trattato di semiotica generale, Milano, Bornpiani, 1975 101 Si vedano: E. GARRONI, Semiotica ed estetica, Bari, Laterza, 1968; Progetto di semiotica, Bari, Laterza, 1973; Ricognizione della se miotica, Roma, Officina, 1977. 108 Sulle posizioni di Brandi, si vedano in questa rivista: R. DE Fusco, Tre contributi alla semiologia architettonica, nel n. 12, 1968 e M. L. SCALVINI, Ree. a Teoria generale della critica, nel n. 32, 1975. 10'1 Per una rassegna sugli approcci semiotici all'architettura, in Italia, cfr. F. IRACE, Le posizioni di [... ] su alcuni temi della critica ar chitettonica in Italia, in « Op. cit. •, n. 39, 1977. 110 R. DE Fusco, Architettura come mass-medium, Bari, Dedalo, 1967. lii Io., Il codice dell'architettura. Antologia dei trattatisti, Napoli, E.S.I., 1968. 112 Si vedano almeno: R. DE Fusco, Segni, storia e progetto dell'ar chitettura, Bari, Later7.a, 1973; R. DE Fusco - R. VINOGRAD, Nota sul se gno urbanistico, in « Op. cit. •• n. 32, 1975; R. DE Fusco, La riduzione culturale, Bari, Dedalo, 1976. lt.1 Cfr. M. L. SCALVINI, L'architettura come semiotica connotativa, Milano, Bompiani, 1975. 114 Cfr. M. TAFURI, op. cit., 1968 e op. cit., 1973. 11 5 J. L. SCHEFER, op. cit. 116 Fra i numerosi contributi ricordiamo soltanto: G. DoRFLES, Simbolo, comunicazione, consumo, Torino, Einaudi, 1962; Dal signifi cato alle scelte, Torino, Einaudi, 1974; Il divenire della critica, Torino, Einaudi, 1976. 117 Di R. BARIIJ.I si veda Tra presenza e assenza. Due modelli cul turali in conflitto, Milano, Bompiani, 1974. 118 c. MALTESE, Semiologia del messaggio oggettuale, Milano, Mur sia, 1970; Per uno studio sperimentale e logico dei linguaggi non ver bali, Genova, 1977. 11 9 F. M.ENNA, La linea analitica dell'arte moderna. ·1.,e figure e le 64 icone, Torino, Einaudi, 1975.
120 Cfr., ad es., M. TAFURI, op. cit., 1973, passim. 121 Per la differenza tra strutturalismo metodologico e struttura lismo ontologico cfr. U. Eco, op. cit., 1968, specialmente pp. 259-380. 122 Cfr., ad es., le posizioni assunte rispettivamente da G. C. Argan in AA. VV., Strutturalismo e critica, a cura di C. Segre nel Catalogo generale de il Saggiatore, Milano, 1965 e da R. De Fusco in Storia e struttura, Napoli, E.S.I., 1970. 123 Scudi di questo tipo sarebbero senz'altro possibili, come in altra occasione abbiamo sostenuto e cercato di dimostrare (rassegna cit. alla nota 52). 124 C. SEGRE , Semiotica filologica. Testo e modelli culturali, Torino, Einaudi, 1979, p. 6.
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L'immaginario nella cultura di massa AGATA PIROMALLO GAMBARDELLA
I) Definizione di immaginario
Nella cultura contemporanea il termine immaginazione o immaginario ha subito un profondo mutamento rispetto al suo significato tradizionale, e ciò soprattutto per due ra gioni: a) si è notevolmente allargato l'ambito culturale nel quale tale concetto può trovare possibilità di applicazione: dalla antropologia culturale alla psicanalisi, dalla sociologia alla pratica politica, dalla critica storica alle scienze del l'educazione; b) causa e nello stesso tempo conseguenza del la ragione precedente, ci si è resi gradatamente conto che, da un lato, molti fenomeni culturali non potevano essere più interpretati secondo la logica del metodo razionale e, dall'altro, che l'attività «immaginatrice» poteva essere con siderata come una forma di conoscenza diversa ma non per questo meno efficace di quella razionale. Ciò che tuttavia vorremmo mettere in rilievo è il fatto che il termine «immaginario» tende ad essere usato sem pre più frequentemente, almeno in determinati ambiti, del termine «immaginazione» e ciò, a nostro avviso, non senza ragione. A livello della cultura codificata, il termine cui si fa ufficialmente riferimento è quello di immaginazione. Nel l'Enciclopedia Treccani, ad esempio, il termine immaginario compare solamente riferito all'ambito della matematica do ve sono definiti appunto «immaginari» i numeri non cor rispondenti a grandezze reali; e nella più recente ed ammo66 de rnata Enciclopedia Einaudi, accanto alla voce immagina-
zione tout-court, compare l'altra di immaginazione sociale, distinzione che, per taluni aspetti, potrebbe già preludere a qualcuna delle differenze che noi vorremmo avanzare tra i termini immaginazione e immaginario in quanto, non a ca so, soltanto nella voce « immaginazione sociale» compare molto frequentemente il termine «immaginario», anche se non ancora distinto dal primo. Da una definizione generica come possibilità di evocare o produrre immagini indipendentemente dalla presenza del l'oggetto a cui si riferiscono 1, l'immaginazione viene a defi nirsi in campo più specificamente psicologico come attività creativa fondata sulle facoltà combinatorie del nostro cer vello 2; essa cioè si configura soprattutto come una modalità di produzione intellettuale sui generis che tende ad allar gare la percezione del reale e ad oltrepassare i limiti impo sti: dalle coordinate spazio-temporali, in funzione di una messa in scena interiore - per dirla con Mallarmé - che spesso si concretizza in quel prodotto privilegiato che è l'opera d'arte o in quel momento ugualmente privilegiato che è la fruizione della medesima. Se tuttavia nell'ambito della psicologia l'immaginazione appare saldamente collegata alla realtà - pur nel suo pro cesso di trasfigurazione e di rielaborazione - perché è solo dall'esperienza totale e profonda di questa che essa può trar re alimento e slancio, nell'ambito più specificamente esteti co-filosofico l'immaginazione tende talvolta a diventare il vei colo di fuga della realtà da parte di un soggetto che si pone sempre più come conscience imageante. Basti pensare al l'esperienza del Surrealismo, soprattutto nella versione di Breton, in cui la realtà si pone come nostalgia e aspirazione - la Surréalité, appunto - verso cui l'immaginazione tende, essendo essa, al di qua dell'unità non realizzata, soltanto ir realtà, vuoto, mancanza. Una posizione particolarmente stimolante è quella assunta da Bachelard: anche nel suo caso l'immaginazione è so prattutto una fonction de l'irréel, nel senso di creazione di un'altra realtà, o potremmo anche dire di una surrealtà. On veut toujours que l'imagination soit la faculté de « former »
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des hnages. Or elle est plutot la faculté de « déformer » les hnages fournles par la perception, elle est surtout la faculté de nous libérer des images premières, de « changer » les hnages. S'il n'y a pas changement d'images, union inatten due des images, il n'y a pas d'i.magination, il n'y a pas « d'action imaginante » 3• Fin qui l'immaginazione. Per quanto riguarda il termine immaginario, poiché esso, come abbiamo già rilevato, è presente soprattutto in ambiti disciplinari diversi, il suo significato, da un lato, appare so prattutto applicabile a settori dove la dimensione sociale gioca un ruolo preponderante, dall'altro, sembra richiamarsi alle istanze istintuali più profonde dell'individuo e quindi più difficilmente controllabili. Immaginazione e immaginario vengono ancora usati in maniera pressoché intercambiabile, tuttavia già nello stesso Bachelard comincia a delinearsi, al di là di una generica identità, una sottile differenziazione che gli permette di sta bilire una delle caratteristiche peculiari dell'immaginario e cioè il suo completo sganciamento da ogni forma di realtà e la sua totale apertura verso tutto ciò che è nuovo. La voca ble fondamenta! qui correspond à l'imagination, ce n'est pas « image», c'est « imaginaire». La valeur d'une image se me sure à l'étendue de son auréole « imaginaire». Grace à l'« ima ginaire», l'imagination est essentiellement « ouverte», « éva slve». Elle est dans le psycblsme humain l'expérlence meme de l'« ouverture», l'expérlence meme de la « nouveauté»... Inversement, une lmage qui quitte son principe « lmagi nalre» et qui se fixe dans une forme definitive prend peu à peu les caractères de la perception présente. Blentòt, au lieu de nous faire rever et parler, elle nous fait agir. Autant dire qu'une i.mage stable et achevée « coupe les alles» à l'lmagi• nation... Sans doute, en sa vie prodlgieuse, l'imaginaire dé pose des images, mais il se présente toujours comme un au delà de ses lmages, il est toujours un peu plus que ses ima ges 4. I caratteri di ouverture e nouveauté sono ovviamente col legati ad una visione dinamica dell'immaginario e potremmo 68 dire anche costruttiva, nel senso che rever e parler non sono
azioni prive di senso ma momenti instaurativi di qn nuovo rapporto con le cose e con il mondo, momenti attraverso i quali l'uomo entra in un intimo e armonioso contatto con gli elementi costitutivi della realtà: il fuoco, l'aria, l'acqua e la terra. Infatti la « reverie » bachelardiana - sogno ad occhi aperti - è lontana dal sogno come è stato studiato da Freud, per il quale esso è soltanto una manifestazione del l'inconscio attraverso un simbolismo la cui funzione è pre valentemente quella di essere decifrato e non comporta quin di nessuna creazione di nuovi sensi. D'altra parte, il discorso di Bachelard si muove in un ambito (quello estetico-filosofico) in cui un discorso sull'im maginario e/o sull'immaginazione trova una sua collocazio ne ancora di tipo tradizionale. È nel momento in cui il pro blema dell'immaginario diventa di pertinenza di altri settori disciplinari che il suo significato comincia a divergere, a no stro avviso, dal termine tradizionale di immaginazione e ad assumere un ruolo e una funzione particolarmente signifi cativi ai fini di una valutazione. globale del nostro tipo di civiltà. Ritorniamo alla distinzione tra immaginazione e imma ginazione sociale. È infatti nell'ambito di quest'ultima che l'immaginario comincia ad assumere un significato che non è più collegato ad un bisogno di creare qualcosa di nuovo, ma piuttosto di deformare ( e qui concordiamo con Bache lard) il dato reale per giungere comunque ad un tipo di co struzione simbolica che non abbia soltanto una funzione di fuga o di evasione ma serva per agganciare, in un modo o in un altro, quello stesso reale a una domanda di soddisfazione di bisogni o di realizzazione di desideri il cui carattere inconscio non può non esplicarsi se non attraverso forme privile giate di espressione. Pensiamo, ad esempio, al mito 5• È proprio qui che l'immaginario, nel senso nel quale adesso vogliamo intenderlo, trova una delle sue esplicazioni più significative. Infatti, se, da un lato, il mito è un prodotto sociale e ha come funzione principale quella di salvaguardare lo status quo, dall'altro, esso si pone come momento risolutore e pa cificatore dei grandi conflitti che agitano l'individuo in quan-
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to gli eventi e la loro rappresentazione vengono vissuti da lui in maniera indifferenziata e con la medesima partecipa zione « sacrale», nel tentativo di ricostrnire un'integrazione con le cose che gli permetta di colmare la distanza fra sé e l'universo della natura 6, tutto ciò attraverso un processo di simbolizzazione che trova nel rito il suo momento culmi nante. Onde la profonda ambiguità del mito che si presenta come evento manipolatore dell'immaginario collettivo, come potere reale di coesione del gruppo, e, contemporaneamente, da strumento si trasforma in esigenza che ha le sue radici nel senso di una fondamentale e insopprimibile « solidarietà di vita », vigente di là dalla molteplice varietà delle singole forme 7• L'esempio del mito ci mostra le numerose valenze impli cite nel termine immaginario e soprattutto due elementi mol to importanti: a) la profonda implicazione dell'immaginario nella realtà sociale ed individuale per cui l'analisi di molti fenomeni risulterebbe incomprensibile se non si facesse ri corso ai meccanismi che sottostanno al funzionamento di questo immaginario; b) la possibilità di manipolazione del l'immaginario ((collettivo). Per spiegare il motivo per cui ciò avviene, bisogna indirizzare la nostra attenzione quasi esclu sivamente sull'attributo « collettivo ». A livello di immagi nazione individuale (e qui usiamo volutamente il termine « immaginazione ») ciò non sarebbe possibile, o per lo meno in forma molto limitata, perché la manipolazione ha luogo solo quando i due termini in gioco (manipolatore e manipo lato) fanno riferimento allo stesso sistema simbolico che articola un immaginario comune su cui il manipolatore (ca sta sacerdotale, potere monarchico, potere statale, giù giù fino all'industria culturale) può far leva. Ai fini di una più approfondita comprensione della pre senza di un immaginario comune potremmo far ricorso alle grandi immagini « originarie » o archetipi che, usando le pa role di Jung, sono le forme di rappresentazione più antiche e più generali dell'umanità 8, la cui origine non è spiegabile se non supponendo che sono sedimenti di esperienze sempre ripetute dall'umanità 9• Tuttavia ciò che appare più interes70
sante della teoria junghiana, ai fini del nostro discorso, è la precisazione che gli archetipi non sono soltanto... impronte di esperienze tipiche sempre ripetute, ma al tempo stesso si comportano anche empiricamente come forze o tendenze a ripetere le stesse esperienze 10• Ed è questa tendenza alla ripetitività che gioca un ruolo fondamentale circa le possi bilità di manipolazione dell'immaginario. Si potrebbe far ri ferimento anche a quel che Fromm indica come «simbolo universale» (cioè comune a tutti gli uomini) che è l'unico in cui la relazione fra il simbolo e ciò che viene simbolizzato non è coincidente ma intrinseca. Essa è radicata nell'espe rienza dell'affinità esistente fra un'emozione o un pensiero da una parte e un'esperienza sensoriale dall'altra... II sim bolo universale è radicato nelle facoltà del nostro organismo, nei nostri sensi e nella nostra mente, che sono comuni a tutti gli uomini e non limitati a determinati individui o a deter minati gruppi 11• Se l'esistenza degli archetipi, da un lato, e dei simboli universali, dall'altro, (la cui funzione nel definire i medesimi significati tende a sovrapporsi) serve a spiegare perché l'im maginario collettivo possa essere manipolato, bisogna an che tener presente che, nel passaggio dalle società antiche o « primitive » a quelle moderne, le tecniche di maneggia mento degli immaginari sociall 12 si rafforzano e ciò per due motivi: sia perché si differenziano in quanto cominciano ad applicarsi a realtà socio-culturali diversificate, sia perché, conseguentemente, si deritualizzano, nel senso che non pos sono più continuare a far riferimento ad un apparato mitico comune. Accanto ad un immaginario «archetipico » viene a so vrapporsene un altro più legato alla storia e all'esperienza dei · singoli gruppi; accanto ai simboli universali si sviluppano sempre di più quelli «pubblici», intendendo con tale ter mine quelli che contribuiscono alla coesione del gruppo so ciale facendo leva su un sistema cli valori condivisi, stratifi catisi nel tempo attraverso vicende di ordine storico e cul turale. Ciò non vuol dire che i simboli su cui poggiano le civiltà arcaiche non siano anch'essi pubblici, ma qui voglia- 71
mo sottolineare soprattutto la necessità, da parte di un po tere che diventa sempre più definito, di ancorare l'immagi nario a referenti più precisi e più facilmente evidenziabili. Se insistiamo tanto sul ruolo che ha il potere nella esplici tazione dell'immaginario simbolico è perché condividiamo la posizione di alcuni antropologi (come, ad esempio, quella di Abner Cohen, riportata da Firth) secondo cui poiché quasi tutto il comportamento sociale ha una dimensione di potere, la simbolizzazione del rapporti di potere è un tratto estre mamente importante della vita sociale u. Nel momento in cui ciò comincia ad essere recepito con chiara consapevolezza ha inizio il lungo cammino storico che conduce dai miti con implicazioni ideologiche a ideologie che nascondevano una parte dei miti secolari 14_ Non a caso abbiamo voluto accennare all'ideologia, per ché è soprattutto in questo ambito che l'immaginario col re lativo simbolismo che ne è, ad un tempo, opera e strumento 15
rivela la sua doppia natura di irrealtà e di necessità. Infatti l'ideologia, fattore «reale » dei conflitti sociali... opera per il tramite dell'« irreale», delle rappresentazioni che essa fa in . tervenire 16, cioè per il tramite dell'immaginario, che la conditio sine qua non sia del porsi dell'ideologia, sia del suo funzionamento attivo. Infatti in essa gli uomini esprimono non i loro rapporti con le loro condizioni di esistenza, ma il «modo» in cui vivono i loro rapporti con le loro condi ilòni di esistenza, la qual cosa suppone al tempo stesso un rapporto reale e un rapporto... «bnmaginarlo »... rapporto che «esprime» più una «volontà» (conservatrice, confor mista, riformista o rivoluzionaria), e persino una speranza o una nostalgia, di quanto non descriva una realtà;.• · l'ideo logia rinforza o modifica il rapporto che gli uomini 'hanno con le loro condizioni di esistenza, entro questo rapporto immaginario stesso. Ne consegue che questa azione non può mal essere prettamente «strumentale» 17• Da ciò si evincerebbe che i processi di manipolazione non riescono mai ad essere totali: infatti, se è vero, da un lato, che i rapporti di potere influenzano i meccanismi che deter72 minano· l'immaginario, dall'altro, è vero anche il contrario
soprattutto perché il rapporto immaginario non è mai esat tamente prevedibile, poggiando in gran parte sull'inconscio. D'altronde, è pur vero che il dispositivo immaginario assi cura a un gruppo sociale sia uno schema collettivo d'inter pretazione delle esperienze individuali, tanto complesse quan to varie, sia la codificazione delle attese e delle speranze 1s, per cui esso finirebbe col comportarsi come uno stereotipo. A questo punto l'immaginario si presenta come un valore statico, contrapposto quindi alla mobilità e alla dinamicità dell'immaginazione. Ma, a parte le sue radici nell'inconscio che lo rendono instabile e pertanto suscettibile di modifica zione, esiste l'effettiva complessità di una realtà sempre più articolata che, contrariamente a quanto avviene nelle società primitive, deve confrontarsi con più sistemi simbolici la cui interrelazione è difficilmente controllabile. Inoltre, i simboli su cui l'immaginario poggia sono in parte universali o pub blici ma in parte anche privati o, per dirla con Fromm, « ac cidentali», nel senso che non esiste alcuna relazione intrin seca fra il simbolo e ciò che esso simbolizza 19• Tra questi diversi tipi di simboli non sussistono compartimenti stagni · per cui l'irruzione del privato nel pubblico è sempre possi bile e pertanto sempre temuta. Infatti, ogni tentativo di tra durre il simbolismo privato in simbolismo pubblico può met tere in tensione il corpo sociale; può significare organizza zione, mobilitazione di risorse, reazioni alle strutture politi che e sociali vigenti 20• II) Le origini dell'immaginario
Se problematica appare la definizione dell'immaginario, ancora più problematico si presenta un discorso sulle sue origini. Cominciamo col dire che qui entrano in gioco due livelli di analisi: quello antropologico culturale e l'altro psi coanalitico che poi finiscono anche con l'intrecciarsi ed il sovrapporsi, creando un rimando continuo tra i due livelli per cui non è facile stabilire quanto è più facilmente ascri vibile alla esperienza psicoanalitica e quanto invece è radicato soprattutto in una dimensione antropologica. 73
Per quanto riguarda il primo livello, particolarmente con vincente appare la tesi di Morin secondo cui l'immaginario fa irruzione nell'universo dell'homo sapiens quando questi comincia a dare sepoltura ai suoi morti. Il sorgere di questo rituale, infatti, sta ad indicare che l'uomo, travolto in un primo momento dall'angoscia della morte vissuta come ca tastrofe irreparabile, successivamente la rifiuta nel senso che la vive come trasformazione da uno stato ad un altro, da una vita ad un'altra, per cui la sepoltura acquista il doppio signi ficato di conservazione e sopravvivenza dei morti fra i vivi e di ritorno alla terra come premessa ad una futura rinascita, analogamente a quanto avviene a livello del mondo vegetale in cui non esiste la morte ma soltanto un alternarsi ciclico di medesimi eventi. Ciò significa però che sapiens non potrà più avere una percezione unitaria del reale perché esso gli ap parirà scisso in due momenti, uno dei quali è quello del l'immaginario in cui egli scaricherà, attraverso l'illusione del l'immortalità, l'ansia particolare che lo attanaglia dinnanzi alla morte.
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Infatti, l'irruzione di quest'ultima per sapiens è contem poraneamente l'irruzione di una verità e di un'illusione, l'ir ruzione di un chiarimento e del mito, l'irruzione di un'ansia e di una fiducia in se stesso, l'irruzione di una conoscenza oggettiva e di una nuova soggettività, e soprattutto il loro le game ambiguo. È un nuovo sviluppo dell'individualità e l'aprirsi di una spaccatura antropologica 21• L'illusione della sopravvivenza comporta l'accettazione di uno sdoppiamento: l'uomo che sopravvive o che rinasce co stituisce il « doppio • rispetto all'uomo concreto che muore e viene sepolto. Ed è ancora la consapevolezza, o meglio il mito, del doppio che si trova alla base della comparsa dei segni pittorici nei quali, come osserva Morin, più che la nascita dell'arte, bisogna leggere la seconda nascita di sapiens. L'immagine raffigurata significa essenzialmente la presenza del doppio dell'essere rappresentato e permette, attraverso questo intermediario, di agire su questo essere 22• Ciò caratterizza fortemente il rituale magico dell'homo sapiens che è ormai indirizzato non soltanto direttamente agli
esseri dai quali egli attende una risposta, ma anche alle hn
magini
i simboli, i quali si suppone localizzino in sé, in certo modo, il doppio dell'essere che rappresentano 23•
un
Si tratta ovviamente sempre di un rapporto immaginario con il mondo nel quale, però, a un certo punto, l'uomo cerca di mettere ordine tra rappresentazioni pittoriche e imma gini mentali, ricorrendo al mito e alla magia che sono una organizzazione ideologica e pratica del rapporto immagina rlo col mondo. Scopriamo dunque che immagine, mito, rito, magia sono fenomeni fondamentali, legati alla nascita del l'uomo immaginarlo 24 • Che, si badi bene, non è ancora l'uo
mo « estetico », il quale comincerà a delinearsi quando non sarà più l'immagine-percezione o l'immagine-ricordo a sug gerire le opere figurative, ma bensì un'attitudine nuova, più specificamente creatrice, che consisterà nell'inventare nuove forme e nuovi esseri emergenti dal sogno, dal piacere, dal desiderio. Tuttavia, alla nascita dell'uomo immaginario si lega indissolubilmente quella dell'uomo dotato di immagi nazione 25.
Questa importante conclusione di Morin ci interessa an che per la distinzione dei due livelli - dell'immaginario e dell'immaginazione - da lui operata. Anche se intrinseca mente collegati nel definire la fisionomia dell'uomo e del suo fare, il primo sorge dal terrore della fine, da una mancanza che potremmo definire di tipo esistenziale e si esplica in for me (immagine, mito, rito, magia) che servono soprattutto a stabilire.un rapporto con la realtà ad un livello ·che sembre rebbe antitetico ad essa ma in effetti è soltanto speculare, così come l'ombra rispetto al corpo, in bilico tra consapevo lezza ed inconsapevolezza, tra bisogno di ancoraggio e desi derio di evasione. Laddove l'immaginazione creativa nasce · da una situazione di pienezza emotiva e di tensione intellet tuale e si pone nei riguardi della realtà come momento di totale superamento, di reale alternativa, almeno a livello formale. Il rifiuto della morte nel mondo arcaico è dimostrato anche da Cassirer il quale insiste sul sentimento dell'indistrut tibile unità della vita, talmente forte presso il primitivo da 75
fargli negare la realtà della morte. Secondo· il modo primi tivo di vedere, la morte non è un fenomeno naturale deter minato da una legge generale. Il suo intervenire non è ine luttabile ma accidentale... In un certo modo, in tutto il pen• siero mitico si può... rilevare una continua e ostinata nega zione del fenomeno della morte 26• Il problema del « doppio» come momento privilegiato del costituirsi dell'immaginario lo ritroviamo, a livello psico analitico, nella « fase dello specchio» descritta da Lacan e nel tema del « perturbante» di cui parla Freud. Nel primo caso, attraverso la sua immagine riprodotta nello specchio, il bambino prende coscienza del proprio corpo come ·« tota lità unitaria», laddove in una fase precedente esso· veniva percepito angosciosamente come disgregazione e dispersio ne delle membra. Tuttavia questa percezione della ricom posizione egli la vive soprattutto come identificazione con un'immagine che è pur sempre àltro da lui. Benché questa fase rappresenti un passo decisivo verso la strutturazione dell'Io, è qui che, secondo Lacan, verrebbe a crearsi ·n « no do immaginario» in quanto il bambino si identifica con que sta immagine, che non è la « sua » immagine e tuttavia gli permette di riconoscersi n. L'immaginario viene quindi a porsi nel momento in cui il bambino si pone come « dop pio », sfuggendo alle varie immagini di castrazione, evirazio ne, mutilazione, smembramento. Cioè l'immaginario sorge da una mancanza e pertanto non s'identifica del tutto con l'illusorio. Se l'immaginario è dovunque e ci dà dovunque segno della sua esistenza, può esprimersi solo nella misura in cui passa attraverso la catena significante e la funzione simbolica... La fase dello specchio ci fornisce il criterio di scriminante fra l'immaginario e il simbolico mostrando che dietro la scena immaginaria dello specchio e il riconoscimen to che si realizza nella forma del corpo anticipata come « Gestalt », si delinea la catena simbolica e l'ombra del· terzo personaggio che, come dimostra Lacan, potrebbe essere la morte stessa 2B. :e, interessante notare, a questo punto, là posizione ·assunta di recente da Baudrillard per cui il simbolico è dapper76
tutto ciò che mette fine a questo incantesimo reciproco del reale e dell'immaginario 29• In altri termini, per il sociologo francese tutto il nostro. universo è articolato attraverso di sgiunzioni: uomo/natura, maschile/femminile, vita/morte, ecc., nelle quali l'un termine costituisce l'immaginario ri spetto all'altro. Quindi l'immaginario, rispetto alla dicoto mia vita/morte, non sarebbe più il tentativo di esorcizzare quest'ultima attraverso un'organizzazione simbolica che dia all'uomo l'illusione della sopravvivenza, ma è il prezzo che paghiamo per la « realtà » di questa vita, per viverla come valore positivo... la morte è il nostro immaginario 30• Soltan to il simbolico può mettere fine a questa strutura dicotomi ca in quanto esso è un atto di scambio e un rapporto sociale che mette fine al reale, che risolve il reale, e, allo stesso tempo, l'opposizione tra il reale e l'immaginario 31• Per quanto riguarda il tema del « perturbante ,., esso vie ne analizzato da Freud in un primo momento in relazione all'analisi di due racconti di Hoffman, che tuttavia servono da spunto per mostrare come il perturbante (quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare 32, definizione che peraltro Freud non ritiene esaustiva) trova il suo significato più autentico nel motivo del « sosia » ( cioè il e doppio ,.). Tale motivo consi ste soprattutto nella comparsa di personaggi che, avendo uguale aspetto, debbono venire considerati identici... sono l'identificazione con un'altra persona sl da dubitare del pro prio Io o da sostituire al proprio Io quello estraneo, e quin di UD raddoppiamento dell'Io, una suddivisione dell'Io, UDO scambio dell'Io 33• Ciò che a noi interessa sottolineare è il parallelismo esi stente tra il motivo del « doppio », come matrice dell'imma ginario e fonte di rassicurazione, e il motivo del « sosia », come elemento di « perturbazione » ma, nello stesso tempo, anche di spinta alla creazione della finzione poetica. Tutta via, questo aspetto del perturbante legato alla creazione ar tistica costituisce un problema a parte. Quel che noi ora ci chiediamo è perché il motivo del doppio (riferito al sosia o al ripetersi di eventi simili) è perturbante. Freud specifica 77
che ci troviamo esposti a un effetto perturbante quando il confine tra fantasia e realtà si fa sottile, quando appare realmente ai nostri occhi un qualcosa che fino a quel momen to avevamo considerato fantastico, quando un simbolo assu me pienamente la funzione e il significato di ciò che è sim boleggiato e via di questo passo 34• Ciò verrebbe a significare che è il riemergere di un immaginario rimosso dai labirinti dell'inconscio ad essere causa di perturbamento. Finché si resta ancorati alla realtà e il fantastico sembra appartenere ad una sfera totalmente diversa il perturbante non appare, così come esso non era presente nelle esperienze dei nostri lontani antenati nei quali si era verificata la «spaccatura antropologica ,. tra reale e immaginario e da quest'ultimo essi traevano anzi motivo di rassicurazione contro la morte attraverso il mito del ritorno dei defunti (il doppio) 15, ga rantito dalla ciclicità dei fenomeni naturali; allo stesso mo do in cui, mutatis mutandis, il bambino si rassicura dell'in tegrità del proprio Io dinnanzi all'immagine nello specchio. L'immaginario quindi non si poneva tanto come altro dalla realtà, quanto soprattutto come la modalità privilegiata per fronteggiarla e dominarla. Mentre, però, i primitivi credevano in questo meccanismo messo in modo dalla loro paura, noi non ci crediamo più, abbiamo « superato» questo modo di pensare, ma non ci sentiamo sicuri di queste nostre convin zioni, le antiche persuasioni sopravvivono ancora in noi e sono all'agguato in attesa di conferma. Ora, non appena nel la nostra esistenza si « verifica ,. qualcosa che sembra con fermare questi antichi convincimenti ormai deposti, abbia mo il senso del perturbante 36• Quest'ultimo, tuttavia, non è soltanto originato dall'angoscia di qualcosa di «rimosso» che ritorna, ma anche dal ricordo di un tipico carattere del la vita pulsionale che agisce come momento di conservazio ne e che si manifesta nella «coazione a ripetere», cioè la ten denza alla ripetizione fino a ripristinare uno stato precedente al quale l'essere vivente tende dal momento che è stato co stretto a cambiare il suo stato iniziale soltanto a causa di circostanze esterne non dipendenti dalla sua volontà. Infatti, sarebbe in contraddizione con la natura conservatrice delle 78
pulsioni se il fine dell'esistenza fosse il raggiungimento di uno stato mai attinto prima ... Se possiamo considerare come un fatto sperimentale assolutamente certo e senza eccezioni che ogni essere vivente muore ( ritorna allo stato inorganico) per motivi interni, ebbene, allora possiamo dire che la meta di tutto ciò che è vivo è la morte 37• Da quanto detto finora, quel che a noi preme sottolineare è che il perturbante viene generato da tutto ciò che inizial mente ha costituito una fuga dalla morte e, in taluni mo menti, sembrerebbe addirittura mettere in iscacco l'immagi nario proprio attraverso lo stesso motivo della ripetizione che, in ultima analisi, può diventare un motivo di morte 38• III) Le strutture antropologiche dell'immaginario Correlato al problema di come abbia origine e si sviluppi l'immaginario, appare l'altro, di come cioè esso si strutturi. A tal fine faremo riferimento all'opera di Durand che rappre senta un grosso tentativo di sistematizzazione di tutta la sim bologia su cui si articola l'immaginario. Durand, pur ammet tendo esplicitamente che lo studio del simbolismo immagi nario è di pertinenza dell'antropologia culturale, parte tut tavia da due assunti ispirati da Bachelard: a) l'immagina zione è dinamismo organizzatore e questo dinamismo orga nizzatore è fattore di omogeneità; b) ben lungi dall'essere fa coltà di « formare immagini», l'immaginazione è potenza di namica che « deforma » le copie pragmatiche fornite dalla percezione 39• Oltre Bachelard e oltre Jung il cui concetto di archetipo ha costituito per Durand un saldo sistema di ap poggio all'organizzazione dell'universo immaginario, un altro importante punto di riferimento è rappresentato da Piaget «>. A questi egli infatti s'ispira quando definisce l'immaginario come il doppio « tragitto antropologico» che viene ad instau rarsi tra il soggetto e l'oggetto, cioè tra l'attività assimila trice che modella l'oggetto secondo le proprie spinte pulsionali e l'attività accomodatrice che si adatta alle esigenze del l'oggetto anche per definirne il contenuto semantico. E bi sogna collocarsi entro questo tragitto per cogliere « i più 79
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primitivi insiemi senso-motori » che possono suddividersi in tre stadi o « dominanti riflesse»: la prima viene chiamata dominante di «posizione» e corrisponde al momento in cui il bambino assume la posizione verticale; la seconda, detta di nutrizione, corrisponde alla fase della suzione; la terza, è legata al movimento ritmico che si accompagna all'atto ses suale. In queste dominanti di posizione, di inghiottimento e ritmiche vanno ad inserirsi le rappresentazioni, per cui Du rand assume come ipotesi di lavoro il fatto che esiste una stretta concomitanza tra i gesti del corpo, i centri nervosi e le rappresentazioni simboliche 41• Inoltre, poiché egli sostiene che esiste una stretta parentela tra la dominante dell'in ghiottimento o anche digestiva e quella ritmica, cioè ses suale, soltanto su due dominanti viene operata la relativa suddivisione dell'immaginario in due Regimi. Il primo, il Regime diurno, che si ricollega alla dominante di posizione, si servirà di simboli ascensionali che indicano appunto la tensione verso l'alto, cioè il sole, l'ala, la spada, l'eroe, il fuoco, e, contemporaneamente, stanno a significare an_che la volontà di potenza, l'esigenza della purezza, della chiarezza e quindi della distinzione che comporta anche la separazione, la classificazione e la gerarchizzazione. L'altro, il Regime notturno, farà riferimento ad un altro tipo di simboli, op posti al primo, e cioè la discesa, la coppa, il ventre materno, la femminilità, la caverna, la doppia negazione, la quale sta ad indicare il ribaltamento totale dei termini che, da un'ac cezione negativa, passano ad assumerne una positiva. Ma come si arriva al� determinazione dei due Regimi? 42 Durand parte dall'esaminare i tre momenti dell'animalità, delle tenebre e della caduta che sono alla base del senso di angoscia e di paura che pervadono l'uomo. Al di là, poi, di questi tre aspetti che Durand illustra attraverso una serie di simboli - i simboli teriomorfi, nictomorfi e catamorfi. esiste il sentimento ancestrale del mutamento, del passaggio del tempo e quindi della morte. Contro tutto ciò si erge il Regime diurno dell'immaginario che si oppone all'animale (che si muove, che è inafferabile ma, nello stesso tempo, divora), alle tenebre (che si collegano anche all'acqua scura,
all'annegamento e ancora ai lacci mortali della femminilità perversa) e alla caduta (intesa anche in senso morale e per tanto collegata alla simbologia nictomorfa). Il Regime diurno, detto anche regime dell'antitesi, appare quindi pervaso dalla preoccupazione della riconquista di una potenza perduta, di un « tonus » degradato dalla caduta 43, in lotta perenne, at traverso il moto ascensionale diretto verso la luce e il tra scendente, contro i « volti del tempo » che ossessionano l'uomo. Tuttavia, accanto a questo atteggiamento di separa zione, di antiteticità, di ascesi, se ne contrappone un altro, che costituisce il Regime notturno dell'immaginario, che con sisterà invece nell'esorcizzare i simboli negativi-accettandoli, attraverso però un processo di eufemizzazione, per cui l'ani male diventa la divinità propiziatrice, _le tenebre l'intimità dolce e carezzevole, la femminilità perversa la Grande Ma dre protettrice, e la caduta una lenta e silenziosa discesa verso la pace e il riposo. Sempre nell'ambito del Regime not turno trovano spazio, infine, i «simboli ciclici »; essi si ri collegano a un tema già lì presente e cioè quello della ri petizione che comporta la reversibilità e che richiama im mediatamente la ripetizione temporale legata alle fasi lunari e ai cicli vegetali. Questi simboli continuano il processo di esorcizzazione della morte: infatti uno dei più importanti tra questi, la luna, non solo è il primo morto, ma anche il primo morto che resuscita. La luna è dunque allo stesso tempo misura del tempo e promessa esplicita dell'« eterno ritorno » 44• Che senso può avere l'operazione compiuta da Durand? Stando alle sue conclusioni, egli ha voluto affermare che l'immaginario e il mito, che è una delle sue espressioni più significative, si sono manifestati come elementi costitutivi e ... instaurativi del comportamento specifico dell'c homo sa piens » ◄s e pertanto sono presenti nell'esperienza quotidiana dell'uomo non soltanto come forze compensatrici o vicarianti ma come momenti di reale incidenza. Pertanto, al di là di questa constatazione, egli auspica una « pedagogia dell'im maginazione », tanto più necessaria oggi in cui i mezzi di comunicazione di massa invadono il nostro universo di im- 81
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magini e di sogni. Il nostro dovere più imperioso è di lavo rare ad una pedagogia della pigrizia, del raffioramento delle istanze rimosse e degli svaghi 46• Una medesima conclusione si trova in un'altra opera di Durand, a questa posteriore, L'immaginazione simbolica, dove egli dichiara: Come la psi chiatria applica una terapia di riequilibrio simbolico, si po trebbe concepire che una pedagogia - centrata deliberata mente sulla dinamica dei simboli - divenga una vera « so ciatria • in grado di dosare con molta precisione per una data società le collezioni e le strutture di immagini che que sta esige per il suo dinamismo evolutivo. In un secolo di accelerazione tecnica, una tattica pedagogica dell'immagina zione appare più urgente che nel lento evolversi della società neolitica dove i riequilibri si facevano da soli, al ritmo lento delle generazioni 47• Quali strumenti e prospettive egli ci offre per questa « tattica pedagogica dell'immaginario»? Innanzitutto la possibilità di una classificazione e di una organizzazione dei simboli sulla base degli « schemi » o « sim boli motori » che congiungono i primi gesti senso-motori alle rappresentazioni; inoltre, il riferimento costante agli arche tipi che s'inseriscono in pieno nel « tragitto antropologico», tra condizione soggettiva e stimolazione ambientale, e co stituiscono il punto di congiunzione tra l'immaginario e i processi razionali 48; ma soprattutto l'affermazione che ben lontano dall'essere epifenomeno passivo... l'immaginario non solo si è manifestato come attività che trasforma il mondo, come immaginazione creatrice, ma soprattutto come trasfor mazione eufemistica del mondo, come« intellectus sanctus», come ordinamento dell'essere agli ordini del megllo 49. Con seguentemente, in questa dimensione prospettica, Durand può, prendendo ancor più le distanze da Freud, definire il simbolo come elemento che ristabilisce non solo l'equili brio vitale compromesso dall'intelligenza della morte !il, ma anche l'equilibrio « psico-sociale » e quello « antropologico ». Nell'opera di Durand sono presenti molte indicazioni pre ziose per comprendere i meccanismi che determinano il funzionamento dell'immaginario e le modalità che presiedono
al raggruppamento delle immagini che, da un lato, ci forni scono una chiave di lettura e un metodo di catalogazione, dall'altro, ci permettono anche, attraverso il dinamismo che anima tutto il processo, di definire una strnttura come una forma trasformabile, che ricopre il molo di protocollo moti vatore per tutto un raggruppamento d'immagini 51_ Tuttavia, facciamo nostra l'osservazione di Berger e cioè che tutto il materiale riunito dall'autore e sul quale si esercita la sua perspicacia appartiene esclusivamente al passato 52 • Benché poi Durand avanzi l'ipotesi secondo cui la «trascendenta lità psicologica dell'immaginario» potrebbe cancellarsi sotto la pressione dei mutamenti culturali e storici. Anche se lo studio di Durand riguarda miti, simboli, im magini che appartengono ad un passato che potremmo de finire «archeologico», ci sono nella sua opera alcune indi cazioni di tipo metodologico che potrebbero risultare utili all'analisi del nostro attuale panorama culturale. Innanzi tutto, raggruppare le immagini attorno a determinati sistemi di simboli permette di creare connessioni e legami tra tipi di immagini che, a prima vista, potrebbero sembrare sle gati, e ciò, oltre ad offrirci un quadro più organico di una certa dinamica immaginativa e quindi culturale, dilata il senso delle singole immagini o simboli verso altri sensi pos sibili, talvolta anche di segno opposto, in modo da costituire un campo semantico più vasto ed articolato ed una possi bilità di «lettura» in più direzioni. In secondo luogo, la ri valutazione della retorica, proprio nell'ambito dell'immagi nario, è un tipo di operazione che può essere applicata in qualunque tempo e in qualunque luogo; in questa sede essa finisce per assumere un ruolo di mediatrice tra l'immagina zione e la ragione mentre i suoi procedimenti (metonimia, sineddoche, antonomasia, etc.) hanno quasi tutti la funzione di deformare il dato oggettivo in un ritorno verso il primitivo senso figurato. Basti, ad esempio, pensare alla meta fora e al potere che, attraverso di essa, ba lo spirito ogni volta che pensa, di rinnovare la terminologia, di strapparla al suo destino etimologico 53• Infine, l'articolazione dell'imma ginario nei due Regimi notturno e diurno costituisce una 83
polarizzazione perfettamente corrispondente alle due dina miche fondamentali che muovono la nostra psiche, e ci per mette, una volta individuato il Regime maggiormente atti nente ad una specifica realtà con i relativi sistemi simbolici che lo definiscono, di poter stabilire con maggiore chia rezza i momenti di continuità e quelli di rottura del nostro immaginario con quello analizzato da Durand in una dimen sione sovrastorica. IV) La funzione dell'immaginario In uno dei capitoli più interessanti del suo libro dal ti tolo omonimo, Mannoni dimostra come una delle funzioni base dell'immaginario sia quella di generare una credenza e poi continuare a mantenerla in vita anche quando questa è stata smentita da evidenze inconfutabili. L'Autore trae lo spunto dal libro, pubblicato in Francia, di uno scrittore hopi, Talayesva, che racconta la sua esperienza del rito d'inizia zione la cui fase culminante è rappresentata dal momento in cui le maschere degli antenati, i Katcina, mostrano il loro vero volto che è poi quello degli adulti del clan. La delu sione dell'iniziando è bruciante, ma ciò, invece di generare il rifiuto della credenza nelle divinità tutelari, diventerà il momento in cui quella si trasforma in un altro tipo di cre denza, non più assoluta e indubitabile come la prima, ma tuttavia necessaria ai fini del mantenimento di un equilibrio non solo all'interno del gruppo ma anche all'interno di se stesso, equilibrio che deve ricomporre la lacerazione provo cata dalla scoperta traumatizzante. Per cui si ha una trasfor mazione in senso « magico » della stessa credenza che con tinua a sopravvivere nella forma del « Sì, lo so, ma comun que», come efficacemente ha sintetizzato Mannoni questo atteggiamento ambivalente e pertanto sfuggente ad ogni ra zionali�azione. In altri termini, il giovane hopi ormai sa che dietro le maschere si nascondono solo i volti .degli adulti del suo clan, ma comunque continua a credere nella pre senza, seppure invisibile, dei Katcina: è il momento in cui 84 la credenza, abbandonando la sua forma immaginaria, as-
sume una forma simbolica quanto basta per sfociare nella fede, cioè in un impegno 54 • In questa precisazione di Man noni è importante rilevare due cose: prima, il sentimento del dovere (verso il proprio gruppo sociale) di mantenere all'io piedi le credenze che è una conditio sine qua non per essere accettati dal gruppo e che contribuisce a rafforzare il momento del « ma comunque», il quale, tra l'altro, non è mai inconscio. Poi, la distinzione operata tra forma imma ginaria e forma simbolica, dove la prima si pone soprat tutto come momento di realtà che non è tale in sé ma lo è a tutti gli effetti per chi la sperimenta, e la seconda, invece, assume prevalentemente il carattere di traslazione e di so stituzione e quindi di illusione. Mannoni fa risalire questo particolare tipo di atteggia mento al concetto freudiano di Verleugnung, ossia discono scimento o diniego. Esso interviene la prima volta nella vita psichica del bambino quando questi prende coscienza del l'assenza del pene nella donna. Egli tuttavia non può accet tare tale realtà che lo esporrebbe alla minaccia della ca strazione, per cui mette in atto un processo di diniego della realtà, appunto la Verleugnung, e continua a conservare la sua credenza nel fallo materno. Ciò lo pone, però, in una situazione estremamente conflittuale: da un lato, egli ha avuto la percezione di una realtà per lui angosciosa, dall'altro, per sfuggire a questa angoscia, deve crearsi una contro realtà (l'immaginario) dove « l'oggetto assente,. continua ad esistere. Questo oggetto diviene il feticcio intorno al quale si riorganizza la nuova credenza del bambino. Tutto ciò non avviene comunque se non a prezzo di una profonda trasfor mazione dell'Io. Il feticcio, che si tratti di una parte del corpo o di un oggetto inorganico, è, quindi, nello stesso tempo, la presenza di quel nulla che è li pene materno e li segno della sua assenza; simbolo di qualcosa e, insieme, della sua negazione, esso può mantenersi solo a patto di una la cerazione essenziale, nella quale le due reazioni contrarle costituiscono li nucleo di una vera e propria frattura dell'Io (lchspaltung) ss. Tale frattura trova una profonda corrispon denza con la « spaccatura antropologica,. di cui parla Mo- 85
rin, verificatasi quando sapiens, per sfuggire al terrore della morte, l'accetta solo come trasformazione e resurrezione, cioè come non-morte. E come da questa spaccatura abbiamo visto che si origina l'immaginario, analogamente ciò avviene nel momento della costituzione del feticcio 56, nella frattura apertasi tra un'esperienza compiuta ed una credenza che non vuole tenerne conto. Il concetto di Verleugnung è molto importante ai fini del nostro discorso perché si presenta nello stesso tempo come meccanismo che determina una delle funzioni fonda mentali dell'immaginario (il « Sì, lo so, comunque ») e come momento di produzione dello stesso immaginario, attraverso la scissione dell'Io e la costituzione del fallo come feticcio, cioè oggetto assente e presente ad un tempo. Questa funzione fondamentale dell'immaginario analizzata da Mannoni, anche se applicabile a qualunque tipo di cul tura - essendo la credenza, quale che sia, un fenomeno uni versale - può risultare particolarmente efficace nell'analisi di alcuni aspetti della nostra cultura di massa. Incominciamo col dire che in essa il meccanismo che. soggiace alla forma zione della credenza ha assunto proporzioni gigantesche per ché tutto questo tipo di cultura si basa sul « Sì, lo so, ma comunque ». Le cause per cui ciò avviene sono molteplici; tuttavia cercheremo di evidenziare le più importanti. Innanzitutto, anche per la cultura di massa si può parlare di Verleugnung, nel senso che i prodotti di questa cultura (dagli oggetti alla cartellonistica pubblicitaria fino alle im magini mobili del cinema e della televisione) generano in un primo momento una credenza reale, in verità di breve durata, poi successivamente smentita, ma nella quale si con tinua a credere per una serie di motivi. Questi ultimi vanno dall'esigenza di non alterare l'equilibrio di un sistema che fornisce comunque un supporto al bisogno di rassicurazione, al desiderio di sfuggire l'angoscia che insorgerebbe davanti all'assenza del rapporto reale. E così al feticcio, rappresen tato dall'assenza-presenza del fallo materno, si sostituisce, ad esempio, il feticismo della merce o degli oggetti (essendo 86 entrambi non presenze reali in quanto assumono un signi-
ficato solo a livello di valore di scambio) o quello della im magine riprodotta o rappresentata, segno anch'essa contem poraneamente di un'assenza e di una presenza. Al concetto di feticcio è poi legata anche la sua ripetibilità ad infinitum, altra caratteristica peculiare dei prodotti della cultura di massa. Sottolinea infatti Agamben: Proprio in quanto esso è negazione e segno di un'assenza, il feticcio non è infatti un unicum irripetibile, ma è, al contrarlo, qualcosa di sur rogabile all'infinito, senza che nessuna delle sue successive incarnazioni possa mai esaurire completamente il nulla di . cui è la cifra. E per quanto il feticista moltiplichi le prove della sua presenza e accumuli harem di oggetti, il feticcio gli sfugge fatalmente fra le mani e, in ognuna delle sue ap parizioni, celebra sempre e soltanto la propria mistica fan• tasmagorla ST, Inoltre, il « Sì, lo so, ma comunque » esemplificato da Mannoni a proposito della esperienza di iniziazione del gio vane hopi, viene vissuto a livello di cultura di massa anche per quanto riguarda il rapporto credenza/pubblico, tuttavia con qualche leggera modifica. Mannoni parte dall'assioma che la credenza presuppone il supporto dell'altro 58, cioè la presenza di una fascia di persone che considerano reale la credenza, perché, solo a questo patto, chi accetta la cre denza a livello esclusivamente simbolico può giustificare a se stesso il fatto di mantenerla viva, malgrado tutto. Infatti, il momento magico non è quello in cui il bambino non an cora iniziato ha fede nella credenza delle maschere degli antenati ma quando,. in seguito al disvelamento avvenuto durante il rito d'iniziazione, continua ad accettare, pur tra sformandola, tale credenza. Onde Mannoni conclude che non c'è una credenza nella magia, ma prima una magia della credenza 59• Ora, nell'attuale cultura di massa, il supporto alla credenza nella realtà delle sue forme e delle sue mani festazioni non è costituito solo dai bambini, ma anche dalle persone culturalmente svantaggiate, e il ruolo di demistifi cazione non viene svolto dal potere costituito, come nella tribù hopi dagli adulti maschi ·che incarnano appunto tale potere, ma dagli intellettuali o da altre forze analoghe, i 87
quali devono però rendersi conto che questa demistifica zione non sarà mai totale non solo a causa del meccanismo della Verleugnung, ma per gli stessi caratteri strutturali con cui si configura la civiltà di massa. Veniamo cosl al terzo punto, la rilevazione, cioè, di al cuni di questi caratteri. Innanzitutto, quello della spettaco larizzazione continuata. Ciò comporta che l'atteggiamento dell'individuo di fronte alla realtà è simile a quello dello spettatore per cui il problema di fondo non è tanto quello di stabilire una demarcazione tra reale e immaginario e poi, magari, restare nella sfera dell'immaginario per ragioni che latamente potremo definire di «comodo », ma di vivere reale e immaginario allo stesso livello perché ormai non è più necessario per lui operare una differenziazione dal momento che è lo stesso reale - attraverso i meccanismi di produ zione dell'industria culturale - a non potersi più scindere dall'immaginario. � interessante notare la posizione di Abruz zese quando, a proposito di King-Kong, dice che esso non maschera ma, invece, esibisce la e fabbrica»; e la fabbrica viene identificata dietro a ciò . che si offre come alternativa Immaginaria alla realtà di una civiltà industriale 60• E, nello stesso tempo, si ha la rivelazione del e trucco» non come invenzione ludica, tranello, sofisticheria linguistica, ma come costruzione di meccanismi produttivi, di attrezzi che hnper sonano l'immaginario creato, che ne sono il contenuto, il valore; l'affermazione del carattere artificiale, industrializ zato, collettivo della fantasia 61• II che significa che della scimmia non può più essere messo in rilievo la sua identità con la zona di confine dell'uomo 62, ma la «materialità• dei mezzi che ne costituiscono l'automa.
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Questa spettacolarizzazione continuata - e qui veniamo ad esaminare un altro carattere della cultura di massa avviene attraverso un rapporto di doppia mediazione con il fruitore. Non si tratta più di una mediazione semplice, come quella che avviene tra una rappresentazione diretta della realtà - anche se mediata attraverso le forme dello spet tacolo (teatro, concerto musicale, gara sportiva, esposizione di merce, etc.) - e lo spettatore, ma di una rappresenta-
zione mediata, indiretta, che, in quanto tale, è soggetta a un processo di doppia simbolizzazione o di doppia manipo lazione. Da un lato, infatti, esiste una realtà già configurata in modo da essere fruita attraverso particolari schemi inter pretativi, dall'altro, c'è la sua riproduzione ad infinitum at traverso una serie di immagini che esigono una interpreta zione supplementare e addizionale alla precedente, giocata su un registro totalmente diverso. E mentre per quanto ri guarda, ad esempio, la rappresentazione pittorica esiste la consapevolezza di trovarsi davanti a un doppio che è altro dalla realtà - (lo stesso Baudrillard, che tende ad eliminare ogni differenza tra arte e realtà, ammette come tutti I pre stigi della pittura risuscitino In questa minima differenza: tutta la pittura si rifugia nel bordo che separa la superficie dipinta dal muro) - 63 la medesima cosa non avviene davanti all'immagine in movimento. Si ritorna quindi, paradossal mente, alla situazione antropologica iniziale in cui sapiens scorgeva nella pittura il duplicato della realtà, il doppio. E come allora, così adesso, questo doppio fa scattare i mecca nismi dell'immaginario, anche se si tratta di un « immagina rio tecnologico », in quanto determinato e mosso dalle esi genze produttive di un sistema che ha pervaso il reale e l'immaginario, confondendo spesso i termini del rapporto. Dal concetto di spettacolarizzazione continuata si tende a passare, secondo il parere di alcuni, all'annullamento del l'arte nella realtà o viceversa, il che è lo stesso, ciò che rappresenterebbe un altro dei caratteri della cultura di massa, strettamente connesso ai due precedenti. Per dirla con Baudrillard, la realtà tende a diventare iperrealistica (la riproduzione in serie, la e decostruzione del reale nei suoi dettagli », la « visione in profondità » ne rappresentano i sin tomi più evidenti) e l'lperreallmo è li colmo dell'arte e li colmo del reale per scambio rispettivo, al livello del simu lacro, del privilegi e del pregiudizi che li fondano... Adesso è tutta le realtà quotidiana, politica, soclale, storica, econo mica, ecc... che fin d'ora ha Incorporato la dimensione si mulatrice dell'iperrealismo: noi viviamo già ovunque nell'al· lucinazlone e estetica» della realtà 64• Ciò avviene in quanto, 89
da un lato, l'arte applica il meccanismo della sua riprodu cibilità ad infinitu,n anche alla realtà quotidiana la quale, in questo processo di duplicazione continua, tende a diven tare «estetica». Dall'altro, e a causa di ciò, lo stesso pro cesso di produzione diventa astratto, privo di qualsiasi fi nalità, e quindi si carica di un'altra valenza tipica dell'espe rienza estetica, la mancanza, cioè, di ogni scopo e di ogni interesse, essendo il piacere (se si può parlare ancora di pia cere in questa ottica) legato non alla realtà ma alla sua rap presentazione. Così l'arte è ovunque, poiché l'artificio è al centro della realtà. Così l'arte è morte, perché non soltanto la sua trascendenza critica è morta, ma perché la stessa realtà, interamente impregnata d'una estetica che dipende dalla sua stessa strutturalità, s'è confusa con la propria Im magine. Essa non ha più nemmeno il tempo di acquistare valore di realtà. Non supera nemmeno più la finzione: essa capta qualsiasi sogno prima che esso acquisti di sogno 65• · Anche Abruzzese, recentemente, pur non ponendo il pro blema nei medesimi termini, non sembra più guardare alla dimensione estetica· come qualcosa a se stante dal momento che verrebbe assorbita dal grosso processo produttivo in cui l'immaginario collettivo si appropria finalmente delle strutture economiche dell'immaginazione; si appropria della macchina, del denaro e del lavoro (necessari a rappresentare individualmente e collettivamente i «fantasmi»), nel senso che inserisce, ad uno stesso livello, il simbolo, l'allegoria, il racconto e i mezzi materiali che producono simboli, allego ria e racconto... Il pubblico diventa macchinario produttivo a tutti gli effetti: da questo momento ogni discorso sulla « qualità » non ha senso, perché sono i modi di produzione a confrontarsi 66.
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I due autori citati ci forniscono indicazioni molto stimo lanti anche se esse lasciano alcune perplessità, soprattutto per quanto riguarda Baudrillard: con lui, infatti, si ha la liquidazione della stessa realtà e quindi anche dell'altro ter mine ad essa correlato, cioè l'immaginario. Nel caso di Abruzzese, invece, questo viene condizionato da tutto il ciclo produttivo nel suo insieme, per cui le risorse dell'immagina-
zione individuale, sia a livello di autore che di spettatore, vengono totalmente sottomesse alla « officina » dell'immagi nario collettivo, alla grande macchina che costituisce il con sumo giunto alla massima formalizzazione industriale delle sue funzioni produttive e sociali 67• Il progressivo annullamento dell'arte nella realtà, o vice versa, metterebbe in evidenza come la funzione dell'imma ginario oggi vada gradatamente mutando. Pertanto, non vo gliamo sottoscrivere del tutto quanto afferma Baudrillard che cioè alla colpevolezza, all'angoscia e alla morte si può sostituire il godimento totale dei segni della colpevolezza, della disperazione, della violenza e della morte 68• In tal modo dovremmo ammettere che alcuni concetti di cui ci siamo ser viti per definire la funzione dell'immaginario, come il « per turbante» o la Verleugnung, potrebbero rischiare di vedere ridotto il loro ruolo esplicativo; ed anche il « Sì, lo so, ma comunque», validissimo nel definire di fronte alla realtà un atteggiamento di ambivalenza - quale continua ad essere richiesto, a nostro avviso, per muoversi nell'attuale cultura di massa e contemporaneamente per meglio definirla - po trebbe risultare inutile in una visione apocalittica che tende al rifiuto totale di ogni tipo di rapporto che non sia quello nullificante sia il reale sia l'immaginario. La spettacolarizzazione nella quale si articola la cultura di massa dovrebbe tendere ad abbreviare la distanza arte/ realtà ma non ad annullarla. Anzi, potrebbe essere proprio l'avvicinamento, ma non la confusione, tra le due sfere a potenziare l'immaginario (soprattutto quello individuale) e a porlo in un rapporto dialettico e quindi costruttivo con l'immaginario collettivo. Il « mantenimento dell'illusione este tica» - come dimensione altra rispetto alla realtà - può rappresentare un momento importante di equilibrio o rie quilibrio psicologico. Essa, per dirla con Kris, garantisce la libertà dal senso di colpa, dal momento che non è nostra la fantasia cui prestiamo attenzione. Tutto ciò favorisce il nascere di sentimenti che in altre condizioni esiteremmo a permetterci, perché ci riconducono ai nostri personali con flitti. Ci è inoltre permessa un'intensità di reazioni che senza
la protezione estetica molti individui si concedono malvolen tieri m. V) Trasformazione dell'immaginario ad opera dei media Nel paragrafo precedente abbiamo dimostrato come la funzione dell'immaginario, pur ricollegandosi a meccanismi validi anche nell'analisi dell'attuale cultura, abbia tuttavia subito delle modifiche a livello di una riconsiderazione glo . bale delle forze operanti nel meccanismo produttivo generale. Vogliamo ora sottolineare che la modificazione pro fonda più che la funzione ha toccato soprattutto le strutture dell'immaginario. Lo stesso Durand, pur partendo da una visione astorica delle strutture antropologiche dell'immagi nario, dal momento che pone quest'ultimo lungo il tragitto di assimilazione e accomodamento che adatta l'individuo al l'ambiente e viceversa, è costretto ad interrogarsi sul condi zionamento che potrebbero provocare certi miti ed Immagini già elaborati e veicolati dal consenso sociale e storico. Si può in effetti pensare, con Jung, che una tipicità socio-storica viene a sostituire la atipicità psicologica e a dettare la pre ponderanza di questo o di quel regime dell'immagine 70• Durand si limita a prospettare soltanto la possibilità del prevalere di un regime su di un altro. A questo livello, pos siamo senz'altro affermare che nell'attuale cultura di massa è il Regime notturno ad imporsi su quello diurno, non sol tanto per il prevalere di una simbologia legata alle immagini del sesso, della femminilità, della discesa (che in taluni casi può anche significare regressione), ma soprattutto per due aspetti fondamentali che caratterizzano il Regime notturno: l'uno è il tema della ripetizione che, come abbiamo visto, è alla base dei e simboli ciclici » e sembra particolarmente esplicativo nel momento attuale per tutto quanto riguarda il fenomeno della moda e delle mode; l'altro, più importante, è il processo di eufemizzazione. Infatti, si può dire che tutta la cultura di massa è fondata sull'eufemismo, inteso non solo come trasformazione del negativo in positivo - (basti 92 pensare al processo di smitizzazione e quindi di familiariz-
zazione subito da temi quali la violenza e la guerra, o al pre valere assoluto del «loisir » su qualsiasi altro tipo di rappre sentazione del reale che possa essere fonte di turbamento) ma anche come sostituzione ed occultamento di realtà « sco mode» con altre che non generino situazioni conflittuali e quindi potenzialmente sovvertitrici dello status quo. L'autore che con particolare efficacia ha sottolineato il mutamento delle strutture dell'immaginario è Berger: Con trariamente all'idea o al sentimento dominante, io credo che l'immaginarlo non sia duraturo né stabile; benché abbia dato prova di una eccezionale longevità, esso può modificarsi ra dicalmente. Oggigiorno si sta elaborando un «nuovo imma ginario » al quale noi partecipiamo, li più delle volte, in consciamente. Ma questo immaginarlo in formazione - questo è li se condo presupposto - non ha più come operatori solo gli esseri umani, ma anche, per la prima volta, le «macchine» 71 • L'importanza di queste ultime nella costituzione del nuovo immaginario è grandissima. Da un lato, esse creano i presup posti per l'industrializzazione del prodotto culturale con tutte le conseguenze già evidenziate da Abruzzese, che vanno dalla formazione di un «immaginario tecnologico ,. al con seguente risultato che l'innovazione non dipende tanto dal singolo e dalla sua identità creativa, ma piuttosto dai progressi tecnologici dei... modi di produzione n dell'industria culturale. Dall'altro, non dimenticando del tutto la vecchia ed ancora attuale lezione di McLuhan, le macchine costitui scono il prolungamento dei nostri sensi e intervengono atti vamente non solo nella costruzione dei messaggi, ma anche nella determinazione del loro senso. In tal modo tende a scomparire la dicotomia artificio/natura in quanto essa non viene più avvertita come tale, poiché l'artificio viene rece pito sempre più come facente parte della realtà naturale mentre la natura tende ad allontanarsi nella sfera del mito. Il medium che maggiormente contribuisce alla trasforma zione dell'immaginario è senz'altro la televisione. Come sot tolinea Berger, il fenomeno radicalmente nuovo è che la te levisione, la quale pretende, e della quale si continua a ri- 93
petere che ci mette in contatto col mondo esteriore, in realtà fa scorrere sullo schermo immagini che non hanno affatto la consistenza degli oggetti reali... La prova di realtà si tra sforma. Invece di permettere, secondo Freud, di distinguere fra allucinazione e percezione, che sono confuse all'origine e che si definiscono solo a poco a poco senza peraltro im porsi mai in modo esclusivo, i messaggi-immagini della te levisione, intermediari fra lo stato d'oggetto e lo stato di soggetto, mantengono la confusio·ne fra allucinazione e per cezione e anzi la favoriscono quando è minacciata. La prova di realtà non si compie più in base unicamente al mondo esteriore, cosi come Io poteva conoscere Freud, bensì in base al mondo esteriore in secondo grado che è il mezzo elet tronico ...La prova di realtà non si pone solo più al livello degli oggetti, ma si effettua sempre più al livello delle im magini di massa... Al di là del principio del piacere e del principio di realtà, si profila un terzo principio che sono tentato di chiamare principio della « tecno-realtà », o piuttosto della e media realtà ,. ... Cosi è nata, o meglio è stata fabbricata, solo da alcuni decenni, una fantasmatica di massa 73• Da questa lunga citazione si possono ricavare le seguenti considerazioni: a) tende, innanzitutto, a diminuire lo scarto tra percezione e allucinazione, quindi tra reale e immagina rio; b) la nostra percezione, inoltre, non si esercita più su di una realtà diretta, ma su una realtà di secondo grado e, se ciò fa scattare comunque i meccanismi dell'immagina rio, bisognerebbe tuttavia approfondire le dinamiche pulsio nali messe in moto da questo rapporto sui generis. Riemerge ancora il problema del doppio, ma ad un altro livello e no tevolmente complicato, come abbiamo già accennato; e) ri sulta, infine, ancora una volta l'importanza dell'immagine in questo tipo di cultura e soprattutto dell'immagine mo bile. Il suo prevalere comporta queste conseguenze: prima , un'accentuazione, come mai forse avvenuta in precedenza, dei meccanismi di proiezione e di identificazione (ed è so94 prattutto ciò che contribuisce a far confondere le due sfere
ma anche per la difficoltà di inserirsi in maniera inc1s1va in un universo sempre più dominato da segni contraddittori, se non mistificanti. Prima Barthes e poi Dorfles hanno attirato l'attenzione sulla presenza di « nuovi riti» e « nuovi miti» nell'attuale civiltà dei consumi e il potenziale d'immaginario in essi pre senti. Barthes, soprattutto, si ferma ad una analisi sostan zialmente negativa del mito d'oggi le cui funzioni principali sono quelle di trasformare « la storia in natura», di « svuo tare il reale», di mettere in atto processi di depoliticizza zione. Di conseguenza, l'immaginario, sul cui humus il mito si sviluppa, è visto come «una fissazione e un impoveri mento della coscienza » 78• Si ritorna così ad alcuni dei punti messi da noi in evidenza nell'analisi iniziale del termine im maginario: la possibilità che esso venga manipolato e, con seguentemente, le sue implicazioni con il concetto di ideo logia. Malgrado il ritorno ai miti e ai riti (sebbene diversi nella forma e nel contenuto da quelli antichi), la nostra attuale cultura è caratterizzata dall'ipercomplessità a cui la prolife razione abnorme dei canali comunicativi ha conferito un ulteriore potenziamento: essa si distingue dalla complessità non attraverso limiti ben precisi ma per la maggiore o mi nore presenza di taluni tratti particolari. In questo senso un sistema ipercomplesso è un sistema che diminuisce 1 suol condlzlonamenti aumentando le sue capacità organlzzazio nall, in modo particolare la sua attitudine al cambiamento. Esso risulta dunque, in rapporto a un sistema di minore complessità, debolmente gerarchizzato e specializzato, non strettamente centralizzato, ma più fortemente dominato dalle competenze strategiche e euristiche, dipendente in modo più accentuato dalle intercomunicazioni, e, per· tutte queste ca ratteristiche, maggiormente Incline a obbedire al disordine, al e rumore,., all'errore 79• Disordine, «rumore», errore non risultano necessariamente degenerativi, e possono fungere da rigeneratori 80• Essi rappresentano i momenti in cui pos sono avvenire tutte le combinazioni possibili, accompagnano 96 continuamente l'attività dell'uomo, ed è dal loro gioco, fonte
di disorganizzazione e riorganizzazione continue, che l'im maginario può subire uno slancio rinnovato. Se il discorso di Morin potrebbe apparire ottimistico, resta tuttavia fondamentale l'asserzione dell'ipercomplessità dell'attuale cultura di massa, soprattutto dei meccanismi che la regolano, al di là di un'apparente omogeneizzazione o li vellamento; inoltre, può servire da utile indicazione il rap porto che egli istituisce tra immaginario e immaginazione per cui bisogna non dissociare ma associare l'immagine oni rica all'immaginazione creatrice, l'uomo immaginario al l'uomo soggetto immaginante 81• Oltretutto, avendo iniziato questo lavoro attraverso una distinzione puntuale dei due concetti, ci risulta particolarmente gradito poterlo conclu dere con un auspicio di collaborazione tra i due termini, conditio sine qua non perché sapiens continui nel suo cam mino antropologico con la speranza di sfuggire alla minac cia della catastrofe.
N. ABBAGNANO, Dizionario di Filosofia, UTET, Torino 1960. L. S. VYGOTSKIJ, Immaginazione e creatività nell'età infantile, Edi tori Riuniti, Roma 1973, p. 21. 3 G. BACHELARD, L'Air et les Songes. Essai sur l'imagination du mouvement, Paris, José Corti 1978, p. 7. 4 Ibidem, pp. 7-8. s Ci rifacciamo, per ora, al concetto di mito in uso presso le po polazioni primitive. 6 R. TESTA, Modello ed esorcismo. Saggio sul mito, Guida,. Napoli . 1978, pp. 10-11. 7 E. CASSIRER, Saggio sull'uomo, Armando, Roma 1968, p. 164. a C. G. JUNG, Psicologia dell'inconscio, Boringhieri, Torino 1968, p. 116. 9 Ibidem, p. 120. 10 Ibidem. 11 E. FROMM, Il linguaggio dimenticato, Bompiani, Milano 1962, pp. 21-22. . . . 12 B. BACZKO, voce Immaginazione sociale, m Encic loped"1a E" maud"1, Voi. VII. 13 R. FlRTH, I simboli e le mode, Laterza, Bari 1977, p. 187. 14 B. BACZKO, op. cit. 1s Ibidem. 16 Ibidem. 97 17 L. ALmussER, Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 209. I 2
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18 B. BACZK0, op. cit. 19 E. F'ROMM, op. cit., p. 18. 20 R. FlRTII, op. cit., p. 219. 21 E. MoRIN, Il paradigma perduto, Bompiani, Milano 1974, p. 100. 22 Ibidem, p. 102. 2l Ibidem. � Ibidem, p. 104. 25 Ibidem, p. 105. l6 E. CASSIRER, op. cit., pp. 165-166. Xl J. M. PALMIER, Guida a Lacan, Rizzoli, Milano 1975, p. 24. 28 Ibidem, p. 41. 29 J. BAUORILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1979, p. 147. 30 Ibidem, p. 146. 31 Ibidem. 32 S. FREUD, Saggi sull'arte, la letteratura e il linguaggio, Voi. I, Boringhieri, Torino 1969, p. 270. 33 Ibidem, p. 286. 34 Ibidem, p. 297. 35 Afferma Freud che la creazione di un simile doppione, come di fesa dall'annientamento, trova riscontro in quel modo figurativo del linguaggio onirico che ama esprimere l'evirazione mediante raddoppia mento o moltiplicazione del simbolo genitale (Ibidem, pp. 286-287). 36 Ibidem, p. 301. 37 S. FREUD, Al di là del principio del piacere, in Opere, 1917-1923, voi. IX, Boringhieri, Torino 1977. 38 Il perturbante, tuttavia, a livello di produzione letteraria assume un senso diverso, soprattutto perché U regno della fantasia presup pone, per affermarsi, che U suo contenuto sia esonerato dalla verifica della realtà... al fine della nascita del sentimento perturbante è neces sario, come abbiamo visto, un conflitto del giudizio, cioè se l'incre dibile che è stato superato non sia dopotutto realmente possibile, pro blema questo che le premesse proprie del mondo fiabesco spazzano via interamente (Ibidem, pp. 303-304). 39 G. DuRAND, Le strutture antropologiche dell'immaginario, Dedalo libri, Bari 1972, pp. 21-22. 40 Durand infatti si rifà integralmente al principio di adattamento (assimilazione + accomodamento) enunciato da Piaget. 41 G. DURAND, op. cit., p. 41. 42 Osserva Durand che lo sviluppo di questo studio è stato possi bile soltanto perché siamo partiti da una concezione simbolica dell'lm· maginazione, cioè da una concezione che postula la semasiologia delle immagini, il fatto che esse non sono dei segni ma contengono mate rialmente in qualche maniera U loro senso (Ibidem, pp. 48-49). 43 Ibidem, p. 142. 44 Ibidem, p. 296. ◄S Ibidem, p. 431. .46 Ibidem. p. 433. .., G. DURAND, L'immaginazione simbolica, « Il Pensiero Scientifico•• Roma 19n, p. 115. 48 G. DuRAND, Le strutture antropologiche dell'immaginario, cit., p. 51. :e utile rilevare che per Durand ciò che differenzia precisamente l'archetipo dal semplice simbolo, è generalmente la sua mancanza di ambivalenza, la sua universalità costante ed U suo adeguamento allo schema (Ibidem). 49 Ibidem, p. 434. so G. DuRAND, L'immaginazione simbolica, cit., p. 109.
51 G. DURANO, Le strutture antropologiche dell'immaginario, cit., p. 53. 52 R. BERGER, La telefissione: allarme alla televisione, Edizioni Pao line, 1977, p. 120. 53 G. DURAND, Le. strutture antropologiche dell'immaginario, cit., p. 422. 54 O. MANNoNI, La funzione dell'immaginario, Laterza, Bari 1972, p. 13. ss G. AGAMBEN, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occi dentale, Einaudi, Torino 1977, p. 40. 56 Il significato di feticcio usato da Freud non si discosta molto da quello usato da Marx. Infatti, questi nel capitolo I del Capitale, inti tolato Il carattere di feticcio della merce e il suo segreto, parla espll• cltamente di questa trasformazione dei prodotti del lavoro umano in e apparenza di cose"• in una e fantasmagoria"··· che cade e non cade sotto i sensi (G. AGAMBEN, op. cit., p. 44). In quanto si presenta sotto questa doppia forma di oggetto d'uso e di porta-valore, la merce è un bene essenzialmente immateriale ed astratto, il cui godimento con creto è impossibile se non attraverso l'accumulazione e lo scambio (Ibidem, p. 45). S1 G. AGAMBEN, op. cit., p. 42. 58 O. MANNONI, op. cit., p. 28. 59 Ibidem, p. 25. 60 A. ABRUZZESE, La grande scimmia. Mostri vampiri automi mutanti, Napoleone, Roma 1979, p. 162. 61 Ibidem. 62 Ibidem, p. 138. 63 J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, cit., p. 87. 64 Ibidem. Secondo B. tre ordini di simulacri si sono succeduti dopo il Rinascimento •.. La e contraffazione»... schema dominante dell'epoca e classica »••• La e produzione»... schema dominante dell'era industriale. La « simulazione "··· schema dominante della fase attuale retta dal co dice (Ibidem, p 61). 6S Ibidem, p. 89. 66 A. ABRUZZESE, op. cit., p. 161. 167 Ibidem, p. 177. 68 J. BAUDRILLARD, op. cit., pp. 87-88. ilJ E. KRis, Ricerche psicoanalitiche sull'arte, Einaudi, Torino 1967, p. 39. 70 G. DURANO, Le strutture antropologiche dell'immaginario, cit., p. 388. 71 R. BERGER, op. cit., p. 8. 12 A. ABRUZZESE, op. cit., p. 174. 73 R. BERGER, op. cit., pp. 56-57. 74 :t:. importante sottolineare come il fattore tempo sia intervenuto in maniera determinante nella strutturazione delle scienze contempo ranee quali, ad esempio, la microfisica e la fotochimica. 7S R. BERGER, op. cit., p. 66. 76 R. TESTA, op. cit., p. 129. 77 Ibidem, p. 132. 1s R. BARTHES, Miti d'oggi, Paperbacks Lerici, Milano 1966, p. 233. 79 E. MoRIN, op. cit., p. 118. a> Ibidem, p. 116. &I Ibidem, p. 124.
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