Op. cit., 48, maggio 1980

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea • Direttore: Renato De Fusco Segretaria di redazione: Maria Laura Astarita Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 7690783 Amministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Giordani, 32 - Tel. 684211 Un fascicolo separato L. 1.800 (compreso IVA) - Estero L. 2.400

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Edizioni • Il centro,. di Arturo Carola


M. L.

c.

SCALVINI

LENZA

L. GIUSTI - L. Rocco

Prima e dopo il Post-Modernism L'iconizzazione del mobile CiviltĂ del 700 a Napoli Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Laura Cutolo, Giuseppina Dal Canton, Pierluigi Leone de Castris, Agata Piromallo Gambardella, Maria Luisa Scalvini.



Prima e dopo il Post-Modernism MARIA LUISA SCALVINI

« Se le radici formali del Post-Modernism sono da qual­ che parte, è nel Manierismo che stanno » 1; questo giudizio di Paul Goldberger esprime in modo estremamente sintetico un concetto (appunto la 'derivazione' del Post-Modernism dal linguaggio del Movimento Moderno in maniera analoga 2 a quella in cui l'architettura manierista 'derivò' dal linguaggio del Quattro- e del primo Cinquecento), che con varie formu­ lazioni 3 è tesi ricorrente nella letteratura critica dedicata alle contemporanee tendenze di punta dell'architettura. Queste tuttavia, proprio per la loro proclamata eterogeneità, non potevano non far riproporre, altresì, il termine « eclettismo »: beninteso capovolgendone più o meno esplicitamente, in senso positivo, le connotazioni negative di cui lo aveva caricato la prima storiografia del Movimento Moderno. Ne sono scaturiti ulteriori, variamente suggestivi 'paralleli' 4, ed è venuta cosl a delinearsi una sorta di 'genealogia sincronica' del Post­ Modernism - da una fase « manierista » ad una di « radical eclecticism » (ovvero, come vedremo più oltre, da una fase Late Modem ad una Post-Modem, che sarebbero compresenti nella situazione attuale). In senso molto generale, può dirsi che la teorizzazione e la pratica della deroga caratterizzino sia il Manierismo che il Post-Modemism; sotto un profilo più specifico, è stato in­ vece chiamato in causa un altro fattore: il prevalere, cioè, dell'immagine sulla forma. Per il Manierismo, tale aspetto

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era stato già osservato a suo tempo da Tafuri 5; per il Post­ Modernism, l'ha recentemente ribadito Goldberger, ponendo in evidenza di questa linea, come tratto distintivo, « la domi­ nanza dell'immagine in sé, la tendenza a far sì che sia questa a determinare la forma, e non viceversa » 6• Tuttavia, alla luce della definizione di Classicismo matu­ rata dalla contemporanea storiografia architettonica, la pre­ sente situazione disciplinare non sembra tanto accostabile a quella tardo-cinquecentesca, quanto piuttosto - ma come vedremo, si tratta di un'analogia 'di superficie' - a quella del lungo periodo (« the vaste gulf of Revivalism », lo ha chiamato Collins) che va dalla crisi del linguaggio classico, intorno alla metà del Settecento, fino agli ultimi decenni del secolo successivo. E quindi l'analogia più complessa - e sconcertante - che viene a delinearsi è quella fra i ruoli storici dei linguaggi del Classicismo e del Movimento Mo­ derno; analogia che naturalmente non implica affatto mecca­ niche equivalenze, che anzi si articola attraverso sostanziali diversità e talora 'opposizioni', ma che comunque porta a considerare in un'ottica per certi versi inedita la cosiddetta « tradizione del nuovo ». Classicismo e Movimento Moderno presentano indubbia­ mente al loro interno articolazioni multiple, che nell'ambito dell'uno si organizzano prevalentemente in maniera diacro­ nica (Rinascimento, Manierismo, Barocco e Rococò sono le ben note, principali periodizzazioni storiografiche) 7, mentre in quello dell'altro, viceversa, si correlano secondo modi pre, valentemente sincronici. Nel caso del Movimento Moderno, infatti, l'arco temporale relativamente ristretto accentua il carattere di intreccio e di interazione tra le diverse compo­ nenti, e le contraddizioni interne - come altrove abbiamo cercato di mostrare 8 - non vanno certo correlate alla ricor­ rente opposizione razionalismo/architettura organica, bensl a fattori di ordine strutturale, e ancora una volta storico. Ciò posto, ci sembra però in effetti che, per il Movimento Moderno, sia del tutto lecito trasporre in termini analoghi (e taluni, beninteso, 'ribaltati') il concetto a nostro parere 6 fondamentale secondo cui « ... l'autentico parametro uniti-


catore delle vicende dell'architettura dal '400 ai primi decenni dell' '800 è il Classicismo, con tutta la sua carica ideologica di razionalità e di laicismo, con tutte le istanze di unifica­ zione della scena delle azioni umane attraverso la visione prospettica, con tutte le sue istanze etiche, riflesse, fra l'altro, nella ricerca di un concreto rapporto con l'antico» 9• Classicismo e Movimento Moderno possono cioè, a nostro parere, essere considerati come parametri unificatori di espe­ rienze che tengono il campo architettonico in archi tempo­ rali di durata storica diversissima (ma di equivalente 'den­ sità') svolgendo un ruolo analogo in quanto termini genera­ lizzanti in senso concettuale e teorico, e capaci come tali di 'assorbire' le articolazioni formali che si manifestano al loro interno. Entrambi, da parametri unificatori di ordine preva­ lentemente concettuale, incardinati ciascuno attorno ad una specifica 'idea di architettura', sono destinati a subire- l'uno nell'arco di secoli, l'altro in quello di decenni - un pro­ gressivo processo di riduzione ai significanti e di svuotamento teorico e ideologico, a divenire puri sistemi formali 'vuoti', disponibili a veicolare significati eteronomi e talvolta con­ traddittori, in ogni caso indipendenti dagli originari; a per­ dere il proprio valore universale, 'obiettivo' e 'logico', la propria « aura », per ridursi a sistemi di clichés ripetitivi, a formule. Questa disponibilità ad una eterosemantizzazione, già notata per il linguaggio del Neoclassicismo 10, vale anche - e forse a maggior ragione - per l'Intemational Style: entrambi sbocchi 'vuoti' di linguaggi originariamente quanto mai 'pieni' in senso semantico. Potrebbe apparire contraddittorio accostare Classicismo e Movimento Moderno in questa prospettiva, anche perché i termini «classico» e «moderno» sono stati, anche di re­ cente, assunti a sigle definitorie di antitetici atteggiamenti linguistici e sintattici 11; ma poiché non è su questo piano che intendiamo porre il nostro parallelo, è il caso di deli­ neare - al di là delle evidenti e non contestabili diversifica­ zioni - le analogie di struttura, che sussistono pur nella contrapposizione di 'nodi' concettuali comunque rispondentisi, 'termine a termine', con valore oppositivo, 7


Classicismo e Movimento Moderno condividono una con­ cezione laica e razionale dell'architettura come sistema/ metodo in grado di 'rappresentare'/trasformare la struttura sociale, ed al cui interno l'uomo (individuo/massa) giuoca un ruolo determinante. Nell'un ciclo culturale si postula la prio­ rità del modello formale, nell'altro quella del modello fun. zionale; ma in entrambi, i termini 'funzione' e 'forma' sono legati da una correlazione di reciproca derivabilità - oppo­ stamente direzionata - che li connette, sancendone la non­ indipendenza. Conseguentemente, nel primo sembra instau­ rarsi il predominio di un 'ideale estetico' (dovuto appunto al privilegio accordato al modello formale), nel secondo quello di un 'ideale etico'. Ma in effetti, se l'ideale estetico del Classicismo è carico di connotazioni 'etiche' (quanto meno virtuali, intese cioè come valenze aperte da saturare), a sua volta l'ideale etico del Movimento Moderno è carico di impli­ cazioni estetiche, che vanno ben al di là di quelle usualmente citate - come la 'trasparenza' all'uso, il gusto machiniste, il rifiuto dell'ornamento 12, e così via. Dove però l'analogia risulta più sconcertante, e ciò al di là delle apparenti contrapposizioni, è nel rapporto con la storia. Il Classicismo postula un 'modello' di valore assoluto, identi­ ficandone, in un momento particolare della storia, la ideale fase di esplicitazione in un sistema di regole, e in un gruppo di opere altrettanto paradigmi formali e tipologici 13• Con ciò, viene di fatto ad essere operata, nella diacronia della vicenda architettonica, una specifica sezione sincronica, effettuandosi per così dire il 'prelievo', dalla continuità degli svolgimenti appunto storici, di un particolare 'strato', da ipostatizzare nella formalina dell'assolutezza e universalità del modello. A questo punto, il passato perde la sua concreta natura di svolgimento; quel particolare momento, assunto a norma asso­ luta, potrebbe essere un puro costrutto teorico senza riscontri reali - e di fatto, come sappiamo, tale si rivelerà in seguito 14• Di conseguenza, proprio l'origine storica del modello univer­ sale, ossia il postulato rapporto con il passato, da fattore primario diviene per così dire carattere secondario, con il da struttura storica a costrutto teorico. trapasso 8


Il Movimento Moderno - pur partendo da una posizione antitetica, di rigetto del passato - compie un'operazione che, contro le apparenze, finisce col risultare analoga. A conferma, basti ricordare cos'abbia realmente significato il « rifiuto della storia» da parte del Movimento Moderno, in particolare nella didattica del Bauhaus 15 • Altrove 16 abbiamo cercato di analiz­ zare questo 'nodo' del Movimento Moderno, sul quale qui non ci soffermeremo limitandoci a rilevare come l'espulsione della storia dall'orizzonte teorico del Movimento Moderno costi­ tuisca operazione simmetrica e 'ribaltata' del prelievo dalla storia, postulato dal Classicismo, di una norma di valore asso­ luto. Possiamo quindi qualificare l'operazione condotta dal Movimento Moderno in termini analoghi a quelli delineati per il Classicismo: al 'modello' di quest'ultimo si contrappone (e corrisponde) un metodo operativo progettuale 'esemplare', di validità 'obiettiva' (ossia appunto metastorica ed univer­ sale): un metodo applicabile a tutte le scale, « dal cucchiaio alla città », e in tutti i contesti. Naturalmente questo metodo è centrato sugli aspetti etici, funzionali ecc., del 'sostantivo' architettura, e deliberatamente espunge (« puritanamente », si dirà poi) il problema degli 'aggettivi' stilistici che a tale sostantivo possono accompa­ gnarsi. Con ciò il Movimento Moderno si colloca in una pro­ spettiva apparentemente antitetica a quella del Classicismo. Ma se riflettiamo alla doppia, e inversa, relazione di dipen­ denza funzione !:::; forma prima delineata, ci rendiamo conto del fatto che in realtà il proposito è - in entrambi i casi, del Classicismo e del Movimento Moderno - quello di ritro­ vare un « device » ossia un meccanismo (sistema formale nel­ l'un caso, metodo operativo progettuale nell'altro), valido 'sempre', definito una volta per tutte: in altri termini, un quadro di riferimento metastorico e universale, obiettivo e logico, frutto di 'ragione'. Beninteso quest'ultima, per motivi appunti storici, non è - non può essere - nei due casi 'la stessa'; ma equivalenti risultano le posizioni che, nei confronti dell'architettura, ne scaturiscono: così che per il Movimento Moderno si è potuto parlare di « ••• un nuovo classicismo, dunque, o piuttosto un anticlassici-

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smo totale, ma proprio perciò altrettanto assoluto e apo­ dittico... » 17• Se ora consideriamo i due cicli, Classicismo e Movimento Moderno, per così dire in parallelo, e avendo chiaro come nel secondo, come già si è accennato, si verifichi una sorta di 'compattazione sincronica' di articolazioni che per il primo sono distese in un arco temporale assai più ampio, possiamo cercare di ritrovare, ancora, delle analogie/diversità sia nei fattori caratterizzanti, sia in quelli che dei due cicli hanno determinato, o accelerato, l'entrata in crisi. Citiamone alcuni fra i più significativi, nell'un senso e nell'altro. Comune ai due cicli è l'impegno per la definizione di una cultura razionalmente strutturata e trasmissibile, in cui la norma - e rispettivamente il metodo - giuocano il ruolo di fattore 'obiettivo'. Comune è altresì la ricerca di principi compositivi semanticamente fondati (la « antisimmetria» del Movimento Moderno è altrettanto saldamente strutturata, in senso teorico, quanto la speculare o assiale equivalenza postu­ lata dal Classicismo), e soprattutto esplicitamente codificati (difficile ad esempio non ritrovare, nella lecorbusiana enun­ ciazione dei « cinque punti», una palese intenzionalità 'trat­ tatistica', se pure trasposta nei termini di una cultura stori­ camente diversa). Ancora, comune a Classicismo e Movimento Moderno è la tendenza ad individuare aree di ricerca in senso tipologico - ovviamente non le medesime - con il fine, ed il risultato, di una specifica caratterizzazione dell'un ciclo culturale, e dell'altro, in un senso che potremmo defi­ nire tematico. Comune, infine, è la linea di fondo, tendenzial­ mente 'esclusivista', ma al cui interno sono rintracciabili varianti e 'sgarri' intenzionali; questi tuttavia, proprio in quanto 'licenze', non fanno che ribadire la struttura program­ maticamente coerente e unitaria di un sistema/metodo où tout se tient (o almeno dovrebbe). Se quanto sopra vale per un cenno, evidentemente som­ mario, ai fattori caratterizzanti ed emblematici, vediamo ora di converso quegli aspetti, anch'essi omologhi, che dei due marcano l'entrata in crisi sul piano specificamente dicicli 10


sciplinare, al di là cioè dei motivi di ordine storico-strutturale. Comune è anzitutto il processo di graduale distacco del piano dei significanti da quello dei significati, con la progressiva autonomizzazione di entrambi, e il prevalere graduale del primo sul secondo. Fenomeno questo che si verifica, per il Movimento Moderno, nonostante l'iniziale asserita predomi­ nanza in esso del piano dei contenuti, e che è del resto tipico dei processi di riduzione di un sistema architettonico 18 a mero repertorio stilistico-formale. Infatti, con l'affermarsi dell'International Style la relazione funzione ➔ forma postu­ lata dal primo Movimento Moderno si inverte in una rela­ zione forma ➔ funzione singolarmente analoga a quella pre­ sente nel Classicismo - e non importa che il processo venga 'attualizzato' con l'ideologia della mutevolezza della funzione stessa, con la mitizzazione della 'flessibilità' e con la correlata fortuna critica e pratica del 'contenitore' 19• A riprova, del resto, del formalismo in cui si ribalta l'iniziale funzionalismo, si consideri come il rifiuto della simmetria intesa quale spe­ culare eguaglianza (che nel primo Movimento Moderno si era strettamente legato al metodo dell'analisi funzionale) si ri­ duca ora - quando pure sussiste - a mero espediente for­ male ovvero, più spesso, venga di fatto negato, come avviene nella più sostanzialmente 'simmetrica' delle collaudate for­ mule dell'International Style: il curtai11-wall. Ma naturalmente, è sul terreno teorico che vengono poste più radicalmente in discussione le basi concettuali, e del Classicismo e del Movimento Moderno. Anche se l'estetica classica e quella della «tradizione del nuovo » hanno utilizzato parametri completamente diversi, è rintracciabile in entrambe l'idea di un «bello» - rispettiva­ mente naturale/artificiale - da raggiungere con mezzi diversi e con diverse finalità, al fine di dimostrare, nell'un caso e nell'altro, la validità degli assunti teorici di partenza. In altri termini, il raggiungimento del risultato estetico è visto come l'ovvio riscontro dell'applicazione del sistema teorico, o rispettivamente del metodo operativo teorizzato; ed il suo mancato ottenimento può solo essere interpretato come 'scacco', come non-corretta applicazione dell'indica- 11


zione fornita dal precetto, che si tratti di norma o di meto­ dologia. Naturalmente, l'obiettivo estetico si qualifica, nei due casi, in maniera diversa e per molti aspetti antitetica. Non solo, infatti, Natura e Macchina rappresentano, rispettivamente, i punti di partenza per l'elaborazione di estetiche divergenti quanto ai canoni ed ai parametri; ma soprattutto, com'è ben noto, l'unicità nell'un caso, la serialità nell'altro, costi­ tuiscono i contrapposti correlati della nozione di qualità este­ tica. Questa tuttavia è espressa, in entrambi i casi, 'in posi­ tivo': o come sintesi dei concetti di armonia, corrette pro­ porzioni ecc., riassunti nel termine di «venustas»; o vice­ versa come espressione di quei caratteri di fitness, rispon­ denza all'uso, 'trasparenza alla funzione', ecc., che fanno capo alla nozione del nutzlich, e quindi ai concetti di Sachlich-, o meglio ancora di Zweckmiissigkeit. Le estetiche 'in positivo' del Classicismo e del Movimento Moderno entrano in crisi a due secoli circa di distanza l'una dall'altra. Alla metà del Settecento, attraverso l'enunciazione della dicotomia bello/sublime nella sua Philosophical lnquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful (1756), Edmund Burke opera quella che probabilmente è la prima contestazione esplicita del concetto di « venustas », con tutto il complesso delle sue ormai codificate connotazioni. La bellezza non sta nell'ordine, nella regolarità, nell'armonia, nelle proporzioni, bensì nella « smallness, smoothness and delicacy» del sublime, e nelle reazioni ed associazioni che tale valore estetico è in grado di suscitare. Ciò comporta una virtuale estensione, al campo architettonico 20, di concetti che già precedentemente (con la serie degli articoli apparsi nello « Spectator» nel 1712, e intitolati The Pleasures of Imagi­ nation) John Addison aveva espresso con riferimento ad altri campi artistici. Il discorso di Addison, includendo «de­ ligbtful scenes, whether in nature, painting or poetry», me­ scola Jcome si vede i due piani del reale («nature») e del fantastico (« painting or poetry »); ma ciò che più importa, è il fatto che egli includa fra i «piaceri dell'immaginazione ,. 12 non solo la visione del bello, ma anche quelle dell'imponente,


dell'inconsueto, dell'orrido al limite: poiché addirittura « no­ velty bestows charms on a monster, and makes even the imperfections of nature please ,., Bellezza dunque non è (più) 'armonia', visto che « ali beauty is romantic beauty ,., Queste posizioni in campo estetico precorrono com'è noto, in termini teorici, tutta una nuova poetica architettonica. Ma soprattutto, esse costituiscono, in nuce, la formula di un'este­ tica 'in negativo' contrapposta a quella, tutta 'in positivo', della « venustas ». Analoga - fatte evidentemente tutte le debite differenze è l'operazione di rottura che Robert Venturi compirà riven­ dicando, contro la «univalence and consistency,. del Movi­ mento Moderno, la necessaria « complexity and contradiction ,. dell'architettura, e teorizzando il valore dell'« ugly and ordi­ nary ,. contro lo « heroic and originai ,., del «decorated shed» contro il «duck ,., L'accostamento non deve apparire impro­ prio: è evidente che, in contesti culturali diversi, differenti sono i livelli e gli strumenti; ciò che importa nel nostro caso è il comune proposito della messa in crisi di un sistema estetico ed etico 'in positivo', l'inizio cioè della trasformazione di una struttura stabile in una che si vuole deliberatamente labile. « ... Complessità e contraddizione vs semplificazione; am­ biguità e tensione anziché chiarezza; 'e-e' anziché 'o-o'; ele­ menti con ruolo duplice anziché unico, elementi ibridi anzi­ ché puri, e vitalità caotica (ovvero 'il difficile tutto') anziché una scontata unitarietà »; così Jencks sintetizza le opposi­ zioni enunciate da Venturi in Complexity and Contradiction in Architecture (1966), sottolineando però come, a suo parere, ancora ci si muova a livello di gusto («taste») anziché di significazione, e soprattutto in termini di contrapposizione al Movimento Moderno, mentre l'atteggiamento Post-Modem sarà tipicamente inclusivo anche nei confronti della «tradi­ zione del nuovo» 21• Peraltro, i segni di insofferenza verso l'estetica 'puritana' del Movimento Moderno, si erano in parte già andati mani­ festando, ed erano destinati a proliferare. Italia e Stati Uniti, com'è noto, sono fra le aree culturali in cui il neo-storicismo 13


degli anni cinquanta muove i suoi primi passi. Se infatti del '55 è il saggio di Philip Johnson The Seven Crutches of Modern Architecture (nel '62 gli farà seguito The Processional Element in Architecture), dei primi anni cinquanta sono altresì le opere di architetti italiani (Gabetti-d'lsola, Albini-Helg, ecc.) che, etichettate di neo-liberty, suscitano le ben note, violente reazioni critiche dei Pevsner e dei Banham sulla « Italian Retreat from Modem Architecture ». Siamo alle prime avvi­ saglie di un neo-storicismo in fieri, che peraltro nei futuri sviluppi divergerà non poco dai propositi degli esordi. · Del resto, gli antecedenti immediati del Post-Modernism sono alquanto complessi. Per un verso, è stato messo in luce il ruolo di Eero Saarinen, fra i primi a volere un'architettura « richer and prouder », ed a passare dalla coerenza linguistica del Movimento Moderno ad una pluralità stilistica (legata ai vari temi progettuali) che negli anni cinquanta è neo-eclettica avant la lettre 22• Per l'altro, è stata anche analizzata - e beninteso si tratta solo di alcuni esempi - la 'doppia parte' giuocata da Louis Kahn, esclusivista da un lato, ma che per il suo ricollegarsi ai principi Beaux-Arts, per la storicità delle fonti, per il gusto di una forma ricca e 'classica', densa anche di valori di texture, si contrappone al linguaggio di forme 'pure' del Movimento Moderno, ed esercita una spinta deci­ siva verso nuovi sviluppi. Benché i tramiti siano mediati e non lineari, dietro progetti come la Guild House di Venturi & C., è anche Kahn che si ritrova; pur se, naturalmente, il ruolo esplicato sia dall'uno che dall'altro risulterà più com­ plesso di quanto di per sé una tale 'derivazione' non com­ porti, e se per Venturi, sotto il profilo che ci interessa, ciò dipenderà anche dall'influenza esercitata attraverso scritti come quelli di Learning from Las Vegas. Tuttavia, non è certo solo per il ruolo dei 'pionieri' qui sopra citati, che la cultura architettonica americana può es­ sere definita come un incrocio decisivo per i sentieri del Post-Modemism. Si pensi all'influenza esercitata dai cosid­ detti 'Five' e da una contrapposizione come quella tra 'White' e 'Grays', al ruolo di un Robert Stero e di un Charles Moore, ma anche di uno Stanley Tigerman, all'azione condotta 14


dagli 'immigrati' (Agrest, Ambasz, Gandelsonas, Machado e gli altri): non vi sono dubbi sul buon diritto della cultura americana contemporanea a rivendicare una posizione di punta nell'elaborazione delle molte sfaccettature del Post­ Modernism 23• Ma quest'ultimo, naturalmente, nasce anche dal­ l'intreccio di tante altre voci, ciascuna con una propria speci­ ficità di intonazione e di accenti: dalla diversificata produ­ zione dei 'catalani' 24 e di altri europei, fino a quella di molta parte dell'architettura giapponese contemporanea 25• Anche i brevissimi cenni qui svolti sono sufficienti a ri­ chiamare la pluralità delle tendenze rintracciabili nel Post­ Modernism. Ciò che però mette conto di sottolineare, è la circostanza per cui tutte le varie componenti - il neostori­ cismo, il recupero della contestualità e del vernacolare, il gusto dell'ambiguità e della sorpresa, la ricerca di un nuovo monumentalismo 26 (e tutte le altre che si potrebbero citare) non costituiscono affatto, ciascuna per sé sola, elemento dav­ vero significativo né tanto meno determinante. Ciò che conta è viceversa il loro interagire - tutte, e contemporaneamen­ te - in una civiltà culturale complessa e mass-mediologica­ mente dominata. Il parallelo con i revivals storicistici e con l'Eclettismo va dunque 'filtrato' con una serie di fattori cor­ rettivi di ordine culturale e sociologico oltre che specifica­ mente linguistico, e solo con tali cautele può risultare utile e non fuorviante. Con queste premesse, l'analogia Eclettismo/Post-Moder­ nism può essere delineata dicendo che - come dal relativismo illuminista, dalla nuova estetica fondata sull'associazionismo, dal gusto della remoteness spaziale e temporale, dall'influenza delle esperienze figurative della pittura di paesaggio e dalla fortuna letteraria del gothic novel nascono il pittoresco, i revivals e quindi l'eclettismo storicistico - così dall'insof­ ferenza verso il dogmatismo 'puritano' del Movimento Mo­ derno e la frigidità asettica dell'International Style; dalla teorizzazione della « ugliness » come valore; da una volontà di sperimentalismo linguistico che risulta alimentata anche dalle contemporanee ricerche semiologiche; dal gusto dell'am­ biguo e del contraddittorio (dell'« e-e» piuttosto che del-

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l'« o-o»), è nata quella tendenza che chiamiamo Post-Modem tutto sommato soltanto per mancanza di un'espressione mi­ gliore, in realtà ben consci della sua inadeguatezza di « drab, negative and erroneus moniker » 17 • Ma sia l'interpretazione del Post-Modernism in chiave di eclettismo, sia gli assunti dichiarati di tale tendenza, meritano qualche precisazione ulteriore. In effetti, se da un lato non si perde occasione, da parte di molti critici, per sottolineare come l'inclusivismo differenzi il Post-Modernism in rapporto al Movimento Moderno ed al suo esclusivismo, dall'altro poi si cerca di delimitare una ri­ stretta area di preteso Post-Modernism 'autentico', cui con­ trapporre altre posizioni (ad esempio quelle etichettabili come Late Modem) 28• Questa distinzione, sul cui merito ritorne­ remo, non convince anzitutto perché in contraddizione con il tipico, asserito inclusivismo del Post-Modernism, volto a 'riassorbire' lo stesso Movimento Moderno 29 (e in ciò, natu­ ralmente, nulla di particolarmente nuovo, visto che anche l'eclettismo ottocentesco aveva seguito la medesima linea rispetto ai propri antecedenti). Dunque il Late Modernism non può caratterizzarsi in senso autonomo come tendenza corrispondente ad una posizione 'manierista' nei confronti del linguaggio del Movimento Moderno, giacché 'per definizione' il Post-Modernism include anche la « tradizione del nuovo» tra le possibili fonti del proprio eterogeneo lessico, assieme al pittoresco e al vernacolare, allo Shingle Style e agli ordini classici, al recupero dell'ornamentalismo e di certi simbolismi planimetrici da « architecture parlante» 30; cosl come, a parte la spiccata predilezione per il layering, parrebbe includere nella propria 'disponibilità' sintattica sia i tradizionali co­ strutti gerarchizzati, sia quelli paratattici (Bonfanti). (E a questo punto, sembrerebbe proprio di dover dare ragione a Charles Moore quando propone come etichetta complessiva il termine generico di « nostalgie », o meglio ancora di • nostalgesque ») 11. 16

Quale sarebbe dunque l'assunto teorico sul quale incardinare la distinzione tra Late Modernism e Post-Modernism?


Com'è noto, secondo Jencks tale distinzione si fonderebbe sulla consapevolezza, nell'ambito del secondo, del ruolo emi­ nentemente comunicativo dell'architettura, sul rifiuto del­ l'asserito elitarismo semantico del Movimento Moderno, e quindi sul deliberato ricorso ad un « double-coding » come tratto distintivo del Post-Modernism. L'adozione di un proce­ dimento di codificazione su due livelli risponderebbe ad una finalizzazione semantica 'doppia': l'una elitaria, riservata agli specialisti disciplinari, in altre parole agli 'addetti ai lavori'; l'altra di massa, rivolta all'« uninformed beholder», e come tale in sintonia con le forme culturali più tipiche del nostro tempo e della cultura mass-mediologica. Proprio su questo punto anticipiamo - e cercheremo più oltre di dimostrare - il nostro dissenso. Infatti, nello spinto sperimentalismo che contrassegna il Post-Modernism predo­ mina una componente di giuoco intellettualistico (discutibile in quanto tale, ma senza dubbio caratterizzante) che ne rende gli esiti attuali assai lontani dalle prime proposte (nonché dai propositi) di chi difendeva il « decorated shed » e la « ugly and ordinary architecture » della Guild House nei confronti del linguaggio « heroic and origina!» di Crawford Manor 32• Quelle posizioni teoriche, e i contemporanei progetti, riflet­ tevano - magari un po' semplicisticamente - una dichia­ rata volontà di comunicazione a livello di massa. Ma nel­ l'ambito del Post-Modernism la tendenza al « simbolismo esplicito» è stata rapidamente messa da parte (e d'altronde lo stesso Venturi è approdato a ben più sofisticati allusio­ nismi, ad esempio in una Franklin Court); cosicché proprio da questo punto di vista, il neoeclettismo contemporaneo ri­ sulta assai lontano dai suoi antecedenti ottocenteschi. Il revivalismo del secolo scorso, infatti, era caratterizzato da un sistema di rispondenze semantiche relativa.mente uni­ voche e notevolmente stabili. :E:. ben vero che, rispetto alla codificazione connotativa classica di matrice vitruviana, molte variazioni si erano instaurate proprio in forza del fatto che, ovviamente (e Gombrich lo ha chiarito benissimo) .u, non esiste alcun legame 'intrinseco' fra un dato sistema stilistico­ formale, e il complesso delle significazioni ad esso associate.

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Tuttavia, una volta ribadito come il significato di un qualsiasi sistema architettonico sia un dato storico e come tale relativo e non assoluto 34, va altresì riconosciuto come, nell'uso degli stili da parte degli architetti revivalisti, fosse identificabile una volontà comunicativa - in termini sia di convenzione codificata che associazionistici (anche in rapporto, quindi, alle teorie estetiche prima richiamate) - palesemente indi­ rizzata verso l'esplicito, pur nel giuoco delle allusioni e nella predilezione per quel gusto della contestualizzazione anomala che è sintetizzato nel termine remoteness. Di contro, l'eclettismo Post-Modern sembra, o puntare molto banalmente da un uso asemantico di singoli elementi additivi (come fra tutti quelli decorativi e ornamentali) di incerta derivazione pseudo-storica e/o vernacolare, ovvero - nei casi più sofisticati - mirare ad un uso talmente poli­ senso, eterodosso ed ambiguo, dei frammenti che preleva da molteplici 'altrove', da renderne irrintracciabile o quasi vero labirinto semantico - il complesso delle significazioni e il percorso del senso. Nel primo caso, il giuoco risulta sco­ pertamente formalistico: gli elementi 'ornamentali' sono giu­ stapposti «on the surface», l'impiego e il mixaggio di stili diversi hanno una mera finalizzazione commerciale, di co­ smesi della scatola edilizia , e siamo cioè nell'ambito di un gusto inteso nel senso più deteriore del termine. Nel secondo caso, all'opposto, il giuoco dei rimandi è così deliberatamente complesso 35, gli apparenti simbolismi tanto deliberatamente fuorvianti, il sistema linguistico di partenza così ambigua­ mente 'deformato' che in realtà, ben lungi dal trovarsi in presenza di una doppia codificazione nel senso prima preci­ sato, si è di fronte a 'testi' architettonici la cui analisi è quanto mai ardua e 'aperta': al punto che pochi sono i 'lettori' in grado di penetrare nel meccanismo della fabula 36• Il problema sembra stare nel fatto che il rapporto con l'ar­ chitettura è assai meno libero di quello con la letteratura 37; l'« uninformed beholder », cioè, non è solo tale ma è anche, volente o nolente, «user». E come sappiamo, l'esperienza dell'architettura non si risolve solo sul piano della funzione, della fruizione pratica, ma implica viceversa un rapporto più


complesso. Ciò significa che una scelta evasiva o elitaria, sul piano della significazione, non è irrilevante. Ora, è vero che il Movimento Moderno ha potuto essere, non a torto, accusato di insufficiente attenzione ai problemi della significazione (anche in rapporto al privilegio accordato alla funzione); è vero che si è contrapposto il suo 'silenzio' alla 'eloquenza' del linguaggio classico 38 e che, ancora assai di recente, si è voluto ribadire come il razionalismo abbia comportato una riduzione semantica 39• Ma parlare per il Post-Modernism, come fanno i suoi fautori, del recupero di una dimensione di significazione popolare e collettiva, di massa, in contrapposizione all'asserito elitario e 'puritano' sistema di significazione del Movimento Moderno - appare in verità difficilmente sostenibile. Né vale, sotto questo aspetto, l'asserita dicotomia tra Late Modemism e Post-Modernism 40• Non sembra infatti rilevabile una sostanziale differenza, che vada cioè al di là del grado di sofisticazione delle allusioni più o meno implicite/esplicite, fra episodi come il grattacielo di Johnson per l'AT & T, o il Pavillon Soixante-Dix di Righter, Rose e Lankin, o il por­ tico aggiunto da Kijima al tempio Matsuo di Kamimuta, o i progetti di case di un Thomas Gordon Smith, o ancora il Culture Bridge tra Fargo e Moorhead di Michael Graves 41• Certamente, - e almeno a giudicare dai rendered drawings disponibili - al pari del successivo progetto per i PPG Head­ quarters a Pittsburgh 42, il grattacielo newyorkese per l'AT & T si inquadra nell'eclettismo storicistico di Johnson se­ condo livelli allusionistici plurimi 43 (il che sembrerebbe avva­ lorare il giudizio di Goldberger che lo accredita come il « Post-Modernism's major monument »), mentre ben più com­ plessi risultano i procedimenti di 'doppia estraniazione' adottati da Kijima 44 allorché ha aggiunto un portico 'classico' e 'occidentale' al Matsuo Shrine, adottando però, per i pre­ scelti elementi di una sorta di ordine dorico, un tipico finishing industriale 45• Senza dubbio, i meccanismi associativi stimolati dal Pavillon Soixante-Dix 46 - al di là delle pretese ascendenze palladiane - sono ad un livello che con termino­ logia degli anni sessanta si definirebbe middlebrow 47; mentre

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di tutt'altro ordine risultano i procedimenti messi in atto da Graves nell'elaborare il progetto del Culture Bridge 48, e ri­ chiamati negli schizzi che accompagnano il disegno finale, chiarendone la genesi formale: Ledoux e il Vanbrugh di Castle Howard, il timpano spezzato e la serliana, il tema manierista della 'faccia' e (capovolta) la lanterna borromi­ niana del San Carlino, la pietra caduta dalla chiave dell'arco, e l'acqua che fuoriesce da un semicilindro. Ma ribadita la 'distanza' e la pluralità dei livelli associa­ tivi e delle citazioni, e la possibilità quindi di operare tutta una serie di distinzioni 'del secondo ordine', ciò che sembra di poter confermare è il fatto che la dimensione più tipica del Post-Modernism - contro talune apparenze, e contro le dichiarazioni della maggior parte di protagonisti e fautori resta quella di un'elitaria e sofisticata rarefazione intellettua­ listica (del resto da alcuni espressamente rivendicata) 49, dalla quale restano fuori solo gli episodi di più scontata compia­ cenza pseudo-stilistica. Se non ci sentiamo, cioè, di sotto­ scrivere l'asserto per cui « i Post-Modernists ... si abbando­ nano ad un confuso eclettismo per mascherare la circostanza di non aver quasi niente da dire» 50,è perché pensiamo, piut­ tosto, che lo sperimentalismo linguistico nato dallo storicismo degli anni cinquanta sia andato oltre il segno. Ben al di là, cioè, delle intenzioni di coloro che, all'inizio, si proponevano di contrapporre alla 'difficoltà' del linguaggio « heroic and original» del Movimento Moderno, il simbolismo esplicito e facile della « ugly and ordinary architecture»; tanto al di là, da divenire campo di lavoro progettuale e critico decisamente elitario: tematiche architettoniche da un lato, ed esegesi inter­ pretative dall'altro, sono lì a dimostrarlo. Un ulteriore carattere che - se pure implicitamente conferma la destinazione elitaria del Post-Modernism (ma anche di altre tendenze contemporanee di punta) è costituito dal peso assunto dal disegno di architettura come strumento in sé 51 , o in altri termini e in senso più generale dalla cosid­ detta« architettura di carta», intenzionalmente riservata cioè ad una fruizione atipica. Fra i tanti accostamenti che una tale posizione può suscitare, non manca naturalmente il ri-


chiamo alla Glaserne Kette di Taut e dei suoi corrispondenti. Solo che, nell'attuale condizione, la capacità del sistema di 'digerire' atteggiamenti protestatari di questo tipo, anzi di alimentarsene, rende sospetti come 'finti naufraghi' anche i superstiti del Radeau de la Méduse di Koolhaas & C. Ma non sembra, questo, il più preoccupante degli aspetti negativi. Piuttosto, va rilevato che il carattere così pervica­ cemente intellettualistico, elitario e/o evasivo, di questo tipo di sperimentalismo architettonico; la sua inevitabile finaliz­ zazione a pochi, particolari temi di marca 'aristocratica' (la grande residenza privata, il negozio raffinato e così via), lon­ tanissimi dai maggiori problemi (quelli sì di massa) dell'ar­ chitettura contemporanea; il distacco, in altri termini, dalle più flagranti aree di ricerca attuali per una cultura architet­ tonica veramente diffusa e collettiva, hanno conseguenze assai pesanti. Non solo infatti i fattori sopra citati concorrono a scavare un solco sempre più profondo fra intellettuali e 'pubblico' dell'architettura, ma altresì, e più specificamente, ciò significa che, « raggiunti alti livelli di integrazione com­ plessiva nei settori determinanti, ci si può permettere di alimentare spazi ben ritagliati per la cultura, affidando loro il compito di intrattenere piacevolmente un pubblico sele­ zionato» 52• A questo punto i « settori determinanti» possono tranquillamente essere delegati alle iniziative ed alla capacità di elaborazione progettuale del più corrente e routinier dei professionismi (e non è nemmeno, questo, il peggiore dei casi): tutto quel vasto campo tematico e tipologico - che comincia con la residenza di massa, ma che non si esaurisce certo con questa - che il Movimento Moderno aveva annesso al territorio dell'architettura, rischia di essere di nuovo di­ sertato dalla ricerca disciplinare, e abbandonato ad iniziative che con l'architettura poco hanno a che fare. In conclusione dunque, e anche ammessa nel Post­ Modernism una valenza di Radical Eclecticism che lo acco­ sterebbe (ma a nostro parere 'per differenza' almeno nella stessa misura che 'per analogia') al revivalismo ottocentesco, allora lungi dal mitizzarlo occorre piuttosto coglierne il senso autentico - ossia lo 'scollamento' fra i due piani della signi- 21


ficazione, con il correlato affermarsi di uno sperimentalismo architettonico ridotto a livello di pure immagini - e aver chiaro come esso non possa in alcun modo costituire né una trionfale 'uscita' né una modesta sartie de secours dalla tut­ tora persistente crisi dell'architettura. In effetti, se qualcosa le parabole del Classicismo prima e del Movimento Moderno poi hanno definitivamente chiarito, questo è proprio il fatto - che anche recentemente abbiamo cercato di analizzare, su questa stessa rivista 53 - che non è rimuovendo i motivi di una crisi, che se ne esce. A nostro vantaggio, sta la consapevolezza del fatto che non è un ulte­ riore 'sistema di certezze' che occorre costruire, in alterna­ tiva ai precedenti 'sistemi' del Classicismo e del Movimento Moderno, bensì una razionale attitudine al 'dubbio metodico'. Attitudine, è appena il caso di dirlo, dalla quale il brillante funambolismo del Post-Modernism, e la sua disinvolta cer­ tezza di riuscire a comunicare (che cosa poi?) 'con tutti', ci sembrano in verità lontanissimi.

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1 P. GoLDBERGER, Post-Modernism: an Introduction, in « Architectu­ ral Design», n. 4, 1977. 2 Il Post-Modemism • si è sviluppato rispetto al Movimento Mo­ derno in modo molto simile a quello in cui l'architettura manierista si sviluppò rispetto a quella del Rinascimento - come parziale inver­ sione e modificazione rispetto al linguaggio architettonico precedente•· CH. JENCKS, The Language of Post-Modem Architecture, Academy Edi­ tions, London, 1978, 2•. J Cfr., fra gli altri, C. RAY SMITH, Super,nannerism - New Attitudes in Post-Modem Architecture, E. P. Dutton, New York, 1977. 4 e Ho l'impressione... che stiamo entrando in un periodo di ela­ borazione e di eclettismo simile a quello del 1870... ». CH. JENCKS, lsozaki and Radical Eclecticism, in « Architectural Design», n. 1, 1977. s • li Manierismo, come ciclo artistico che scopre, con la crisi della forma, le possibilità autonome dell'immagine, rimanendo ancora so­ speso in un clima di ambiguità tra i due opposti poli che cerca di assorbire in una sintesi superiore ed ambivalente... �- M. TAFURI, L'architettura del Manierismo nel Cinquecento europeo, Officina ed., Roma, 1966, p. 331. 6 e •..il punto fondamentale del post-modernism: lo svanire della distinzione tra architettura come forma e architettura come imma­ gine. Ciò che in effetti caratterizza l'architettura come 'post-modem', non è uno specifico assieme di immagini... ma piuttosto la dominanza dell'immagine in sé, la tendenza a far sf che sia questa a determinare la forma, e non viceversa». P. GoLDDERGER, cit. 7 Tali articolazioni però sono state spesso intese in modo fuor-


viante, e come tali vanno respinte criticamente. « La storia dell'archi­ tettura ha molto risentito del peso della tradizione ottocentesca e burckhardtiana... [che ha concorso ad accreditare] ... una periodizza­ zione basata su una successione di fasi distinte, ognuna con proprie caratteristiche in evoluzione dialettica: all'Umanesimo del primo '400 succedono il Rinascimento cinquecentesco, il Manierismo come fase di transizione e di crisi, la rivoluzione barocca, il Rococò, il Neoclas­ sicismo, l'Eclettismo romantico. In tal modo si nega quanto il Félibien o il Voltaire avevano intuito, vale a dire l'organicità di una struttura storica che ...esaurisce la sua funziu1:e nel momento in cui il lungo processo di formazione della borghesia contemporanea si è concluso e lo stesso concetto di arte, di conseguenza, è posto in crisi•. M. TA­ FURI, L'architettura dell'umanesimo, Laterza, Bari, 1969, pp. 10-11. 8 M. L. ScALVINl, voce « Movimento Moderno• per la IV Riedizione del Grande Dizionario Enciclopedico U.T.E.T. (in corso di stampa). 9 M. TAFURI, L'architellura dell'umanesimo, cit., p. 11. IO « L'esperienza neoclassica può essere intesa come un susseguirsi di diverse utilizzazioni strumentali dei codici sintattici, ...per formu­ lare diversi messaggi (grazie ai diversi codici semantici)•· V. VERCEL­ LONI, voce «Neoclassico», Dizionario Enciclopedico di Architettura e Urbanistica, Istituto Editoriale Romano, Roma, 1969. Il Ovvio naturalmente il riferimento a B. ZEVI, Il linguaggio mo­ derno del/'arclzitcllura - Guida al codice anticlassico, Einaudi, To­ rino 1973. 12 Su quest'ultimo punto, e sulle motivazioni complesse che stanno dietro la fortuna critica dello slogan loosiano « Ornamento e delitto•• cfr. fra i lavori recenti M. CACCIAR!, Loos-Wien, in Oikos: da Loos a Wittgcnstein, Officina ed., Roma, 1975; H. DAMISCH, L'autre 'ich' ou le désir du vide, in « Critique », n. 339-340, 1975; G. TEYSSOT, Loos, Kraus et Wittgenstein, les grands viennois du /angage, in « L'Architccture d'aujourd'hui •, n. 186, 1976; M. L. SCALVINI, Ornamento: semiosi?, in « L'Architettura - Cronache e storia», n. 257, 19n. 13 « I maestri del Rinascimento si sono proposti di dare una formulazione precisa, razionalmente motivata, all'eredità del passato, fissando però questa eredità in una prospettiva metastorica, univer­ salmente valida indipendentemente dal tempo e dai luoghi•· L. BENE· VOLO, Introduzione all'architellura, Laterza, Bari, 1966, p. 229. 14 Infatti, « ...il riferimento alle regole funziona dapprima come punto di convergenza ideale delle varie esperienze, ma appena il nuovo linguaggio si delinea con sufficiente precisione si avverte il contrasto tra la supposta universalità delle regole e la loro reale particolarità... » L. BENEVOLO, ivi, pp. 229-230. 1s Com'è noto, il Bauhaus nasce nel 1919. All'epoca, « .•.con poche eccezioni, ...gli storici dell'architettura erano tutti più o meno reazio­ nari... Essi concepivano i fenomeni storici in termini di 'stili' e di conseguenza, se avessero dovuto includere il movimento moderno nei loro corsi, si sarebbero semplicemente limitati ad aggiungere uno stile in più a quelli del passato. Questo era il modo tradizionale, Beaux-Arts e reazionario, di interpretare la storia, e Gropius aveva perfettamente ragione nel rifiutarlo. Ma commise un errore... [anziché prendere atto della situazione] ... costruì una singolare teoria secondo la quale la storia... avrebbe avuto un'influenza negativa sullo studente di architettura, lo avrebbe condizionato in misura eccessiva, ne avreb­ be paralizzato l'impulso creativo. Questa fu la tragedia•. B. ZEVI, History as a Method of Tcaching Architecture, in AA. VV., The History, Theory and Criticism of Architecture, MIT Press, Cambridge Mass., 1964.

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16 Cfr. M. L. SCALVINI, Antistoricità e storia nel Movimento Mo­ derno, in • L'Architettura-Cronache e storia », nn. 178 e 179, 1970. 11 G. C. ARGAN, Architettura e ideologia, in « Zodiac », n. I, 1957.

18 D'accordo con le recenti osservazioni di Garroni sull'uso diffe­ renziato dei termini «codice• e «sistema ,. (cfr. E. GARR0NI, Ricogni­ zione della semiotica, Officina ed. Roma, 1977, p. 83 e segg.), preferiamo usare per l'architettura, nella nostra prospettiva semiotica, il secondo anziché il primo. Cfr. anche M. L. SCALVINI, Code/System: Some Hy­ pot11eses for Architecture, comunicazione al II Congresso della lnter­ national Association for Semiotic Studies, Vienna, luglio 1979 (in corso di stampa negli Atti). 19 Vedi fra l'altro, in proposito, le recenti osservazioni formulate da Peter Carter in rapporto alla produzione miesiana, e in particolare ai Lake Shore Drive Apartments (cfr. P. CARTER, Mies van der Rohe, in The Rationalists - Theory and Design in the Modem Movement, a cura di D. SHARP, Architectural Press, London, 1978). 20 • Leggendo Burke viene da pensare ad una descrizione antici­ pata dei progetti di un Boullée, di un Lcdou.'C, di un Gilly, o delle Carceri di Piranesi »; l'ossen•azione è d1 L. PATETTA in L'architettura dell'Eclettismo, Mazzotta, Milano, 1975, p. 9. 21 CH. JENCKS, The Language of Post-Modern Architecture, cit.,

p. 87.

22 «II rifiuto di Saarinen a sentirsi vincolato ad una qualsiasi ideologia formale fu un colpo decisivo per le posizioni del Movimento Moderno; dopo di lui risultò veramente difficile giustificare l'idea di un qualsiasi linguaggio da intendere come vangelo"· P. GoLDBERGER, cit. 23 Per un'interessante analisi della recente situazione americana, cfr. M. TAFURI, «Le ceneri di Jefferson», ora in La sfera e il labirinto, Einaudi, Torino, 1980, pp. 355-371 (una prima versione del saggio era apparsa in «L'Architecture d'aujourd'hui,. n. 185, 1976). 24 Il panorama è complesso: lo sperimentalismo eclettico degli MBM (Mackay, Bohigas, Martorell) è diverso dalla ricerca di «cata­ lanicità" del Taller de Arquitectura di Bofill e compagni, ma anche dal peculiare revivalismo, ironico e 'deformato', dei Clotet, Tusquets & C. (ad esempio nel citatissimo «Giorgina Belvedere»). Cfr. in pro­ posito H. P1iil6N, Arquitecturas Catalanas, La Gaya Ciencia, Barcelona,

1978.

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25 Sull'architettura giapponese, vedi fra l'altro, qui appresso, il 'caso' Kijima. Quanto a Isozaki, va detto che dalla « tradizione del nuovo ,. egli sembra derivare una pluralità di suggestioni ma anche, fondamentalmente, una certa qual nozione di coerenza interna; con ciò egli verrebbe a collocarsi, se pure non del tutto indipendente­ mente dal Post-Modernism, in una linea di ricerca che è forse, al di là delle apparenze, quella dotata di maggiore 'continuità' rispetto al Movimento Moderno. A proposito di Isozaki, e non senza qualche contraddizione, Jencks ha scritto che e ••.la sua opera non è né revivalista né eclettica nel senso ottocentesco di questi termini; piuttosto, si potrebbe parlare di revi­ valismo istantaneo" (« Instant Revivalism•); ma ha anche osservato, poco oltre, che lsozaki • .. .'rifà' questi Maestri del Movimento Moderno allo stesso modo in cui un revivalista ottocentesco 'rifaceva' gli stili storici: uno alla volta, o al massimo due assieme, ma quasi mai nello stesso edificio... "· II che, nei termini di Jencks, costituirebbe appunto un revivalismo ancora «weak » anziché «radical•, nei modi ottocen­ teschi cioè e non in quelli del Post-Modemism. Cfr. CH. JENCKS, lsoz.aki and Radical Eclecticism, cit. 26 Cfr. ad esempio il numero di maggio 1979 di • Progressive Ar-


chitecture», in gran parte centrato sul tema del monumentalismo sia per i testi che per la presentazione di alcuni progetti, fra cui in parti­ colare l'Homage to Catalonia del Taller de Arquitectura. 27 « Se 'modem' include la produzione, lungo circa mezzo secolo di architetti cosi diversi come Le Corbusier e William W. Wurster tro'. vando probabilmente il proprio vertice nelle prime opere di LC ;llora 'post-modern' dovrebbe, di conseguenza, includere tutto ciò eh� è ve­ nuto dopo - e specialmente le recentissime rivisitazioni di Corb operate da Graves, Meier e compagni, e certamente non soltanto, come preten­ derebbe Jencks, alcune residenze private fuori Filadelfia, o i capricci di qualche freak ecologico, che si diverte a intagliare il legno. Qualsiasi etichetta, per risultare utile, deve essere specifica e, probabilmente per questo, multipla - visto che stiamo cercando di individuare molti di­ versi punti di vista e {si) stili » CH. MooRE, On Post-Modemism, in « Ar­ chitectural Design», n. 4, 1977. 28 Cfr. CH. JENCKS, Late Modernism and Post-Modernism, in "Ar­ chitectural Design», n. 11-12, 1978. 29 Il Post-Modernism • ...include lo stile e l'iconografia del Movi­ mento Moderno come un possibile approccio, da utilizzare quando ri­ sulti appropriato (per industrie, ospedali e alcuni uffici); ...il PM è cosi totalmente inclusivo da consentire anche alla corrente purista che gli si contrappone di occupare un proprio posto quando ciò si giustifica. In altri termini, il Post-Modemism sta cercando di trovare un fonda­ mento logico per un revival degli anni venti, oggi che tutti i revivals sono possibili e che ciascuno va scelto in termini di plausibilità, visto che non si può certo dimostrarne la necessità». CH. JENCKS, The Lan­ guage of Post-Modern Architecture, cit., p. 7. 30 Vedi ad esempio la « phallic allusion» su cui si incardina l'im­ pianto planimetrico della Daisy House di Stanley Tigerman, e di cui sarebbe facile richiamare molteplici antecedenti {basti qui ricordare il progetto di « casa del piacere» di Ledoux). Jt « ••• visto che una qualità importante, dell'architettura che voglia­ mo, concerne la sua capacità di innescare connessioni fra ciò che esiste, e ciò che è presente nella nostra memoria: il che, spesso, viene liquidato con il termine di nostalgia». CH. MooRE, cit. E beninteso, non è il primo a parlare di « nostàlgia». 32 « La Guild House ha un ornamento sovrapposto; Crawford Manor no. L'ornamento posto sulla Guild House è esplicito. Esso rafforza, e nel contempo contraddice, la forma dell'edificio che decora. E, in una certa misura, è simbolico... Il simbolismo della Guild House comporta l'ornamento e si fonda su convenzioni sociali più o meno esplicite... Gli elementi di Crawford Manor abbondano di richiami di tipo diverso, meno esplicito... Il simbolismo implicito di Crawford Manor lo leggia­ mo nella sua assenza di ornamento attraverso una serie di associazioni ed esperienze del passato... questi significati vengono dalla nostra cono­ scenza della tecnologia, dall'opera e dagli scritti dei creatori di forme del Movimento Moderno, dal lessico dell'architettura industriale e da altre fonti. Il contenuto del simbolismo implicito di Crawford Manor è ciò che chiamiamo " heroic and originai »... Il contenuto del simbolismo esplicito della Guild House è ciò che chiameremo 'ugly' and 'ordina­ ry'... "· R. VENTURI-O. ScoTT-BROWN, Ugly and Ordinary Arclzitecture or the Decorated Shed, in « Architectural Forum», nov. e dic. 1971. JJ « I rigidi ordini dell'architettura antica apparirebbero una matric.::: abbastanza inadatta per l'espressione di categorie psicologiche e fisio­ nomiche; eppure ha ancora un senso il fatto che Vitruvio raccomandi templi dorici per Minerva, Marte e Ercole, templi corinzi per Venere, Flora e Proserpina, mentre a Giunone, Diana ed altre divinità, che stanno 25


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tra questi due estremi, si attribuiscono templi ionici. All'interno del mezzo di cui dispone l'architetto, il dorico è chiaramente più virile del corinzio. Noi diciamo che il Dorico esprime la severità divina;, è così, ma solo perché è all'estremità più severa della scala e non perché ci sia necessariamente molto in comune tra il dio della guerra e l'ordine dorico». E. H. GOll-!BRICH, Arte e illusione, Einaudi, Torino, 1965, p. 4.55. 34 È ben noto, ad esempio, il 'doppio schema' di Jencks (cfr. The Language o/ Post-Modern Arcl1itecture, cit., p. 73) in cui, utilizzando una tecnica mutuata dal « differenziale semantico», vengono posti a raffronto il significato degli ordini classici in uno 'spazio' vitruviano, e quello degli stessi ordini, assieme agli altri 'stili' usali da John Nash (« Gothic, Italian, Neo-Classica), Old English, Hindu », secondo la clas­ sificazione di Pevsner), in uno 'spazio' eclettico (individuando fra l'altro le diverse 'coordinate' semantiche, e quindi il diverso significato, assunto dal Corinzio in questi due 'spazi semantici'). l5 « •••tre principi, o quanto meno atteggiamenti, caratterizzano at­ tualmente il post-modemism: contestualismo,.. ornamentalismo,... al­ lusionismo. Questo... non deve essere confuso con quel 5emplicistico eclettismo che troppo spesso, in passato, ha surrogato una più incisiva analisi con una 'imagery' tipologica convenzionale e predigerita ... L'al­ lusionismo post-modernista può assumere diverse forme: il recupero in termini scenografici di tutta un'atmosfera; o l'inclusione, in opere nuove, di frammenti riconoscibili del passato, a fini semantici e/o empatici... » R. STERN, At the Edge o/ Post-Modernism, in « Archi­ tectural Design», n. 4, 1977. 36 Recentemente, U. Eco (cfr. Lector in fabula, Bompiani, Milano, 1979) ha messo in risalto il ruolo del lettore nella cooperazione inter­ pretativa dei testi narrativi. Un interessante studio sui meccanismi dell'interpretazione in campo architettonico è nel libro di J. P. BoNTA, Arcl1itecture and its ù1terpretatio11, Lund Humphries, London, 1979 (di cui è prossima la traduzione italiana). 37 «L'architettura pare per sé, e per le sue connessioni immediate col resto della vita, la più riformabile e 'discutibile' delle arti. Un quadro o un libro o una statuina può tenersi in luogo 'personale' per il gusto personale; non così una costruzione architettonica». A. GRAM· SCI, « Il razionalismo nell'architettura», in Letterawra e vita nazionale, Einaudi, Torino, 1950, p. 29 . .l8 Cfr. S. RAY, /I 'silenzio' dell'architettura contemporanea, in « Op. cit. », n. 24, 1972. 39 « ••. il razionalismo del 1920-30 rappresenta un capitolo fonda­ mentale e inalienabile del processo di rinnovamento apertosi alla metà del secolo scorso, ma postula una riduzione semantica...» (Cfr. B. ZEVI, L'architetto e il paradiso, in «L'Espresso», n. 33, 1979. 40 « Per la maggior parte, i Late Modernists hanno spinto all'estre­ mo le teorie e lo stile dei loro precursori, e così facendo hanno dato luogo ad una elaborazione in senso manierista del linguaggio moderno. Di contro, i Post-Modernists hanno trasformalo Io stile precedente pur continuando ad utilizzarlo, e inoltre hanno rifiutato pressoché completamente le relative teorie». Nonostante la comune matrice delle due tendenze, e quindi il loro sia pur « Ioose overlap», « ••.è fonda­ mentale distinguere fra queste due scuole in relazione a differenze filosofiche significative, che possono essere sinteticamente indicate co­ me differenze circa l'intenzione di comunicare... ». CH. JENCKS, Late Modernism and Post-Modernism, cit. Sull'efficacia dei mezzi comuni­ cativi adottati dal Post-Modemism, e sui risultati di alcuni tests in merito, cfr. L. GROAT-D. CANTER, Does Post-Modernism communicate?, in « Progre_ssive Architecture », dicembre 1979,


41 Sono fra gli altri questi, in particolare, gli esempi addotti da Jencks per documentare l'asserita distinzione circa l'intenzionalità co­ municativa e il « double coding » che contrassegnerebbero il Post-Mo­ dernism 'autentico' rispetto a quello 'spurio'. 42 Cfr. F. K. B. S. ToKER, PJ and PPG: A date with history, in « Pro­ gressive Architecture », luglio 1979. 43 La struttura compositiva dell'AT & T. è quella del grattacielo tradizionale, secondo il classico schema della 'colonna' (base, fusto. capitello), e con una derivazione abbastanza trasparente dall'Audito• rium di Adler e Sullivan a Chicago; l'attualità delle soluzioni tecno­ logiche, con un tipico giuoco di ambiguità, lo renderebbe leggibile come .« a traditional modem skyscraper trying to get out, or rather stay m » (Jencks). Le sequenze 'allusionistiche' sono molteplici: dallo highboy Chippendale (Goldberger) a certi disegni di Ledoux, alla clas• sica 'foresta di colonne', alla serliana (Johnson ha esplicitamente cita­ to la Cappella Pazzi). Ma, secondo Jencks, l'« uninformed beholder » potrebbe a sua volta leggere questo grattacielo « •••come orologio a pendolo gigante, ...come colonna neo-fascista, come Lever House 'im· prigionata', come radiatore di Rolls Royce... ». Il testo si commenta da sé. 44 L'attività di Kijima va ricollegata ai vari tentativi - perseguiti anche e soprattutto nell'ambito del Post-Modernism - per un 'rilancio' dell'ornamento secondo una chiave interpretativa che potrebbe essere definita come antitetica rispetto a quella delle Arts and Crafts. Se queste rifiutavano una produzione che, 'fatta a macchina', riproponeva stilemi decorativi revivalistici tipici della creatività artigianale (fin• gendone quindi una produzione « hand-made »), qui viceversa si uni· scono, deliberatamente, un gusto figurativo tradizionale e l'iper-perfe­ zione industriale da un lato, e dall'altro la cultura della tradizione figurativa giapponese e un complesso di 'allusioni' al lessico del Clas• sicismo occidentale. Il risultato di questa combinatoria multipla (esi• stenie/nuovo; oriente/occidente; mano/macchina), di elementi desunti da una classicità genericamente occidentale e ricollegabili agli ordini - ma realizzati con un finishing inequivocabilmente industriale - con elementi derivati viceversa dalla tradizione figurativa locale, determina un singolare effetto di duplice decontestualizzazione e straniamento. 45 « Kijima's Matsuo Shrine looks rather as if Mies had decided to detail coffered tunnel vaults and Japanese doric rather than I· beams »; ci sembra che il commento di Jencks risulti, questa volta, calzante. 46 Nel caso del Pavillon Soixante-Dix, realizzato per una stazione sciistica canadese, le associazioni ed allusioni vanno da una generica ascendenza palladiana (che per il solarium semicircolare di ingresso si preciserebbe in una 'ripresa' della Villa Trissino) al riecheggiamento di soluzioni vernacolari mediate dai tetti fortemente inclinati, dalle lisce superfici rivestite in legno, dalla sobrietà degli elementi deco­ rativi. 47 Secondo le intenzioni dei progettisti, espresse in una brochure illustrativa dell'opera, « l'edificio si propone di affermare l'importanza dello sci come fatto sociale e mondano, di dare a ciascuno la sensa• zione romantica di essere al Nord, immersi nella Natura, fra amici. Per ottenere ciò, l'edificio deve avere una presenza, e dare una sensa• zione di monumentalità - anche se questa monumentalità è ottenuta derivandola da immagini familiari ». J. RrGHTER·P. RosE, Pavil/on Sai• xante-Dtx, 1978. 48 Si tratta del 'Culture Bridge' tra le città di Fargo e Moorhead, un progetto nel quale gli sbocchi del complesso itinerario di Michael

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Graves, a partire dalle esperienze dei 'Five' fino ai più recenti lavori (cfr. ad esempio « Progressive Architecture », settembre 1979), si ri­ flettono in tutta la loro rarefatta sofisticazione. 49 Vedi ad esempio Kijima: « Quelli che non sono in grado di comprendere l'essenziale di ciò che vado facendo, disprezzano il mio lavoro, considerandolo mera imitazione. Non ho alcun desiderio di controbattere le loro asserzioni. Ciascuno ha il proprio livelllo di ca­ pacità». ('{. KlJIMA, Making an lmage Sketch After the Bui/ding is Finislted, in « Japan Architecture », nn. 10-11, 1977. Il titolo rispecchia un tipico procedimento di Kijima, quello appunto dei disegni elaborati ex post. La qualità grafica di tali lavori è notevole, tanto che risulta giustificato il richiamo alla figuratività di un Escher. 50 B. ZEVI, L'architetto e il paradiso, cit. 51 « Si potrebbe affermare... che la rinascita di interesse per il di­ segno non deve essere vista tanto come manifestazione di un nuovo rispetto per la teoria, da parte dell'architetto americano, bensì piut­ tosto come un riflesso del passaggio dal politecnicismo del Movimento Moderno verso la poetica del Movimento Post-Moderno». R. STERN, Drawing Towards a More Modem Architecture, in « Architectural De­ sign», n. 6, 1978. 52 Cfr. M. TAFURI, « Le ceneri di Jefferson», cit. 53 Cfr. M. L. SC.\LVINI, La 'rimo:z.ione' del nuovo, in « Op. cit.», n. 44, 1979.

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L'iconizzazione del mobile CETTINA LENZA

In questo lavoro intendiamo interessarci, sotto un profilo semiologico, della produzione ed uso degli oggetti di arredo, tralasciando di considerare la loro combinazione al livello dell'ambiente (e cioè, la complessiva operazione di arreda­ mento). Nell'affrontare un tale compito non possiamo non tener conto della revisione critica, operata dall'interno, ad un simile tipo di approccio, e ciò al fine di renderlo il più possi­ bile corretto e, al tempo stesso, produttivo sul piano dell'ap­ plicazione, dal quale piano, più che da quello della riflessione teorica, la semiotica sembra attendere una conferma della propria validità. Alla luce delle prospettive metodologiche proposte da Garroni I per l'esame dei cosiddetti « linguaggi non verbali », questo obiettivo suggerisce particolari cautele: in primo luogo, assunto il punto di vista semiologico, non potremo affrontare seriamente alcuna analisi senza indivi­ duare in che modo si sviluppi, nella produzione degli oggetti di arredo, una valenza comunicativa, ovverosia, senza indi­ viduare come questa operazione (intendendo generalmente con tale termine qualunque manipolazione dell'uomo sulle cose) si « semiotizzi ». Schematizzando al massimo un processo genetico facil­ mente intuibile, il momento cronologico e logico sul quale poter innestare l'indagine è dato dal passaggio dall'originario sfruttamento, da parte dell'uomo, di condizioni od elementi naturali, alla loro produzione ( o, meglio, ri-produzione) arti­ ficiale per attrezzare funzionalmente il proprio ambiente di vita. Le elementari funzioni base ( contenere e sostenere) si 29


materializzano allora nei due prototipi dell'oggetto di arredo (scatola e panca), realizzando una prima sommaria distin­ zione in classi tipologiche 2• Ma, quel che ci interessa qui, è che in tale operazione, cioè in questa ri-produzione preordi­ nata, artificiale e quindi culturale, si genera inevitabilmente uno scarto dalla sua finalità immediata. � grazie a tale scarto, prossimo ancora ad un grado zero, che si determina un possibile spazio di crescita della sim­ bolizzazione. L'investitura simbolica non irrompe improvvi­ samente... nei processi operativi; per Garroni, essa è già al­ meno latente nei processi operativi in senso stretto 3• Infatti, quando parliamo di «operazioni» (umane), dobbiamo di­ stinguere tra operazione in senso stretto, tra l'azione osserva­ bile... e componente metaoperativa, come tale non osserva­ bile 4• Quest'ultima insorge dal superamento di un compor­ tamento puramente adattivo, regolato dal principio prova­ errore, tipico degli animali, che operano in stretta contiguità con gli oggetti e gli stimoli, limitandosi a riconoscere deter­ minate possibilità d'uso di un oggetto naturale, o a modi­ ficarlo per adattarlo, comunque, ad uno scopo pratico imme­ diato, di volta in volta esauriente. Il comportamento umano si caratterizza, invece, proprio per una componente metaoperativa, per la capacità, cioè, di « operare su operazioni» e di sostituire, quindi, allo scopo immediato ed esauriente, lo scopo mediato o, addirittura, l'assenza di scopo. Tale componente è responsabile della specifica tecnologia umana 5, in quanto la stessa costruzione di uno strumento rivela come si sia già prodotta una disso­ ciazione di fini, tra lo scopo immediato e osservabile (la co­ struzione dello strumento come semplice manufatto) e lo scopo mediato e non osservabile, esauriente ad un livello ul­ teriore, appunto metaoperativo (il fine-utilità, il fine vero e proprio dell'operazione). Indubbiamente, la dimensione metaoperativa, se è presup­ posta anche nella produzione di un oggetto strettamente fun­ zionale, distanziatasi, come abbiamo visto, dagli scopi imme­ diati, nelle operazioni finalizzate risulta subordinata, in quanto 30 connessa ancora a scopi pratici, seppure mediati. Tuttavia,


è la presenza di tale dimensione che rende l'oggetto dispo­ nibile ad un'ulteriore elaborazione operativa, nella quale la componente metaoperativa diviene addirittura dominante, essendosi distanziata anche dagli scopi mediati (tipico il caso dell'opera d'arte). Nel nostro campo, quindi, la compo­ nente metaoperativa contribuirà anzitutto a «dinamizzare» le istanze di base 6, dando conto in parte dei mutamenti formali degli oggetti che, nel loro rapido consumo, non possono essere dettati esclusivamente dai cambiamenti delle esigenze funzionali le quali, sebbene si vadano evolvendo e specializzando, almeno all'origine sono piuttosto limitate e non suscettibili di grandi variazioni. Una sedia... non è creata solo per soddisfare un'esigenza pratica. Altrimenti non si spiegherebbe perché anche nelle età più antiche, quando i mobili erano un patrimonio inamovibile, trasmesso di padre in figlio per generazioni, le case si rinnovassero di tempo in tempo 7; il che non accade laddove (ad esempio nei manu­ fatti di natura esclusivamente funzionale) tale componente metaoperativa resta schiacciata ad un livello pressocché nullo, sicché, raggiunta la forma funzionalmente ottimale, questa non subisce ulteriori significative elaborazioni. Ma soprattutto, nella misura in cui ci allontaniamo dal­ l'operazione finalizzata e passiamo dagli scopi immediati addi­ rittura all'assenza di scopo, cioè nella misura in cui la com­ ponente metaoperativa dell'operazione diviene dominante - l'oggetto-scopo immediato dell'operazione... si rende sem­ pre più disponibile a caricarsi, con o senza forti proiezioni linguistiche, di valenze simboliche, cioè di significati non in senso metaforico e approssimato 8• Volendo ripercorrere, nel nostro ambito, questo graduale procedere verso il simbo­ lismo, possiamo dire, quindi, che: quanto più la produzione dell'oggetto si distanzia dagli scopi ( dalla funzione pratica), tanto maggiore risulta il peso assunto dalla componente meta­ operativa, che diviene dominante laddove la finalità di base è contrastata, o addirittura esclusa, da determinate caratte­ ristiche dell'oggetto 9• Quest'ultimo, allorché la componente metaoperativa viene in primo piano, sempre più si carica di · valenze, fino a divenire, insomma, da funzionale, oggetto pura- 31


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mente simbolico o non pensato in vista di altri scopi, imme­ diati o mediati, che non siano quelli della contemplazione ( come si verifica per i manufatti artistici o, generalmente, per gli elementi di arredo a carattere ornamentale, gli oggetti legati alla sfera del culto o destinati alla rappresentazione del potere, ecc., la cui produzione ammette comunque una giusti­ ficazione sociale non pratica, ma simbolica) 10. Accanto a tali casi « eccezionali», la maggior parte degli oggetti cli arredo sono però ancora finalizzati in senso pratico, ma la componente funzionale, sebbene presente, si trova combinata con una componente metaoperativa ca-dominante. D'altronde, in ogni caso l' 'assenza di scopo', che si manifesta nella dominanza metaoperativa, non sarà mai pura 'assenza di scopo', salto assolutamente originale nella dimensione della forma estetica, ma dovrà essere concepita in primo luogo come condizione di un modo diverso - rispetto all'operazione immediatamente finalizzata - di organizzare la complessa strategia degli scopi nell'ambito della cultura umana 11• Anzi, considerando che«simbolo» e« forma» sono anch'essi scopi, anche se non nello stesso senso o allo stesso livello in cui lo sono gli scopi di uno strumento 12, l'oggetto si pone in ogni caso come « strumento», ma rispetto ad una trama estremamente più articolata di scopi 13; sicché occorrerà determinare, per ciascun esempio, il peso e la caratterizzazione storico-culturale specifica e della componente metaoperativa e delle altre com­ ponenti, nonché la configurazione della loro gerarchia 14• Insomma, anche se comunemente ci troviamo cli fronte ad oggetti in cui la componente funzionale non viene completa­ mente espunta, a vantaggio cli quella simbolica, ciò non vuol dire che non sia lecito ammettere, anche in tal caso, la possi­ bilità di un'investitura semantica, né tanto meno che questa vada ricercata nella direzione della funzione; anzi, tanto più necessaria e pertinente appare l'individuazione e l'esame pro­ prio di ciò che travalica la destinazione d'uso, di quel « resi­ duo» che non è immediatamente riportabile agli scopi pratici assolti dall'oggetto e che consente cli distinguere, sul piano della significazione, manufatti suscettibili cli una medesima definizione funzionale.


Fattore distintivo è, per Barthes, lo «stile·•, dal momento che mobili funzionalmente identici (due tipi di armadio, due tipi di letto, ecc.) rinviano ciascuno ad un «senso» diverso a seconda del proprio «stile» 15• Una tale nozione, eviden­ ziando appunto come la componente funzionale non esaurisca l'oggetto, non riesca a dare conto di tutti i suoi aspetti, potrà essere utilmente recuperata anche nella prospettiva teorica qui assunta, purché dello stile si considerino, al di sotto delle sue specificazioni superficiali, le sue ragioni profonde 16. II tratto definitorio dello «stile» appare allora consistere pro­ prio nella distanza... che il produttore prende rispetto agli scopi, il suo mettere in evidenza le condizioni generali del perseguire scopi possibili, l'operare su operazioni in assenza di scopi immediati e perfino mediati 17• Esso, insomma, pre­ suppone quella capacità metaoperativa che caratterizza la cultura umana, e, soprattutto, la manifesta, costituendone una particolare specificazione empirica, rendendola rilevabile an­ che ad un esame osservativo, il che è estremamente impor­ tante ai fini dell'analisi. Infatti, la condizione di metaoperati­ vità ci interessa proprio perché non resta semplice condizione, ma si «realizza » in un manufatto, perché, in altri termini, la sua presenza e la sua crescita è rivelata da indici empirici. Nel nostro campo, com'è noto, l'uso di particolari mate­ riali o l'impiego di certe tecniche, il ricorso a determinati colori e quanto ancora va sotto il nome di decorazione, uni­ tamente alla generale definizione formale degli oggetti, al proporzionamento delle parti e al dimensionamento comples­ sivo rispetto all'utente, ecc., non sono necessariamente (e non lo sono sempre, di fatto) dettati dalle esigenze funzionali di base, e talvolta le contrastano addirittura. Manifestando come si sia prodotta, nel mobile, una «distanza dagli scopi », tali «caratteristiche » risultano, a tutti gli effetti, degli indici metaoperativi; questi possono , dunque, essere di diverso tipo: prevalentemente dimensionali, o materici, o morfolo­ gici, ecc., e presentarsi isolati o, per lo più, combinati in­ sieme. In ogni caso, comunque, la dimensione metaoperativa, allorché viene empiricamente specificata, si rivela attraverso proprietà visuali.

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Potremmo allora dire che, grazie alla dimensione meta­ operativa, implicita già nell'oggetto puramente funzionale, quest'ultimo si presta ad un'elaborazione operativa (l'iconiz­ zazione) 18 che lo trasforma da strumento per in immagine di. Tale elaborazione risulta chiaramente di tipo metaoperativo, essendosi ormai distanziata anche dagli scopi mediati (dalla funzione pratica), mirando infatti esclusivamente a produrre nel mobile l'illusione referenziale che lo trasformi in imma­ gine di. Ovviamente, diverso e relativo sarà il « dosaggio » di tale illusione referenziale, da quella più spinta, o almeno più immediatamente evidente, prodotta da elementi (strutturali o puramente decorativi) a carattere figurativo o quasi-figura­ tivo, a quella più nascosta, sottesa dalla ragion d'essere rap­ presentativa, oltre che presentativa, del mobile in quanto oggetto simbolico. È proprio tale processo di iconizzazione, in cui la dimen­ sione metaoperativa si esibisce esplicitamente, che carica di valenze simboliche gli indici empirici, che non hanno di per se stessi precise determinazioni semiotiche, ma risultano semplicemente disponibili ad una simile investitura (infatti, indice vuol dire semplicemente « caratteristica » che acquista valenza semantica proprio in quanto esiste una correlazione tra la manipolazione degli oggetti e una dimensione propria­ mente semiotica, tanto più quando noi produciamo qualcosa con l'intenzione di porgerlo all'attenzione altrui, caricandolo di valore simbolico 19). Se quindi il mobile, oltre a fornire un'informazione fun­ zionale, concernente, cioè, la sua destinazione d'uso, è anche luogo di un « senso », ciò dipende, almeno in parte, dall'ico­ nizzazione 20• Resterà, comunque, da determinare, caso per caso, quali siano le valenze prodotte, dovendosi escludere che a «certi » indici... in quanto tali sia connesso « quel » detenni• nato simbolismo o addirittura « un » determinato simbo­ lismo 21• Esse dipenderanno, infatti, anche dal modo in cui si produce e dal valore che assume l'illusione referenziale, che, nella sua definizione generale, si pone come il risultato di un insieme di procedure messe in opera per produrre 34 l'effetto di senso «realtà», apparendo così doppiamente con-


dizionata dalla concezione culturalmente variabile della «realtà» e della ideologia realista assunta da coloro che producono o usano l'una o l'altra semiotica 22. Un processo di iconizzazione si manifesta chiaramente già nel mobile primitivo: se si osservano - nota Battisti - i mobili più rudimentali pervenutici o ancora eseguiti in Africa o in Asia, si constata che essi, anche quando sono assai sem­ plici, mantengono spesso forme animali. � come se l'uomo facesse molta fatica a convincersi che egli ha la possibilità di fabbricare oggetti inerti, compienti funzioni meccaniche. Il sedile resta per molto tempo, con le sue zampe di animale che persistono fin dopo il Rinascimento, un solerte e paziente animale che fa da intermediario fra chi si siede e la terra 23. Anche per Praz, i mobili che sostengono arieggiano forme animali... la sedia s'ispira al cavallo, anzi, il curvilineo profilo del klismòs greco rende evidente il rapporto tra quest'oggetto disegnato per sorreggere l'uomo e la creatura viva che l'uomo usa per farsi trasportare, il cavallo; rapporto che nel mobile fin dai primordi è accennato dalle zampe teriomorfiche, e che nella sedia greca è adombrato dall'eleganza elastica, equina del profilo 24• A loro volta, anche i mobili che contengono, benché di più evidente ispirazione architettonica, rivelereb­ bero una sorta di riferimento antropomorfico nel ripro­ porre una simmetria che è la stessa di quella del corpo umano 25. Se pure la produzione di oggetti d'arredo dové risentire di una componente mimetica, presente e talvolta fortemente condizionante in altre manifestazioni culturali, tuttavia l'il­ lusione referenziale generata da certi indici morfologici, più o meno figurativi, nel ricondurre il mobile al mondo naturale non presuppone semplicemente un'attitudine imitativa. D'al­ tronde, gli stessi procedimenti mimetici sottendono spesso la convinzione nell'efficacia dell'analogia per evocare, riprodu­ cendolo, quanto desiderato, o tenere lontano, all'opposto, con pratiche apotropaiche, quanto temuto. Potremmo dire che, come per certi versi si verifica per il linguaggio 26, è anzitutto una concezione magica del rapporto col referente quella che 35


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si afferma nella società e che, nel nostro caso, regola l'iconiz­ zazione del mobile. � noto come la credenza nelle corrispondenze e negli ef­ fetti simpatici che ne deriverebbero motivasse, nella « magia di attrazione», l'uso di un sostituto di ciò che si desiderava possedere o le cui proprietà s'intendevano trasmettere, lad­ dove, come efficiente sostituto, nel rituale, poteva impiegarsi qualsiasi cosa avesse in comune con esso una qualità o un aspetto sia pure lontano, parziale o superficiale: il nome, l'effigie, la parte, ecc. sta per il relativo referente. Proprio a tale pratica magica e ai suoi procedimenti retorici, basati su sostituzioni metaforiche o metonimiche, sembrano origina­ riamente riportabili i motivi teriomorfici così diffusi nel mobile antico; questi vanno, com'è noto, dalla raffigurazione dell'intero animale a quella, per certi versi equivalente, di un suo tratto distintivo (frequentissime le sole zampe quali terminali dei sostegni), tratto considerato evidentemente per­ tinente ai fini non solo della funzione identificatrice ( consen­ tendo di riconoscere l'animale in questione), ma anche di quella magica (in base, probabilmente, alla credenza che nel­ l'arto si concentrasse la virtù dell'animale: è risaputo, dai Greci in poi, che gli animali forti e coraggiosi hanno l'estre­ mità delle membra larga e ben sviluppata, come se il loro vigore si fosse comunicato alle parti più lontane del corpo) n. Ovviamente, ciò presuppone che il dato naturale, così in­ trodotto nell'oggetto artificiale, sia relativo ad un referente niente affatto neutro, bensì fortemente culturalizzato a sua volta; il che è confermato dal ricorso particolarmente ad animali dalla ben precisa connotazione sacrale, quali il toro (connesso al culto della fecondità) ed il leone, il cui simbo­ lismo solare, ricollegandolo ad un culto di tipo universale, deve aver favorito la trasmissione, di paese in paese, e la massima diffusione, fin quasi alle soglie dell'età moderna, di motivi appunto relativi alla sua immagine. In Mesopotamia la scultura ci testimonia l'esistenza di troni sui cui fianchi sono intagliati leoni, presenti, secondo la tradizione, anche ai lati del trono di Salomone; leoni alati appaiono scolpiti anche nei seggi o troni votivi greci in pietra, ecc., ma non


solo per gli antichi il leone incarna la maestà, il coraggio, la giustizia, sicché, essendo la giustizia una delle funzioni regali, è naturale che nel Medio Evo i troni dei sovrani fos­ sero stati ornati da leoni e che spesso la giustizia ecclesia­ stica venisse amministrata tra i leoni di pietra che inquadrano il portale di certe chiese 28. La frequenza di motivi animali soprattutto nei sedili non sembra casuale, dal momento che gli stessi sedili rappresen­ tano, all'origine, un simbolo d'autorità. Ciò non vale, com'è naturale, per quelli di uso comune, le cui forme, infatti, si conservano per lo più assai semplici e strettamente funzio­ oali, complicate raramente da richiami zoomorfi.ci e, comun­ que, in tal caso, a puro scopo decorativo (cfr. lo sgabello egiziano con gambe a forma di testa d'anatra); ma gerarchi­ camente più rilevante, rispetto a quello di panche e sgabelli, era già il ruolo delle sedie (poco diffuse nell'antico Egitto e perfino nella società romana, dove restano riservate alle donne o a coloro che ricoprivano cariche nel culto, nell'istruzio­ ne, ecc.), il che ne motiva la maggiore elaborazione formale. Questa diviene poi immediatamente evidente nei troni, de­ stinati a divinità, sovrani, sacerdoti, ecc.: se indici materici (cfr. la presenza, spesso, di materiali preziosi) o dimensio­ nali (l'altezza dei sedili richiedeva l'uso corrente di poggia­ piedi) veicolano particolari valenze simboliche, i riferimenti teriomorfici inseriscono, a loro volta, nel mobile, il connubio animale-divinità (fin troppo noto per richiamarlo qui: più che le complesse metamorfosi e le rappresentazioni di divinità in forme parzialmente o totalmente animali, ci limiteremo a ricordare la raffigurazione delle divinità del panteon ittita sostenute, ciascuna, da un animale sacro, in rapporto, di­ remmo, simbiotico con esso, che è quanto sembra riproporre anche il mobile). Insomma, tali particolari indici morfologici valgono a trasmettere, più che semplicemente rappresentare particolari virtù connesse, grazie alla suddetta investitura sacrale, al­ l'animale raffigurato. Si realizzerebbe, così, una particolare pratica semioticà tra quello di cui la società dispone: se in un sistema simbolico, proprio di ogni produzione segnica 37


puramente rappresentativa, i suoi elementi sono orientati verso i denotata 29, si limitano, cioè, a rinviare a un referente, rimuovendo i rapporti di quest'ultimo col destinatario, in base alla concezione magica si stabilisce fra essi collusione diretta, si tende a diminuire la distanza che li separa al fine di proiettare e ridurre l'uno all'altro. In tal modo, l'oggetto iconizzato diviene più che simbolico, si pone concretamente ed attivamente, quale « medium » di una comunicazione nel senso di un'autentica trasmissione di proprietà. Quella che si realizza è, quindi, una pratica semiotica « trasformativa ». Il segno come elemento di base sfuma: « i segni » si svinco­ lano dai loro denotata e si orientano verso l'altro ( il desti­ natario) che essi modificano... Contrariamente al sistema sim­ bolico, la pratica trasformativa è mutevole e mira a trasfor­ mare, non è limitata, esplicativa e tradizionalmente logica 30• Se l'iconizzazione affonda le sue radici « oltre » il mime­ tico, ciò spiega anche la diversità delle soluzioni adottate per introdurre l'elemento teriomorfico nel mobile e le par­ ticolari modalità secondo cui ciò si realizza: in Egitto le gambe dei sedili riproducono gli arti anteriori e posteriori del leone ( o del toro), così come nei letti, dove si aggiun­ gono, talvolta, a due teste leonine scolpite per terminare la cornice dal lato del poggiatesta. Quest'ultimo è concepito come elemento a sé, mentre la vera e propria testata, che può erroneamente scambiarsi per il capezzale, è situata al­ l'estremità opposta: l'animale ed il corpo disteso venivano, sicché, a trovarsi nella medesima posizione, cioè secondo una uguale successione di capo e arti. In ogni caso, anche lad­ dove ciò non si verifica, nei mobili egiziani le zampe risul­ tano sempre orientate nella stessa direzione, ma già gli schemi altrove adottati rivelano maggiore libertà: anzitutto, presso i Sumeri, ad esempio, solo le gambe anteriori dei mobili presentano forme animali, mentre le posteriori sono lisce, laddove, presso i Greci, queste ultime, se pure di forme ani­ mali, assai di rado rappresentano le zampe del treno poste· riore, fino alla paradossale soluzione adottata per alcuni sga­ belli a gambe incrociate, in cui le zampe animali sono siste38 mate in guisa da fronteggiarsi.


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Il superamento di una logica puramente mimetica può essere evidenziato da altre caratteristiche morfologiche: an­ che nelle gambe dei sedili egiziani, dove è interpretato con maggiore semplicità, rispetto ai più elaborati esempi orien­ tali, l'elemento teriomorfico si trova combinato con altri. La zampa, anziché poggiare direttamente sul suolo, è frequen­ temente sostenuta da appoggi di forma cilindrica, a volte scanalati o cordonati, che, sollevandola da terra e impeden­ done il diretto contatto con essa, ne sottolineano l'alto valore simbolico e, in particolare, ne confermano la proprietà di afferire un prestigio superiore all'umano, quasi divino 31 • Tale motivo compare, ancora più accentuato, nei mobili assiro­ babilonesi, caratterizzati da un ibrido accostamento tra zampa leonina e voluminosi elementi d'appoggio a forma tronco­ conica o di pigna, ma soprattutto nella pesante elaborazione dei troni persiani; in questi ultimi, il consueto elemento teriomorfico, introdotto, probabilmente, dopo la conquista dei regni assiro e babilonese, viene addirittura ad interrompere, circa a metà, la sezione cilindrica della gamba, consentendoci così di escludere qualunque motivazione di ripresa sempli­ cemente analogica della zampa leonina in funzione di ter­ minale. La ricchezza di varianti nell'uso di motivi animali resta, comunque, fenomeno tipico della cultura ellenistica che, an­ che nella produzione di arredi, conferma la sua vocazione a fondere contributi di diversa provenienza; da qui, sul piano della morfologia, la commistione di elementi estranei (si considerino, ad esempio, le gambe a collo di cigno poggiate su piedi caprini del tavolino a tripode rinvenuto a Tebe in Egitto), e su quello della significazione, la tendenza a sovrap­ porre complesse simbologie. Inevitabilmente, l'innesto di più « codici » dilata la funzione referenziale e la diluisce, apre l'oggetto alla polisemia, stemperando e indebolendo la cor­ rispondenza originaria, sicché, già nella società romana, il ricorso a motivi animali ha smarrito gran parte del suo pri­ mitivo valore magico e sacrale (che si conserva esclusiva­ mente in oggetti quali troni, tripodi, mense sacrificali, ecc., legati alla sfera religiosa o, comunque, simbolica). 39


D'altronde, se, abbandonata la loro iniziale funzione, gli elementi teriomorfici finiscono per rientrare assai spesso in un repertorio formale e convenzionale, è tale eclissarsi della motivazione che ne estende l'uso al di fuori dell'ambito in . cui erano stati generati, moltiplicando gli esempi di simili interventi « decorativi » e consentendo la presenza di figure animali anche nei diversi tipi di mobili e di suppellettili domestiche. Ciò non esclude che gli stessi indici, compa­ rendo nel contesto di oggetti comuni, possano egualmente assumere una valenza comunicativa, la quale, come dimostra la generale esperienza semiotica, non è affatto inficiata dalla scomparsa della motivazione. Anzi, secondo la nota tesi di Guiraud, i segni sono per lo più motivati al loro inizio; tut­ tavia, l'evoluzione storica tende ad obliterare la motivazione, e cessando quest'ultima di essere avvertita, il segno funziona per pura convenzione. Questo è il caso della maggior parte delle parole del linguaggio articolato, ma anche quello di molti segni all'interno delle simboliche, delle mantiche, dei protocolli e di altri codici sociali, 32. Naturalmente, nel nostro caso la convenzione non è espli­ cita e vincolante, né ha carattere normativo e generale; viene piuttosto a ratificare la relazione, stabilitasi già nell'uso, tra i suddetti indici e le loro valenze simboliche: gli elementi teriomorfici introdotti nel mobile hanno, infatti, funzionato, fin dall'inizio, non soltanto a livello del rapporto privilegiato oggetto/destinatario-fruitore (funzionamento di tipo trasla­ tivo), ma anche a livello di rapporto intersoggettivo (funzio­ namento meramente simbolico). In tal caso, le proprietà (culturalmente accertate) del referente si attestano esclusi­ vamente sul piano del 'senso' dell'oggetto, senza rimbalzare ulteriormente sul destinatario. Insomma, l'oggetto « funziona » anche socialmente perché, contemporaneamente per i desti­ natari non fruitori, esso diviene simbolo del potere che tra­ smette, di cui è veicolo, ed in tale « status » si cristallizza. Venuta a cadere la giustificazione magica dell'iconizza­ zione, permane quella simbolica, « codificata » al fine di es­ sere riconosciuta e condivisa dalla collettività. Per Guiraud, 40 i mobili rientrano appunto nell'ambito dei segni mediante


i quali l'individuo si definisce in rapporto alla società, rivela la propria appartenenza ad un gruppo sociale ed economico ed il posto assunto all'interno di una gerarchia, ecc. (segni sociali) 33• Secondo l'autore, la maggior parte dei segni sociali sono di tipo motivato sia per metafora, sia, spesso, per meto­ nimia. Sono delle figure allegoriche... ma sopravvivono spesso alla forma sociale e alle istituzioni per non conservare che un valore simbolico degradato, in cui il senso originale si è perduto. Sono fortemente connotati, esprimendo la mae­ stà, la fon.a, il potere o al contrario l'umiltà; e questi valori hanno per lo più la loro origine in una simbolica radicata nell'inconscio collettivo. Per tutte queste ragioni sono di tipo estetico molto più che logico, e ai segni estetici si avvici­ nano... per la loro natura iconica 34• Anche essi, dunque, si presenterebbero come messaggi-oggetti che, in quanto oggetti, e al di là dei segni immediati che li sottendono, sono porta­ tori di una propria significazione e sono di competenza di una semiologia particolare: stilizzazione, ipostasi del signifi­ cante, simbolizzazione, ecc. 35• Recuperando nella nostra prospettiva tali considerazioni, possiamo dire che gli elementi teriomorfici continuano a sussistere, perduta la loro originaria motivazione magica, in quanto contrassegni di oggetti socializzati. Questi ultimi, ap­ punto perché tali, vengono prodotti con l'intenzione di por­ gerli all'attenzione altrui, caricandoli di valore simbolico, e quindi subiscono processi convenzionali di « stilizzazio­ ne », ecc., o, comunque, un'elaborazione metaoperativa che, mediante i suddetti indici, si esibisce intenzionalmente. Ciò consente al mobile come oggetto di assumere una propria autonoma valenza semantica, indipendente dalla specifica de­ notazione referenziale degli indici figurativi presenti, la quale passa in secondo piano o cessa addirittura di essere avvertita. I medesimi contrassegni vengono riproposti, con partico­ lare funzione, anche da successive « stilizzazioni » del mobile. � noto come elementi teriomorfici persistano o, meglio, ri­ corrano nella produzione di secoli molto posteriori; in par­ ticolare come, .nel Rinascimento, la consueta zampa leonina, ad esempio, ricompaia quale terminale degli appoggi del ta- 41


volo, divenga comune sostegno dei cassoni italiani, concluda le .gambe dei sedili, ecc., e come la semplice ripresa del « repertorio ornamentale» classico si tramuti, poi, nella ri­ produzione integrale ed archeologicamente più corretta, ope­ rata alla fine del XVIII ed agli inizi del XIX secolo, di diversi «tipi» del mobile antico. In entrambi i casi, l'iconizzazione si avvale di una sorta di transcodage, trasferendo nella pro­ pria elaborazione operativa i «segni » di un'altra esperienza; conseguentemente, nel suo trasformare gli oggetti in imma­ gini di, essa dà luogo ad una nuova forma di illusione refe­ renziale, rivolta ad un referente propriamente culturale (e non naturale culturalizzato). Infatti, se per quanto osservato in precedenza gli elementi teriomorfici fungono da semplici contrassegni, il mobile, recuperandoli, non intende rinviare più al mitico animale-divinità (referente originario), bensì agli oggetti socializzati e divenuti, come abbiamo visto, di per se stessi simbolici, con i quali, inoltre, non stabilisce più, logicamente, un rapporto di tipo magico (a meno che non si legga, nella ripresa di forme ritenute visibili testimo­ nianze della virtus romana, il tentativo di riconquistare, attra­ verso esse, la grandezza passata). In entrambi i casi si tratta, insomma, di un «riferimento culturale »; tuttavia l'illusione referenziale prodotta da tali due distinti processi di iconizzazione risulta profondamente diversa e per il modo di manifestarsi e per il suo valore, essendo diversa (senza voler individuare le motivazioni sto­ riche di questa differenza) la concezione della realtà rappre­ sentata che la sottende. Lo studio che il Rinascimento ha fatto dell'antichità e l'uso di modelli antichi è notoriamente privo di rigore archeo­ logico: nell'ambito dei sedili, eccezion fatta per talune tipo­ logie che possono considerarsi derivate dalla sella curulis, non vi fu alcun ritorno alle linee delle sedie greche e ro­ mane. Ciò vale anche per i mobili contenitori: la sola forma classica che ricompare è quella del sarcofago, riproposta nel cassone, mobile base dell'arredamento dell'epoca, che, altri­ menti, al pari degli altri mobili contenitori (segnatamente 42 gli stipi) ricalca forme architettoniche. Secondo Praz, man-


cando agli umanisti modelli classici per molti mobili, s'ispi­ rarono per essi all'architettura, tradussero in legno forme pensate per la pietra, e cornici, paraste, lesene e modiglioni, divennero elementi dello stipettaio come dell'architetto; nel tardo Rinascimento alle forme architettoniche si sposarono elementi antropomorfici e teriomorfici desunti dagli antichi: sfingi, delfini, chimere 36,

La scarsità di esemplari autentici, prima delle scoperte settecentesche di Pompei ed Ercolano, con la conseguente esigenza di rifarsi quasi esclusivamente a fonti letterarie e iconografiche, se deve, indubbiamente, avere influito sulle par­ ticolari caratteristiche del recupero rinascimentale del mondo classico nel campo dell'arredamento non può, però, dare ragione, da sola, di un fenomeno ben più complesso: il rife­ rimento esplicito e attento per quanto attiene al formulario decorativo e, viceversa, la disinvoltura nei confronti di cor­ rispondenze tipologiche e funzionali, non possono che essere il risultato di una serie di convenzioni culturali proprie del­ l'episteme dell'epoca. Anzitutto, il mobile abbandona, come si è detto, ogni rife­ rimento naturalistico, riproposto, per certi versi, più tardi dal mobile barocco e rococò ( « naturalizzato » dal ricorso a linee e motivi tratti dal mondo vegetale e animale, quali le famose gambe a capriolo), e ciò a favore di una sorta di mimesi culturale. Ma questo avviene perché il discorso degli Antichi riproduce fedelmente ciò che enuncia,... è accordato alle cose stesse, ne costituisce lo specchio 37; sicché tale fiducia fa sal­ tare, come non necessario, il rapporto diretto con la natura, che viene appunto mediato dalle forme antiche. L'unica dif. ferenza sta nel fatto che si tratta d'un tesoro al secondo grado, che rinvia alle notazioni della natura, le quali dai canto proprio oscuramente indicano l'oro sottile delle cose medesime

38.

Il ritorno all'antico è, dunque, considerato come fonte di approccio alla verità della natura, e tale ritorno ad un tesoro di segni legati per similitudine a ciò che possono designare 39

è, analogamente, regolato per similitudine. D'altronde, come individua Foucault, sino alla fine del XVI secolo, la somi-

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glianza ha svolto una parte costruttiva nel sapere della cul­ tura occidentale. :t::. essa che ha guidato in gran parte l'ese­ gesi e l'interpretazione dei testi; è essa che ha organizzato il gioco dei simboli, permesso la conoscenza delle cose visibili ed invisibili, regolato l'arte di rappresentarle 40• Ma la somiglianza può assumere numerose forme e figure, ciascuna delle quali prescrive le proprie articolazioni. Nel nostro settore operante è l'analogia: li suo potere è immenso perché le similitudini da essa trattate non sono quelle, visibili, massicce, delle cose stesse; basta che consistano nelle so­ miglianze più sottili dei rapporti 41• Se quindi l'analogia ri­ propone, in un certo senso, l'idea di ripetizione 42, questa è attuata ad un livello profondo che nulla ha a che vedere con la semplice replica di forme esteriori. Adottando proporzioni classiche, leggi di simmetria, ecc., la produzione rinascimen­ tale del mobile intende, insomma, aderire in modo non su­ perficiale agli oggetti del mondo antico, intrattenendo con essi un rapporto di proporzionalità, più che di identità; il che legittima anche il ricorso all'architettura, dove il « ritorno alla maniera antica di costruire » è regolato dalla medesima logica. Se tale legge è più interna che immediatamente evidente, occorre che le similitudini sepolte vengano segnalate sulla superficie delle cose; un contrassegno visibile delle analogie invisibili è necessario. Ogni somiglianza non è forse, a un tempo, ciò che è più evidente e ciò che è più celato? Non risulta infatti da pezzi giustapposti, gli uni identici, gli altri diversi: assolutamente compatta è una similitudine che si vede o meno. Sarebbe pertanto priva di criterio, se in essa - o al di sopra o accanto - non vi fosse un elemento di decisione a trasformarne lo scintillio esitante in chiara cer­ tezza 43• Dal momento che la somiglianza è forma invisibile, affinché tale forma a sua volta affiori alla luce, ci vuole una figura visibile che la tragga dalla sua profonda invisibilità 44• Le somiglianze esigono una segnatura, poiché nessuna di esse potrebbe essere notata se non fosse contraddistinta leggi­ bilmente 45• 44 Addirittura, dunque, non vi è somiglianza senza segna-


tura 46 , sicché l'iconizzazione del mobile, se è regolata dal­ l'analogia, si volge a recuperare anche un repertorio di forme ornamentali e motivi di evidente derivazione classica in fun­ zione di indice, nel senso specifico, stavolta, di « fatto imme­ diatamente percepibile che ci fa conoscere qualcosa a pro­ posito di un'altra che non lo è» •1. Ben diverso risulta, invece, l'atteggiamento ottocentesco nei confronti del mobile antico, agevolato non solo dalla di­ sponibilità di esempi e testimonianze, grazie alle recenti sco­ perte archeologiche e all'impulso dato dall'editoria alla dif­ fusione, in ambito anche non strettamente specialistico, di immagini di arredi e suppellettili romane, greche, egiziane, ma soprattutto dalla recettività del gusto europeo, da lungo tempo saturo d'alessandrinismo 48• Il richiamo all'autorità del passato si traduce nell'imitazione accurata, e talvolta pe. dissequa, delle forme antiche, di modo che non si recupera soltanto un repertorio di forme ornamentali, ma si ripropon­ gono tipologie funzionali con precisione archeologica, copian­ do fedelmente mobili ed oggetti. Se nel Rinascimento il mobile svolge anche una funzione di supporto di indici e contrassegni, si propone, ora, esso stesso come indice, anteponendo perfino, in taluni casi, agli scopi pratici, una finalità rappresentativa. L'impronta archeologica tramuta così l'analogia rinasci­ mentale in un rapporto omologico 49, di conformità ed ade­ sione formale e funzionale; il letto da riposo imita la kline, la sedia 'alla greca' copia il klismòs, l'athénienne altro non è che l'antico tripode e ne riprende la forma e le decorazio­ ni, ecc.; per tutti questi esempi si tratta di rappresentazioni il cui primo compito è di designare rappresentazione. Il senso rinascimentale della « rappresentazione » e quello ottocentesco sembrano, in definitiva, riportabili a due distinti significati, entrambi propri del « rappresentare », nel senso, nel primo caso, di richiamare l'attenzione di qualcuno su qual­ cosa, corrispondere a qualche altra cosa, esserne la manife­ stazione, il shnbolo o il tennine correlativo ( da cui rappre­ sentazione come corrispondenza... espressione ... riproduzione shnbolica di una cosa in un'altra) 50 o, ancora, come si espri­ meva la cultura del XVI secolo, far constatare la presenza 45


di qualcuno, o mostrare qualcosa di presente s1; laddove, a tale idea di presenza attuale e sensibile, si oppone, sotto certi aspetti, quella di sostituzione di una persona o di una cosa da parte di un « rappresentante», detto di una semplice im­ magine che... ci rende presente... una cosa assente 52, più vi­ cina alla logica di un atteggiamento archeologico rivolto a quanto è avvertito come ormai scomparso. Tale funzione « rappresentativa» dell'oggetto si ritrova, addirittura esasperata, nell'arredamento eclettico; nella pro­ duzione di mobili ed oggetti l'iconizzazione (nella sua forma di stilizzazione storicistica) diviene norma programmatica e cosciente obiettivo. Grazie all'illusione referenziale così pro­ dotta, le case si riempiono, prima che di mobili, di immagini di mobili, prelevate dalle epoche più diverse (vogliamo che ogni periodo dell'arte sia rappresentato) 53, accomunate, co­ munque, dal rassicurante riferimento agli stili storici a ratifi­ care nell'alta, come nella media borghesia (con progressivo scadere della qualità dell'esecuzione e dei materiali), il rag­ giungimento di una posizione di prestigio sociale. Se nella fluidità degli strati sociali... il maggior desiderio di ogni classe era di essere scambiata per quella immediatamente più ele­ vata 54, di conseguenza gli arredi dell'alta borghesia mimavano quelli dell'aristocrazia, quelli della classe media cercavano, a loro volta, di imitare quelli dei nuovi ricchi. In tale logica (e ideologia) della «rappresentazione», ap­ pare legittima anche la «riproduzione» del mobile, che, seb­ bene realizzato dalle nuove macchine e quindi privato di ogni finezza artigianale di dettaglio, si pone quale valido «so­ stituto» di quello autentico, essendo in grado di fornirne la stessa immagine e di veicolarne (ed è questo lo scopo ultimo) le medesime connotazioni. L'autenticità non era affatto avvertita come valore discriminante: si apprezzavano quasi allo stesso modo il pezzo autentico e quello 'in stile' purché solido, costruito secondo le regole e con materiali ricchi 55• Ciò su cui non si transigeva era solo, naturalmente, l'esattezza della rappresentazione: nella nuova produzione del mobile i disegni... dovevano essere copie dei prototipi più 46 esatte di quelle delle versioni più antiche 56•


Se il mobile si definisce, quindi, per la propria capacità di indicare il posto dell'individuo o del gruppo all'interno di una gerarchia, perché esso possa adeguatamente funzio­ nare nel suo ruolo sociale è però necessario stabilir� di quali valenze comunicative siano portatori determinati indici morfologici. Non a caso proprio in tale periodo nasce la nozione di « stili d'arredamento», per ciascuno dei quali vengono fissati i valori simbolici che gli sono più « conge­ niali». L'accento posto esclusivamente sulla funzione simbo­ lica conduce così alla scomparsa di qualunque atteggiamento archeologico o conoscitivo, e giustifica operazioni del tutto prive di rigore e coerenza storica. Ciò è confermato anche dall'uso che si fa del riferimento stilistico: è noto come per ogni destinazione funzionale si prelevi lo « stile » più emblematico (rococò per il salotto, elisabettiano e rinasci­ mentale per la sala da pranzo, ecc.), producendo talvolta degli assurdi storici o dando vita ad incoerenti commistioni laddove la forma dei mobili fu determinata dall'adattarsi di una linea ad un dato pezzo, cosicché sedie Rinascimento e tavoli barocco potevano essere sistemati in una stessa stanza che comprendeva anche una cassa rococò 57• In tale crescita abnorme dello spazio della simbolizzazione, l'oggetto si è venuto sempre più distaccando dalle sue finalità di base, tanto che gli stessi valori funzionali appaiono talvolta compromessi dall'elaborazione stilistica. :e. conse­ guente, quindi, che l'opposizione agli stili storici, condotta a favore delle ragioni della tecnica, dei materiali e della fun­ zione, giunga fino all'abolizione degli attribuiti di « status » dell'oggetto e alla negazione della sua funzione simbolica. Abbandonato il riferimento stilistico e qualunque rimando esterno (implicito nella stessa funzione simbolica), il mobile viene riportato alle sue oggettive ragioni funzionali (ovvero alla finalità di base), depurandolo da ogni significato di natura ambientale, storica, simbolica, ecc. Ma ridurre, ancora una volta nel senso etimologico di ricondurre, l'oggetto agli scopi, equivarrebbe ad espungere la componente metaope­ rativa, individuata appunto come « distanza dagli scopi», e, quindi, ad annullare il processo di iconizzazione. Ciò sem- 47


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brerebbe confermato dalla scomparsa di indici morfologici di tipo figurativo o quasi; anche nella volgarizzazione delle teorie del Cole, la razionalizzazione della produzione degli oggetti d'uso e, in particolare, d'arredo, si traduce nel rifiuto della rappresentazione tout-court: non dovete possedere nulla, sotto forma di qualche oggetto d'ornamento o d'utilità, che sia in contraddizione coi fatti. Come non camminate sui fiori, non dovete permettervi di camminare sui fiori di un tappeto. Non accade che farfalle ed uccelli esotici vengano ad appol­ laiarsi sulle vostre stoviglie, dunque non vi si può permettere di dipingere farfalle ed uccelli esotici sopra le vostre sto­ viglie. Non troverete mai un cavallo che passeggi su e giù per le pareti, dunque non dovete mai avere cavalli rappre­ sentati davanti a voi sui muri 58• Gli elementi d'arredo tendono, insomma, ad essere ricon­ vertiti da immagini di in strumenti per, in grado di far emer­ gere, da una definizione formale semplificata fino all'essenziale (la sedia diviene « un minimo per sedersi» 59 ), la funzione come 'principio primo' ed esaustivo. La tavola neutra, leggera,· ribaltabile, il letto senza piedi, senza testiera è come il grado zero del letto: tutti questi senza baldacchino, oggetti di linee « pure ,. non assomigliano nemmeno più a ciò che sono, ri­ dotti alla loro espressione più semplice e come definitiva­ mente secolarizzati: ciò che è stato liberato in essi... è la funzione. Questa non è più oscurata dalla teatralità morale dei vecchi mobili, si è disfatta del rito, dell'etichetta, di tutta un'ideologia che facevano dell'ambiente lo specchio di una struttura umana reificata. Oggi, finalmente, gli oggetti lasciano affiorare chiaramente ciò cui servono. Sono dunque liberi, in quanto « oggetti di funzione,. 60• Ma, secondo Garroni, per ritrovare nella sua genuina U­ bertà il 'linguaggio moderno.. .' bisognerebbe abolire ogni spe­ cificazione metaoperativa: il che, ammesso che sia augurabile, sarebbe innanzi tutto impossibile 61• Ciò è dimostrato anche dal fatto che una descrizione puramente funzionalistica di un oggetto non è mai una spiegazione sufficiente, in quanto non esaurirà mai tutte le caratteristiche della sua conformazione. Questo è vero anche per strumenti più sofisticati


(edifici, città, aerei, sottomarini, ecc.), la cui progettazione funzionale limite mediante un elaboratore elettronico stabi­ lirà piuttosto un campo di scelte possibili, non descrivibili - ciascuna - funzionalmente. Anche lo scopo mediato (nel nostro caso l'« utilità» dell'oggetto) implica già una qualche assenza di scopo, cioè ,un'attività operativa che lavora su materiali concreti distanziandosi dagli scopi effettivi che po­ tranno poi essere perseguiti, guidata quindi .solo dalla possi­ bilità dello scopo. Ma ciò comporta che Io strumento non è tutto determinato da un Insieme finito di scopi effettivi e che attraverso le determinazioni lasciate disponibili si mani­ festa, già a questo livello, una componente metaoperativa anche attraverso Indici empirico-formali. Tali Iodici... possono essere descritti non più funzionalmente, ma solo nella loro pura osservatività, cioè da un punto di vista empirico­ formale 62. Se nessuna forma è derivata completamente dalla fun. zione, essa risulta piuttosto prodotto dell'iconizzazione, in­ dotta dalla presenza della componente metaoperativa; tale componente è appunto resa rilevabile anche ad un esame osservativo da indici che possono essere a carattere figura­ tivo o meno, senza che si debba escludere, anche in questo ultimo caso, di trovarci di fronte ad una specificazione meta­ operativa di tipo iconico. Che il dominio dell'iconico ricopra, ma non coincida con quello del « figurativo ,. è evidente nel caso, ad esempio, della « pittura astratta »: parlare di « pit­ tura astratta ,. non ha senso poiché la pittura è sempre con­ creta; quanto alla « pittura non figurativa ,. è al livello del significato che essa merita questo nome, ma Il significante pittorico è una figura e un'icona di questa realtà senza fi. gura 63• Nel nostro caso, dunque, quella che si produce è una particolare interpretazione storica dell'iconizzazione come « messa in immagine» delle valenze funzionali (e strutturali) dell'oggetto, al fine di produrre, anche stavolta, un'illusione referenziale, condizionata da una ideologia che riduce il reale al razionale e al pratico. Una simile possibilità sarebbe implicita nel concetto stesso di « funzione » che, secondo Piero Raffa, copre tre aspetti: 49


fisico, psicologico, sociale. Tutti appartengono, per implica­ zione logica, alla dimensione pragmatica... e come tali sono di natura eterogenea rispetto all'interpretazione artistica... Tuttavia, uno di essi, precisamente quello sociale, rientra anche nella dimensione semiotica, oltreché in quella pragma­ tica, ferma restando la sua estraneità di principio alla semio­ ticità artistica 64• Se l'aspetto sociale è relativo all'esigenza che determinati oggetti (nel nostro caso) indichino o mostrino a chi guarda il ruolo, il rango, la finalità istituzionale che essi assolvono, le parole 'indicare' e 'mostrare' lasciano capire che questa funzione si realizza esprimendola, ponendola delibe­ ratamente in evidenza, e che pertanto essa appartiene con­ genialmente alla comunicazione, al linguaggio 65• Nella prospettiva teorica qui assunta possiamo quindi so­ stenere che il peso della componente metaoperativa risulta completamente diverso a seconda che la funzione-utilità venga semplicemente assolta da uno strumento, oppure anche co­ scientemente e programmaticamente esibita, ostentata, messa in risalto attraverso l'uso di speciali procedimenti (e cioè iconizzata). Nel primo caso, infatti, essendo l'operazione fi­ nalizzata esclusivamente a scopi pratici, la componente meta­ operativa si presenta come subordinata, nel secondo, il rap­ porto stabilito con una finalità comunicativa, in senso lato, assicura comunque a questa stessa componente un suo spazio di crescita: questo perché, in tale caso, può considerarsi prodotta una ulteriore scissione di fini: non solo quella tra la realizzazione dell'oggetto (scopo immediato) e la funzione da questo consentita (scopo mediato), come nel caso dello strumento, ma anche quella tra la funzione e la sua rappre­ sentazione. � questo il caso dell'oggetto prodotto dal design che già per Argan è insieme se stesso e la rappresentazione di sé, e anzi, proprio in quanto è rappresentazione, sovrap­ pone alla cruda strutt-uralità funzionale un valore formale, quello appunto che richiama la nostra attenzione ed appaga l'interesse della vista allorché ci serviamo dell'oggetto 66• Se è lecito dunque dire che la forma, in qualche modo, non «segue», ma «rappresenta» la funzione, occorrerà rife50 rirsi alla funzione come unità culturale; l'iconizzazione, in


altri termini, è volta a produrre l'illusione referenziale ovvero l'effetto di senso « realtà » relativo non alla funzione-base (senso preculturale del referente), dato dell'operazione, ma alla tunzione nei suoi aspetti semantici pertinentizzati (fun­ zione culturale prodotto dell'operazione) 67 • Questa non si esaurisce nella pura e semplice destinazione d'uso, in quanto, secondo la terminologia di Eco, alle funzioni fisiche denotate si affiancano, e si sovrappongono, in taluni casi, le funzioni socio-antropologiche connotate dall'oggetto stesso (valori simbolici) alle quali soprattutto è affidata la «semanticità» di quest'ultimo. Il morfema « scrivania », ad esempio, dotato di tratti morfologici, esprimerà nel suo insieme un semema, fornito a sua volta di tratti semici che possono appartenere immediatamente alla categoria dellé funzioni fisiche denotate (funzioni prime) o a quella delle funzioni socio-antropologiche connotate (funzioni seconde); ciascuno di questi ultimi con­ noterà a sua volta, in base a precise convenzioni culturali, altre funzioni socio-antropologiche di ordine più complesso (e dunque altre funzioni seconde) quali ad esempio« potere» «rispetto» manager, ecc.. Inoltre, perché ciò accada, ciascuna delle funzioni seconde connotate deve appoggiarsi, secondo l'autore, a tratti morfologici della famiglia di M 68, ovvero del morfema complessivo. Una tale condizione potrà riportarsi alla possibilità, più volte sottolineata, che hanno gli indici di caricarsi di valenze simboliche grazie alla presenza cli una forte componente meta­ operativa; quindi si tratterà piuttosto di individuare come storicamente si produca la suddetta investitura simbolica dopo il suo presunto azzeramento. L'iconizzazione più su riscontrata anche nell'oggetto strettamente funzionale, che, ostentando la propria «utilità», manifesta la presenza della componente metaoperativa, consente di riconoscere, già nei prodotti del design storico, un'intenzionalità simbolica. lnol, tre, l'ideologia funzionalista, invadendo lo spazio della simbo­ lizzazione, comporta la possibilità d'ampliamento dell'area semantica della funzione, sicché il simbolismo strettamente funzionale si carica cli connotazioni. Per Bonsiepe, nell'oggetto d'uso tecnico domina... la funzionalità sulla componente se- 51


mantica, anche se al di fuori del suo contesto gli si può affi­ dare nuovamente la sua carica semantica. Un esempio è co­ stituito dal nero opaco: la sua caratteristica è di essere privo di riflessi ed offrire un grande contrasto; per questo viene usato per I quadri di comando degli aerei. In un primo mo­ mento è semanticamente neutrale, ma, sottomesso ad una dinamica culturale, diventa per i beni di consumo un indice di perfezione tecnica e di professionalismo Quanto è sottolin_eato qui per un indice cromatico può essere agevolmente esteso agli indici morfologici: tipico l'esempio delle forme aerodinamiche che, inizialmente det­ tate dall'esigenza di attenuare nei veicoli la resistenza opposta dall'aria, si caricano di valenze simboliche che ne giustificano la presenza anche al di fuori dell'originario ambito tecnolo­ gico. Laddove tali indici non risultano pertinenti da un punto di vista funzionale il loro uso appare infatti motivato dalla funzione simbolizzatrice dell'oggetto industrialmente pro­ dotto. � appunto a seconda del valore di codesta funzione che muta, secondo Dorfles, la linea, la caratteristica formale dell'oggetto, per cui nel periodo in cui predomina la aero­ dinamicità si avrà un'estensione di questa anche ad oggetti statici (e gli esempi sono infiniti) 70• Ancora una volta, l'eclis­ sarsi della motivazione, trasformando le forme funzionali derivate dalla natura tecnologica dei prodotti in caratteri­ stiche «decorative», estende l'uso di determinati indici e ne accresce il valore simbolico; tuttavia, il loro «estraniamento» dal contesto funzionale denuncia che si è prodotto un feno­ meno diverso rispetto all'iconizzazione funzionalista: si è, cioè, accentuata la suddetta scissione tra gli scopi del «funzionare» e del «rappresentare», è aumentato l'inter­ vallo tra l'utilità vera e propria e le valenze rappresentative, si è ampliato lo spazio della simbolizzazione. A ciò mira l'elaborazione formale operata dallo styling che, consistendo appunto in una «stilizzazione» imposta da ragioni non strettamente funzionali, presuppone una nuova crescita della componente metaoperativa. Laddove questo processo è condotto alle estreme conseguenze, la dominanza 52 metaoperativa fa sì che, una volta scardinata la rispondenza lfJ_


dell'utensile allo scopo, per sostituirla con il collegamento ad una rete sfuggente di dati psicologici, sia possibile giun­ gere a legittimare la fabbricazione meccanica di oggetti «inutili» in serie 71• Ma anche senza giungere ad una vera e propria ideologia dell'« assenza di scopo», in ogni caso, quando la struttura irrigidita viene invasa dagli elementi astrutturall, quando il dettaglio formale invade l'oggetto, la funzione reale diventa soltanto un alibi, e la forma significa soltanto l'idea della funzione: diventa allegorica 12. Contrariamente all'abolizione degli attributi di « status » nell'oggetto, decretata dal Bauhaus, lo styling, dunque, carica il prodotto industriale di valenze simboliche, svincolate spesso (come nel caso del mito della velocità proprio dell'estetica aerodinamica) dalla sua effettiva destinazione d'uso. In tal modo, si viene ad infrangere l'equilibrio forma-funzione, pre­ cedentemente stabilito dal design, a favore di uno nuovo e più instabile, in cui la definizione formale «rappresenta» ancora la funzione dell'oggetto intesa, però, complessiva­ mente, allargata, cioè, dallo scopo pratico da questo assolto alle esigenze psicologiche cui risponde. È quanto avviene, emblematicamente, per le carrozzerie delle automobili, irte di pinne e di punte, caratterizzate dall'« aggressività» dei paraurti, dalla « ferocia » dei fari, dal «prestigio » delle ali, per soddisfare l'inconscia volontà di potenza del consuma­ tore; ma lo stesso si verifica per l'« involucro» di qualunque prodotto industriale, elementi d'arredo ed utensili compresi, che diviene oggetto di un'autonoma valorizzazione estetica, del tutto indipendente dalle definizioni tecnologica e funzio­ nale. Queste, infatti, possono anche restare invariate, poiché le mutazioni di stile (o meglio le diverse stilizzazioni) seguono piuttosto di pari passo le mutazioni dei relativi elementi sim­ bolizzatori che ne stanno alla base 73• Lo styling, rivestendo di nuove forme l'oggetto, allorché le vecchie risultano ormai «consumate», opera, insomma, sullo scollamento delle funzioni connotate da quelle deno­ tate, che consente alle prime di presentarsi come variabili, pur rimanendo costanti le seconde. Ma se l'operazione di cosmesi si verifica indipendentemente, o, meglio, oltre l'« uti- 53


lità » dell'oggetto, si distanzia, quindi, dagli scopi prat1c1, è facile riconoscere in questa elaborazione formale, volta a produrre sempre nuove valenze simboliche, un processo di iconizzazione, indotto dalla rapida crescita della com­ ponente metaoperativa intenzionalmente portata in primo piano. Valorizzando la componente metaoperativa e puntando conseguentemente sulle valenze simboliche, anziché funzio­ nali, la tecnica progettuale dello styling è contraddistinta da una spinta iconicità, dal momento che questa non dipende ... dalla semiotica « denotativa », ma trova il suo fondamento nel sistema di connotazioni sociali che sono soggiacenti al­ l'insieme delle semiotiche 74• Essa si avvale, perciò, nuova­ mente di indici morfologici a carattere figurativo o quasi, che, in quanto appunto indici metaoperativi, risultano del tutto svincolati, se non addirittura in contrasto, con la desti­ nazione funzionale. Esemplare è appunto la stilizzazione del­ l'automobile: appena liberato dalle forme dei veicoli prece• denti e strutturato secondo la propria funzione, velocemente l'oggetto automobile riesce soltanto a connotare il risultato acquisito, a connotare se stesso come funzione vittoriosa. Si assiste allora ad un vero trionfalismo dell'oggetto: l'ala dell'automobile diventa « segno » della vittoria sullo spazio, segno puro perché privo di rapporti con questa vittoria (in realtà semmai la compromette, perché l'ala appesantisce l'automobile e ne accresce l'ingombro) 1s.

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La presenza di tali indici intende riproporre nuovamente un'illusione referenziale; grazie ad essi l'automobile mima un organismo superiore. Mentre il motore è l'efficiente reale, le ali sono l'efficiente immaginario. La commedia dell'efficienza spontanea e trascendente l'oggetto richiede tuttavia simboli naturali: l'automobile si camuffa con ali e fusoliera che in altri casi sono elementi strutturali - ruba i segni dell'aero­ plano, oggetto-modello dello spazio; ruba i suoi segni alla natura: lo squalo, l'uccello, ecc. Ma oggi la connotazione na­ turale ha cambiato registro; una volta, per naturalizzare gli oggetti, era il mondo vegetale che veniva corrotto, che sommergeva gli oggetti, e perfino le macchine, di segni di pro-


dotti della terra; oggi si delinea una sistematica della fluidità, che non cerca più le proprie connotazioni nella terra e nella flora, elementi statici, ma nell'aria e nell'acqua, elementi fluidi, e nella dinamica animale. La naturalità moderna, pas­ sata dall'organico al fluido, resta pur sempre una connota­ zione di natura. L'elemento astrutturale, inessenziale, come l'ala dell'automobile, connota sempre l'oggetto tecnico « na­ turalmente » 76_

Anche le nuove forme fluide, aerodinamiche degli oggetti prodotti industrialmente sottendono dunque una componente mimetica tutt'altro che ingenua: nel tradursi in immagini di rivelano, infatti, la tendenza a naturalizzare l'arbitrario, mo­ tivandolo, per recuperare, dopo la pretesa oggettività del linguaggio funzionalista, una investitura magico-simbolica. Infatti, se la ricomparsa di forti indici metaoperativi serve ad appagare l'esigenza umana di simbolizzazione, quella che si propone è nuovamente un'osmosi, uno scambio tra l'uomo, che carica di simboli le cose, e queste che proiettano le pro­ prie qualità sull'uomo. In una moderna mitologia della so­ cietà dei consumi è ancora un rapporto magico quello che si stabilisce col referente: l'oggetto si pone come mezzo non solo di rappresentazione, ma di trasmissione di proprietà, mediante una serie di simboli visivi facilmente identificabili, scarsamente convenzionalizzati, o, meglio, il cui grado di con­ venzione è limitato dalla chiara motivazione iconica. Da qui il valore-chiave assunto dall'immagine nella nostra cultura: se l'immagine è divenuta mezzo di « comunicazione » effet­ tiva, logicamente la produzione e il consumo degli oggetti si pongono anzitutto come produzione e consumo di imma­ gini di 77 • È inutile sottolineare l'ideologia persuasiva che soggiace all'iconizzazione e che anima, appunto, la pseudo-naturaliz­ zazione prodotta dall'illusione referenziale. Come la « rise­ mantizzazione » 7s dell'oggetto si ponga all'interno della logica di un'economia consumistica e risulti asservita alle esigenze di produzione non è dato esaminarlo qui; per l'indagine se­ miotica si trattava ... di capire ( e di descrivere) in che modo una società produca degli stereotipi, cioè dei massimi di

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artificio, che consuma poi come dei significati innati, come del massimi di naturale 79•

Cfr. E. GARR0NI, Ricognizione della semiotica, Officina, Roma, 1977. 2 Secondo M. Praz. i mobili sono in origine, di due specie: mobili che sostengono e mobili che contengono (La filosofia dell'arreda111e11to, Documento, Roma 1945, p. 82). Per entrambi tali categorie sembrerebbe, comunque, possibile ipotizzare la medesima struttura spaziale del tipo esternità/internità. Questa è immediatamente evidente per i mobili con• tenitori che arieggiano ... forme architettoniche: la cassa della biancheria - come, del resto, anche la bara - s'ispira alla casa (Ibidem), ma può estendersi anche ai mobili sostenitori (sedie, letti, ecc.) che allu­ dono ad una spazialità interna (cfr. molti mobili sono calchi del corpo umano, forme vuote per accoglierlo... il letto un astuccio, la scrivania con l'incavo per contenere le ginocchia un altro astuccio; ivi, p. 33). Tale spazialità interna può essere, ovviamente, anche soltanto virtuale (come nel caso estremo di una mensola). 3 E. GARRONI, Op. cit., p. 120. 4 Ivi, p. 70. s Ivi, p. 71. 6 Su tali punti sarebbe interessante confrontare le posizioni di diversi autori. Non essendoci ciò consentito nell'economia del presente saggio ci limiteremo a ricordare come, per M. L. Scalvini, lo scarto dallo scopo immediato e pratico sia riportabile addirittura all'opposi­ zione tra un livello di base ed un livello secondo, equivalente all'oppo­ sizione tra extra-estetico ed estetico, tra tettonico ed architettonico. In particolare, per l'autrice, possiamo... supporre che gli elementi della tettonica divengano i 'segni' dell'architettura allorché allo scopo di base della mera • adeguazione pratica ad un bisogno» si sovrappone un'ln• tenzionalltà più complessa... Questa intenzionalità 'seconda' comporta « anche» un fattore di significazione formale, ossia per definizione un fattore estetico, In grado di Inglobare e «dinamizzare» (Mukarovsky) tutte le componenti extraestetiche, le quali peraltro continuano a essere presenti nell'oggetto. (L'architettura come semiotica connotativa, Bom­ piani, Milano 1975, p. 43). 7 E. BATTISTI, I mobili e la loro storia, in « La casa», n. 1. s E. GARR0NI, Op. cit., p. 113. 9 Cfr. M. L. SCALVINI, Op. cit., p. 28: all'obiettivo fondamentale ele­ mentare, per così <Ure basico,... si sovrappongono immediatamente fina­ nalltà più complesse In grado di modificare più o meno radicalmente... il peso dell'obiettivo fondamentale stesso (...funzione pratica) sino a portarlo a svolgere un ruolo subordinato, e addirittura, In taluni casi­ limite, a capovolgerne la natura di obiettivo da perseguito a 'negato'. IO E. GARR0NI, Op. cit., p. 75. Il Ivi, p. 76. 12 Ivi, p. 123. 13 Cfr. M. L. SCALVINI, Op. cit., p. 49: al livello 'secondo' cessa quel carattere 'semplice' che è dato dalla 'finalizzazione fondamentale' (o predominante) propria del livello di base (... della tettonica alla funzio • nalità pratica), e subentra il carattere di una 'finalizzazione complessa' che Ingloba gll obiettivi fondamentali propri del livello di base, In una struttura particolare - quella del messaggio a funzione estetica (Jakobson) - che ha valore per sé. 14 E. GARRONI, Op. cit., p. 76. 1

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15 Cfr. R. BARTHES, Elementi di semiologia, Einaudi, Torino 1966, p. 30. 16 E. GARR0NI, Op. cit., p. 111. 11 Ivi, p. 110. 18 Greimas fornisce una definizione estremamente allargata dell'ico­ nicità quale fenomeno interessante non solo le semiotiche visuali, ma anche la stessa semiotica letteraria. In questa prospettiva, l'iconizza. zione designa, per l'autore, all'interno del percorso generativo dei testi, l'ultimo stadio della ftguratlvizzazlone del discorso in cui noi distin­ guiamo due fasi: la figurazione propriamente detta, che rende conto della conversione del temi In figure, e l'iconizzazione, che, Incarican­ dosi delle figure già costituite, le dota di investiture particolarizzanti, suscettibili di produrre l'Illusione referenziale. (A. S. GREIMAS, J. C0URT�, Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Hachette, Paris 1979, voce /conicite). 19 E. GARRONI, Op. cit., p. llO. 20 Cfr. quanto analogamente sostenuto da R. Lindekens a proposito dell'immagine fotografica, benché ovviamente il processo di iconizza­ zione risulti specifico dell'ambito considerato. L'autore, inoltre, propone come semioticamente pertinente la distinzione tra oggetto iconizzato e oggetto iconico, equivalenti, rispettivamente, alla sostanza e alla forma dell'espressione (secondo la terminologia hjelmsleviana). Le considl.!· razioni qui svolte sarebbero quindi relative agli oggetti iconizzati, in­ teressando lo strato sostanziale della corcreta manifestazione degli oggetti d'arredo; d'altronde, se è la sostanza a selezionare la forma (Hjelmslev), essa si pone legittimamente come punto di partenza per un'indagine che voglia giungere anche all'individuazione dell'organizza­ zione formale. Infine, per l'autore, il senso iconico proprio dell'immagine si trova in un rapporto <l'Implicazione ... con una significazione identl­ ficatrice (Informativa) ed una significazione linguistica (concettuale) impìicitamente o esplicitamente verbalizzata. (Eléments pour une sémio­ tique de la photographie, Didier, Paris 1971, p. 262, recentemente tra­ dotto in: Semiotica della fotografia, Il Laboratorio, Napoli 1980). Dal canto suo, Garroni indaga sulle correlazioni tra comportamento lingui­ stico e comportamento operativo, e, specificamente, sulla possibilità del linguaggio di • proiettarsi• più o meno concretamente ed esplicitamente sull'operazione e • semiotizzarla (Op. cit.). Su questi problemi non ci è purtroppo possibile soffermarci qui. 21 E. GARR0NI, Op. cit., pp. 126-7. 22 A. J. GREIMAS, J. CouRT!ls, Op. cit., voce cit. 23 E. BATTISTI, Art. cit. 24 M. PRAZ, Op. cit., p. 82. 25 Ivi, p. 34. 26 In una primitiva concezione magica la parola crea ciò su cui verte. 21 M. FoucAULT, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1979, p. 42. 28 L. BEN0IST, Signes, symboles et mytltes, Presses Universitaires de France, Paris 1975, p. 51. 29 J. KRISTEVA, I:nµiLW·nx'/i. Ricerche per una semanalisi, Feltrinelli, Milano 1978, p. 162. 30 Ibidem. 31 Cfr. L. BEN0IST, Op. cit., p. 52: la rappresentazione simbolica pone il trono del principi al di sopra della terra e se in Estremo Oriente I re venivano un tempo portati sulle spalle, come i nostri re franchi sugli scudi, o ancora oggi i papi sulla sedia gestatoria, è perché, 57 divenuti personaggi quasi divini, non dovevano toccare terra.


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32 P. Gu1RAUD, La sémiologie, Presses Universitaires de France, Paris 1971, p. 34. l3 Cfr. ivi, p. 106. 34 Ivi, p. 107. lS lvi, pp. 11-2. 36 M. PR,\Z, Op. cii., pp. 91-2. 37 M. Fouc,\ULT, Op. cii., p. 48. 38 Ibidem. 39 Ibidem. 40 Ivi, p. 31. 41 lvi, p. 35. 42 Il prefisso a.va. ha solitamente significato distributivo; tuttavia, cfr. 6.116.••• , in «analogia» rivela quasi certamente l'idea di 1;oetizlone (lat. re... ) come in 6.va.µV1]cn.,;, reminiscenza, ecc. (A. LALANDE, Dizionario critico di filosofia, !SEDI, Milano 1971, voce Analogia). 43 M. FoUCAULT, Op. cii., p. 40. 44 Ivi, p. 41. 45 Ivi, p. 43. 46 Ivi, p. 40. 47 La definizione è quella data da Prieto. Per questa ed altre defini­ zioni del termine cfr. A. J. GREtM,\S, J. CoURTÉS, Op. cii., voce Indice. 48 M. PRAZ, Gusto Neoclassico, ESI, Napoli 1959, p. 79. 49 Il termine omologia è riportato qui al suo significato etimologico di «accordo basato sull'eguaglianza» (éµé,; = uguale) ed in quanto tale è distinto da analogia « rapporto proporzionale». Diversamente è pro­ posta da altri autori la dicotomia omologico/analogico; nell'ambito se­ miologico cfr., ad es., P. Gu1RAUD, Op. cii., p. 42: l'omologia è un'analogia strntturale, poiché I significanti stanno tra loro nella stessa relazione del significati, mentre l'«analogia » (propriamente detta) è sostanziale. so A. LALANDE, Op. cit., voci Rappresentare e Rappresentazione. s1 GOCLENIUS, v• Repraesento 981, b, cit. ivi. s2 A. l.AUNDE, Op. cit. voci cit. 53 L'affermazione compare su una rivista commerciale del 1895; cfr. A. FERRARI, Eclettismo rigoroso e quasi scientifico, in «Modo» n. 26, gennaio-febbraio 1980. 54 A. FERRARI, Art. cit. ss Ibidem. 56 M. D. SCHWARTZ, voce Mobilio, E.U.A. 51 Ibidem. 58 CH. D1cKENS, Hard Times, 1854; trad. it.: Tempi difficili, Milano 1958, p. 17; cit. in F. BOLOGNA, Dalle arti minori all'industriai design. Storia di un'ideologia. Laterza, Bari 1972. La posizione di Dickens nei confronti del movimento per la razionalizzazione del design capeggiato dal Cole è attentamente esaminata da Bologna alle pagine 213-7. 59 Così vengono definite da L. Rubino le prime sedie di Arne Ja­ cobsen (cfr. Quando le sedie avevano le gambe, Bertani, Verona 1973). 60 J. BAUDRlLLARD, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 1972, pp. 22-3. 61 E. GARRDNI, Op. cit., p. 128. 62 lvi, pp. 116-7. 63 P. GUIRAUD., Op. cit., p. 80. 64 P. RAFFA, Semiologia delle arti visive, Pàtron, Bologna 1976, p. 177; le osservazioni dell'autore sono specificamente rivolte all'architettura. 65 Ivi, p. 175. 66 G. C. ARGAN, Relazione· al Congresso su/l'« industriai design», X Triennale Milanese; cit. in F ..MENNA, La regola e il caso, Ennesse, Roma 1970.


67 Ci sia lecito rinviare, per questi temi, alle note conclusive del procedente lavoro svolto in collaborazione con R. DE Fusco, Ipotesi per il segno iconico, in « Op. cit. • n. 44, gennaio 1979. 68 U. Eco, Le forme del contenuto, Bompiani, Milano 1971, p. 166. 69 G. BONSIEPE, Teoria e pratica del disegno industria/e, Feltrinelli. Milano 1975, p. 36. 70 G. DoRFLES, voce Industriai Design, E.V.A.; ma dello stesso autore cfr. sull'argomento la ricca bibliografia da Simbolo, comunicazione e consumo, Einaudi, Torino 1%2 (part. p. 204) fino a Dal significato alle scelte, Torino 1973 (part. p. 100). 71 F. BoLOGNA, Op. cii., p. 303. 72 J. BAUDRILL,\RD, Op. cii., p. 76. 73 G. DORFLES, voce cit. 74 A. J. GREIMAS, J. CouRm, Op. cii., voce lconicicé. 75 J. BAUDRILL,\RD, Op. cii., p. 75. 76 Ivi, pp. 74-5. n Velleitaria sarebbe qualunque pretesa di fornire una bibliografia, sia pure sommaria, della ricca letteratura concernente aspetti, tecniche e problemi dell'odierna cultura dell'immagine, o, specificamente, feno­ meni quali la regressione magica, il feticismo delle merci, l'animismo predicato dalla pubblicità, ecc. Chiariamo inoltre qui che, sebbene sem­ brerebbe doveroso un accenno ai contributi offerti dalla psicoanalisi e dall'antropologia culturale allo studio del simbolismo e dei meccanismi relativi, preferiamo, in questa sede, astenercene, per la difficoltà di riassumere posizioni numerose e differenti, di notevole portata concet­ tuale, non di rado difficilmente conciliabili (cfr., ad es. il pansimbolismo di G. Durand) con punti di vista specificamente semiologici. 78 Uno strumento di risemantizzazione dell'oggetto è appunto, se­ condo Menna, lo styling; cfr. in particolare il capitolo « Design, comu­ nicazione estetica e mass media• in La regola e il caso, cit. 79 R. BARTHES, Leçon, Kane, Roma 1979.

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Civiltà del '700 a Napoli* LAURA GIUSTI e LILIA ROCCO

Il 20 dicembre 1979 si è inaugurata nel Museo di Capodi­ monte la sezione più ampia della mostra « Civiltà del '700 a Napoli ». Ci fu una discussione animata, quando si cominciò a preparare la Mostra... sul titolo da preferire. Si era partiti, infatti, con l'idea di intitolarla: « La civiltà dei Borboni a Napoli ». Poi, gli storici presenti nel Comitato promotore fecero delle osservazioni, e si giunse cosi al titolo definitivo: « La civiltà del '700 a Napoli •... Quando una mostra - come benemeritamente fa questa ... - si riferisce, come proprio tema, allo svolgimento di una civiltà, allora i punti di riferi­ mento, almeno coi criteri della critica e della storiografia più moderna, difficilmente possono essere ravvisati in un sovrano o in una dinastia... Parlando di civiltà, è meglio rife­ rirsi ai tempi, ai popoli e ai paesi, anziché ai pii1 o meno pre­ sunti eroi e creatori di civiltà 1• Ed oltretutto il fatto che la produzione artistica del '700 non sia legata esclusivamente alla committenza borbonica, ma sia anzi il frutto di esperienze maturate nei primissimi anni del secolo, è confermato dalla mostra stessa, che presenta molte opere cronologicamente anteriori al regno di Carlo. L'iniziativa ha suscitato enorme interesse ed è stata prece­ duta da un grande fervore di studi e di ricerche su un periodo artistico quasi ignorato dagli studiosi sino alla metà del nostro secolo. Nell'avviare con metro moderno l'esplorazione attra-

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* Delle varie sezioni che compongono la mostra, questa rassegna si occupa prevalentemente di quella allestita al Musco di Capodimonte.


verso le memorie della storia patria, si schivava il terreno infido della stagione borbonica, sulla quale stagnava il veto dell'opposizione risorgimentale, liberale, ed unitaria. Non che si giungesse, per le esperienze artistiche, ad una condanna esplicita, e neppure ad un disconoscimento scoperto, ma la sospensione di giudizio era di regola; una programmata igno­ ranza che moveva dall'impegno ad evitare ogni possibile mo­ tivo di celebrazione 2• A questo si aggiungeva il degrado del patrimonio artistico settecentesco, anche se a bilanciare tanti danni patrimoniali, v'era stata però, e va indicata con rispetto, la ripresa degli studi. Ed ecco le ragioni primarie che hanno suggerito la realizzazione di questa mostra: coordinare in una rassegna le nuove risultanze, e fermare, per quanto ancora possibile, ogni ulteriore impoverimento di cosi nobile eredità d'arte 3• La mostra si propone di dare una visione quanto più pos­ sibile completa della civiltà napoletana del '700, senza privi­ legiare pittura, scultura e architettura, ma dando ampio spazio alle arti cosiddette «minori», che furono uno degli aspetti caratterizzanti della vita artistica del secolo. L'esposizione è suddivisa in varie sezioni: già nel '78 si aprirono una mostra di documenti allestita all'Archivio Storico del Banco di Na­ poli, ed una bibliografia alla Biblioteca Nazionale, poi si è inaugurata al Museo di S. Martino la sezione dedicata ai presepi, e quella di Capodimonte a cui abbiamo già fatto cenno. Hanno fatto seguito l'esposizione delle maioliche in due salette del Museo di Villa Floridiana, ed infine a Villa Pignatelli la parte dedicata alla cartografia e agli apparati di feste. Verranno poi aperte altre due sedi: a Palazzo Reale, in cui verranno esposte le grandi tele a soggetto religioso, alcuni disegni, dipinti di vario genere ed arazzi, e alla Reggia di Caserta, dedicata all'architettura. Il taglio « totale » rientra in un'ottica ormai saldamente affermata della storiografia ar­ tistica, che abbandonando il limbo del puro visibillsmo si confronta con l'intero arco della produzione, non solo, ma con le sue non scindibili ragioni socio-economiche, politiche, e culturali 4• Si tratta in complesso di una mostra-città che comprende circa tremila pezzi, di cui alcuni inediti; una parte 61


di essi verranno poi trasferiti a Detroit e a Chicago per un'esposizione temporanea. Il catalogo è diviso in due volumi: il primo comprende saggi sulla storia, la cultura e la società napoletana, saggi e schede sull'architettura, la scultura della Reggia di Caserta, la pittura e la grafica; il sec_ondo, in corso di stampa, tratterà fra l'altro le arti « minori », la cartografia e gli apparati sce­ nografici. Il palazzo di Capodimonte, uno dei « siti reali» fatti co­ struire da Carlo di Borbone, è naturalmente la sede più adatta per ospitare la sezione più ricca della mostra, dove sono espo­ sti oggetti di ogni tipo; tutto il primo piano dell'edificio è occupato dall'esposizione, articolata in quarantanove sale con percorso unico ed obbligato. Già a partire dagli inizi di gen­ naio la Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici della Cam­ pania ha inoltre predisposto delle visite guidate rivolte a gruppi organizzati, scolaresche e al pubblico occasionale nei giorni festivi. Questa iniziativa ha riscosso ampi consensi: il pubblico, che affluisce numerosissimo, ha finalmente la possi­ bilità di non essere solo spettatore passivo di un così impor­ tante avvenimento culturale, ma di avere un primo contatto con le opere d'arte anche attraverso un serie di nessi storici, sociali e filologici. Per la quantità del materiale esposto si riesce ad avere un'idea complessiva di un secolo pur così ricco di fermenti artistici ed avvenimenti politici che videro susseguirsi a Na­ poli tre diverse_ dominazioni: fino al 1707 il viceregno spa­ gnolo, dal 1707 al 1734 quello austriaco, ed infine sino al 1799, anno della rivoluzione partenopea, il regno indipendente di Carlo e Ferdinando di Borbone. L'esposizione si apre con la grande sala dei ritratti della famiglia reale; il più famoso è quello fatto da A. R. Mengs a Ferdinando, quando salì al trono nel 1759, a soli nove anni di età. Per nascita e per alleanze i Borbone di Napoli erano legati soprattutto alle corti di Spagna, Sassonia e Austria. L'artista più importante che lavorò a Napoli durante il Regno di Carlo fu Anton Raphael Mengs, che ottenne il titolo di pittore di corte a Dresda. La regina Maria Amalia, principessa 62



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programmaticamente anti-barocca anche quando si adattava a soggetti aulici 6 • L'aver affiancato la Natività di S. Maria Donnalbina di Solimena e l'Incontro di S. Carlo Borromeo e S. Filippo Neri di Giordano in una delle prime sale offre quindi una valida possibilità di confronto fra i due maggiori rappresentanti della pittura napoletana agli inizi del secolo. Ci sono anche alcune pregevoli sculture: due Angeli reggican­ dela di Sammartino, l'Angelo custode di Domenico Antonio Vaccaro ed alcuni busti suoi e del padre Lorenzo, ma pur­ troppo non è stato possibile rappresentare adeguatamente quest'importante capitolo dell'arte napoietana: la maggior parte delle sculture, monumenti sepolcrali o opere di grandi dimensioni, sono risultate inamovibili. Gli studi al riguardo sono oltrettutto scarsi e frammen­ tari, comunque si può facilmente constatare come la pittura esercitò notevole influenza sulla contemporanea scultura na­ poletana. Infatti al di là della facile aneddotica divulgata dal De Dominici è fuor di dubbio che la lenta evoluzione di Lo­ renzo Vaccaro... sia avvenuta per sollecitazione di Solimena il quale... spesso scambiava i modelli con l'amico scultore 7• Sono poi esposti bozzetti e piccoli dipinti dove si coglie la raffinatezza di quegli artisti che cercavano di sviluppare, in senso più moderno, li pittoricismo dell'ultimo tempo del ba­ rocco: 'masters of the loaded brush', come si sarebbe detto qualche anno fa. Anche per loro, a Napoli, i punti di riferi­ mento quasi obbligati erano la pittura del Giordano e del Solimena - ma del Solimena giovane... ; essi però mostravano acuta sensibilità anche per modelli di più lontana provenienza, come quelli del Gaulll e della sua cerchia, degli altri grandi decoratori genovesi... I più importanti di questi maestri fu. rono indiscutibilmente Giacomo Del Po e Domenico Antonio Vaccaro 8• Questi bozzetti risalgono ai primi anni del secolo; ce ne sono poi molti altri, anche di artisti come Solimena e De Mura. � stato interessante esporre tanti studi pre­ paratori per le grandi decorazioni delle chiese e dei pa­ lazzi nobiliari sorti nel '700, perché non solo ci permet­ tono di avere un'idea delle composizioni finite, ma, per la loro vivacità ed immediatezza pittorica, ci consentono anche


di apprezzare uno degli aspetti più felici dell'arte del '700 napoletano. Questo dunque - tratteggiato a grandi linee - lo scenario artistico che si presentava agli austriaci al momento del loro ingresso a Napoli e che presto si animerà per nuovi ed im­ portanti episodi, parte dei quali fu in connessione con il mu­ tato clima sociale e politico. Anche se i viceré inviati da Vienna non promossero rile­ vanti opere pubbliche, il loro interessamento per le arti, anzi particolarmente per la pittura napoletana, si manifestò me­ diante cospicue commissioni per opere destinate alle loro residenze in madrepatria 9• Il conte di Harrach, viceré austria­ co a Napoli e collezionista d'arte napoletana, fu il principale committente, ma altre ordinazioni provenivano direttamente da Vienna. La vita artistica napoletana si apriva a nuove esperienze, tanto che le ulteriori vicende, perfino il fenomeno poi emergente dell' 'arte di corte' sotto il patrocinio borbo­ nico, continueranno a lungo ad alimentarsi, senza traumatiche soluzioni di continuità, dalle esperienze maturate in quei primi momenti 10• Il punto di riferimento pressocché costante della pittura napoletana della prima metà del secolo fu senza dubbio Fran­ cesco Solimena, ed il peso ed il valore di questo artista emer­ gono con evidenza dai molti dipinti esposti. La pala della cat­ tedrale di Aversa ... anch'essa una rivelazione dopo la pulitura, datata del 1710, è certamente il dipinto più bello della mostra La supposta involuzione dell'artista nell'ultimo decennio del Seicento, che chiamerei piuttosto « inversione di rotta », l'ab­ bandono cioè del fervore barocco per un sostenuto recupero del modi classicheggianti, di discendenza marattesca, le sue intenzioni insomma programmaticamente antibarocche, sono qui pienamente dissolte 11• A differenza di Giordano, che come si è detto morì nel 1705, Solimena fu il protagonista diretto della pittura napoletana della prima metà del secolo, tanto che anche dopo la sua morte, avvenuta nel 1747, il ricordo di lui era ben vivo. 'Qua non stimano che Luca Giordano e Sollmena, dei quali non curo avere quadri, scriveva Luigi Vanvitelli in una lettera

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del 3 febbraio 1759 al fratello Urbano a Roma 12• In effetti Vanvitelli, venuto a Napoli su invito di Carlo di Borbone per dirigere la vita artistica della città, criticava la chiusura degli artisti napoletani legati ancora in buona parte alla cultura locale. Oltrettutto, diversamente da quanto si sarebbe sollecitati a credere, la presenza a Napoli di una Corte come quella di Carlo di Borbone, prestigiosa per antichi e recenti vincoli dinastici, impegnata fin dai primi anni in un fervido program­ ma di iniziative nei settori dell'edilizia pubblica e privata, del risanamento urbano e della creazione di nuovi importanti centri di produzione manifatturiera, in nessun modo, o solo di riflesso, interferì invece sugli orientamenti e sulle scelte che caratterizzarono l'attività dei pittori o degli stessi scultori napoletani 13• I gusti di Carlo dipendevano direttamente dagli orientamenti che la madre, Elisabetta Farnese, gli trasmet­ teva dal trono di Spagna. La regina ... aveva difatti più volte imposto al figlio le sue preferenze per il Solimena e per altri pittori legati alla tradizione locale 14• Tradizione che già con gli austriaci si era indirizzata verso una funzione decorativa ed allegorica e che fu orientata ancora più in questo senso dai Borboni che apprezzarono dell'arte locale soprattutto quei caratteri di aulicità e accademismo perfettamente corrispon­ denti alle esigenze celebrative della nuova dinastia. Francesco De Mura fu senza dubbio la personalità che meglio incontrò i gusti della Corte, e che sostituì Solimena nel ruolo di pittore-guida dell'ambiente artistico napoletano. Nella mostra di Capodimonte è dato ampio spazio ai suoi dipinti, a partire da quelli giovanili, strettamente legati ai modi di Solimena, sino alle opere della maturità in cui si avverte l'elegante classicismo sviluppato in seguito ai con­ tatti con l'ambiente romano e soprattutto al suo soggiorno torinese del '40. Uno sciacquio di luci bianche e talora deli­ catamente lunari nel De Mura, che fu il continuatore geniale del Solimena, ed uno dei più eleganti settecenteschi italiani. Ma non solo elegante, perché nel De Mura v'è una ricerca attentissima dei modi compositivi e di quel gioco di luci, che 66 s'è detto, e che fanno di lui, nella luce come matrice dell'im-


magine uno dei pittori più italiani e non solo il più delicato, col Giaquinto, di quelli napoletani 15• L'apertura cosmopolita del pittore fu un elemento deter­ minante per la vita artistica napoletana, coinvolgendo tanto coloro che avevano avuto modo di formarsi presso il tardo Solimena ( il Cestaro, il Mondo, Lorenzo de Caro) quanto gli artisti della più giovane generazione, che avevano compiuto il loro apprendistato direttamente sull'esempio demuriano e si affermarono definitivamente dopo il '60 per una lunga serie di brillanti interventi decorativi ( Giacinto Diano, Pietro Bar­ dellino o il più che modesto Girolamo Starace). Sicché, se è comprensibile che per la prima parte del Settecento si sia parlato, seppur genericamente, di un processo di 'solimeniz­ zazione' delle esperienze pittoriche, più esatto sarebbe stato per la seconda metà del secolo, accennare, anche se in ter­ mini non meno generici, ad una sorta di 'demurizzazione' della pittura napoletana 16• A questi fenomeni artistici di ampia portata che rispon­ devano alle esigenze della Corte, della classe aristocratica e dell'alto clero, di una pittura celebrativa, si andava affiancando la committenza dei nuovi ceti emergenti già dalla prima metà del secolo. Nuove forze commerciali ed imprenditoriali, ari­ stocratici che solo da poco avevano acquisito titoli nobiliari, burocrati ed uomini di legge si rivolgevano a pittori solo di recente rivalutati dalla critica che, come il Falciatore o Lo­ renzo de Caro o più tardi Giovan Battista Rossi, pur par­ tecipando anche ad imprese decorative di tipo tradizionale, seppero trasferire in composizioni di piccolo e medio formato, di soggetto profano, ma talvolta anche di argomento sacro, una visione più immediata e spigliata della realtà, lontana dai toni aulici e celebrativi della pittura 'ufficiale': una visione che, pur conservando quelle qualità di eleganza formale sottile e raffinata espressive del gusto e della sensibilità comu­ nemente diffusi in quegli anni, si concretizzava soprattutto in soluzioni dai preziosi effetti di luce, dalle brillanti tonalità cromatiche, caratterizzate da uno sviluppo compositivo dal ritmi lievi e briosi, da vero 'capriccio' « rocailie », del tutto insolite per la tradizione napoletana 17 • E al confronto con 67


le opere di De Mura in quelle di Falciatore si avverte nettis­ simo lo stacco proprio nel tono della rappresentazione di questa specie di Boucher nostrano, con le sue tonalità leg­ gere, e tanti fronzoli, come nei pannelli per una portantina, su fondo d'oro, e come stanno bene su quell'oro 18• Sia i cinque pannelli per portantina, con scene mitologiche, che i pic­ coli quadri con episodi di vita aristocratica o popolare, come pure la Natività sono difatti avvolti in un'atmosfera idillico­ pastorale sottile e galante. Nella mostra è altresì ben rappresentato un altro aspet­ to della pittura napoletana del '700, la cosiddetta « pittura di genere,. dove sono raffigurati momenti della vita quo­ tidiana, maschere e personaggi reali, scene di vita popolare. Giuseppe Bonito, riprendendo la tradizione naturalistica seicentesca, si dedicò a questo tipo di produzione, riscuo­ tendone ampi consensi. t;: indubbio che i contenuti nuovi al­ lora trattati dal Bonito rispondessero alla richiesta di una committenza indirizzata non più o non solo verso una te­ matica 'ufficiale' e convenzionale... ma che era capace anche di interessarsi ad aspetti della realtà contemporanea più cor­ renti, meno di facciata. La pittura di Bonito di interni dome­ stici e d'argomenti apparentemente popolari, descrittiva piut­ tosto che 'di rivelazione', documentativa più che di denuncia... rispondeva esattamente alle richieste di quella stessa commit­ tenza... che nelle scene di genere ambiva solo trovar soddi­ sfatto quell'atteggiamento di curiosità, tra il divertito e il compiaciuto, tipico in ogni tempo del rapporto, o meglio della condizione di distacco, tra le categorie socialmente do­ minanti e quelle subalterne 19• Nella Mostra napoletana è oltretutto ben rappresentata l'evoluzione del pittore verso un tipo di produzione aulica e celebrativa, dove comunque riaffiorava la sua matrice natu­ ralista, evoluzione verificatasi dopo il 1750, quando Bonito fu nominato pittore di Corte. Ma quando invece della trattazione in termini cronachi­ stici e genericamente illustrativi degli stessi episodi di vita quotidiana ripresi dal Bonito si passò ad una utilizzazione di 68 quei temi ben diversamente mordace e graffiante verso usi e


costumi del tempo, quando dall'aneddotica si passò alla satira severa, in ,un certo senso 'politica' della realtà contempora­ nea, quando anche nel ritratto di tipo convenzionale o nella tela d'argomento sacro si volle trasferire il riflesso di una coscienza sicuramente moderna 'illuminata' e 'pericolosamen­ te' irriverente ed anticonformista - e fu questo, si sarà capito, il caso eccezionale di Gaspare Traversi - la chiusura, il ri­ fiuto o addirittura il silenzio della cultura 'ufficiale' fu totale e irreversibile 20• E confrontando le opere di Bonito con quelle di Traversi si vede infatti sotto l'apparente similitudine la diversità d'intento della rappresentazione: bonaria e popola­ resca quella di Bonito, pungente e ironica quella di Traversi, spietato indagatore della realtà del tempo. Il ceto sociale che fu oggetto dell'analisi più mordace da parte di Traversi, come è stato discusso nel recente saggio di Ferdinando Bo­ logna 21, fu senza dubbio la piccola e media borghesia, che si andava configurando con una fisionomia di classe sostanzial­ mente improduttiva, legata all'apparato burocratico del regno borbonico e mirante alla stabilità economica connessa alla proprietà terriera. Purtroppo alla Mostra mancano molte delle opere più rappresentative del pittore, dislocate addirittura in raccolte americane private e pubbliche. Il Traversi, grazie all'oculato disinteresse dei nostri Uffici Esportazione, è andato quasi tutto all'estero: il primo napoletano ad essere valutato dalla critica moderna e subito esportato, rimanendo ben poco di quello che conta, le scene di genere cioè, assai più dei . quadri sacri 22• Molto interessante è anche la sezione dedicata alla grafica, dove sono esposti disegni di artisti locali e stra­ nieri. I pittori settecenteschi, pur raccogliendo e a volte colle­ zionando i fogli degli· schizzi, non attribuivano loro un vero e proprio valore artistico. Gli artisti ebbero della grafica un'idea precisa: non di opera d'arte come punto di arrivo, ma mezzo esplicativo, studio, disciplina, esercitazione da potersi mani­ polare a piacimento e su cui interferire con tagli e rlfini. ture 23• I disegni settecenteschi sono invece di grande impor­ tanza per la conoscenza dei pittori: negli schizzi l'artista esprimeva una libertà inventiva spesso difficilmente individuabile in un dipinto finito. 69


Sono esposte tra l'altro opere di Gaspar Van Wittel, a Napoli dal 1699 al 1702, che introdusse a Napoli i primi quadri di resa fedele del paesaggio; di Luca Giordano, grafico fe­ condo, e di Giacomo Del Po che riappare con la spigliata vena decorativa di cui già abbiamo parlato a proposito dei bozzetti. Francesco Solimena fu anche un eccezionale dise­ gnatore: i suoi schizzi divulgativi influenzarono profonda­ mente i pittori locali, come già abbiamo visto per le sue pitture; se ne distaccò in qualche modo il solo De Mura, anche se in alcuni particolari imitava fedelmente il maestro, pur senza eguagliarlo. Ci sono difatti studi di Conca, Gia­ quinto, Fischetti, Falciatore, Diano, Bardellino e Cestaro in cui si mostra evidente l'insegnamento solimeniano, ben di­ versamente incisivo in Domenico Mondo: il suo colpeggiare frenetico e veloce, felicissimo per l'ausilio della penna, della biacca e dell'acquerello, è così rifiorito e pittoricizzato, da divenire un parente vivacissimo al bozzetto, alla macchia ed alla pratica del 'pintar' 2•. Dopo Mondo gli artisti napoletani del '700 abbandonarono quasi l'arte della grafica, divenuta appannaggio dei pittori stranieri che riempivano interi carnet di schizzi e di vedute del Regno napoletano, conosciute da noi anche attraverso stampe ed incisioni. Ma furono proprio costoro, dopo il '50, a portare innanzi l'esercizio della grafica: il pensiero lesto a fissare il ricordo di un luogo, una scena, una impressione. Gli artisti locali erano sulle impalcature, immersi in macchine decorative troppo più grandi del foglio. O erano lontani, progonisti e comprimari di reali committenze. Il disegno napo­ \tano segna il passo, in attesa della nuova stagione neo­ �sica 25. Uno degli aspetti più caratterizzanti della civiltà del XVIII secolo fu la piena rivalutazione al rango di opere d'arte di oggetti che nei secoli precedenti erano stati considerati di semplice artigianato, e va tenuto conto di quanto influì la creazione di varie manifatture reali, costituite per lo più con artefici venuti dalla Toscana dopo la morte dell'ultimo Medici nel 1737. Carlo si riteneva erede spirituale dei Gran70 duchi e così volle a Napoli una fabbrica di porcellane


(Capodimonte) e una di maioliche, un'arazzeria, un labora­ torio delle pietre dure. In seguito il figlio Ferdinando fondò un'altra manifattura di porcellane, una fabbrica d'anni, un'ac­ ciaieria 26 • Non bisogna sottovalutare che questi laboratori nacquero per diretta volontà dei Reali, ed anche se gli oggetti prodotti erano essenzialmente ad appannaggio della corte e delle alte sfere aristocratiche, la creazione di queste manifatture, ormai quasi a carattere pre-industriale, impresse comunque un no­ tevole impulso ai commerci e alla formazione di botteghe artigiane. La Reale Manifattura degli arazzi fu fondata da Carlo nel 1737 e nella mostra sono esposti anche molti dei di­ pinti che servirono da modelli, restaurati per l'occasione. Con un interessante allestimento museografico due dei car­ toni preparatori, di Giuseppe Bonito, sono affiancati ai due arazzi finiti, per poter meglio analizzare non solo la diretta derivazione dai dipinti, ma anche le differenze derivate dalle difficoltà tecniche di resa di alcuni particolari pittorici nel1 'arazzo. Nella Sala di Studio delle porcellane è poi esposto quasi al completo il cosiddetto « Servizio dell'oca ", uno dei più monu­ mentali servizi da tavola prodotti dalla fabbrica ferdinandea. La prima manifattura di porcellana, la « Real Fabbrica di Capodimonte», fu fondata da Carlo nel 1740-3, fu chiusa quando il sovrano salì sul trono di Spagna, nel 1759, por­ tando con sé gli artigiani e tutto il necessario per impiantare una nuova manifatura a Buen Retiro. Nel 1771 Ferdinando fondò un secondo laboratorio per la lavorazione delle porcel­ lane, la « Real Fabbrica di Napoli », e il « Servizio dell'oca • è uno dei prodotti più pregevoli di questo periodo, decorato con vedute del regno di Napoli tratte da alcuni dipinti di J. P. Hackert e dalle incisioni del « Voyage pittoresque de Naples et de Sicilie,. dell'Abbé de Saint-Non. Questi volumi furono il più importante veicolo di diffu­ sione della veduta napoletana in Europa: Napoli, tappa del «grand tour», attirava i viaggiatori e gli artisti desiderosi di ammirare non solo le bellezze naturali, ma anche i reperti 71


archeologici che venivano alla luce dagli scavi di Ercolano e Pompei, iniziati nel '38 e nel '48. Il gusto della classicità e dell'antichità influenzò anche la produzione delle porcellane, non solo nei servizi di piatti dove venivano riprodotti gli affreschi romani recentemente sco­ perti, ma sopratutto nelle piccole sculture in biscuit, porcel­ lana nell'aspetto molto simile al marmo perché priva del­ l'ultima verniciatura di «coperta» che la rendeva lucida. In fondo alla « Sala di Studio» sono esposti alcuni fra i più begli esemplari di questo tipo di porcellana che mostrano come a Napoli il recupero della classicità, praticamente estra­ neo alla statuaria, fosse invece perfettamente reso in questo genere di produzione artistica. Seguendo il percorso della mostra si entra in una sala dove sono esposti quadri di rovina di pittori napoletani come Coccorante e Pagano, che operarono nella prima metà del secolo. Questo tipo di veduta, chiamata « rovinismo», rispec­ chiava un gusto negromantico e fantasioso che discendeva direttamente dai paesaggi preromantici di Salvator Rosa. Troviamo poi piccoli quadri di veduta, incisioni, arazzi di Pietro Duranti, e il plastico originale settecentesco del Casino Reale di Carditello, di Francesco Collecini, allievo di Vanvi­ telli che riprende i moduli architettonici lineari e razionali del maestro. L'allestimento della sala delle sculture, insieme con il pri­ mo salone, con quello degli argenti e quello del mobilio, è stato curato dall'architetto A. Loris Rossi, che ha dovuto articolare le strutture in legno bianco attorno al pavimento romano originale, trasportato a Capodimonte nel 1877. Vi sono esposte sculture in legno e terracotta, di piccole e grandi dimensioni; la vivacità cromatica di queste sculture, per lo più policrome, risalta sul bianco delle strutture. Ac­ canto' ad opere devozionali di artisti anonimi sono esposti bozzetti ed opere finite di grandi scultori napoletani come Lorenzo e Domenico Antonio Vaccaro e Giuseppe Sammar­ tino, di cui è la splendida Pietà in terracotta policroma. Troviamo poi la sezione dedicata al vedutismo straniero, 72 l'immagine di Napoli come tema popolare e favorito nell'am•


bito del paesismo europeo si ancora, in questa stagione del tardo Settecento, al ritrovamento e al recupero del patrimonio archeologico di Pompei ed Ercolano da un lato, e dall'altro alle eruzioni del Vesuvio, che si succedono con frequenza, e sulle quali converge un'inedita serie di componenti atte a promuovere un rinnovato interesse, l'intelligenza del feno­ meno fisico, il gusto per un 'pittoresco' che si distacca dai motivi codificati, il compiacimento romantico per lo scate­ narsi drammatico del fato immanente ed incontrollabile 21_ Questo lirismo è proprio dei vedutisti francesi come Vernet e Volaire, i cui dipinti con l'eruzione del Vesuvio non sono una riproduzione fedele di Napoli ma solo pretesto per rap­ presentazioni fantasiose. :B nettissimo quindi lo stacco con le vedute di J. P. Hackert, pittore di corte dal 1785, fedeli e lucide descrizioni calligrafiche dei paesaggi del Regno di Na­ poli. La sua pittura che puntava alla riproduzione fedele dei luoghi... e che nel nome del decoro rifiuta ogni esaltazione romantica, veniva a rappresentare un fatto inatteso e scon­ volgente 28• Hackert, così come gli altri pittori stranieri che operavano a Napoli, restò difatti sostanzialmente isolato dalJa vita artistica della città, ed oltretutto la solenne lezione hackertiana non ebbe gli sviluppi che pure si sarebbero po­ tuti prevedere, e fu conseguenza degli avvenimenti politici che con incredibile processo di accelerazione mutarono le condizioni di vita - sensibilità, spirito, cultura - dell'am­ biente 29• Ci sono inoltre alcuni ritratti di corte, insieme ad oggetti di manifattura viennese, medaglie, monete, ed un presepe. Anche se la sezione dedicata ai presepi è nel Museo di S. Martino, è stato interessante esporre a Capodimonte, la sede più completa della mostra, un esempio di questo genere artistico, sviluppatosi nella seconda metà del Seicento, in carattere con la sensibilità religiosa della Controriforma, e che nel Settecento ebbe grande diffusione. Anche grandi scul­ tori come Sammartino, Lorenzo Vaccaro e Celebrano model­ lavano qualche volta le statuine, per lo più in terracotta, che ci forniscono una preziosa testimonianza della vita e dei costumi del tempo, rappresentati con grande realismo. 73


La sala degli argenti è sicuramente la più spettacolare, tappezzata di azzurro intenso ed illuminata solo da luci arti­ ficiali per far meglio risaltare la luminosità del metallo. Nel XVIII secolo si verificò un notevole aumento della domanda da parte della nuova classe borghese, orientata verso l'argento per la qualità stessa del prezioso metallo, adattabile ad ogni moda, e in caso di nece:;sità rapidamente convertibile in danaro 30• Quasi tutta l'argenteria profana fu difatti acquistata e poi fusa nella seconda metà del secolo da Ferdinando IV, che mise in vendita i fondi del demanio reale per sopperire alle spese belliche, e altri pezzi furono in seguito confiscati dai francesi, così che purtroppo ci sono rimasti ben pochi oggetti di committenza laica. Nella mostra sono quindi esposti quasi solo argenti a soggetto religioso, in gran parte provenienti dal Tesoro di S. Gennaro: cande­ labri monumentali chiamati « splendori », busti di santi inca­ stonati di pietre preziose, il S. Sebastiano su modello di Paolo de Matteis, e ancora calici e ostensori. Troviamo poi porcellane, ceroplastiche, strumenti musi­ cali, armi, tripodi e inoltre un affresco originale pompeiano, esposto accanto a divani e sedie sulle cui spalliere è ripro­ dotto fedelmente il motivo pittorico. Con l'inaugurazione della Mostra si può poi passare per la prima volta attraverso il celebre boudoir della regina Maria Amalia, che sinora era visibile solo dal vano della porta. Il salottino, le cui pareti sono interamente ricoperte da lastre di porcellana decorate con gusto cineseggiante, fu modellato per la Reggia di Portici, e poi trasportato e rimontato a Capodimonte nel 1866, tranne il soffitto in stucco dipinto, aggiunto successivamente. È sicuramente uno dei prodotti più originali della Fabbrica di Capodimonte, in cui la padro­ nanza del mezzo tecnico si accoppia allo squisito gusto ro­ caille dei pittori e modellatori. Su lastre di porcellana bianca sono applicati gruppi policromi di strumenti musicali, fiori, frutti e animali esotici, inframmezzati da scene di vita cinese. In occasione della mostra sono state tradotte le scritte sui cartigli e sulle targhette augurali, che hanno confermato la 74 datazione già documentata del salottino al 1757-59 ed hanno


poi permesso di individuare, per il ricorrere di tipiche frasi parallele della letteratura cinese colta, il contatto con un avanzato centro di cultura orientale presente a Napoli, e cioè il collegio dei cinesi, i missionari di ritorno dalla Cina, che costituì il nucleo iniziale dell'odierno Istituto Orientale. Attraversati i due piccoli ambienti con vetrine di oggetti in porcellana e biscuit della Real Fabbrica di Napoli, si arriva al salone dei mobili, arazzi e costumi. Fatta salva qualche eccezione ... la mobilia non offre esempi superbi: si tratta spesso di opere un poco provinciali, eccezion fatta di quanto si fece poco prima della fine dell'« ancien régime » - un canto del cigno che durò pochissimi anni. Di maggior momento i la­ vori in pietra dura, bronzo dorato ed ebano come dimostrano i due tavoli che si ebbe la ventura di rintracciare al Museo del Prado: furono fatti da artigiani fiorentini per Carlo III e da lui portati in Spagna 31• I due tavoli sono esposti nelle prime sale della mostra; nel salone dei mobili ci sono altri due piani lavorati con intarsi di pietre dure, uno dei quali affiancato al disegno preparatorio; sono tutti decorati con rappresentazioni di natura morta, soggetto diffusissimo nella pittura napoletana della seconda metà del XVII secolo, ed adottato nel '700 anche nelle arti minori. Al centro della sala c'è un grande tavolo in marmo dei primi anni dell' '800, attorno al quale si sono articolate le strutture in legno bianco che scandiscono gli spazi. Decorato con un mosaico ercolanense, è stato oggetto di due successive integrazioni, sempre a mosaico: le api sul fondo blu nel pe­ riodo francese, e le lettere « F. B. " durante il breve regno di Francesco di Borbone. E. un altro esempio del « riuso " di oggetti archeologici con un nuovo intento di funzionalità: i reperti di scavo non erano semplicemente da contemplare o da esporre, ma anche da far rivivere in un nuovo contesto. Troviamo poi alcune delle armi che Carlo portò con sé quan­ do salì sul trono di Napoli; esempi di artigianato finissimo, furono i modelli ai quali si ispirarono gli artefici napoletani della Fabbrica di Torre Annunziata fondata da Ferdinando. La mostra si conclude con preziosi oggetti di artigianato napoletano: le portantine con le sigle reali di Ferdinando e

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Maria Carolina, di legno laccato e dorato, due originali tro­ netti da battello e il monumentale centrotavola in biscuit di Filippo Tagliolini, La caduta dei giganti, dove ormai la perfetta padronanza del mezzo tecnico permette all'autore di realizzare un'opera di eccezionale virtuosismo. Il gruppo, formato da venticinque possenti figure a perfetta imitazione del marmo, cotte separatamente e poi unite insieme, risente però di una certa freddezza accademica. La mostra, per la quantità del materiale esposto, provoca stimoli di ogni tipo al visitatore, che può rimanere addirittura disorientato dalla varietà e dalla complessità della produ­ zione artistica settecentesca a Napoli. La migliore delle mostre regionali sul Settecento, dunque. E mi sono chiesto, a questo punto, se ciò sia merito solo degli organizzatori o non indichi piuttosto una superiorità, nel Settecento, della cultura artistica napoletana su quella delle altre città italiane. Se, per esempio, gli astri brillino più splendenti su Napoli che non su Bologna, escludendo dal confronto, naturalmente, il grandissimo Giuseppe Maria Crespi che, in qualche modo, chiude insuperabilmente i conti con il secolo precedente. Ma non vorrei dar luogo, ora, a inutili gare e a vani apprez­ zamenti sul meglio e sul peggio. Quello che mi sembra in­ negabile, però, è che da questa mostra si sprigioni li respiro di una cultura più aperta verso l'Europa, più ricca di fer­ menti, più libera e sfogata· che non quella di altre parti d'Italia 32•

1 G. GAI.ASSO, Luce sul Settecento a Napoli, in 22-12-1979. 2 R. CAL'SA, Prefazione al Catalogo della mostra Napoli», Firenze 1979.

l

4

Ibidem. M. CALVESI, Borbone mio, siete un babà, in

3-2-1980.

76

«

Il Mattino" del

«

Civiltà del '700 a

«

L'Espresso,. n• 5,

s J. P. MARANDEL, Pittori stranieri a Napoli, in Catalogo della mostra cit., p. 308. 6 O. FERR,U'.l, Gli anni del Viceregno austriaco ( 1707-17�). in Catalogo della mostra cit., p. 128. 1 Ibidem, p. 130. s Ibidem, p. 128. 9 Ibidem, p. 130.


10 Ibidem, p. 134. Il G. BRIGANTI, Scherzando in rococò, in « La Repubblica•• del

27-12-1979.

12 N. SPINOSA, Gli anni di Carlo e Ferdinando di Borbone (17341805): continuità e crisi di una tradizione, in Catalogo della mostra cit., p. 134. 13 Ibidem, p. 135. 14 Ibidem. 15 C. BRANDI, A Capodimonte i tesori segreti del '700, ne « II Corriere della Sera•• del 13-1-1980. 16 N. SPINOSA, op. cii., p. 139. 11 Ibidem, p. 141. 1s C. BRANDI, L'oro di Napoli, in « Il Corriere della Sera Illustrato», del 9-2-1980. 19 N. SPINOSA, op. cit., p. 142. 20 Ibidem. 21 F. BOLOGNA, Gaspare Traversi nell'illuminismo europeo, Napoli 1980. 22 C. BRANDI, op. cii. 23 M. CAUSA PICONE, Il disegno a Napoli dal Giordano al Tischbein, in Catalogo della mostra cit., p. 362. 24 Ibidem, p. 368. 25 Ibidem, p. 366. 26 A. GoNZALES-PAU.CioS, Diario di un organizzatore, in « Il Gior­ nale• del 22-12-1979. V R. CAUSA, Vedutisti stranieri a Napoli, in Catalogo della mostra cit., p. 330. 2B Ibidem, p. 335-336. 29 Ibidem, p. 337. :io E. e C. CATEU.0, A San Gennaro non si dice no, ne « Il Mattino Illustrato• del 5-4-1980. 31 A. GoNZALES-PALACIOS, op. cii. 32 G. BRIGANTI, op. cii.

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