Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Segretaria di redazione: Maria Laura Astarita Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 • Te!. 7690783 Amministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Giordani, 32 • Te!. 684211 Un fascicolo separato L. 1.800 (compreso IVA) • Estero· L. 2.400
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Edizioni • Il centro» di Arturo Carola
R. DE Fusco
Il restauro architettonico: ricchi apparati e po vere idee
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F. MENNA
La Biennale di Venezia - Gli anni settanta. Que sti (mi)sconosciuti
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S. GALLO
Critica d'arte e processi produttivi
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Libri, riviste e mostre
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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Giuseppina Dal Can ton, Cettina Lenza, Maria Rosaria Mioni, Paola Serra Zanctti, Sandro Sproccati, Claudia Vio.
Il restauro architettonico : ricchi apparati e povere idee RENATO DE FUSCO
I segni di una intensa attività nel campo della conserva zione dei beni culturali, del restauro, del riadattamento di edifici ed ambienti antichi a nuove destinazioni d'uso sono palesi ed è assai probabile che questo settore, nei prossimi anni, richiamerà un numero sempre maggiore di architetti, di ingegneri, di storici, amministratori, funzionari, impren ditori, ecc. Altrettanto prevedibile è il fatto che, con tanti interessi in gioco, l'intera questione diventerà dominio delle cosiddette strutture (che definirei meglio apparati), dal neocostituito Ministero per i beni culturali alle Soprintendenze, dagli attuali istituti universitari ai futuri dipartimenti. Certo', visto che gli aspetti legali e normativi hanno sempre avuto un ruolo esponente in questo campo, nessuno auspica una lotta costante fra burocrazia e cultura; tuttavia in queste note tenterò di puntualizzare un divario fra esse e di indicare ciò che ancora può fare la politica della cultura, specie per quanto attiene ad un suo contributo di idee. Vorrei anzitutto sottolineare un motivo d'interesse per il patrimonio storico recentemente aggiuntosi agli altri, sorto nell'ambito della ricerca architettonica contemporanea. Infatti il fenomeno di un'operazione costruttiva rivolta più alla con servazione e al riutilizzo degli edifici preesistenti che non alla creazione di nuovi non dipende soltanto dal fallimento della politica urbanistica, dalla incapacità di costruire « abitabili » 5
quartieri periferici, dalla mancata prefabbricazione edilizia, ecc., ma si collega anche ad una tendenza in atto nell'odierno dibattito architettonico. Essa, dopo il malinteso rifiuto della storia e i riti della modernolatria, sembra tutta rivolta al re cupero dell'antico, del pre-moderno, del classicismo, tanto che abbiamo intitolato un articolo della nostra rivista, dedi cato a questa corrente, « La 'rimozione' del nuovo». Non che si voglia dare al fenomeno un peso maggiore di quello che effettivamente possiede, ma sottolineare il fatto che, ai più seri ed urgenti motivi per un « ritorno alla città» e per l'opera di conservazione dei beni culturali, si sta ac compagnando un orientamento storico-eclettico (comunque lo si voglia chiamare, pre- o post-modernismo) che informa l'attività di buona parte degli architetti contemporanei. E non dimentichiamo che la grande stagione del restauro otto centesco coincise proprio con l'eclettismo storicistico del l'architettura militante. Ricordo, cominciando un rapido excusus sulle principali idee di restauro, che tutto il male e tutto il bene (grandis simo) nell'opera del primo grande restauratore, Viollet-le-Duc si spiegano in gran parte col fatto che egli restaurò edifici gotici, essendo, non a caso, uno dei maggiori architetti mi litanti nella corrente neogotica. Ma Viollet-le-Duc aveva troppe idee, tanto che (per la prima e l'ultima volta nella storia del restauro) i vari Co mitati, le Commissioni, i funzionari del Ministero degli In terni e di quello del Culto faticavano a stargli dietro e ancora faticano molti pedanti esegeti nostrani che non gli perdonano qualche giudizio, come quello, che è appena l'inizio di una voce per un Dizionario, per cui Restaurare un edificio non significa mantenerlo, rifarlo o ripararlo; significa ripristinarlo in uno stato completo che può non essere mai esistito a un dato momento 1• Lo stesso giudizio, opportunamente colto nel suo significato e contestualizzato in tutta la teoria del maestro francese, riscuote viceversa tutto il mio consenso.
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Trascuriamo le teorie di Ruskin, inutili per la pratica del restauro, se non come un paradossale termine a quo e come espressione cli quella romantica cultura del rudere nel con-
testo del giardino all'inglese, per citare una massima, addi rittura un « assioma », come amava definirla il suo autore, A. N. Didron, secondo il quale In materia di monumenti an tichi, è meglio consolidare che riparare, meglio riparare che restaurare, meglio restaurare che rifare, meglio rifare che abbellire; in nessun caso, bisogna aggiungere nulla, soprat tutto nulla sopprimere 2. A questo assunto si ricollega direttamente Camillo Boito, che secondo una facile classificazione avrebbe tradotto il restauro « stilistico » di Viollet-le-Duc in restauro « storico ». Ma prima di riferire alcuni lati della teoria di Boito, sarà necessario accennare alla casistica dei problemi che la cultura dell'800 individuò per gli edifici da restaurare. Essi si riduce vano a tre condizioni fondamentali: a) una fabbrica che, per qualsivoglia motivo, aveva subito la perdita di una sua parte; b) che risultava alterata per riparazioni, modifiche, aggiunte e trasformazioni; c) che non era stata mai completata. Di fronte a questi casi, tutti risolvibili secondo la teoria stilistica di Viollet-le-Duc, Camillo Boito suggeriva soluzioni pratiche e pertinenti, non solo, ma, attraverso quest'ultime, introduceva una problematica così generale da valere oltre i casi allora previsti e quindi ancora attuale. Le tesi di Boito si tradussero in un documento approvato dal IV Congresso degli ingegneri e degli architetti italiani, svoltosi a Roma nel 1883, che giustamente è stato definito la « Prima Carta italiana del restauro» 3• I suoi principali ar ticoli sono: 1. I monumenti architettonici, quando sia dimostrata in contrastabilmente la necessità di porvi mano, debbono piut tosto venire consolidati che riparati, piuttosto riparati che restaurati; ed in ogni modo si devono col massimo studio scansare le aggiunte e le rinnovazioni. L'assunto riprende, come si vede, il cosiddetto assioma di Didron e, in avversione all'indirizzo stilistico, sembra in pratica rinunciare a risolvere il caso di completare edifici che non furono a loro tempo ultimati; in realtà non rinuncia affatto, anzi suggerisce un criterio di estrema modernità: 2. Nel caso che le dette aggiunte o rinnovazioni tornino 7
assolutamente indispensabili per la solidità dell'edificio o per altre cause gravissime ed invincibili, e nel caso che riguardino parti non mai esistite o non più esistenti o delle quali manchi la conoscenza sicura della forma primitiva, le aggiunte o rin novazioni si devono compiere nella maniera nostra contem poranea, avvertendo che possibilmente nell'apparente pro spettiva le nuove opere non urtino troppo con l'aspetto del vecchio edificio. L'articolo che segue, accanto agli importanti suggerimenti per il restauro di opere archeologiche, contiene delle specificazioni di quanto detto prima: 3. Quando si tratti invece di compiere parti distrutte o non ultimate in origine per fortuite ragioni, oppure di rifare dei conci tanto deperiti da non poter più rimanere in opera... al lora converrà in ogni modo che i conci aggiunti o rinnovati, pur assumendo la forma primitiva, siano di materiale evi dentemente diverso, o portino un segno inciso o, meglio, la data del restauro•.. Nei monumenti dell'antichità o in altri ove sia notevole l'importanza propriamente archeologica, le parti di compimento indispensabili alla solidità ed alla con servazione dovrebbero essere lasciate coi soli piani semplici e coi soli solidi geometrici dell'abbozzo, anche quando non appariscono altro che la continuazione od il sicuro riscontro di altre parti antiche sagomate ed ornate. Di grande interesse è l'articolo seguente, il quale prende l'opera da restaurare come la stratificazione storica di tutti gli interventi che si sono succeduti dall'origine fino · ad oggi:
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5. Saranno considerate per monumenti, e trattate come tali, quelle aggiunte o modificazioni che in diverse epoche fos sero state introdotte nell'edificio, salvo il caso in cui, avendo un'importanza artistica e storica manifestamente minore del l'edificio stesso e nel medesimo tempo svisando e masche rando alcune parti notevoli di esso, si ha da consigliare la ri mozione di tali modificazioni od aggiunte. In tutti i casi nei quali sia possibile, o ne valga la spesa, le opere di cui si parla verranno serbate, o nel loro · insieme o in alcune parti essenziali, possibilmente accanto al monumento da cui furono rimosse 4•
Il documento conclude raccomandando di eseguire rilievi e fotografie prima, durante e dopo il corso dei lavori. · · · Questo eccellente contributo alla teoria del restauro è rimasto· un insuperato paradigma. Sono cambiati i tempi, la società, gli apparati burocratici, la stessa concezione della storia (per Boito inequivocabilmente basata sulla continuità degli eventi, mentre oggi molti la considerano appunto come un succedersi di « rotture») eppure le tesi boitiane continuano a contenere in nuce quasi tutte le idee e i criteri successi vamente elaborati. Infatti, ne « La Carta di Atene» del 1931, ove si eccettui lo spirito internazionale col quale s'intende affrontare la tu tela del patrimonio storico-artistico e le conseguenti norme e raccomandazioni, le vere e proprie innovazioni ideologiche sono riducibili a poche. Si fa cenno al problema della desti nazione d'uso: la Conferenza raccomanda di mantenere, quando sia possibile, l'occupazione dei monumenti che ne assicura la continuità vitale, purché tuttavia la moderna de stinazione sia tale da rispettarne il carattere storico ed arti stico. Si parla della tecnica costruttiva e dell'utilizzazione dei materiali di scavo: è opera felice il rimettere in posto gli elementi originali ritrovati (anastilosi); ed i materiali nuovi necessari a questo scopo dovranno sempre essere riconosciuti. Si riscopre il contesto ambientale, ovvero un tema ogni volta passato per nuovo, mentre nella letteratura teorica dell'ar chitettura non c'è autore che non sia stato preceduto da un altro nell'affrontare tale argomento: la Conferenza racco manda di rispettare nella costruzione degli edifici il carattere e la fisionomia della città, specialmente nella prossimità di monumenti antichi, il cui ambiente deve essere oggetto di cure particolari. Uguale rispetto deve aversi. per talune pro spettive particolarmente pittoresche 5• . La « Carta italiana del restauro» (1932), elaborata dal Giovannoni, riprende molti punti del precedente documento, è scarsa di nuovi apporti e quei pochi hanno prevalentemente carattere restrittivo: siano conservati tutti gli elementi aventi .un carattere d'arte o di storico ricordo, a qualunque tempo appartengano, senza che il desiderio dell'unità stilistica e del 9
ritorno alla primitiva forma intervenga ad escluderne alcuni a detrimento di altri, e solo possano eliminarsi quelli, come le murature di finestre e di intercolumni di portici che, privi d'importanza o di significato, rappresentino deturpamenti inu tili; ma che il giudizio su tali valori relativi e sulle rispon denti eliminazioni debba in ogni caso essere accuratamente vagliato, e non rimesso ad un giudizio personale dell'autore di un progetto di restauro 6• Come si vede, poco si aggiunge a quanto non aveva detto già Boito, salvo l'aggiunta di un maggiore accento burocratico. Si poteva ben dire coerente mente a quanto avveniva in architettura: « Restauro, arte di Stato ». Notiamo per inciso che, scorrendo le risoluzioni dei convegni e i documenti ministeriali, quanto più poveri di idee e proposte, tanto più risultano normativi e perentori. Ma continuiamo il nostro excursus. Con la fine della seconda guerra mondiale, la ricostru zione, il rinnovamento dell'informazione culturale, le rinno vate speranze comportano un più ampio e condiviso dibattito sul restauro, ma anche allora i contributi nuovi non segna rono quel salto di qualità ch'era lecito attendersi. Ne « La Carta di Venezia» del 1964, l'accento nuovo è posto sulla conservazione dell'intero ambiente, che passa al primo posto del documento: La nozione di monumento sto rico comprende tanto la creazione architettonica Isolata quanto l'ambiente urbano o paesistico che costituisca la te stimonianza di una civiltà particolare, di un'evoluzione signi ficativa o di un avvenimento storico. Questa nozione si ap plica non solo alle grandi opere ma anche alle opere modeste che, col tempo, abbiano acquistato un significato culturale 7• L'esigenza è sacrosanta, specie nel momento in cui fu espressa, di fronte cioè ai danni prodotti dalla speculazione edilizia, ·o nel migliore dei casi di fronte all'isolamento dei monumenti dal loro contesto. Ma, sul piano teorico, questa dell'ambiente mi pare una questione rimasta indefinita. Infatti, cos'è un ambiente rispetto al monumento? Quello che lo inquadra sol tanto visivamente oppure l'intero quartiere che lo contiene? E nel caso di un ambiente significativo in sé senza la presenza 10 di fabbriche monumentali, quali sono i suoi confini? E come
ci si regola in questi casi con la coesistenza di antico e nuovo? E come ancora per gli aspetti sociali? Una risposta a questi interrogativi ci viene da quella che possiamo considerare la più recente proposta teorica sulla conservazione dei beni culturali, « La conservazione inte grata». Ma prima di citare un passo che la definisce sia pure sommariamente, va ricordato che nel succedersi degli instan cabili convegni, qualcuno s'è accorto che il patrimonio storico artistico, nonché valore culturale, costituisce anche un valore economico. E puntualmente in un documento redatto dal Co mitato dei Ministri del Consiglio d'Europa si trova confer mato tale assunto: Il patrimonio arclùtettonico costituisce un capitale spirituale, culturale, economico e sociale di valore insostituibile. Ogni generazione interpreta in maniera diversa ed in relazione a nuove idee il passato. Qualsiasi riduzione di questo capitale costituisce tanto più una diminuzione di va lori accumulati in quanto non può essere compensata neanche da creazioni di elevata qualità. Inoltre, l'esigenza di rispar miare le risorse s'impone. Lungi dall'essere un lusso per la collettività l'utilizzazione di questo patrimonio è fonte di eco nomie. Nello stesso documento troviamo la definizione della « Conservazione integrata», che, come dicevo, costituisce l'ul timo parto dell'ideologia del restauro. La conservazione inte grata è il risultato dell'uso congiunto della tecnica del re stauro e della ricerca di funzioni appropriate. L'evoluzione storica ha fatto sì che il cuore degradato delle città antiche e spesso anche dei paesi abbandonati siano divenuti delle riserve di alloggi a buon mercato. Il loro restauro deve essere condotto in uno spirito di giustizia sociale e non deve essere accompagnato dall'esodo degli abitanti di condizioni modeste. La conservazione integrata deve costituire perciò uno degli elementi primari della pianificazione urbana e territoriale. :I:. opportuno notare che la conservazione integrata non esclude l'architettura contemporanea nei quartieri antichi, ma essa dovrà tener conto dell'ambiente esistente, rispettare le pro porzioni, la forma e la disposizione dei volumi così come i 11 materiali tradizionali 8•
Francamente questa conservazione integrata mi sembra il più grosso minestrone di piccole ed ingenue idee (quasi tutte rimaste ingiudicate) che sono faticosamente emerse in questo dopoguerra fra tanto strombazzare di incontri e congressi locali ed internazionali. Scorrendo la vasta letteratura sul l'argomento, gli atti, le risoluzioni, gli unanimi documenti, ecc. ho l'impressione che di fronte alla incapacità di risolvere il più modesto problema di restauro si sia adottata la poli tica di spostare le questioni ad una scala sempre maggiore, dalla plastica minore al monumento, da questo all'ambiente, dal centro storico alla città, dall'urbano all'intero paesaggio nazionale, tutto basandosi, come il fucile modello 91, mi pare, sulle poche ed ottocentesche idee dell'ottimo Camillo Boito, qua e là aggiornate con un pizzico di sociologismo se non di demagogia. tl. ben vero che, almeno in Italia, fuori dai documenti ufficiali che « consentono questo » e « proibiscono quello » vi sono alcuni studiosi che considerano il restauro non come un'attività riducibile ad una rigida normativa, ma come una disciplina sostenuta da una dialettica fra storia e progetto, ovvero fra critica e creatività (Pane, Brandi, Bonelli); è vero altresì che si sono prodotti ottimi restauri in tal senso (Al bini, Scarpa; B.B.P.R.), ma tutto ciò non basta di fronte al dilatarsi del fenomeno, ai settori che, a torto o a ragione, sono stati inclusi nell'attività di salvaguardia. Poiché la domanda: come si esegue un restauro, pur pro blematica intrinsecamente, non riceve oggi una risposta con vincente e condivisa, mi sembra necessario, specie in pre senza di tanti apparati presumibilmente disponibili alla col laborazione, tentare una rifondazione teorica della disci plina. Entrando nel vivo di ciò che intendo comunicare, se è vero che la storia si scrive sempre da una visuale nuova, che la storia dell'architettura e dell'arte è una delle poche che si scrivono in presenza dell'evento-oggetto, non è chi non veda a quale grado di attualità si debba attingere volendo addi rittura intervenire sui monumenti, su questi oggetti presenti 12 che sostanziano la storia dell'arte.
Così dicendo prendo decisamente partito per il restauro attivo, ossia una forma di conservazione che esprime al tempo stesso e nel modo più flagrante le idee e le esigenze del nostro tempo. Con ciò ·non voglio sostenere che il restauro sia solo un fenomeno creativo e che quindi la sua pratica debba essere esclusivo compito degli architetti. Quando penso alla rifondazione teorica del restauro mi riferisco anzitutto ai criteri di individuazione, di causalità e di scelta (operazioni tutte pertinenti alla storia) da adottare in presenza dell'opera da restaurare; criteri che, non solo in dicheranno quale fabbrica tutelare e perché, ma anche le linee del pratico intervento fino all'eventuale nuova destinazione d'uso di quella fabbrica. In altre parole, penso all'indagine storica come momento primario dell'attività di restauro. Su questo principio l'accordo sembra unanime, ma il vero punto da approfondire è quello che risponde alla domanda: che tipo di indagine storica? Senza la pretesa di offrire qui alcuna chiave, poiché ri tengo che una storiografia, per così dire, in funzione del restauro sia un settore disciplinare tutto da fondare, mi li miterò ad associare alcune tendenze dell'odierna ricerca sto riografica alle esigenze del moderno restauro. Com'è stato osservato, gli studi moderni di storia dell'arte si sviluppano secondo quattro direttive metodologiche fonda ment�: formalistica, sociologica, iconologica, semiologica o strutturalistica 9• La prima, che vanta una lunga tradizione estetica, trova notoriamente nella pura visibilità teorizzata da Fiedler la sua più completa formulazione. Essa non punta a riconoscere l'espressività individuale dell'artista, né le valenze narrative dell'opera d'arte, ma considera quest'ultima un linguaggio al servizio della conoscenza. In altre parole, essa riconosce, ac canto al linguaggio verbale prevalentemente rivolto alla co municazione, un altro tipo di linguaggio rivolto alla confor mazione e ad una conformazione propria allo specifico di ciascuna delle arti visive: per l'architettura l'articolazione linguistica della conformazione spaziale. In pratica essa in segna a leggere, attraverso i valori visivi e tattili, gli spazi di 13
un edificio, così come il linguaggio verbale insegna a leggere un testo, facendovi emergere i tratti logici e narrativi. Questo indirizzo storico-metodologico, arricchito dai con tributi particolari di un Hildebrand, di un Wolfllin, di uno Schmarsow, di un Riegl, ecc. - tutti rivolti alla definizione di principi-base, di invarianti, di schemi interpretativi - mi sembra di fondamentale interesse per quella individuazione e conoscenza dell'opera che dovrebbe precedere qualunque in tervento di restauro. L'obiettivo della storiografia sociologica non è tanto quello di studiare la storia dell'arte come storia della società, ma piuttosto di cogliere le valenze formali delle espressioni arti stiche muovendo dalla conoscenza delle ragioni sociali. Anta! scrive: possiamo capire le origini e la natura degli stili coe sistenti solo studiando la società nei suoi vari strati, rico struendo di essi le diverse filosofie e da queste passando alla loro arte 10• Benché questa tendenza storiografica non si sia comple tamente liberata dalla sua eredità deterministica, ha fornito notevoli contributi alla conoscenza della fenomenologia arti stica in ordine alla sua produzione nel quadro delle attività sociali, alla committenza, al mercato d'arte, al mecenatismo, al collezionismo, alla museografia, ecc. L'utilità di quest'ot tica alla teoria e alla pratica del restauro non richiede molte parole: la ricerca dei nessi causali, le ragioni pratiche che presiedettero alla nascita di una fabbrica, il suo grado di ete ronomia, ecc. sono tutte conoscenze che convergono in uno dei principali problemi posti dall'opera da tutelare: quello per cui, mutati i tempi ed il quadro sociale, decidere la nuova destinazione d'uso di una fabbrica o di un ambiente. Il metodo iconologico può apparire a prima vista una sorta di opposizione a quello visibilista: come l'uno concentra i suoi interessi sul tema della forma, l'altro cura esclusivamente il tema del contenuto. In realtà si integrano vicendevolmente; infatti i contenuti che studia l'iconologia non rendono lette raria l'immagine dandosi come espliciti e manifesti, ma la sostanziano con motivi remoti, reconditi, metaforici, mitologici; ecc. E poiché l'architettura non è solo un'arte confor14
mativa ma anche rappresentativa, la decifrazione dei signi ficati delle immagini architettoniche può avere un grande interesse per l'opera del restauratore. Tutte le valenze indi viduate da Wittkower nei suoi Principi architettonici nell'età dell'Umanesimo e in genere molti studi di carattere icono logico (penso in particolare ad un saggio che vede nell'al bertiana facciata di S. Maria Novella un vero e proprio mani festo delle teorie cosmologiche ed ermetiche in voga nel Rinascimento) 11 costituiscono un bagaglio di conoscenze, af fatto nuove rispetto alle teorie ottocentesche del restauro e indispensabili per chi voglia oggi esercitare questa profes sione. Infine, la tendenza semiotico-strutturalista mira a rico noscere nell'arte, anche qui intesa come linguaggio, una co municazione per segni e, attraverso lo studio di questi, delle loro regole combinatorie, dei loro caratteri invarianti, il codice che presiede alla loro decifrazione. Tale codice si pone ri spetto ad una organizzazione di segni (una fabbrica) con lo stesso rapporto della dicotomia linguistica langue/parole, sug gerendoci cosl una nuova idea di stile, come appunto un codice in continua e mutevole relazione dialettica con le opere. Queste, grazie alla conoscenza del codice-stile, possono es sere oggetto di storia come di progetto (quindi di restauro) ma, a loro volta, incarnano e trasformano continuamente tale codice-stile. Appare evidente come tanto la conoscenza di quest'ultimo, quanto quella delle opere, dei loro segni e sot tosegni costituiscano quello scandaglio preliminare alla pra tica del restauro di cui s'è detto sopra e le guide più sicure delle linee operative da seguire; specie se per segni, non s'in tendono gli stilemi della plastica minore (i sottosegni) ma, come ho proposto altrove 12, le più macroscopiche unità ar chitettoniche composte ciascuna di un invaso e di un invo lucro, cui corrispondono rispettivamente il significato e il significante. Se dovessi esprimere una scelta, direi che i quattro metodi s_toriografici sopra accennati possono riassumersi nell'ultimo, che può considerarsi per un verso erede del purovisibilismo e per un altro dell'iconologia, comprendendo anche lo stesso
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approccio sociologico, in quanto i segni vanno studiati nel quadro della vita sociale. Tuttavia, poiché non mi scandalizza l'eclettismo, quando è inteso come consapevole concorso plu ralistico, non esiterei a raccomandare il richiamo a tutt'e quattro i metodi suddetti nell'indagine preliminare sulla fab brica da restaurare, traendo da ognuno di essi indicazioni utili per gli interventi più opportuni e per il futuro assetto dell'opera. Come dicevo, si tratta di semplici suggerimenti, ma in essi c'è quanto basta per revocare in dubbio il generico as sunto per cui alla base del restauro c'è uno scandaglio storico critico e per porre l'esigenza di dichiarare a quale metodo storico e a quale indirizzo critico ci si riferisce per la migliore riuscita della pratica di conservare edifici ed ambienti.
t E. E. VIOLI.ET-LE-Due, Dictionnaire raiso1111é de l'architecture fran çaise du XI• au XVI• siècle, tomi I-X, Paris 1854-1868;, la voce Restau ration è nel tomo VIII (1865). 2 A. N. DIDRON Réparation de la cathédrale de Paris, in « Annales archéologiques», tomo III, agosto 1845. .. 3Cfr. R. DI STEFANO - G. FIENGO, Norme ed orientamenti per la tutela dei beni culturali in Italia, in «Restauro», n. 40, a. 1978. . 4 Cit. in R. DI STEFANO • G. FIENGO, cit. s Ibidem. 6 Ibidem. 1 Ibidem. a Ibidem. 9 G. C. ARGAN - M. FAGIOLI, Guida a la storia dell'arte, Sansoni, Fi-'
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renze, 1974, p. 31. 10 F. ANTAL, La pittura 'fiorentina e il suo ambiente sociale nel Tre cento e nel primo Quattrocento, Einaudi, Torino, 1960, p. 8. Il Cfr. M. DEZZI BARDESCHI, Leon Battista Alberti: astrologia, cosmo logia e tradizione ermetica nella facciata di Santa Maria Novella, in « Psicon », n. 1, a. 1974. 12 Cfr. R. DE Fusco, Segni, storia e progetto dell'architettura. La terza, Bari, 1973.
La Biennale di Venezia Gli anni settanta: questi (mi)sconosciuti FILIBERTO MENNA
Anche quest'anno, come le altre volte, la Biennale vene ziana è stata al centro dell'attenzione critica internazionale ed è stata oggetto di una serie interminabile di esercitazioni critiche. Un primo dato da esaminare è appunto questo: il dato cioè quantitativo che caratterizza ogni volta il commento critico intorno ai fatti artistici presentati a Venezia. Se si ha la pazienza di scorrere la stampa (anche soltanto italiana) si resta impressionati dall'enorme numero di « note critiche » che appaiono sui giornali e i periodici diffusi sull'intero ter ritorio e dalla non meno enorme approssimazione con cui i fatti dell'arte vengono registrati. In genere, siamo abituati a · tener conto degli articoli di pochi critici, cli quelli che hanno la ventura di scrivere sui grandi quotidiani e sui periodici più accorsati, articoli che possono trovarci consenzienti o dissen zienti, ma che mostrano, quasi sempre, un certo livello cul turale, una conoscenza dei principali termini cli riferimento del dibattito. Ma tutto il resto? Il resto che, regione per re gione, provincia per provincia, città per città, crea anch'esso un'opinione, forse più determinante perché più capillare, più vicina alle aspettative dei lettori, che più facilmente si rico noscono nelle pagine dei « loro » giornali. Si tratta cli un dato cli sociologia culturale di cui non si tiene sufficientemente conto e che meriterebbe di essere studiato a fondo e sistema ticamente. La distanza che separa la ricerca artistica dal 17
«gusto» corrente del pubblico è imputabile anche alla di stanza che separa un giornale da un altro giornale, il critico di professione dal cronista. Certo. Ci sono gli strumenti della grande comunicazione di massa, quali la radio e la televisio ne: ma quanto spazio questi mezzi dedicano ai problemi del l'arte? E con quali criteri vengono chiamati i critici a utiliz zare questo spazio? Anche questa è una questione che meri terebbe un più attento esame da parte della nostra sociologia della cultura. Si tratta di un problema sul quale la rivista che ospita questa mia rassegna ha già richiamato l'attenzione, e da molto tempo, affrontando la questione di una necessaria e corretta «riduzione » culturale, da intendere appunto come un processo di comunicazione in grado di conciliare le esi genze, considerate per lo più contraddittorie, di una informa zione qualitativamente corretta e quantitativamente diffusa. Ma si tratta anche di un problema difficile da risolvere non solo per la riluttanza della critica (in questo caso) ad abban donare il proprio gergo, i propri vezzi e ammiccamenti, ma anche (e soprattutto) per ragioni più profonde che riguar dano la gestione della politica culturale sia attraverso i grandi mezzi di comunicazione di massa sia mediante le istituzioni pubbliche. Un problema, quest'ultimo, che la Biennale ha op portunamente proposto presentando il lavoro svolto dal Cen tre Arts Plastiques Contemporaines di Bordeaux con l'intento, come scrive Carluccio nella introduzione, di dare un esempio « di ciò che t possibile fare per colmare i difetti di informa zione, di conoscenza e di ricezione dei fenomeni e dei proble mi dell'arte nel contesto di una società viva». Purtroppo anche la critica meglio qualificata mostra, non di rado, una certa impazienza nei confronti delle Biennali ve neziane, si abbandona spesso a stroncature poco motivate, senza fondarle cioè su una rigorosa analisi preliminare delle intenzioni dei curatori e dei progetti che ne derivano. È ciò che si è verificato con la precedente Biennale e si è ripetuto con la recente edizione. Forse con sviste meno marcate, non fosse altro perché questa volta il tema unificante della espo sizione era indubbiamente più aderente ai fatti artistici: sia 18 la mostra internazionale che i padiglioni dei diversi paesi si
sono infatti attenuti, almeno formalmente, all'argomento pre scelto, che assegnava ai curatori il compito di documentare l'arte degli anni settanta. Aggiungo subito che questa mia nota è dedicata esclusivamente a questo argomento e pertanto non vuole essere una rassegna della Biennale veneziana in tutta la ricchezza delle sue articolazioni ma solo un momento di riflessione sui modi con cui i critici chiamati a Venezia hanno affrontato il tema, in particolare nella mostra inter nazionale e nel padiglione italiano. Del resto, è pressoché impossibile parlare oggi dell'arte di questo decennio senza fare riferimento alle proposte emerse quest'anno a Venezia. Anche per situarsi da angolazioni critiche divergenti, come è appunto il mio caso. Sono convinto, infatti, che le scelte com piute a Venezia, soprattutto per la mostra internazionale, de nuncino un grosso limite per la ragione assai semplice che da esse non emerge una situazione propria degli anni set tanta, ma piuttosto il documento del lavoro svolto da un certo numero di artisti, certamente di notevole rilievo, che però appaiono collocati, pur con esperienze molto diversificate tra loro, in una situazione che appartiene essenzialmente alla se conda metà degli anni sessanta. È come se, dovendo presen tare un panorama del decennio precedente, la mostra fosse stata imperniata su artisti come Burri o Fontana, Capogrossi o Vedova, tanto per restare ai fatti italiani. Si è trattato an zitutto di un limite teorico che ha impedito ai curatori della mostra internazionale di cogliere nelle storie individuali de gli artisti la rete di relazioni che le colloca in un determinato contesto culturale, tematico, linguistico, in una situazione, appunto. In un certo senso i critici hanno adottato un modo di lettura quale ci viene costantemente proposto, in maniera più o meno esplicita, dagli artisti stessi giustamente gelosi della loro individualità e quindi portati inevitabilmente a co gliere ciò che li separa più che ciò che li lega agli altri: un modo legittimo da questo punto di vista, ma che adottato dalla critica, soprattutto quando ad essa viene chiesto un bi lancio· e non una serie di mostre personali, finisce con l'iso lare individui e opere di cui si predica una sorta di irrelatività storica. Certo, gli artisti presenti nella mostra internazio- 19
nale, hanno continuato a lavorare negli anni settanta e hanno anche realizzato cose molto significative; ma il discorso è un altro e riguarda appunto la necessaria individuazione di con testi che caratterizzano e diversificano, spesso anche nel giro di pochissimi anni, la ricerca artistica, non lungo una linea evolutiva rettilinea (l'accusa di evoluzionismo rivolta alla cri tica attenta ai mutamenti dei contesti non coglie veramente nel segno), ma per spostamento e scarti linguistici. Ho l'im pressione, in definitiva, che i critici preposti alle scelte per la mostra internazionale non si siano resi conto pienamente proprio di questi spostamenti e di questi scarti che si sono verificati intorno al 1970 e che hanno sensibilmente mutato il panorama dell'arte rispetto a quello che si poteva contem plare solo pochi anni prima. La conseguenza era inevitabile: una mostra, fatta spesso di opere di notevole qualità, ma an cora profondamente legate a una temperatura culturale re gistrata e in qualche modo fissata agli ultimi anni del decen nio precedente. Del resto, questa opzione di fondo è ammessa abbastanza esplicitamente da Szeemann che, nel passare in rassegna i diversi progetti di mostra discussi nel corso dei lavori preparatori prima che l'idea si stabilisse sul tema poi accettato, parla appunto di una « rievocazione - mediante opere e documenti del clima artistico - del fermento inno vativo in atto tra il 1967 e il 1971, basata sulle libertà annun ciate dagli artisti in Mostre e pubblicazioni» e che si concre tizzarono nella mostra « Quando gli atteggiamenti diventano forma». A tale fenomeno, prosegue Szeemann, manca finora il nome e l'etichetta che hanno contrassegnato tendenze come la pop o la op art o il minimalismo, e aggiunge: I termini proposti: anti-fonn, microemotive art, arte po vera, concept art, earth art, colgono sempre un unico aspetto, l'apparente opposizione alla forma, l'alto grado di impegn o personale ed emotivo, l'atto che dichiara arte cose finora non identificate come arte, lo spostamento dell'interesse dal risul tato al procedimento, l'impiego di materiali poveri, l'intera zione di lavoro e materiale, la madre terra come materiale di lavoro, come posto di lavoro, il deserto come progetto •· 20 Gli artisti presenti nella sezione internazionale definiscono
il loro lavoro e pervengono già a una definizione precisa cli esso nell'ambito di questa situazione, cosa che viene ricono sciuta espli_citamente dallo stesso Szeemann e confermata da Bonito Oliva nel suo intervento introduttivo al catalogo: • Nella metà degli anni Sessanta l'arte assume una nuova attitudine, la capacità di associare materlaJI più disparati, se condo l'esigenza di appropriarsi, con felice cleptomania, della materia del reale, colto nei suoi aspetti energetici e mitici( ... ). La produzione artistica tende ad evidenziare più che il pro dotto finito il processo che lo determina ». Anche l'intervento di Martin Kunz, centrato soprattutto sull'arte del comportamento e in particolare sulla declinazione che dell'azionismo è stata data nell'area viennese, riconduce la situazione degli anni settanta a una congiuntura culturale ed operativa che di fatto si colloca, nel suo emergere più si gnificativo, sempre nella seconda metà del decennio prece dente. Sicché, credo di poter affermare con tutta tranquillità che la mostra internazionale sugli anni settanta appare in ef fetti ritagliata sulla proposta di Szeemann. ossia sulla situa zione 1967-1971. Per quanto riguarda la presenza italiana, affidata ad An selmo, Boetti, Calzolari, Fabro, Kounellis, Mario e Marisa Merz, Paolini, Penone e Zorio, questo spostamento verso gli anni Sessanta appare addirittura paradigmatico in quanto si tratta di artisti che hanno tutti raggiunto una definizione ma tura della loro opera dentro il decennio precedente e che in quegli anni hanno fatto registrare quello scarto nei confronti dei dati fino ad allora acquisiti per cui sono stati giustamente considerati tra le presenze più notevoli della situazione arti stica internazionale proprio nella seconda metà degli anni Sessanta. Da questo punto di vista, non si può nemmeno dire che i critici della sezione internazionale non abbiano individuato una situazione, ma solo che questa situazione si profila e si sviluppa appunto entro i limiti cronologici indicati da Szee mann. E questo è tanto vero che lo stesso c1itico, volendo cer care un denominatore comune alla molteplicità cli esperienze che caratterizza quegli anni in Europa e in America, si rifà 21
giustamente a un testo importante della Lippard sulla sma terializzazione dell'arte, ad un'idea critica, cioè, che in quel momento si era mostrata effettivamente funzionale per in dividuare alcuni aspetti comuni in un'area di esperienza pe raltro fortemente diversificata, se si pensa che in essa appa iono accomunate l'arte del comportamento, la land art, la earth art e il concettualismo insieme alle prime ricerche della pittura-pittura o pittura analitica. Dico subito che in quel mo mento non era facile scorgere le differenze, poniamo, tra la espansività del comportamentismo e la concentrazione tutta mentale dell'arte concettuale, per cui ci spieghiamo come nei testi critici di allora queste esperienze risultano spesso inse rite in un medesimo contesto: ne sono un esempio non solo l'intervento della Lippard, riproposto poi nel volume Six Years: The dematerialization of art from 1966 to 1972 (il pri mo saggio redatto insieme a John Chandler era apparso nel febbraio del 1968 su « Art International »), ma anche L'Arte Povera di Celant (1968), Il Territorio magico di Bonito Oliva (1969) e Concept Art di Honnef (1971). E naturalmente la fitta serie di mostre di quegli anni, tra cui la già citata « Quando gli atteggiamenti diventano forma». Direi che i cri tici veneziani siano rimasti in qualche misura figés a questa esperienza indubbiamente fondamentale dell'arte americana ed europea e che è stata una esperienza centrale nel loro stesso percorso teorico e storico: cosa giusta e spiegabilis sima se non fossero stati chiamati a dar conto di fatti che sono certamente legati a quel momento ma che si sono poi configurati con caratteristiche notevolmente diverse, se non addirittura contrarie. Ma anche dall'interno della situazione 1967-71 o 1966-72, così come indicata da Szeemann e dalla Lippard, la scelta veneziana appare caratterizzata da tagli ed esclusioni piutto sto marcati: basti pensare che manca quasi interamente l'in tero arco della ricerca concettuale, sia nelle declinazioni ame ricane che europee, per rendersi conto delle linee tenden ziali che hanno sorretto il progetto della mostra internazio nale. Senza contare che manca anche l'esperienza europea compiuta nell'ambito della cosiddetta « Nuova pittura» che 22
non può essere certo rappresentata dal solo Gerhardt Richter e tanto meno da Kenneth Martin, la cui opera si iscrive piut tosto nell'ambito delle ricerche non oggettive inglesi degli anni sessanta. E anche per quanto riguarda la situazione americana le presenze pur prestigiose di Ryman e di Agnes Martin non ne danno una connotazione sufficientemente ar ticolata. Non si tratta, nemmeno questa volta, di scelte ca suali e questo va detto come riconoscimento della coerenza interna del discorso proposto dai critici: voglio dire che questi si sono preoccupati di fornire una qualche documenta zione del momento «freddo» e «analitico» di quegli anni ma ne hanno proposto una versione fortemente schiacciata sulla esperienza della Minimal art che ne costituisce l'im mediato precedente storico. In sostanza, il privilegiamento del momento espansivo si è accompagnato ad una dimenti canza fondamentale (una dimenticanza, ripeto, pienamente consapevole) riguardante gli sviluppi e le profonde modifica zioni che Arte concettuale e Pittura analitica hanno appor tato nei confronti del Minimalismo. Una scelta, questa, che ha in qualche modo condizionato poi l'intero progetto della mostra, nel senso che ha impedito ai critici che l'hanno pen sata di comprendere fino in fondo gli scarti e le modificazioni che la ricerca artistica ha fatto registrare intorno al 70 e che hanno in buona misura influenzato le esperienze successive. Si tratta di una svolta che ho cercato di definire in più di un'occasione e che appare caratterizzata da una opzione di fondo compiuta degli artisti tra le due polarità del vitale e del mentale coesistenti nella situazione propria della fine degli anni Sessanta. La ricerca artistica emergente intorno al 1970 si configura cioè in modi sempre più marcati come ri cerca analitica sull'arte: se negli anni Sessanta, soprattutto nella seconda metà, l'arte sembra sorretta da sollecitazioni diverse, ·o addirittura opposte, una tendente verso il polo della estroversione e del coinvolgimento, l'altra verso il polo della concentrazione e dell'analisi, a partire dal '70 sembra affermarsi invece con maggiore determinatezza il momento critico della riflessione sull'arte e sul linguaggio dell'arte. Non si tratta, ovviamente, di declinazioni specificamente con- 23
cettuali, che appartengono anch'esse in buona parte alla fine del precedente decennio, quanto di un atteggiamento più ge nerale di ordine analitico e autoriflessivo per cui l'operazione artistica si presenta in un certo senso divaricata in due mo menti, che però coesistono e si sovrappongono reciproca mente: il momento linguistico, in cui l'artista compie il pro prio lavoro in un ambito disciplinare (la pittura, la scultura, la fotografia, ecc.), e il momento metalinguistico, in cui lo stesso linguaggio {pittorico, plastico, fotografico, ecc.) è im piegato per una riflessione su se stesso, sulle proprie possi bilità espressive e comunicative. Si afferma così una forte esigenza di destrutturazione tesa a smontare la macchina della rappresentazione e dell'iconismo consegnataci dalla tra dizione, anche recente, o a riportare nella evidenza della superficie gli elementi semplici del linguaggio artistico. Un aspetto, questo, che non può essere attribuito alle esperienze emergenti nella mostra veneziana, così come suggerito in vece da Bonito Oliva, il quale parla di un « desiderio di de strutturazione » a proposito di opere è procedimenti intenzio nati diversamente; ma che è stato individuato, almeno al li vello di intervento critico, da Michael Compton nella sua in troduzione al catalogo recante il titolo, già di per sé signifi cativo, E. quello che è - Dice quello che dice. Compton si sof ferma a lungo sul concetto di tautologia e sul rilievo che questa ha avuto in non poche declinazioni artistiche concet tuali e post-concettuali, anche se poi lo applica ad opere che appaiono invece estremamente ricche di rimandi metaforici, mostrando ancora una volta il limite teorico e storico della selezione internazionale. Un limite in qualche modo ricono sciuto dallo stesso Szeemann che ha onestamente dichiarato, in conclusione del suo intervento introduttivo, che « una vi sione complessiva degli anni Settanta resta affidata agli arti sti. Gli ideatori della mostra - per mancanza di tempo, bu rocrazia, ragioni di spazio - non hanno potuto fornirla. Ma anche la consacrazione dell'opera è rimasta una corrente im portante. La Biennale '80 non presenta una immagine omo genea, solo arte godibile per le sue qualità ». E in questo 24 consiste il suo pregio e il suo limite.
Un esatto correttivo alle carenze della selezione interna zionale è stato proposto da Vittorio Fagone, commissario per il padiglione italiano. Fagone ha tenuto il giusto conto proprio di questo spostamento fondamentale della ricerca artistica in senso più analitico e riflessivo rispetto agli anni immediatamente precedenti ed ha presentato un ventaglio di esperienze, fondate su diversi strumenti linguistici, ma tutte riconducibili a quel denominatore comune, anche se ciascuna caratterizzata da una propria inconfondibile fisio nomia. La ricerca della nuova pittura rappresenta così un momento importante della rappresentanza italiana e viene giustamente sottolineata da Fagone nella sua introduzione al catalogo: « La ricerca sui processi registrabili dai nuovi strumenti, la assunzione di nuovi territori di definizioni linguistiche, ha una correlazione dialettica viva nell'ambito di quelle ricerche che hanno portato negli anni Settanta a una nuova attualità nella pittura. ( ... ) L'estensione di questo fenomeno in Italia e in Francia, ha portata e peso particolari: opera una dialet tica saldatura con la storia della pittura europea interrotta dal cataclisma del 1945, stabilisce un confronto senza sogge• zioni con altre prospettive di analisi che l'arte negli stessi anni compie. Questa pittura rende visibili i singoli articoli del complesso apparato pittorico e ne dichiara insieme la in• separabilità. Non afferma l'unicità del mezzo pittorico .come mezzo di espressione delle arti visive, ma ne ribadisce una specificità irriducibile ». Le nuove esperienze pittoriche segnano quindi un mo mento importante della presenza italiana alla Biennale, an che se non sono le sole, coerentemente con l'assunto della non unicità di questo mezzo espressivo. Ma le diverse ricera che linguistiche vengono esattamente ricondotte a un deno minatore comune dallo stesso critico con una dichiarazione esplicita e teoricamente corretta: « La rivelazione degli anni Settanta come anni dell'« espli citazione », anni in cui è d'obbligo « dire » ciò che si fa e « fare » ciò che si dice ( dire nel senso di dichiarare, comu nicare, esprimere con consapevolezza e chiarezza) è premes- 25
sa necessaria per render chiari i criteri di scelta e di ordina mento adottati ». Il problema è appunto questo. Non si tratta di scegliere un progetto nei confronti di un altro, la mostra internazio nale nei confronti della rappresentanza italiana, o viceversa. Soprattutto non si tratta di una scelta da compiere solo sul piano della qualità delle opere, quanto di mettere in evidenza il piano teorico delle scelte, le motivazioni critiche e i proto colli con cui vengono lette le opere e riunite in un bilancio dotato di una certa coerenza. Da questo punto di vista la mo stra internazionale e la selezione italiana rappresentano due termini di riferimento emblematici: entrambe rivelano una loro interna coerenza, ma mentre la prima è rivolta all'indie tro, la seconda prende spregiudicatamente atto degli sposta menti e degli scarti che la ricerca artistica ha fatto effetti vamente registrare nell'ultimo decennio. Forse, la selezione italiana avrebbe acquistato forza maggiore se avesse incluso due artisti che hanno segnato un momento di discontinuità tanto più significativo proprio perché in apparenza più « omo geneo » rispetto alle esperienze predilette dagli ideatori della mostra internazionale. Intendo parlare di Vettor Pisani e di Gino De Dominicis che spesso vengono considerati come con tinuatori di ricerche artistiche nate e maturate nella seconda metà degli anni Sessanta (il contesto indicato da Szeemann e da Bonito Oliva) e che invece ne spostano l'accento verso una polarità fortemente caratterizzata in senso mentale. Le de clinazioni « povere » (adopero qui il termine in senso volu tamente generale e aperto) si concretizzano in ogni caso in oggetti o comportamenti essenzialmente espansivi, che si of frono come equivalenti plastici di un'idea di naturalità, di arcaicità e simili, proprio perché nascono all'interno di una ideologia che tende alla rottura dell'orizzonte urbano e più latamente ecologico. Opere e comportamenti sono emana zioni dirette della sensibilità dell'artista, si presentano come una impronta in cui si concretizza la sua soggettività: strut ture significanti e livelli di significazione fanno tutt'uno, ca lati in strutture che non accennano (volutamente) a scolla26 menti possibili tra i due termini. Nell'opera di Vettor Pisani
e di De Dominicis si avverte un atteggiamento più « fred do», meno confidente negli ideali di naturalità e in procedi menti sicuri di una propria, intrinseca qualità. In essi si re gistra un marcato scollamento tra significanti e significati, nel senso che questi appaiono già configurati in senso forte in un contesto convenzionale per calarsi, certo,. nel proprio medium, ma conservando un forte margine della propria au tonomia mentale. Si tratta in sostanza di una sorta di alle gorismo e come tale di un'arte che punta più sulle proprie componenti intellettuali e mentali che non sulla processualità del fare. È probabile che l'allegorismo si presenti con un accento più marcato in De Dominicis che in Vettor Pisani, ma nell'opera di quest'ultimo gioca un ruolo determinante un altro aspetto tipico della ricerca artistica degli anni set tanta, la tendenza cioè a fare un'arte sull'arte, arte come critica dell'arte. Queste considerazioni non vogliono essere tanto un rilievo nei confronti delle scelte compiute, quanto un argomento in più per dimostrare la presenza di una linea di cesura, di di scontinuità, tra le esperienze della seconda metà degli anni Sessanta e la ricerca artistica del decennio appena conclu sosi: una linea che passa, appunto, attraverso la nuova pit tura, le investigazioni linguistiche sui diversi media, dal lin guaggio verbale a quello fotografico, e anche per queste nuove forme di allegorismo. Il discorso, naturalmente, vale anche per la selezione italiana nella mostra internazionale, in cui è venuta a mancare proprio l'indicazione di questa differenza di accento che i due artisti hanno introdotto e qualche volta trasmesso agli altri, forse anche agli artisti venuti prima di loro. La carenza di documenti sulle situazioni realmente emerse nel corso degli anni settanta, evidente soprattutto nella mostra internazionale, ha anche un'altra conseguenza, di non far comprendere a fondo un altro spostamento verifica, tosi nella ricerca artistica, quello cioè che contrassegna buona parte dei fatti più recenti e che la Biennale ha presentato nei Magazzini del Sale alle Zattere con -il titolo « Aperto 80», a cura di Bonito Oliva e di Szeemann. Si tratta di un ventaglio 27
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quanto mai aperto e diversificato di esperienze caratterizzate, comunque, da alcuni atteggiamenti di fondo, in particolare dalla esigenza di recuperare con più forza e spregiudicatezza il piano della soggettività mediante un impiego di svariati strumenti linguistici, tra i quali riprende un ruolo determi nante la pittura. Una pittura profondamente diversa dalle precedenti esperienze analitiche e autoriflessive, program maticamente aperta verso il polo della espressività indivi duale, del piacere della materia e dei colori, dell'abbandono narrativo sul filo di libere associazioni di immagini. Un fe nomeno certamente significativo non fosse altro per la sua estensione territoriale da interpretare anche come una fase di reazione alla dominante « fredda » e all'ascetismo post concettuale che hanno caratterizzato invece buona parte degli anni settanta. Anzi, proprio la carenza di documenti delle de clinazioni artistiche postesi sotto il segno dell'analisi e del l'autoriflessione ha avuto un'altra conseguenza singolare, ma non del tutto involontaria: di suggerire cioè l'esistenza di una certa connessione tra i protagonisti della fase 1967-71 e la situazione attuale, quasi una sorta di corrispondenza tra l'aperto della fine degli anni sessanta e l'aperto 80. In realtà, l'iconismo dominante in queste esperienze ultime, la sua de clinazione prevalentemente narrativa, l'asintattismo apparen temente naif della composizione, gli abbandoni decorativi, l'insofferenza nei confronti delle pur necessarie mediazioni linguistiche, quasi che il soggetto e il suo desiderio non do vessero fare i conti con la discontinuità dei percorsi che con ducono all'incontro con il linguaggio, la conseguente pretesa che. l'artista possa fare tutto in ogni momento, tutto questo appare piuttosto come il segno di una situazione di riflusso, in buona parte involutiva. Che, se proprio la si volesse ricon durre a un qualche precedente storico, sembrerebbe molto più vicina ai fatti della « nuova figurazione » o della « figura zione narrativa » che ebbero largo corso (e molto ci afflissero) nei primi anni sessanta. Anche ora, queste nuove esperienze artistiche sono sor rette dalla esigenza di una più franca apertura verso il recupero di una maggiore stratificazione di significati dopo i mo-
menti più specificamente e puramente investigativi e anali tici. Ma questa giusta esigenza può trovare, come di fatto accade sempre restando all'interno dei fatti nuovi, una rispo sta più esatta, soprattutto meno ingenua: una risposta che punta ancora sul recupero dell'immagine ma con una salu tare memoria analitica che rende avvertiti gli artisti dell'ine vitabile scollamento, o, almeno, della discontinuità e delle fratture che si frappongono tra la pura soggettività e l'isti tuzione linguistica. E sono appunto queste risposte che per lo più mancano in « Aperto 1980 "·
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Critica d'arte e processi produttivi STEFANO GALLO
Nel 1936 Walter Benjamin scriveva che nell'istante in cui il criterio dell'autenticità nella produzione dell'arte viene meno, si trasforma anche l'intera funzione dell'arte 1• Foto grafia e cinema, per essere apparecchiature meccaniche con tenenti in sé la matrice riproduttiva, fanno compiere un salto in avanti decisivo al coefficiente di esponibilità dell'opera d'arte così che essa diventa una formazione con funzioni completamente nuove, delle quali quella di cui siamo consa pevoli, cioè quella artistica, si profila come quella che in futuro potrà venire riconosciuta marginale 2• La perdita
dell'aura è per Benjamin effetto di trasformazioni tecniche nei modi di produzione delle immagini, si lega, dunque, al concreto sviluppo economico e tecnologico della società. La radicalità di questi tali giudizi è tale che essi possono risultare quali definite indicazioni di metodo solo a condizione di disporsi ad una adeguata revisione della pratica critica. Chli' cosa ne è della critica d'arte se cambiamenti reali nella società stravolgono l'oggetto che essa ha in studio tanto da metterne in discussione l'effettualità? Non interessa entrare nel merito del discorso politico articolato da Benjamin attorno a queste due analisi, ci proponiamo, invece, di assu merne la radicalità del nesso condizionante tra sviluppo tecnologico e arte. Occorre, dunque, guardare a linee di ricerca 30 che abbiano recepito il ruolo determinante svolto dalla
tecnica nella crescita della società capitalista. Mettere allora tra parentesi l'oggetto della critica d'arte, la dimensione problematica di questa disciplina, il particolare angolo visuale che accomuna anche le valutazioni più distanti, e cercare fuochi di analisi che ci forniscano punti di riferimento inte ressanti sulle determinazioni che lo sviluppo tecnologico ha indotto nel funzionamento della macchina sociale. Ciò che si vuole avere più chiaro è la connotazione che la cultura, ovvero più precisamente la produzione intellettuale, ha assunto in questa società. Quali processi di trasformazione sl sono verificati nel vecchio corpo umanistico della tradi zione? Ricomporne una immagine complessiva e in presa dinamica e funzionale con l'effettualità tecnico-economica dello sviluppo capitalista, abbandonando, dunque, il vertice del cono che è la propria «disciplina», da cui si può anche aprire lo sguardo bene attorno, però mai focalizzarlo, appunto, sul suo luogo di origine; così da intendere il terreno su cui oggi si gioca, chi e come gioca, dove la critica d'arte in realtà si colloca. Faremo dei sondaggi: flash su risultati di ricerche orga mzzate secondo modi e finalità anche eterogenee. Ciò è legit timo perché a noi interessano non come indicazioni di metodo, almeno in questo momento «progettuale», ma per prestarsi a fornire tasselli del quadro da delineare. I vari studiosi cui ci rivolgeremo non verranno esaminati sistematicamente nelle loro ricerche e proposte teoriche, queste saranno piuttosto selezionate secondo una linea più generale, per cui le diverse idee potranno subire la separazione dal loro contesto, secondo la disposizione compositiva che è l'esigenza di fondo che orienta queste note. Benjamin in L'autore come produttore scrive parole di importanza fondamentale per liberare l'attività intellettuale dalla dimensione critica dello «spirito», ovvero del valore, della ideologia e ancorarla, invece, alla tecnica in quanto formazione in cui si concretizzano i reali rapporti sociali di produzione. II lavoro intellettuale, nelle condizioni della pro duzione attuale, (,..) non sarà mai rivolto soltanto ai prodotti, ma sempre anche ai mezzi della produzione 3• II significato di 31
un'opera è dentro la materialità del processo tecnico-sociale di realizzazione; prima di chiedere: che posizione ha una poesia rispetto ai rapporti di produzione dell'epoca?, vorrei chiedere: quale è la sua posizione in essi? Questa domanda riguarda direttamente la funzione che ha l'opera all'interno dei rapporti letterari di produzione di un'epoca. In altre parole, è immediatamente diretta alla tecnica letteraria delle opere 4. · · Dietro la nuova domanda posta al testo c'è la consape volezza della integrazione nei processi produttivi della società anche della attività intellettuale, che si qualifica per i mezzi di produzione con cui opera. La tecnica, meglio le tecniche, non sono entità separate, sono formazioni immediatamente agenti nei processi produttivi, causa-effetto dello sviluppo economico-sociale. Con ciò la dimensione umanistica del lavoro intellettuale è sotterrata; esso si colloca di fatto nel l'ambito della produzione sociale ed è all'interno di questa che se ne definiscono le valenze. Ne deriva, dunque, un criterio di valutazione per la funzione intellettuale del tutto slegato dalla ideologia: Il posto dell'intellettuale nella lotta di classe può essere stabilito o meglio scelto solo sulla base della sua posizione nel processo produttivo s. Il tema della tecnica nel rapporto con la scienza, la filo sofia, la politica è oggetto del lavoro svolto da Massimo Cac ciari, a partire dagli anni '60, nel ripensamento della ricca elaborazione del moderno pensiero antidialettico. Di questo diamo alcuni cenni riguardo alla problematica che ci inte ressa.
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La critica· svolta da Nietzsche e da Wittgenstein della scienza e del soggetto della conoscenza apre lo sguardo su un nuovo territorio dove non c'è più un rapporto fondativo tra filosofia e scienza, tra effettualità e verità: non è più rinvenibile un luogo esterno ai processi che ne garantisca il valore. La critica condotta da Schopenhauer alla soggettività trascendentale kantiana e la conseguente determinazione for malista . della ragione sono alla base della riflessione di Nietzsche e Wittgenstein. Si tratta di fondare tale formalismo, nella perdita di un rapporto sostanziale tra soggetto e mondo,
di un soggetto «ordinatore», di una sintesi, anche di carattere empirico quale quella di Mach. Nietzsche e Wittgenstein por tano la filosofia occidentale al confine estremo della sua opera tività, là dove lo sguardo si rivolge da una parte a processi le cui regole di trasformazione sono ad essi interne, dall'altra al nulla, al non dicibile. Nietzsche fa saltare la necessità del nesso causale, rifonda il soggetto come altro dal divenire contraddittorio e molteplice del mondo, non c'è più né un ordo idearum né un ordo rerum da accordare, non può darsi verità perché non si dà sintesi. Con il concetto di gioco Wittgenstein opera una riduzione radicale della «profondità» della problematica filosofica, un azzeramento alla effettualità degli interrogativi sulla logica, il linguaggio, la matematica. Il gioco, i giochi sono conven zioni, sono in quanto funzionano e funzionano in quanto non dipendono da fondamenti esterni al processo. Il dire che la matematica è un gioco deve significare: per provare qualcosa non è affatto necessario fare appello al significato dei segni, e dunque alla loro applicazione extra-matematica 6• Il signi ficato di una parola dipende non dall'oggetto che designa, bensì dal suo uso nella convenzione linguistica. La «verità ,. è la verità del gioco che risiede non in una essenza, ma nella effettualità delle operazioni. Cacciari attraversa il «pensiero negativo» da Schopen hauer ad Heidegger, il nihilismo che sancisce la perdita del1' essere, la crisi della filosofia rispetto al limite che il for malismo pone al dicibile, la dissoluzione, dunque, di una Ratio fondatrice di senso. Attraversa il «pensiero negativo» perché affronta la crisi della Ratio e la porta a compimento, delineando i caratteri di una nuova Ratio: il nihilismo, in quanto estremo, non è pessimismo né irrazionalismo, sareb bero risposte ancora interne al valore. Cacciari scrive: Wittgenstein è radicalmente estraneo ad ogni pessimismo. Da una parte, il mondo - dall'altra, nulla. Non vi è luogo da cui si possa giudicare il « valore» del mondo 7• E, ancora: Il fondamentale nihilismo della filosofia moderna non ha alcun carattere( ...) nella concezione heideggeriana, ma ancor prima nietzschiana, « irrazionalistico». Non solo tale nlhilismo non 33
distrugge la ragione, ma ne costituisce il fondamento, il me todo 8• La nuova Ratio che emerge è interna ai processi, alla effet tualità, all'operari: ·è la razionalizzazione del mondo in quanto intervento sul mondo. La fine della sintesi è condizione di un rapporto di potere con la realtà: la convenzionalità del for malismo è perché funziona, opera. La tecnica esautora la filosofia perché questa è giunta al suo compimento aprendo ad uno spazio privo di profondità dove si sviluppano, aderenti alla superficie materiale, operazioni che sono processi di razio nalizzazione. Cacciari rilegge il Wille zur Macht di Nietzsche e vi scorge il ribaltamento della crisi della scienza in potere della scienza, della perdita della libertà in integrazione alla necessità come condizione del dominio. Alla fine, sta la posi zione della Ratio come operari strumentale, della Ratio come progetto di intervento e comprensione del mondo, che, per essere effettuale in questa sua direzione, deve potere e non dovere - deve, cioè, elaborare le forme del Wille fino a quelle del Macht - e per potere deve esserci, radicarsi nel mondo, capirne fino in fondo la necessità (...). Questo è H punto cri tico decisivo in cui la «filosofia» da extrema si fa nulla - in cui ogni ritorno diventa impossibile, diventa «edificazione » 9• Dalle pagine di Cacciari, dalla sua rilettura razionalista del «pensiero negativo» come riflessione estranea alla ricom posizione filosofica dei problemi e, piuttosto, già incarnata nella effettualità molteplice delle tecniche prodotte dallo svi luppo industriale, torna, con accresciuta ricchezza teorica, la centralità benjaminiana della tecnica come ancoramento al processo produttivo, diremmo, alla necessità qel mondo.
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Quando dal nihilismo di Nietzsche e di Wittgenstein egli riprende la famosa 11• Tesi su Feuerbach di Marx 10, se ne fa strada da sé una lettura non più ideologica, bensì aderente alla effettualità: fine della filosofia in quanto la tecnica intro duce la conoscenza direttamente nell'operari. Il prodotto del lavoro intellettuale è determinato dal ruolo che questo svolge nella necessità dell'operari, dai mezzi tecnici in cui si incarna e, in quanto accetta tale limite, interviene, diversamente rimane nella dimensione ormai conclusa dell'interpretazione,
della centralità della filosofia, dell'ideologia. Al lavoro intel lettuale occorre chiedere quale è la sua posizione nei rapporti di produzione, per intenderne la funzione, la produttività. Il pensiero estetico di Max Bense è stato conosciuto in Ita lia fin dagli anni '60, quando ha esercitato una importante influenza sugli esperimenti di arte programmata; pur avendo ricevuto con il saggio di G. G. Pasqualotto, Avanguardia e Tecnologia, una interpretazione ideologica approfondita ed estremamente stimolante, occorre rilevare che le prospettive di ricerca sostenute da Bense non hanno avuto sostanzial mente seguito nell'ambito della critica italiana. Ciò sembra essere dipeso da una loro fondamentale eterogeneità rispetto sia alla tradizione culturale italiana, sia alla dimensione pro blematica della critica d'arte. Risultando, invece, di stretta pertinenza agli interessi che muovono i nostri sondaggi, riprenderemo i temi centrali di questa proposta teorica. L'estetica bensiana si costruisce come disciplina scienti fica: metodo d'analisi dell'oggetto estetico, non filosofia del l'arte, dell'esperienza estetica. Persegue la conoscenza anali tica di un oggetto e, a questo scopo, assume tecniche di descri zione e misurazione precise, tratte dalle scienze naturali. La logica matematica e la teoria dell'informazione sono gli stru menti di indagine principali dell'oggetto estetico in quanto formazione semiotica. Sostituire all'interpretazione la descri zione, alla dimensione dell'intuizione soggettiva e delle rela zioni sintetiche un metodo oggettivo che sezioni l'oggetto. Un'operazione riduttiva, di razionalizzazione, che sconta la perdita di profondità a vantaggio della presa sulla effettualità del processo estetico raccolto nell'oggetto e che apre alla conoscenza della composizione estetica d'ogni artefatto. Non è più solo la pura opera d'arte a fare parte della dimensione estetica, ma anche il design, la pubblicità, la musica alta come il jazz, la pop-music. Una metodologia scientifica di analisi quantitativa dell'informazione estetica unifica e rende omogenei per lo studio prodotti che una disposizione critica orientata alla valutazione qualitativa non può che dividere. L'interesse estremo di Bense per la ricerca d'avanguardia non è mai, dunque, definizione di un'area separata, luogo di soprav- 35
vivenza del valore, bensì attenzione per gli esiti estetici dei processi di razionalizzazione che conducono lo sviluppo della società, da tradurre in metodologie di adeguata razionalità. Egli ha lo sguardo rivolto alla civilizzazione mossa dalla tecnica, vede il ruolo trasformatore della tecnologia e si ricol lega alla funzione operativa rivendicata da Nietzsche alla conoscenza, così da assumere la tecnica quale rete di inte grazione di tutta l'articolazione sociale. Intrecciato alla tecnica è l'estetico che, del tutto integrato ad essa, ne ripercorre le mille diramazioni diffondendosi a sua volta nella società. Bense delinea un quadro della complessità e dell'avanzato livello tecnologico di questo intreccio da tenere ben presente: tanto la tecnicità, quanto l'esteticità sembrano estendersi in un medium più profondo, che si situa tra essere e coscienza, il quale può essere descritto solo per mezzo dei concetti mate matici di realtà propri della fisica moderna. Una realtà fisica,
a struttura altamente matematica, ma statisticamente distri buita, vista come l'ambito dell'essere comune tanto all'attività con-figurativa della tecnica quanto a quella dell'estetica, ecco
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Il problema principale di una teoria che ha raggiunto cosl livelli estremi di difficoltà. Ma questa teoria va comunque costruita, perché l'estetico e Il tecnico sono diventati processi cosmologici che, nel senso di conferirgli una configurazione, coinvolgono come minimo l'insieme del mondo che cl cir conda, e cioè l'orizzonte del fare, nei suol aspetti visivi, infor mativi e comunicativi 11• L'intera ricerca bensiana è animata dall'imperativo di adeguamento della cultura allo sviluppo tecnologico della società. Egli avverte costantemente il pericolo del permanere in concezioni di pensiero inadeguate a intendere i processi in atto, perdendone, dunque, il controllo. L'estetico è ricono sciuto come un momento essenziale del funzionamento sociale e in quanto tale deve essere assunto quale oggetto centrale di studio per la comprensione del mondo. Il piacere del mondo, - scrive Bense - li piacere di esistere è pur sempre una categoria essenziale della nostra esistenza; in essa si mani festa la più diretta comprensione del mondo, fin nelle più sottill ramificazioni della nostra razionalit à 12•
L'arte è ovunque, poiché l'artificio è al centro della realtà B: chi lo afferma è Jean Baudrillard. Osserviamo la sovrappo sizione di esiti di ricerche condotte secondo disposizioni op poste: il razionalismo integrante di Bense e la grande nostalgia e il rifiuto di Baudrillard. L'analisi dell'artificio, della simulazione e della perdita della realtà per l'iperrealtà sono contributi fondamentali di Baudrillard alla comprensione della comunicazione di massa come dimensione totalizzante. Noi sezioneremo la globalità filosofica del suo discorso, assumendone alcune intuizioni definite e tralasciando il momento in cui la matrice neofran cofortese sovverte del tutto l'analisi in ideologia. La definizione stessa del reale è: ciò di cui è possibile fare una riproduzione equivalente. (...) il reale è non soltanto ciò che può essere riprodotto, ma ciò che è sempre già riprodotto. Iperreale 14• Vediamo qui l'esito dei processi che Benjamin aveva iniziato a studiare riflettendo sulla fotografia e il ci nema. Adesso è tutta la realtà quotidiana, politica, sociale, storica, economica, ecc., che fin d'ora ha incorporato la dimen sione simulatrice dell'iperrealismo: noi viviamo già ovunque nell'allucinazione « estetica ,. della realtà. Tutto questo non deve intendersi come una critica della falsa coscienza: si tratta di un'analisi della attuale conformazione culturale che l'oggettivo ha per l'uomo, rispetto a cui il recupero del con cetto di realtà risulterebbe come un inutile tentativo di rie sumazione di un valore non più operativo. Realtà e immagi nario non costituiscono più due momenti separati - poli per operazioni dialettiche come, per esempio, quelle surrealiste sono un unico intreccio che ha dissolto i vecchi, distinti re cinti di pertinenza e ha invaso ogni luogo del sociale. Carrel lata dei segni, dei media, della moda e dei modelli, dell'atmo sfera cieca e brillante dei simulacri 15• Saggio ricco di indicazioni è quello dedicato al Centre G. Pompidou, a Beaubourg. Ricco e percorso da una continua contraddizione - in cui risiede la produttività di Baudrillard - tra analisi del nuovo e nostalgia d'antico, comprensione della ineffettualità di una cultura e ancoramento ad essa. Noi lo utilizzeremo selettivamente secondo gli intenti di- 37
chiarati, evitando, certo a fatica, di lasciarci attrarre a com mentare la conflittualità del testo. Beaubourg è un immenso lavoro di trasmutazione di questa famosa cultura tradizionale del senso, nell'ordine aleatorio dei segni, in un ordine di simulacri (il terzo) del tutto omogeneo a quello dei flussi e dei tubi della facciata. (...) vi si compie, in realtà, un vero e proprio lavoro di morte della cultura (...). � un'operazione davvero rivoluzionaria, proprio perché involontaria, insensata e incontrollata, mentre ogni operazione sensata per metter fine alla cultura riesce solo, come è noto, a risuscitarla 16• Dunque, a Beaubourg in realtà non è in atto un'operazione di mistificazione, non si fa provare alla massa il brivido del contatto con la cultura, con l'avanguardia; si fa qualcosa di estremamente serio, si porta a compimento effettuale la crisi della cultura tradizionale, per cui l'avanguardia ha lavorato, la si mette a morte. A Beaubourg non si può dire il non
dicibile. Non c'è continuità con le altre istituzioni culturali, qui si mostra in funzione, per la prima volta, nella evidenza di una situazione concreta e circoscritta, il meccanismo produt tivo della comunicazione di massa. Beaubourg, « ipermercato della cultura», è già il modello di qualsiasi forma futura di socializzazione controllata: ritotalizzazione in uno spazio tempo omogeneo di tutte le funzioni disperse del corpo e della vita sociale (lavoro, tempo libero, media, cultura), ritrascri zione di tutti i flussi contraddittori in termini di circuiti inte grati. Spazio-tempo di tutta una simulazione operazionale della vita sociale 17• È il rapporto tra massa delle merci cul turali e massa dei consumatori che innesca la nuova produt tività: la merce diviene ipermerce e la cultura ipercultura vale a dire non è più legata a scambi differenziati o a bisogni determinati, ma a una specie di universo segnico totale, o di circuito integrato percorso da parte a parte da un impulso, transito incessante di scelte, letture, referenti, marchi, deco difiche 18• Ritroviamo qui l'oggetto di studio prospettato da Bense. Ma come entra in questo meccanismo la massa? Quale di fruizione si determina? Baudrillard afferma che la modo 38
sola emozione massiccia (di massa) è quella della manipola zione ( ...). Le persone vengono per toccare, guardano come se toccassero, il loro sguardo non è che un aspetto della mani polazione tattile, non più visivo o discorsivo, e le persone sono coinvolte direttamente in un processo: manipolazione/ essere manipolato, ventilare/essere ventilato, circolare/far circolare... 19• Qui troviamo spiegato il salto culturale rispetto alle tradizionali istituzioni d'arte. È la produttività di un ap parato tecnologico avanzato che funziona organizzando un rapporto attivo tra un « universo segnico totale » e il corpo del fruitore: è questo apparato che pone a morte la cultura facendola entrare in un meccanismo, nato con la civiltà di massa, di legame tra corpo e macchina, che dai piccoli dispo sitivi di gioco è ora giunto alla istituzione culturale impo nendole la sua produttività, la sua cultura. Su tale tema oc corre fare riferimento ad Alberto Abruzzese. Leggiamo quanto scrive sull'ultimo di questi apparecchi da gioco: guardate quei dispositivi elettronici, i video-games, che applicati al tele visore consentono un gioco domestico o estremamente loca lizzato fondato sui riflessi dei propri nervi e sull'elasticità del proprio sguardo. Ecco i primi segmenti di un'attività arti stica giunta all'essenzialità di impulsi e risposte.( ... ) un tempo l'uomo recitava sulla scena del teatro; poi dissolto lo spazio della rappresentazione artistica come forma dell'unicità e del valore, l'uomo uscì per le strade con una macchina da presa; e la macchina cinematografica gli crebbe tra le mani fino ad ingoiarlo in quanto lavoro anonimo e indifferenziato; ed ecco il naturale travaso del cinema nella televisizione; allora la stessa macchina dell'informazione produsse il video-tape e lo donò all'uomo massa; questi dopo esservisi rispecchiato, in goiò il piccolo ed economico dispositivo, finalmente funzio nando, lui uomo, come la macchina, il suo corpo come uno degli infiniti segmenti della produzione di informazione 20• Beaubourg, ovvero l'avanguardia nel video-game, la cultura nell'apparato produttivo dell'inforinazione 21• Si è detto di una nuova produttività: se la cultura, come luogo di segreto, di seduzione, iniziazione 22, muore, l'avan guardia entra in una nuova dimensione della sua dialettica 39
con la merce, con l'industria culturale; dai margini del si stema ne viene attratta ben dentro, integrata nella macchina, negativo immediatamente funzionale, funzionale quale nega tivo e partecipa alla produttività generale in uno scambio all'interno dell'universo segnico totale che non solo ne mol tiplica le valenze, ma è oggi l'unica ragione sociale della sua esistenza. Si pensi a quanto scriveva Benjamin riguardo la crisi della pittura a causa della sua inadeguatezza ad offrirsi a una osser vazione collettiva simultanea. La pittura più d'altre arti rifiuta la sottrazione dell'aura, la fruizione distratta. Benjamin con statava che benché si cercasse di portarla di fronte alle masse, mediante le gallerie e i salon, non esisteva una via lungo la quale le masse potessero organizzare e controllare se stesse in vista di una simile ricezione 23• Beaubourg è questa orga nizzazione: anche la pittura viene inserita, si potrebbe dire, nel palinsesto 24• Se l'avanguardia, in quanto ancora momento di crisi del l'arte borghese, non ha che reincarnato l'aura che si adoperava a distruggere, la pittura ha detenuto sempre il primo posto nella ambivalenza di quest'operazione. Il suo recupero negli anni '70 risulta significativamente sostenuto dalla utilizzazione dei più sofisticati apparati teorici per risemantizzare ciò che non può avere significato, per rinvenire in nuovi territori la salvezza del senso, del senso dell'arte. Ma che cosa è la pit tura una volta dentro il palinsesto? Quando il prodotto meno funzionale alla esponibilità ne raggiunge il livello massimo con che cosa entriamo in rapporto? Sappiamo che la civiltà occidentale ha estetizzato le espressioni di istituzioni rituali, assumendole nella dimensione culturale dell'arte. Ha inter pretato come forme fenomeni espressivi complessi, facendoli così reagire con le forme della nostra problematica artistica. Nel momento in cui, però, l'estetico si diffonde in tutta la società intrecciato al tecnico e coinvolgono come minimo l'in sieme del mondo che ci circonda, e cioè l'orizzonte del fare, nei suol aspetti visivi, informativi e comunicativi 25 , avviene un salto culturale e la dimensione dell'artistico esplode per 40 inadeguatezza. Picasso e Matisse introdussero la scultura
negra nella dimensione dell'estetico, non diversamente fece Artaud per il teatro orientale: assunti quali elementi estetici, agirono nella problematica artistica. Ma, oggi, il teatro orien tale, mediato dall'avanguardia, giunge alla diffusione sociale nelle pratiche di laboratorio, entra come segmento tra altri nel flusso di stimoli tattili che si rivolge al corpo dell'uomo massa. Il teatro Bali è, oggi, un elemento dell'informazione, non dell'artistico: per parlarne occorre guardare all'estetico non dalla profondità della cultura tradizionale, ma dalla effet tualità dell'informazione. Anche la pittura è sempre meno oggetto di un rapporto visivo - la distanza del voyeur - col pubblico e, nelle grandi mostre che si vanno ora organizzando con enorme affluenza di visitatori, prende il sopravvento la comunicazione tattile introdotta dai mass-media. Ma, a Beau bourg, il rapporto tattile col pubblico - manipolare/essere manipolato - è già concretamente inserito nel meccanismo dell'informazione e, dunque, la pittura si ritrova nel tessuto della comunicazione di massa; in essa prende a funzionare, rilancia una diversa produttività, diventa, appunto, pensiamo a Benjamin, una formazione con funzioni completamente nuove, delle quali ( ...) quella artistica si profila come ( ...) mar ginale. Beaubourg, tuttavia, rimane pur sempre Centre d'art et culture, se è il luogo dove la tecnologia pone a morte l'avan guardia, è ancora un luogo dell'avanguardia. L'informazione la assume come materiale, ne organizza i linguaggi entro una superiore programmazione, la introduce in un circuito inte grato. Ciò è possibile perché questi materiali sono segnati dallo sviluppo sociale, ne costituiscono un prodotto e, dunque, riportano al sociale la sua produzione. Ma i sondaggi com piuti hanno messo in primo piano la centralità del processo produttivo, dei suoi mezzi, l'effettualità dell'operari, l'inte grazione imposta dalla tecnologia all'estetico, la riproduci bilità come modello totalizzante che segna la fine dell'identità del reale. Rispetto a questi parametri il lavoro dell'avan guardia è arretrato, è la riproposta della separatezza dai mezzi, dalla necessità del mondo, dalla integrazione, il rifiuto, in fondo, della riproduzione. 41
L'avanguardia, assorbita dall'informazione, entra nella produttività della comunicazione di massa necessariamente in un ruolo marginale: non può che essere subalterna nei confronti di forme di lavoro più avanzate, rispetto allo svi luppo raggiunto dalle forze produttive, quali quelle presenti nei mass-media. È rilevante che il processo dialettico tra industria cul turale e avanguardia sia giunto al momento della integrazione di quest'ultima nell'informazione. Occorre subito aggiungere, però, che se è vero che ne consegue un rilancio di produt tività, questa si segnala con un indice basso rispetto a quello dei mass-media. In definitiva, Beaubourg è un apparato tecnologico di organizzazione del consumo adeguato allo sviluppo dell'in formazione; in quanto tale impiega produttivamente l'avan guardia. Ma agisce, appunto, soltanto sul momento distri butivo: non produce, non interviene nella organizzazione del lavoro produttivo. Il materiale dell'avanguardia viene assunto come è, il medium tecnologico non ne tocca il modo di pro duzione pre-industriale. Usciamo, allora, dal Centre G. Pompidou e ci troviamo a contatto con l'estetico di strutture produttive industrializzate: cinema, editoria, televisione ecc. Noi sappiamo, ora, che non c'è più una sostanziale eterogeneità tra questi prodotti e quelli dell'avanguardia: tutti sono assorbiti nella cultura della informazione, risultandone omologati. Ma se la dimensione dell'artistico è esplosa, seguendo la fine del valore, dell'ideo logia, se l'asse condizionante è quello della effettualità dei pro'cessi produttivi, delle tecniche indotte dallo sviluppo, della conoscenza legata all'operari, è alle forme più avanzate di socializzazione della produzione che bisogna guardare: lì si concentrano tecnologia e necessità, lì si è nei rapporti di pro duzione, dunque si danno insieme potere e conoscenza, cioè la « Ratio » come operari strumentale.
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Il lavoro di Alberto Abruzzese si colloca, appunto, in questo ambito problematico: si può intendere correttamente scrive ...:.. una storia dell'industria culturale solo accettando che essa sia ritenuta come l'unico modo per potere fare una
storia della cultura contemporanea, e cioè rifiutandoci di con siderare l'industria culturale un sottoprodotto rispetto alla creazione artistica, oppure un semplice contenitore, o peggio il clima di un'epoca 26• La radicalità di questa prospettiva è, a nostro avviso, con dizione indispensabile per l'adeguatezza critica alla socializ zazione dei processi estetici e comunicativi. Le ricerche di Abruzzese devono, dunque, essere tenute ben presenti per riaffrontare lo studio dell'estetico al di fuori delle coordinate artistiche. Tuttavia, qui non si tratta di agganciare metodologie; ov vero di uscire dalla propria disciplina - la critica d'arte per tornarvi con una o più tecniche, strategie d'analisi. È questa una pratica corrente entro la disciplina, anzi essa sembra svilupparsi quasi esclusivamente mediante tali tra sfusioni culturali. Né semplicemente di non tornarvi perché, come è evidente, non si può introdurre la linea di Abruzzese nella critica d'arte. Queste pagine muovono dall'avvertimento di una crisi della disciplina per l'ineffettualità del suo oggetto, l'artistico, e utilizzano le analisi di alcuni studiosi per comporre il quadro teorico di questa crisi e del suo superamento. Ora, Benjamin, Cacciari, Bense, Baudrillard possono es sere anche punti di riferimento teorici conformi alla dimen sione culturale della critica d'arte e succede che lo siano. Non, però, lungo la linea descritta dal nostro discorso: qui sono state assunte e organizzate quelle analisi che non con sentivano un rientro senza fratture nella disciplina. D'altro canto, la prospettiva di ricerca di Abruzzese, che è decisamente incompatibile con la problematica della critica d'arte ed ha influenzato anche l'impostazione di questo studio, deve sì essere indicata come utile nella sua globalità, ma va ugualmente sezionata per fuochi d'analisi. In definitiva, mentre i riferimenti a Benjamin, Cacciari, Bense e Baudrillard devono essere parziali per consentirci di uscire dalla critica d'arte, i riferimenti ad Abruzzese, di cui pure ci interessa la totalità. del campo di ricerca, devono essere parziali per risultare pertinenti non a un ritorno alla 43
critica d'arte, impossibile, ma, certo, alla individuazione di un percorso per la ridefinizione di un settore dl lavoro intel lettuale, della sua produttività sociale. In questa prospettiva ci interessa molto l'analisi svolta da Abruzzese del soggetto critico. Essa congiunge critica e testo in un nesso che si costituisce, così come varia, per ef fetto dei processi di industrializzazione della comunicazione. Se sottraiamo la storia della critica al più vasto ambito della storia dell'estetica (...), vedremo con facilità che il lavoro cri tico si pone storicamente nell'ottocento; esso si colloca nei momenti di maggiore frizione e crisi tra le forme tradizionali del lavoro intellettuale e i processi di industrializzazione e proletarizzazione; si pone come necessità di riorganizzare dei modi di produzione culturale (artistica in particolare) 27• Tra lasciamo di discutere i dubbi relativi alla correttezza di tale periodizzazione, accettando che, di certo, nell'ottocento si ve rifica un salto nei processi di sviluppo culturale a seguito della emergenza ormai vistosa della industrializzazione e dei suoi effetti sociali. Ciò che importa è il carattere produttivo colto nella critica, l'essere interna ad una necessità, funzione della ristrutturazione del prodotto alle nuove necessità del mercato 24.
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Il soggetto di questa funzione è il soggetto della produ zione: chi deve adeguare il proprio lavoro ai cambiamenti effettuali che lo sviluppo industriale induce nella organiz zazione del lavoro, deve ben conoscere la propria tecnica, il proprio ruolo nei rapporti di produzione, per rilanciare un nuovo progetto. La genesi delle moderne Istituzioni della cri tica del testo trova, dunque, un suo momento fondamentale (non unico ma« centrale» pur dentro alla continuità del pro cessi storici) nella fase in cui è lo stesso soggetto creatore, l'autore nella sua dimensione assolutamente individuale, a porsi come soggetto critico del proprio lavoro, come soggetto produttore di modelll di creazione e lettura del testo 29• Ma è proprio questa reale valenza sociale della critica che inizia a dissolversi a partire dagli anni venti-trenta del no vecento, quando essa assume una sua funzione autonoma, codifica la sua separatezza dal momento creativo e si offre come
apparato in sé e per sé conchiuso, con una specifica presenza intellettuale e specifici modi di produzione. Dalla fase origi naria di un discorso critico che esiste nella misura in cui riesce ad essere modello di riorganizzazione del lavoro intel lettuale si passa ad una fase in cUi sempre più nettamente la produzione critica tende alla definizione di giudizi di valore, per ciò stesso ponendosi in modo autonomo dal testo e, ri spetto alla sua produzione, affermando solo ideologicamente una propria egemonia JO.
Tutta l'arretratezza teorica della critica quale luogo di rifiuto del carattere totalizzante dello sviluppo tecnologico, l'incapacità di intendere fino in fondo l'ineffettualità della cultura, sono, dunque, all'origine della sua costituzione in disciplina. La critica all'atto della sua fondazione autonoma è un progetto di segno opposto a quello emergente dalle analisi di Benjamin con cui si apre questo studio. La radicalità di Benjamin non può essere assunta perché è la negazione non di idee diverse, ma di un lavoro, di una tecnica, di un inse rimento nel processo produttivo diverso e retrogrado, perché attestato sulla difesa di modi produttivi arretrati. ( ... ) è facil mente verificabile quanto la produzione di statuti conoscitivi si ponga come produzione dell'ideologia necessaria alla deli mitazione strumentale del testo, offerto in quanto rispecchia mento « inverso ,. delle necessità di sopravvivenza delle forme di lavoro intellettuale che se ne assumono l'interpretazione e la trasmissione 31• Critico e artista, divenuti due figure di
stinte, non possono che rilanciare il valore del loro modo di produzione, recuperare l'ineffettualità del loro ruolo sociale con una operazione ideologica. La morte dell'arte, per il cri tico come per l'artista, non si iscrive nella radicalità del nihi lismo ripercorso da Cacciari: essi abitano un luogo da cui continuano a giudicare il valore del mondo. Occorre mettere in evidenza, tuttavia, che la critica opera una riduzione della produttività dell'avanguardia, realizza, appunto, una delimitazione strumentale del testo. L'avan guardia è in rapporto con lo sviluppo tecnologico della so cietà, la sua produzione, si è detto, è segnata dalla effettualità sociale: non per adeguamento ai modi di produzione indu- 45
striale, bensì per integrazione nel modo di lavoro individuale della produttività sociale. Abruzzese scrive che quand'anche la produzione artistica nasca da una condizione individuale e autonoma, il materiale preesistente su cui necessariamente si fonda contiene di per se stesso la smentita oggettiva di un lavoro concreto, e stabilisce al di sopra del margine di auto nomia del produttore una rete di correlazioni automatiche direttamente determinate dal lavoro sociale che le ha strut turate in antecedenti e progressive stratificazioni 32• Inserita a Beaubourg nel circuito dell'informazione, l'avanguardia può, allora, subire un rilancio di produttività per l'attivazione da parte della fruizione di massa di valenze del testo ignote alla delimitazione operata dalla critica. Mentre la produzione ar tistica può dare inizio ad un funzionamento innovativo, la critica tende al rispecchiamento ideologico del lavoro del l'avanguardia, ne raddoppia, cioè, nella teoria i limiti del modo di produzione.
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Si sono analizzati, dunque, i termini del rilancio di pro duttività che investe l'avanguardia quando è inserita in un apparato tecnologico di organizzazione del consumo adeguato all'informazione. Della critica si è chiarito il progetto re gressivo e l'effetto di ulteriore riduzione del proprio oggetto di conoscenza. Ci si trova, allora, di fronte al compito di smantellare il recinto che le forze impegnate in questo set tore hanno eretto per difendere modi produttivi entrati in crisi con l'industrializzazione, ma che oggi, così come sono divenute pressoché inerti, allo stesso tempo sembrano su bire nel sistema dell'informazione, nel gap enorme rispetto agli apparati industriali che vi operano, un richiamo alla in tegrazione stravolgente e potenzialmente rinnovatore. Beaubourg potrebbe essere soltanto un primo modello della integrazione, ancora primitivo nella sua dimensione di centre d'art et culture prima illustrata. Si dovrebbe pensare ad apparati tecnologici avanzati che intervengano anche nella organizzazione produttiva della merce estetica, trasportando l'area di forze del nostro settore - i cui confini sarebbero da ridefinire - in forme di lavoro astratto. Assumiamo come riferimento il discorso di Abruzzese ri-
guardo alla crisi dello spettacolo, alla sua morte per inte grazione nell'informazione; ponendo, dunque, il nostro settore produttivo assieme al teatro e al cinema. Ci rendiamo conto della ambiguità di questa ipotesi di analogia, quando appunto tale sett�re è da definire. Ma, in realtà, il problema della sua definizione va risolto avendo già un progetto, non il contrario; ci sembra, inoltre, che la pro spettiva di studio di Bense possa rappresentare già un orien tamento specifico per il lavoro critico. Scrive Abruzzese: da tempo teatro e cinema non esistono più in quanto forme conchiuse: i loro prodotti non sono più identificabili come « opere », ma annegano in una somma di
stimoli quotidiani, qualitativamente e quantitativamente com plessi, che distrugge, o per il momento tende a distruggere, la società dello spettacolo. A questa si contrappone la società dell'informazione, che si costruisce sulla crisi e morte dello spettacolo e delle sue funzioni storiche 33• Quale risposta dare
a questo processo in cui è coinvolta, come s'è visto, anche l'avanguardia artistica? Usare la crisi per creare strutture
nuove e processi produttivi nuovi ( ...). Siamo chiamati a co struire il palinsesto, collegando organicamente i diversi ap parati culturali, i diversi linguaggi, e i diversi livelli che esso ingloba per ricomporli produttivamente ( ... ). Si pensi ai centri polivalenti: non possono limitarsi ad essere un luogo in cui le diverse forme storiche della comunicazione e dell'imma ginario coesistono; dovranno essere un modo di produrre più avanzato in cui il palinsesto scompone ogni precedente au tonomia 34•
Questa prospettiva, come si intende, è definitivamente la fine dell'avanguardia, meglio è già il dopo-avanguardia. Come tale non può riguardare soltanto l'artista, coinvolge allo stesso modo anche il critico. È una prospettiva che porta a ricomporre la separazione tra le due figure. Avvenuta la scis sione per il rifiuto di adeguare i modi di produzione allo svi luppo tecnologico, per la difesa ad oltranza del lavoro con creto, il passaggio al lavoro astratto segnerebbe una nuova possibilità di progettare la tecnica nei rapporti di produzione. Quel che conta ribadire è il definitivo superamento del prin- 47
clpio dell'autonomia della clitica. Alla ricostruzione « Ideale » dell'oggetto, come tentativo di riprodurre una struttura (...) attraverso un'unica forma di lavoro (...), va finalmente con trapposto e riscoperto (perché «esiste», anche se «altrove») li ruolo della critica del testo come intervento diretto nella · sua produzione e negli apparati che producono li suo con sumo, in una correlazione che è materiale tanto quanto ma teriale è il ciclo che unifica produzione e consumo sotto l'unica forma della produzione.
1 W. BENJAMIN, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936 (Ed. It. Einaudi, Torino, 1974, p. 27). 2 Ibidem, p. 28. 3 W. BENJAMIN, L'autore come produttore, 1934, in Avanguardia e rivoluzione, Einaudi, Torino, 1973, p. 211. 4 Ibidem, p. 201. s Ibidem, p. 207. 6 L. WITIGENSTEIN, Osservazioni sopra i fondamenti della matema tica, Ed. It. Einaudi, Torino, 1971, p. 175. 7 M. CACCIAR!, Krisis, Feltrinelli, Milano, 1976, quinta edizione 1979,
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p. III. B M. CACCIARI, Pensiero negativo e ra:z.ionali:z.:z.a:z.ione, Marsilio, Ve nezia, 1977, p. 77. 9 M. CACCIAR!, Ibidem, p. 50. 10 I filosofi hanno soltanto diversamente • Interpretato• il mondo, ma si tratta di cambiarlo. K. MARX, Tesi su Fe11erbacl1, 1845. 11 M. BENSE, Estetica, Baden Baden, 1965 (Ed. It. Bompiani, Milano, 1974, p. 274). 12 Ibidem, p. 276. 13 J. BAUDRILU.RD, Lo scambio simbolico e la morte, Paris, 1976 (Ed. lt. Feltrinelli, Milano, 1979, p. 89). 14 Ibidem, p. 87. 1s Ibidem, p. 89. 16 J. BAUDRILLARD, L'effetto Beaubourg. Implosione e dissuasione, Paris, 1977 (Ed. It. in Simulacri e Impostura, Cappelli, Bologna, 1980, pp. 19, 20, 21). 17 Ibidem, p. 22. 18 Ibidem, p. 22. 19 Ibidem, p. 25. 20 A. ABRUZZESE, Dallo spettacolo all'informazione, in Verso una sociologia del lavoro intellettuale, Liguori, Napoli, 1979, p. 234. 21 Per informazione si intende una produzione che ha come oggetto non un'opera definita, bensl una programmazione di stimoli, linguaggi, funzioni comunicative diverse. Questa programmazione, ovvero organiz zazione superiore di vari prodotti, si definisce, con termine d'uso tele visivo, palinsesto. 22 J. BAUDRILU.RD, op. cit. 23 W. BENJAMIN, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 39.
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Si rinvia alla nota n. 21. cii., p. 274.
25 M. BENSE, op. 26 A. ABRUZZESE,
L'industria culturale in Italia tra cinema e tele visione (1930-1970), in Verso una sociologia del lavoro intellettuale, cit.,
p. 111.
27 A. ABRUZZESI!, Lavoro astratto e lavoro concreto nei processi di produzione artistica: Hollywood, in Verso una sociologia del lavoro in lellett11ale, cit., p. 134. 2s Ibidem, p. 135. 29 Ibidem, p. 134. JO Ibidem, p. 135. 3t Ibidem, p. 133. 32 Ibidem, p. 149. 33 A. ABRUZZESE, Dallo spetlacolo all'informazione, in Verso una so ciologia del lavoro intellettuale, cit., p. 225. 34 Ibidem, pp. 238 e 239. 35 A. ABRUZZESE, Lavoro astratto e lavoro concreto, Verso una sociologia del lavoro intellettuale, cit., p. 141.
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