op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea
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Edizioni • Il centro ,. di Arturo Carola
G. D'AMATO
II design tra « radicale» e «commerciale»
A. TRIMARCO
Dalla e ruminazione• dei guerrieri greci ali'« insonnia• dell'estate romana
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G.
Fortuna degli slogans
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Libri, riviste e mostre
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PIGAFETTA
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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Roberta Amirante, Piergiacomo Bucciarelli, Paola Capone, Giuseppina Dal Canton, Fulvio Irace, Cettina Lenza.
Il design tra "radicale,, e "commerciale,, GABRIELLA D'AMATO
Lampadine colorate, archi, cornici, laminati stampati a macchie di leopardo, attaccapanni totemici, fili in tensione, superfici laccate con colori aggressivi o tenerissimi e dap pertutto una profusione di decorazione e colori: sono gli in gredienti del più attuale design apparso nelle recenti mostre del settore. Ma in che cosa consiste questa linea di design da alcuni battezzata post-radicale, da altri Neomodern, da altri ancora New International Style e per la quale sicura mente altri nomi non tarderanno a venire? Innanzitutto va precisato che il Neomodern affonda le sue radici in quel radical-design sorto all'indomani del Sessantotto e protrattosi più o meno fino alla metà degli anni Settanta; e, benché questo tema sia stato oggetto di una rassegna nel n. 26 della nostra rivista, riteniamo utile, in questa sede, richiamarne alcuni concetti fondamentali. Il radical-design o contro-design nasceva con aspetti e modi in linea col fenomeno delle avanguardie degli anni Sessanta generalmente ad opera di giovani architetti formatisi nel clima della contestazione studentesca e trovatisi all'indomani della laurea in una realtà di aperta crisi professionale. Quindi già dall'inizio si faceva portatore di un'aporia di fondo: da un lato, infatti, costituiva uno sbocco verso settori disciplinari più aperti e praticabili - e come tali esulanti, per le loro implicazioni con la pratica, dalla nozione specifica di avan-
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in cui si dibatte la coscienza della società moderna, tutta protesa attraverso la religione dei consumi e della produzione all'autodistnxzione e all'annullamento 3• Intanto, alcune tra le più note e specializzate riviste di architettura, tra cui spicca la « Casabella » diretta da Mendini, si facevano portavoce del dibattito sul radical-design e sui suoi interpreti. Questi ultimi, generalmente riuniti in gruppo, si chiamavano Archizoom, 9999, Ufo, Superstudio, oppure erano autori singoli come Et tore Sottsass jr., Ugo La Pietra, Gaetano Pesce, Gianni Pet tena, Riccardo Dalisi, Alessandro Mendini. Benché accomunati da una stessa ideologia di fondo, le loro ricerche erano svaria tissime. Sottsass infatti era curiosamente in bilico tra la rigo rosa razionalità di design di produzione per la Olivetti e la libera ricerca di una poetica liberatoria 4, gli Archizoom si facevano portatori di un'utopia negativa, Pettena batteva la via del concettualismo, gli Ufo quella del comportamentismo, Datisi quella delle tecniche povere, ecc. Fin qui, sia pur in termini molto schematici, il radical design; a questo punto però va preso atto che da un certo momento in poi esso perde la sua carica eversiva e dissacra toria. Infatti gli operatori. vuoi perché non credono più che mediante il design si possano attuare rifondazioni totalizzanti ed estranee allo specifico progettuale, vuoi perché l'alletta mento di una professionalità conquistata proprio con l'auto reclame di gesti provocatori è più forte di un elitario e sco modo predicare nel deserto, tendono ad aggiustare il proprio tiro nella direzione di una prassi progettuale in collusione col mondo produttivo. Si passa così dal radical-design a quello che viene denominato Neomodem, più o meno con gli stessi progettisti, salvo qualche aggiunta di nuove leve e taluni mutamenti di formazione. Il Neomodern tuttavia · si presenta con modi e tecniche molto diverse dal radical-design innanzitutto perché, a fronte di quella « distruzione dell'oggetto » insistentemente perse guita dal progetto dell'ideologia « radical •� sembra ormai es sersi saldamente insediato una sorta di disinibito e felice ritorno all'affabulazione descrittiva, alla testualità, insomma dell'oggetto, indagata fin dentro le squame della sua pelle 7
decorata. Abbandonata infatti l'lnterdlsclpllnarletà, questi og getti piuttosto occupano zone infradlscipllnarl, Innescano pra tiche interstiziali, evitano soprattutto I perniciosi morallsnù di nostalgici progetti di rifondazione e di sintesi 5• Per alcuni le ragioni cli tale mutamento di rotta consisterebbero nel fatto che molte delle premesse su cui si fondava il radical-design si erano rivelate inesistenti: prime fra tutte la creatività e la manualità appannaggio di una classe proletaria mai formatasi. Inoltre come nota Menclini le Istanze radicali.•• prevedevano una specie di congiunzione tra la progettazione coltissima e li sottoproletariato ed esiste invece la progettazione di massa perché l'Intellettuale si va a perdere; la progettazione diretta da parte della massa si è rivelata un'illusione In più, esistono Invece una progettazione Indiretta e un progettista piccolo borghese 6• Di fronte alle innumerevoli delusioni, contraddi zioni e crisi del mondo contemporaneo, il design neomoderno reagisce, quindi, indicando un infinito mondo, forse capovolto di oggetti tutti da Inventare... oggetti non solo giusti, neces sari, austeri, antiautoritarl ma pure fantasiosi, allegri, creativi, meditativi, divertenti da comperare, vendere, scambiare, pre stare, regalare, distruggere 7• Nascono così tavoli con basi in legno laminato e piani d'appoggio in cristallo sorretti da gambe contorte da misteriose energie, centrotavola in cellu loide colorata sfacciatamente, lampade smaltate a forma di puntaspilli oppure di stilizzati steli rampicanti, letti a forma cli ring dalle corde colorate e la base zebrata, « mobili infi niti » composti da una teoria cli elementi che si snodano attra verso gli ambienti e sui quali ci si può sbizzarrire col calcolo combinatorio; insomma si assiste a tutto un universo di rife-. rimenti tratti dalle immagini del mondo contemporaneo: il paesaggio suburbano, il caotico scintillio del luna-park e del circo, i laboratori spaziali, i giocattoli dei bambini, i colori delle caramelle, dei maquillages e della « moda giovane,., il tutto in forme essenziali, assemblate senza complicati nodi strutturali, oppure acute, pungenti, composte al limite del l'equilibrio, o ancora antropomorfe, zoomorfe e monumentali. Nel suo complesso - scrive Raggi - il Neomodem stabilisce 8 una analogia tra design e moda (fashion) assumendo la varia-
billtà e la mutazione continua degli stilemi come un dato di comportamento accettabile. In contrasto all'elitario concetto di « stile » che è « hard • la moda è un comportamento « soft ». Lo stile tende all'assoluto, la moda alla relatività. Non a caso nella presentazione al pubblico di alcuni prodotti del design Neomodern si preferisce parlare di « collezione ,. e quasi di sfilata, nelle quali stagione dopo stagione le forme si alter nano velocemente ( e questo anche per dire che i prodotti non sono « definitivi » ). Pescando nel Pop, nel Kitsch, nella Banalità, nella storia il neomodem-design offre una immagine di rinnovamento alla quale riassumendo attribuirei la se guente serie di caratteri: Acido, Decorativo, Discontinuo, Ebete, Episodico, Individuale, Inclusivo, Irritante, Ironico, Isolato, Ludico, Metafisico, Ottimista, Paradossale, Poetico, Pop, Rituale, Schizofrenico, Sconveniente, Sereno, Simbolico, Solitario, Tollerante 8• Il Neomodern si presenta oggi come una tendenza cultu rale vastamente diffusa in campo internazionale, tanto da provocare dei fenomeni indotti anche nel settore della produ zione « ufficiale ». Noi però ci occuperemo in questa sede delle sue manifestazioni in Italia, dove si coagula intorno ai due « studi » milanesi Alchimia e Memphis la cui linea sta diventando un punto di riferimento sempre più condiviso e imitato. Alchimia è una fortunata iniziativa commerciale che, all'in segna della denominazione « Studio di progettazione di im magini del XX secolo », attua nel senso più ampio possibile i progetti e i programmi del design sperimentale d'avanguar dia. L'attività di questo singolare studio, fondato nel '77 da Alessandro Guerriero, non è univocamente definibile: da una parte, infatti, progetta, manipola, ridisegna e produce in pic cola serie arredi « firmati »; dall'altra « vende e diffonde idee » con mostre (tra le quali ricordiamo quelle di Ferrara, 1978; Milano, 1979; Linz e Venezia, 1980), pubblicazioni e con una serie di operazioni d'architettura eterogenee, spesso contrad dittorie, a volte paradossali. Un progetto diventa una mostra, una mostra un libro, un disegno diventa progetto 9• Lo studio si struttura in due raggruppamenti: uno interno coordinato 9
dallo stesso Guerriero che si avvale di giovani progettisti tra cui Stefano Bianchi, Donatella Biffi, Bruno e Giorgio Gregori, Mauro Panzeri; ed uno esterno, mobile e fluttuante in cui di volta in volta si avvicendano architetti e designers come Sott sass, Mendini, Branzi, Raggi, Navone, ecc. Pertanto, seguendo il cliché dell'alta moda, Alchimia sfoggia collezioni annuali l'ultima delle quali, « il Mobile infinito», ha richiesto uno staff di progettisti da kolossal hollywoodiano ed è stato lette ralmente «rappresentata» nel cortile del Politecnico di Mi lano, per poi passare al Piper di Roma e a Londra, con una didascalia di accompagnamento che con le varie voci: Pro getto, Coordinamento, Decori, Regia, Scenografia, Lampade ombra, ecc., sfida i titoli di testa di un film. Per questa sorta di «puzzle domestico», come lo hanno definito alcuni, costi tuito da quattordici elementi (sedia, tavolo, letto, angolie ra, ecc.) dalle superfici scure e magnetizzate sulle quali si applicano le più svariate decorazioni, hanno lavorato circa trenta fra architetti e designers. Ne è risultato un progetto eclettico, complesso, spostato rispetto ai metodi di proget tazione tradizionale... punto d'incontro voluto e casuale ad un tempo di transiti mentali, progettuali, filosofici, artistici, artigianali, teatrali, di un insieme di individui che operano nel campo dell'architettura, design, arte e teatro in questi anni 10• Mendini, l'ideatore, sottolinea l'istanza dinamica che ne è alla base e che scardina completamente il concetto statico e rassicurante del «mobile reale». Il mobile infinito - egli sostiene - propone un concetto disomogeneo dell'ar• redo, perché afferma che gli oggetti dentro la casa sono un accumulo, una foresta, un groviglio di avvenire e di passioni u. Il nome Memphis contraddistingue una società di recen tissima formazione e dalle idee molto chiare sulla produzione e diffusione a scala internazionale di arredi per un nuovo modo di immaginare la casa e gli oggetti di tutti i giorni. Circa il nome, evocatore di due luoghi differenti per tempo e cultura, non è certo se la fonte d'ispirazione sia stata Memphis, capitale dell'antico Egitto dove sorgeva il grande tempio del dio Ptah, « l'artista fra gli dei » oppure Memphis 10 nel Tennessee, terra di blues e di canzoni, di rock and roll
e di periferia ,urbana americana, di tutto quel contesto socio culturale, cioè, che da tempo affascina l'ideatore dell'inizia tiva, Ettore Sottsass al quale si sono uniti produttori di mo bili, titolari di negozi di arredamento e i contributi di nume rosi operatori culturali, artisti e critici. Per la prima colle zione di trenta pezzi sperimentali sono stati chiamati a progettare, oltre ad artisti italiani (Andrea Branzi, Aldo Cibic, Michele De Lucchi, Alessandro Mendini, Paola Navone, Bruno Gregori, Marco Zanini), designers stranieri come Michael Gra ves, Hans Hollein, Arata Isozaki, Shiro Kuramata. Di qui scaturisce la caratteristica peculiare di Memphis, la sua inter nazionalità, che ha funzionato da cartina di tornasole per verificare come più o meno in tutto il mondo, anche se con precedenti culturali e previsioni diverse, esiste un desiderio irreprimibile di caricare il design di valori e di uno spessore comunicativo sempre più densi, come se il design ideologi camente schematico e quella che è stata per tanto tempo l'utopia di una possibile soluzione progettuale compàtta e semplice non riuscissero più a rispondere a quelle che sono invece la mobilità sociale, le necessità pubbliche, la spinta storica 12• A questo punto, però, sarà meglio entrare maggiormente nel merito del design neomoderno analizzando la produzione di personaggi e tendenze peraltro molto diversificate in un ambito propositivo abbastanza omogeneo. Ettore Sottsass - « capo storico» del radical design che già negli anni Cinquanta, mediante l'uso prepotente del colore, cercava di prendere le distanze dal design ufficiale, tende ora a dimostrare come tra gli objets trouvés di un'archi tettura popolare ci possono essere anche dei moduli razio nalisti, dei parallelepipedi, dei piedestalli massicci 0• Ci pro pone quindi due diverse morfologie sovente mescolate fra loro: quella dove domina un massiccio equilibrio ottenuto con tozze zoccolature, in cui si incastrano poderosi montanti parallelepipedi e mensole dall'esagerato spessore, e quella af fidata ad un inquietante squilibrio di serpeggianti strutture di sostegno o ad elementi assemblati secondo angolature che sembrano favorire slittamenti e cadute di oggetti e persone. 11
I suoi mobili, come sostiene egli stesso, non stanno quasi da nessuna parte e comunque non « legano •, non possono nean che produrre coordinati. Stanno soltanto da soli come i monu menti nelle piazze, e non riescono neanche a fare stile .. . 14_ Li decora con brandelli dell'iconografia delle culture popolari o con spunti tratti dal mondo animale (reti stirate, graniglia dei gabinetti pubblici, maculate pelli di serpente, colorate colture batteriche) non contaminati dagli schemi del buon gusto cor rente. Gli piacerebbe proporre una iconografia della non cultura, di una cultura di nessuno (non di una cultura del• l'anonimo) ma l'iconografia di una cultura della cultura non usata e non usabile, non perché non c'è, neanche perché non si usa, ma perché non si guarda, perché non si prende In considerazione, perché non c'entra, perché non sembra esi stere nella cultura che si sa, e forse addirlttura non produce cultura li. Alessandro Mendini, direttore di « Casabella» dal '71 al '76 e ora di « Domus,. e «Modo», un Intellettuale sofisticato e inlnterrottamente « diviso » tra la professionalità che Indossa come una pelle con disinvoltura e il ruolo di fantasista che ha scelto di giocare, sadico, ma anche ottimista e lucido fino In fondo 16 , smessi gli atteggiamenti del tempo radical quando incendiava sedie e progettava valige per l'ultimo viaggio o lampade senza luce, da alcuni anni interpreta il design come risemantizzazione del quotidiano in una forma da lui definita « Banal design •· Come progettista opera mediante due tipi di ridesign: quello su arredi famosi dei Maestri (Rietveld, Thonet, Colombo, Breuer, ecc.) e quello su oggetti di tutti i giorni, credenze, scrivanie, sedie, rinvenuti dal rigattiere e
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sui quali egli applica rosee nuvolette di plastica, decori alla Kandinsky, oppure macchie alla Seurat come nel caso della scocca in falso barocco piemontese e della tappezzeria dell'im maginaria poltrona di Proust da lui disegnata per Alchimia (1977). La situazione vive di uno slittamento con�uo per cui se su una credenza acquistata da un robivecchi si dipinge un Kandlnsky, la credenza diventa ancora più banale e li Kandinsky ancora più Kandlnsky; lo stesso vale per gli lnterventi su Rietveld, Breuer, ecc., e in altro modo per gli Inter-
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da più parti si continua ad insistere - per il Neomodern. Del resto alcuni critici più avvertiti notano l'ambigua posi zione tra avanguardia e mercificazione di questo tipo di de sign; Koenig, ad esempio, interpretando il passaggio dal radical-design al Neomodern in termini di teoria dell'informa _ zione, scrive: Gli oggetti degli avanguardisti davano un alto numero cli informazioni, ovvero presentavano una grossa emergenza - quasi uno scandalo estetico -, che si pagava riducendo al minimo ( q-uasi al pezzo unico) la loro capacità cli diffusione. Ciononostante, qualche permanenza l'avevano; altrimenti sarebbero stati oggetti misteriosi, incomunicabili. Ebbene, è bastato insistere su questa permanenza, cancellando la carica eversiva originaria, per ribaltare, a mo' di boomerang, la traiettoria dei proiettili sparati dall'avanguardia. Questi mo bili sono diventati delle novità comprensibili anche dalla mas saia di Treviso in vena di rinnovamenti casalinghi, o dal bracciante lucano diventato imprenditore cittadino. Invece di colpire il consumismo imperante, si è fatto un servizio al più imbecille, restando con un palmo di naso. Almeno cl si fosse arricchiti - ogni anima ha il suo prezzo - e invece no. Lè ditte che hanno appoggiato l'avan guardia hanno fatto la parte di Mecenate mentre i furbetti e i designers più caserecci si godono le royalties ( e, lavorando per i petrolieri, il termine calza perfettamente). t:: possibile opporsi a questa mercificazione a cosi basso livello? Un possibile tentativo appare quello operato dalla Memphis, che ha chiamato a raccolta i migliori designers del l'avanguardia mondiale, commissionando loro una serie cli mobili che dovrebbero avere la seguente caratteristica: abbas sare il tasso d'informazione a vantaggio della capacità cli dif fusione, in modo da garantire un possibile numero di « giusti consumatori»... t:: un'operazione rischlosa, e come tutti i compromessi può finire in vacca lo stesso. E da due .parti: o restare egualmente avanguardia, per giunta cli serie B ( come gli hippies cli Empoli) oppure automercificarsi. Col che là Memphls, mercé il Dioquattrlno, si salverebbe; non altrettanto, invece, il povero progettista. Il quale è come Pigma-
llone: non ha potere sul buono o cattivo uso che si fa del suo progetto 26. Per parte nostra, per esprimere un giudizio ovviamente provvisorio, ci rifacciamo alla filosofia classica del design. Questa, com'è noto, attraverso un progetto rigoroso di oggetti particolarmente adatti alla lavorazione meccanica puntava alla qualificazione della quantità, a dare un prodotto che fosse esteticamente valido quanto economico. Questa filosofia è fallita tra l'altro perché il pubblico non ha mai accolto la quantificazione di quei rigorosi prototipi che battezzava « se die da ospedale». Di fronte a tale resistenza l'industria si rifugiava nello styling perché gli oggetti fossero più graditi, oppure - secondo la teoria che il valore fosse legato all'alto costo - produceva sì i classici del design caricandoli tuttavia appunto di un prezzo eccessivo. Attualmente essa sembra unificare i due espedienti: infatti, mentre mantiene alto il prezzo dei mobili neomoderni (accreditandoli del loro valore di scambio) in pari tempo li usa come una sorta di neostyling nel senso che si ritiene soddisfino maggiormente il bisogno dell'immaginario popolare. E, comunque, anche se tali pro dotti entrano o entreranno nel suo ciclo lavorativo, non im porta tanto il loro successo quanto l'arricchimento del cata logo che in tutti i casi comportano. Pertanto, sul versante della progettazione, le proposte attuali del Neomodern trovano la loro maggiore giustifica zione nel fatto di condividere il giudizio sui « mobili da ospe dale» e di venire incontro alle esigenze del decorativo, del kitsch, degli stilemi che il grosso pubblico non ha mai cessato di amare. · Ora, sospendendo il giudizio estetico sui vari prodotti Alchimia e Memphis, questi avranno un senso se, concedendo al gusto del pubblico, saranno in grado di spiazzare i cosid detti « mobili canturini» - vero emblema del kitsch nazio nale - con oggetti che siano al tempo stesso graditi al pub blico e comunque portatori di una cultura figurativa più re cente (i revival, la pop art, l'happening, ecc.). Se essi viceversa non supereranno tale prova e resteranno ancora una volta dei prototipi costosi, allora si. porrà l'inte�ogativo se conti-
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nuare a scegliere « l'artigianale• e carissima « Barcellona• di Mies, che comunque aveva una sua motivazione e una sua premessa, ovvero la poltrona «Proust• che resta lo stesso carissima, dice di intervenire sul kitsch, ma forse non riesce che a rimanere tale. D'altra parte nell'ibrido panorama della ricerca attuale va dato atto che, a parità d'ironia e di dissacrazione, se in architettura l'ultima trovata espressiva sembra essere quella del postmoderno, o più correttamente del premoderno, al con fronto l'operazione del design ci pare più significativa e vita listica. Infatti mentre la prima si rifà a una storia senza luogo e senza tempo, il Neomodern trae solo spunti dalla « tradi zione del nuovo• e comunque punta più sull'invenzione e la fantasia che sulla stessa manipolazione storica. Ma, ripensandoci, in questo clima in cui praticamente agli operatori tutto è permesso, perché il critico dovrebbe sospendere il giudizio? Per contro come affrancarlo dall'ini bizione ad esprimersi quando è stato giustamente osservato che parlare di kitsch � kitsch?
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1 ANONIMA DEsIGN, in • Casabella», n. 379, 1973. 2 F. RAGGI, Radical Story, in • Casabella», n. 382, 1973. 3 Ibidem. 4 Ibidem. s F. IRACE, dal catalogo dello Studio Alchimia Bau.haus Art Col lection 1980-81, Milano 1981. 6 A. MENDINI, cit. in Elogio del Banale, a cura di Barbara Radice, Milano 1981. 7 Io., Design dove vai, in •Modo», n. 1, 1977. a F. RAGGI, dall'intervento al convegno di Aspen (Colorado, USA) sul tema Italian Idea, giugno 1981. 9 R. RINALDI, Il progetto illustrato, in •Modo», n. 42, 1981. 10 ID., dal catalogo Il mobile infinito, Milano 1981. 11 A. MENDINI, in • Op. cit.». 12 B. RADICE, I mutanti, in • Casa Vogue », ottobre 1981. 13 R. BARILLI, Arredo alchemico, in • Domus», n. «J7, 1980. 14 E. SorsAss, da Catalogue for decorative furniture in Modem Style, Milano 1980. 15 Ibidem. 16 B. RADICB, Elogio del Banale, cit. 11 Ibidem. li B. GRAVAGNUOLO, [ linguaggi ereditati, in •Domus», n. 619, 1981. u A. MENDINI, Architettura addio, Milano 1981, p. 68.
20 E. SO'ITSASS, cit. da BARBARA RADICE nell'introduzione al catalogo
Memphis the New lnternational Style, Milano 1981. 21 A. BRANZI, Usare come macchina anche la propria mano, in e Ri
nascita•, n. 41, ottobre 1981. 22 P. NAVONI· B. ORLANDONI, Architettura e radicale», Milano 1974, p. 68. 23 B. RADICE, Memphis the New lnternational Style, cit. 24 G. DoRFUS, Si vendono anche i mobili « impossibili•, in e Il Cor riere della Sera», 3-1-'75. 25 R. DE Fusco, Avanguardia e sperimentalismo nella storia dell'ar chitettura moderna, in L'arte Moderna, Milano 1967, p. 108. 26 G. K. KoENIG, Con la presentazione della collezione Memphis, l'avanguardia internazionale tenta un'operazione culturale e anche com merciale. Come finirà?, in «Modo•• n. 46, 1981.
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Dalla « ruminazione» dei guerrieri greci all'«insonnia» dell'estate romana ANGELO TRIMARCO
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1. Dal classico all'antico il cammino è lungo e difficile. Rimuovere, ·infatti, il privilegio del classico non è stata un'impresa tranquilla, visto che ha resistito agli attacchi di Nietzsche e degli antropologi anglosassoni dei primi del '900. Visto che la sua fortuna, la sorte del classico, appunto, si è intrecciata a perverse ideologie nazionalistiche. Soltanto negli anni Sessanta il classico lascia il campo all'antico: a uno spazio che incomincia ad essere indagato secondo teorie, modi e tecniche diversi radicalmente da quelli consueti. Cosl, alla filologia, la scienza luminosa di Wilamo witz, e allo sguardo totalizzante di Jager, si affiancano via via, sorpassandole, le istanze del marxismo e della psicoanalisi, dello strutturalismo e dell'antropologia. Col risultato di rag giungere due obiettivi, scrive adesso Vegetti: Il primo, consi stente in una lettura integrata di 'mito e pensiero' come ele menti di una 'cultura' in senso antropologico (strutturalista o genetica che fosse questa antropologia), il secondo, nell'in terpretazione di quella stessa cultura come esempio forte di funzionamento dell'ideologia in società precapltalistiche ( di cui intanto si studiavano i modi di produzione e di ripro duzione ). Insomma, anche l'antico si misura con Marx, Freud, Weber, Lévi-Strauss, con la semiotica (con le scienze umane, in definitiva). E le sorprese non mancano mentre si ridefini scono i confini tradizionali. Intanto si scopre il diverso là dove si supponeva pacificamente l'identico, leggendo ad esempio il
sacrificio greco non come un preludlo a quello cristiano ma nel contesto di pratiche alimentari fortemente ritualizzate; o, all'opposto (si vede), nel coltello del macellaio-sacrificatore uno dei padri fondatori della nostra tradizione scientifica. I nomi che hanno lavorato (o stanno lavorando) nei terri tori dell'antico, che oramai investe il Medioevo, sono da tempo conosciuti: si chiamano Vemant, Detienne, Vidal-Naquet, e qui da noi per ragioni diverse almeno Carandini e Vegetti. I loro libri recano titoli che sono emblemi suggestivi, I giar dini di Adone o Dioniso e la pantera profumata, Il coltello e lo stilo o La cuisine du sacrifice en pays grec, L'anatomia della scimmia. Naturalmente da questi giardini e da queste scimmie si levano tanti problemi, vicini ai nostri, che, recen temente, Vegetti ha riassunto come di seguito: come si gioca... la partita fra i poteri e i saperi? Come si articolano mito e rito?... Come funziona la rete delle normalizzazioni e degli interdetti, come si dislocano saperi alti e bassi, forti e de boli?... Quali linguaggi si possono usare, e a quali condizioni, per parlare di questi problemi all'interno dJ campi culturali e sociali del tutto estranei rispetto al nostro? 1• :e. appena un elenco al quale bisognerà aggiungere il di battito, dopo Heidegger, su Parmenide e l'oblio dell'essere, sulla metafisica e l'immagine felice di Colli sulla sapienza greca. Solo così si potrà comprendere l'interesse per l'antico e la sua nuova fortuna in tempi come i nostri, l'importanza di queste nuove antichità per noi, il loro fascino e la loro carezza. 2. Un interesse e una suggestione che sfiorano, evidente mente, dimore raffinate e sofisticate, che non diventano (e non potevano diventare) di massa. Ma che hanno preparato, questo sì, quell'aria di famiglia perché oggetti ad alta tensione simbolica potessero diventarlo. Come nel caso dei Bronzi di Riace. Venuti come Venere dal mare, dallo Jonio, sono rimasti, come tante altre testimonianze dell'antico, nei depositi di un museo, quello di Reggio Calabria, la città bagnata da due mari, in fondo allo stivale. Anche questa volta si è ripetuto,
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tatori (italiani, europei, giapponesi, d'oltreoceano), convenuti a Firenze o a Roma, a Reggio Calabria come a Betlemme. E non gliene importa. Eppure intorno ai Bronzi di Riace è fiorita una leggenda, sono nati nuovi riti e nuovi miti. Il viaggio a Firenze o a Roma, a Reggio Calabria è diventato un pellegrinaggio, i visitatori hanno indossato gli abiti del Devoto, il museo si è trasformato in tempio, la curiosità si è imparentata con la religiosità. Uno scrittore come Giorgio Manganelli ha raccon tato la vicenda di una coppia dilacerata dai Bronzi di Riace. Lei un giorno è scappata con quel guerriero senza l'occhio lasciando Lui, inconsolabile, a ripensare la storia dell'occhio e i suoi misteri. Mentre, proprio come accade a Lourdes o da Padre Pio, in una gara generosa, i Bronzi di Riace sono stati realizzati in argento puro su riproduzione dello scultore Paolo Cerrini. Della loro immagine, poi, esistono riproduzioni da fare l'invidia di Sant'Antonio o della Madonna del Rosario. Che dire infine dei giapponesi e del loro sottile erotismo? Loro, addirittura, per l'impero dei sensi, hanno in"entato i Bronzi di Riace con pene eretto (a richiesta, si capisce). E qui da noi, che di elettronica non capiamo molto, ma che abbiamo il cuore gonfio di melodia, abbiamo dedicato a questi eroi venuti dal naufragio un inno, che Mino Reitano, di puro sangue calabrese, modula come sulla lira. 3. Ma cosa ne pensa dei Bronzi di Riace chi ha letto Detienne e Vernant, chi ha sofferto sulla nascita della tra gedia, chi frequenta l'oltrepassamento della metafisica, chi la vora l'antico come un insieme di « storie dalla terra»? Il so spetto è che cl troviamo di fronte, tra l'altro, a qualcosa che non solo la nostra esistenza ma la nostra cultura, mal grado sforzi contrari, continuano a rimuovere e che ora ritorna con grande· autorità. Questi bronzi raffigurano due corpi nudi, belli e felinamente aggressivi; ma non sono ap punto la nudità corporale, la bellezza e l'aggressività, che è quanto dire la violenza, gli oggetti di una nostra incessante rimozione? Ma non solo la nudità, la bellezza, ci è estranea, è lontana dai modi della nostra cultura, aggiunge Alberto
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Boatto. C'è dell'altro ancora: accade che di fronte a questi bronzi cadono prontamente tutte le incertezze: questi guer rieri non solo hanno come fine la guerra, ma realizzano se stessi, la loro virtù, l'«aretè », nella guerra, e lo scambio, il dare-avere della morte, si compie in loro attraverso un esercizio diretto, corporale, «artigianale", scarsamente me diato ancora dalla lancia, dalla spada a doppio taglio, dal l'arco e dalla fionda. Ecco presentarsi, così, una seconda estra neità, un'altra distanza: questi guerrieri occupano un tempo anteriore a quel momento paradossale in modo sorprendente in cui la violenza, pur continuando a tenere il centro effettivo del mondo, subisce come uno spostamento verso i margini sia della coscienza come della stessa attività bellica, delegata come viene per la prima volta alla mediazione di un'arma 3• Dunque, per Boatto, queste maschere della fatalità e, assieme, figure del caso sono segni del rimosso, un sintomo che, forzandolo, è anche un avvertimento: la notizia che i greci non sono come gli altri, che la Grecia è un privilegio. Una forzatura che, naturalmente, non appartiene a Boatto ma che è ritornata, rafforzata da questi due guerrieri fatti di polpa diversa, modellati nel bronzo e nel rame, nell'argento e in un impasto di calcare e vetro. Il rischio è che un'eccessiva pratica della differenza non significa soltanto distanziare gli antichi fino a renderli o archetipi o perduti in un'opacità inde cifrabile. Significa anche smarrire uno dei fili d'Arianna necessari a percorrere il nostro stesso labirinto. La consa pevolezza della differenza non può insomma tradursi in una ideologia dell'indifferenza dell'antico 4• Non può tradursi nep pure, sul filo di una tradizione collaudata, nell'aspirazione ad un'arte come distanza e ricordo, ad un elogio senza condi zioni del Bello. Tanto che si possa parlare del Bello come riflusso 5•
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4. Evidentemente i Bronzi di Riace, al di là dei problemi critici che sollevano, hanno posto (e pongono) la questione del loro essere diventati spettacolo, oggetto di consumo. Che è poi quello che ci riguarda. Lo spettacolo dei Bronzi di Riace e, insieme, l'Antico come spettacolo. Ma, francamente,
il consumo dei Bronzi di Riace è avvenuto (bisogna ricono scerlo) secondo le stesse regole patite dalla Venere di Milo o dalla Vittoria di Samotracia, dallo Zeus dell'Artemision. Questo è vero, i guerrieri restituiti dallo fonio hanno teso oggi all'estremo le regole del gioco, i modi di fare. Nikolaus Himmelmann ha raccontato di recente con gusto e ironia il rapporto moderno con l'antichità: una relazione governata dal turismo e dalla psicologia di massa, dalla leggenda della Grecia e dal viaggio in Italia come ritorno alle origini, alle radici dell'umano. Finché l'oggetto, l'edificio, l'opera d'arte ecc., mantengono ancora la loro funzione originaria, la ricezione da parte del pubblico non è problematica. Spesso la ricezione non avviene affatto come esperienza artistica, ma attraverso la fruizione per esempio dell'edificio, un dialogo religioso con ciò che è rappresentato nel quadro e così via. Solo quando la funzione va perduta e l'oggetto diviene pezzo da museo, la sua ricezione perde la solidità dell'orientamento e diviene problematica. La perdita del contesto e delle funzioni originarie sono, dunque, per Himmelmann, le cause della malattia: quel ma lanno che Benjamin ha chiamato teologia dell'arte. Si po• trebbe solo dire che questa disposizione contemplativa, che una determinata immagine religiosa chiedeva per sé nel suo contesto originario, è diventata ormai un modo generalizzato della ricezione estetica 6• Ora, se il destino dei Bronzi di Riace era già segnato da una tradizione tenace, esistono certamente fatti specifici, de terminati, che ne hanno favorito un consumo così selvaggio, uno spettacolo tanto aggressivo. Salvatore Settis, che ne ha indagato i motivi con crudeltà, avverte che per almeno tre ragioni i Bronzi di Riace hanno messo in rilievo errori e fallimento non di e questo ,. o di e quell • 'archeologo, ma di un modo ( che è il più diffuso in Italia) di intendere la fun. zione e il mestiere dell'archeologo. Sotto tiro è, allora, la stessa disciplina dell'antico, l'archeologia. E per tre buone ragioni, si è detto. Vediamole insieme. La e prima• è l'assoluta, disar mante incapacità di previsione delle reazioni del pubblico... Questa incapacità di previsione spiega ampiamente la man- 27
si specchiano in 'cose' e 'frammenti' che si affermano orgo gliosamente come tali: il permanente si unisce in un rapporto strano e perverso con l'assoluta e vertiginosa impermanenza 10• Storia ed effimero, permanenza e impermanenza si pareg giano, tanto da divenire omogenei, tanto che le diverse scan sioni temporali si cancellano e si annullano. Si direbbe con Nietzsche che il passato, la memoria, si appendono al piuolo del presente se non proprio dell'istante. L'invito, dunque, non è a dimenticare il passato, secondo la raccomandazione nietz schiana (c'è un grado d'insonnia, di ruminazione, di senso storico, in cui l'essei-e vivente riceve danno e alla fine perisce, si tratti poi di un uomo, di un popolo o di una civiltà) quanto a farlo risplendere sulla superficie dell'oggi. Il museo, come deposito della storia, il Beaubourg, come cattedrale del ca duco, l'estate romana, come infinito intrattenimento, ci si presentano come luoghi in cui il senza tempo della memoria e gli istanti del presente combaciano. Luoghi in cui non avviene il gioco fra dimenticanze e ricordo, fra insonnia e sonno. Ora bisogna ricordare ogni cosa. La serenità, la buona coscienza, la lieta azione, la fiducia nel futuro - tutto ciò di pende, nell'individuo come nel popolo ..., dal fatto che si sappia tanto bene dimenticare al tempo giusto, quanto ricordare al tempo giusto 11• L'indifferenza del tempo lavora, dunque, il passato come il presente e lo consegna allo spettacolo e al consumo. Storia ed effimero si inseguono e s'intrecciano, si pareggiano. Con l'altra conseguenza (non trascurabile) che nella « guerra quoti diana " scatenata dall'Oro del Perù o da Kokoschka, da David o da Mondrian l'arte attuale scompare quasi del tutto, avverte Menna, anche il lavoro critico... guarda sempre più indietro trasformandosi in un lavoro piuttosto accademico 12• Cosl, il presente dell'arte, la sua capacità di ricerca, dirompente, si disperde, annebbiata, nel senza tempo del passato come nel passo rapido dell'effimero, resta schiacciato tra un'oppri mente permanenza e il soffio dell'impermanenza. Così, a sof frirne e a intristirsi, restano, solitari, l'arte e il lavoro critico.
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I M. VEGEITI, Nuove antichità: metafore dell'immaginario, produ zione di saperi, figure del sacro, in e aut aut», luglio-ottobre 1981, pp. 2, 3 (il numero, interamente dedicato alle Nuove antichità, reca i
contributi di Vernant, Lanza, Sircana, Casagrande, Vecchio, Repellini, Ferrari, Vegetli, Crisciani, Detiennc, Burkert, Sissa, Le Goff). 2 K. MARX, Introduzione a • Per la critica dell'economia politica», appendice in Per la critica dell'economia politica, trad. it., introd. di M. Dobb, Roma 1971, p. 199. J A. BoATIO, Due veri « diversi», in « Il Messaggero», lunedl 13 lu glio 1981. 4 M. VEGETTI, / greci sono come gli altri? I:. vero, ma è vero anche il contrario, in e Il Manifesto», domenica 5 luglio 1981. s M. CRISTOFANI, / bronzi di Riace: il Bello e il ( ri)flusso, in e Pro spettiva », n. 25/1981. 6 N. HIMMELMANN, Utopia del passato, Archeologia e cultura mo derna, trad. it., introd. di S. Settis, Bari 1981, pp. 79-80. 7 S. Scrns, «Introduzione» a N. HIMI\-IELMAN:-1, Utopia del passato, cit., pp. 15-16. 8 S. MOSCATI, Un «frontone» come i bronzi di Riace, in e Corriere della sera », domenica 27 dicembre 1981. Si cfr. anche gli articoli di DARIO MIC\CCHI (Gli etruschi sfidano i bronzi) e di MARIO VEGETTI (Perché è moderno questo amore per l'antico), in e L'Unità», venerdl 8 gennaio 1982. 9 A. CARANDINI, Storie dalla terra. Manuale dello scavo archeologico, Bari, 1981. 10 F. RELLA, Cultura dei centenari. Funerali della cultura?, in e L'Uni tà », martedì 3 novembre 1981. 11 F. NIETZSCHE, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, in Opere, voi. III, tomo I, trad. it., Milano 1972, pp. 264-66. 12 F. MENNA, / critici fanno la guerra e gli artisti ci rimettono, in e Paese Sera», domenica 3 gennaio 1982.
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Fortuna degli slogans
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GIORGIO PIGAFETTA
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In un testo del secondo dopoguerra, Walter Gropius scriveva: Lo « slogan • 'funzionalità uguale bellezza' è vero solo a metà 1• La frase riportata - come, del resto, tutto il libro dal quale è tratta - rappresenta un momento di ripen samento e di critica nei confronti di certi aspetti radicali del passato pionieristico e fideistico del Movimento Moderno. Nel caso particolare, Gropius, oltre a riconoscere la limitatezza di una formula troppo apodittica e intenzionalmente ignara delle molteplici valenze riconducibili nella sfera estetica, implici tamente pone l'accento sul ruolo comprimario degli slogans nella vicenda del razionalismo. � questo secondo aspetto che, qui, ci interessa: lo slogan, il messaggio conciso, come strumento fondamentale per dif fondere presso il grosso pubblico - cioè, verso i fruitori i principi della nuova architettura. Inoltre si è preferito limi tare l'analisi al solo Movimento Moderno - identificato nella più comune e tradizionale accezione storiografica 2 - sia per brevità, sia per non sollevare problematiche che sarebbero inevitabili con l'intersezione e il raffronto tra esperienze e indirizzi architettonici distanti fra loro e disomogenei. Co munque, questa scelta troverà più chiara giustificazione nella parte conclusiva di questo scritto. Certo, Benevolo, per esempio, sostiene validamente il pri mato dell'opera nella divulgazione delle istanze razionalistiche e sottolinea come l mezzi considerati più adatti a persuadere U pubblico non sono dunque le mostre, l libri, l manifesti,
ma gli edifici medesimi 3• Tuttavia crediamo che, comunque, l'importanza dello slogan non vada misconosciuta. Evidentemente esso non esaurisce in sé il compito divul gativo di un programma così complesso come quello che una « nuova architettura » può sottendere. Tuttavia ne prepara il terreno, lo rende meno ostile, come ben sapeva Le Cor busier. In un articolo scritto « a caldo», in occasione della scom parsa di quest'ultimo, De Fusco ebbe a sostenere: ridotti ed esemplificati l problemi nel loro tennlnl estremi, egli [Le Corbusier] aveva trovato l modi piiÌ adatti alla loro diffu. sione, intuito l'enorme forza di penetrazione degli « slogans ,. e della loro visualizzazione presso l'uomo medio e gli ammi nistratori 4• D'altronde il preponderante ruolo del costruito, nell'asserzione di una tendenza, nella nostra epoca non si può dissociare da paralleli veicoli di comunicazione di massa dell'immagine stessa del costruito - foto, disegni, filmati, ecc. - sempre accompagnati da didascalie di commento. Tanto più, se negli assunti di chi costruisce vi è, innanzi tutto, l'anelito all'internazionalismo che rinuncia, perciò, alla pre tesa che l'opera debba esser vista da ognuno, personalmente, in loco. t:: chiaro che la scelta non poteva essere indolore e neu trale: rimettendo nelle mani dei detentori dei mezzi di comu nicazione di massa un elevato potere, inevitabilmente ne auto rizzava l'implicita alleanza; e quando non è direttamente il potere politico - come in Italia o nell'Unione Sovietica a disporre dei detti mezzi, è il potere economico e industriale che ne occupa i canali. Che la diffusione e il successo di una linea di pensiero - nel caso particolare l'idea stessa di archi tettura, di casa, di ambiente - dovessero essere subordinati alle esigenze dell'industria e alle « scommesse » dell'editoria, era, certamente, una « triste » verità che, proprio in quegli anni emergeva in tutta la sua crudezza e con la quale i primi razionalisti dovettero fare i conti. In questa ambigua alleanza il Movimento Moderno non falll. Gropius, Mies, Loos, Le Corbusier, _erano ben consci in prima persona che il « messaggio ,. doveva precedere il « gu- 33
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grande guerra - trovasse nella recente civiltà tecnologica le « indicazioni » per le proprie ricerche e per i propri messaggi. Era, perciò, egualmente necessario, insieme alla ricerca dei principi, trovare qualcosa che, ancor prima che nelle opere costruite, rendesse edotto dei postulati fondamentali - nel modo più chiaro e veloce possibile - l'« uomo qualunque», facendolo già partecipe, come consumatore, di un prodotto che era, in realtà, ancora a venire almeno a grande scala. Di fatto i canali per questa missione non parevano man care. Da un lato la stretta collaborazione con le industrie, col capitale privato, rendeva facile sia l'appropriazione di nuovi temi progettuali, le fabbriche appunto - prlmlzie ras sicuranti dei tempi nuovi 6 - sia la loro volgarizzazione, acco gliendo in queste ultime e negli uffici milioni di operai e di impiegati. Dall'altro lato, anche l'organizzazione statale, parti colarmente in Germania, nel clima di commistione fra isti tuti e ratio capitalista 7, diventa strumento e padrone di questo nuovo ideale architettonico anche se, sovente, nelle asserzioni ufficiali - nei concorsi in particolare, meno nelle esposi zioni - tende ad optare per un classicismo ormai mummi ficato. Ma, al di là degli « alleati » istituzionali, l'intuito modernista dei « maestri» si rivolge ad un'altra manife stazione particolarmente distintiva della nostra epoca: la pub blicità a grande scala, il messaggio di massa. Sebbene già nella Gazette di Renaudot o nel cartellone ot tocentesco vi fosse in luce la potenzialità del canale mass mediologico, è solo con il XX secolo che si colgono appieno la forza e i metodi di un efficace slogan. La sua apoditticità, semplicità espressiva e « gratuità» - del resto già rintrac ciabili nel modo stesso di scrivere di un Le Corbusier, per esempio - quando non ne uccidono il potere comunicante ne fanno la fortuna: proprio puntando su questi requisiti gli architetti razionalisti intesero farne un co-protagonista delle loro opere. Per di più è da tener presente che lo slogan non fu visto da essi solo funzionalmente alla pubbli cizzazione di nuovi principi; non fu uno strumento valido ma « estraneo » alla filosofia del Movimento Moderno e, quindi, a forza introdotto nel metodo. 2, esso stesso, segno di una 35
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reificazione e mercificazione dell'architettura, liberata da quell'aura di sacralità e individualità irripetibile che, ancora nelle opere di un Horta o di un Poelzig, era attributo pri mario. Alla stessa stregua di come si pubblicizza un colletto da camicia, un brandy o una vettura, si veicola un concetto architettonico, si rende familiare la « nuova casa ». Per esem pio, uno dei più celebri slogans - « La casa è una macchina da abitare » - riduce l'abitazione proprio ad una « macchi na», ad un qualsiasi prodotto in serie dell'industria e, impli citamente, ma inevitabilmente, ne autorizza, con l'enunciato stesso, la divulgazione concettuale a mezzo pubblicitario. L'alleanza concreta tra industria e architetti - oltre che nella realizzazione pratica di edifici - viene pubblicamente sancita al Salon d'Automne del 1922, sotto l'egida dello « slo gan» la grande industria si impadronisce dell'alloggio 8• Per converso, il problema di essere inteso dal grosso pub blico è, per l'architetto contemporaneo, oltre che un'esigenza vitale anche, e soprattutto, una finalità, una gratificazione e una convalida morale del suo operare. È un trionfo per Gropius, nella Valutazione dello sviluppo dell'architettura moderna, che il grosso pubblico, un tempo indifferente a qualunque problema concernente l'edillzla sia stato tratto dal suo torpore e che sia sorto un interesse personale per l'architettura come per qualcosa che riguarda ciascuno di noi nella nostra vita quotidiana 9• Lo stesso linguaggio dei manifesti e dei periodici rincorre principalmente lo scopo di una totale ed essoterica compren sibilità. A mo' d'esempio si guardi, a questo proposito, al passo di Le Corbusier che illustra e divulga un altro slogan: e La libertà mediante l'ordine». Per sostenere la necessità di un « ordine » nella libertà, che garantisca ad ogni uomo, indipendentemente dal proprio ruolo sociale o dalla propria prestanza fisica, una soglia mi nima di eguaglianza al riparo delle leggi, Le Corbusier aveva a disposizione una vastissima letteratura, colta e raffinata, intorno alla filosofia dello « stato di diritto». Per un accademico, per chi avesse voluto rivolgersi ad un J>Ubblico
ristretto ed eletto culturalmente, gli esempi sarebbero stati tratti da Hegel, Platone, Ulpiano, Hume, Rousseau ecc. Ma Le Corbusier si rivolge all'uomo della strada, dandogli del « tu», ed esemplifica l'importanza di quel concetto ricorrendo all'immagine di precedenza nell'ordine che dà il biglietto numerato che ci si procura alla fermata dell'autobus 10. Gli slogans, quindi, ben rientrano nella filosofia del« Movi mento» e si situano come punta estrema di un intendimento esemplificativo e divulgativo, come minimo indispensabile per cogliere l'essenza dell'architettura razionalista. Resta da vedere se la loro indubbia efficacia sia da attri buire in maggior misura al « contenuto » in essi sopito, alla nuova forma divulgativa che li contraddistingue o alla strut tura stessa delle frasi in cui si concretizzano. In generale è difficile, se non assurdo pretendere di individuare, in feno meni così complessi e implicati, chiare e ponderabili moti vazioni; pur tuttavia, senza misconoscere la possibilità di al tre interpretazioni, crediamo che la loro forza non sia tanto nella validità dei concetti veicolati, quanto nella forma in cui si presentano. Sovente, pensiamo, lo slogan non enuncia principi assolutamente nuovi o, quantomeno, tali da giusti ficare intrinsecamente il successo del programma da esso sostenuto. Anzi, lo slogan ci pare abbia funzionato proprio in virtù della sua genericità e del suo estremismo, racco gliendo, come coagulo di sensazioni e come « bandiera », istanze soggiacenti nella società post-bellica, incline alle radi calizzazioni. Sia detto per inciso, identico fu il metodo di propaganda delle « avanguardie » che, pur essendo fenomeno diverso dal Movimento Moderno, ebbe tra le sue file alcuni dei « pionieri » pevsneriani. Il tratto distintivo degli slogans - partoriti, fra l'altro, da un ristretto gruppo di persone che si conoscevano tutte, o quasi, personalmente - è consistito nel formular concetti mediante opposizioni e accostamenti di aggettivi tradizionalmente ritenuti antitetici o, comunque, non facilmente abbinabili; in altri casi, sono stati ideati facendo ruotare pochi termini intorno ad una parola « magica » nella quale, in realtà, si condensa tutta la pregnanza del messaggio. Prendiamo, per esempio, il più famoso, forse, di questi 37
slogans: «La forma segue la funzione». Esso rappresenta una riduzione esplicita di un antichissimo problema dell'archi tettura: la giustificazione della forma, il perché della bellezza. Da sempre, quali fossero i canoni per determinare in modo «oggettivo» le leggi che governano la forma delle fabbriche - e, conseguentemente, trovare leggi per la «bellezza» è stato problema centrale degli studi estetici 11• Il Movimento Moderno non lo risolve ma lo minimizza ricacciandolo nella sfera dell'utile, del concreto, ammettendo, per implicito, che, quest'ultimo, sia univocamente ed oggettivamente sempre de terminabile. Se la radice del concetto non è nuova non lo è, tantomeno, la forma con cui è espresso. Già il fatto che sia incerta la paternità di una simile frase - c'è chi la attribuisce a Greenough e chi, come Gropius, a Sullivan - ne indica la nebulosa cronologia; ma che nessuno ne revochi in dubbio l'importanza divulgativa per il Movimento Moderno è estre mamente significativo. Le ascendenze filosofiche di questa frase, che Collins u rin traccia nel pensiero settecentesco anglosassone e francese, sono senz'altro vere; ma non sono tanto esse a render ragione della sua forza, quanto la volgarizzazione di alcuni aspetti di quelle stesse filosofie e del loro sviluppo ottocentesco avvenu ta nei primi decenni del novecento. :e. in quel «segue» - che sta per «ne deriva», «ne consegue», «ne è naturale evolu zione» - il punto di forza dello slogan in questione. In quel verbo si racchiudono un evoluzionismo e un meccanicismo volgari, ridotti a «spiegazione » di ogni cosa e, quindi, anche dell'architettura. Se le leggi della forma «seguono» quelle della funzionalità non ci sono problemi: automaticamente, dal semplice rispondere a queste ultime seguiranno inesora bilmente le prime. Ha poca importanza sapere che, per Le Corbusier o Gropius, questo slogan sia solo l'esposizione sin copata di un'analogia metodologica e che la sua portata ri
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guardi esclusivamente uno dei fondamenti dell'architettura e non il suo compimento. Le «risonanze profonde» che Le Corbusier riserva all'Architettura - con la «A» maiuscola, come egli scrive - rimangono nell'etere, attraverso lo slogan corre l'«Estetica dell'ingegnere». In effetti è quella frase,
nella sua concomitanza con la volgarizzazione delle teorie scientifiche da cui proviene, che contribuisce in modo deter minante a supportare il nuovo gusto, la nuova estetica presso il grosso pubblico. Non diversamente possiamo riguardare al già citato « La casa è una macchina da abitare»; anzi pensiamo possa consi derarsi un corollario del precedente. Le Corbusier aveva con densato in questa breve frase un intero capitolo, se non tutta l'opera, del suo libro-manifesto Vers une architecture. Anche in questo caso l'idea non è nuova, e rientra tematica mente nella storia di quella « analogia meccanica» sotto la quale il già citato Collins raccoglie i diversi contributi ideo logici in questa direzione: anche nella scelta dei paragoni Le Corbusier non si distacca molto dalla precedente tradi zione - fatta salva, evidentemente, la novità storica assoluta di oggetti meccanici come gli aeroplani o le vetture auto mobili - e, anzi, in più punti pare ripercorrere aporie già note ai suoi predecessori. L'impasse fondamentale di questa «analogia» rimane in Le Corbusier, come in Viollet-le-Duc e in altri, la liceità del passaggio dalla macchina all'architettura, alla superiorità della quale, in fondo in fondo, non si vuol rinunciare. Quale sia il limite oltre il quale la macchina cessa di essere un volgare prodotto « da ingegneri», rispondente solo alla pur alta legge della economia, non è dato di sapere negli scritti di Le Cor busier. Semplicemente, con un atto di demiurgica certezza, egli rimuove anche quei residui dubbi ancora rintracciabili in Van de Velde non più di trent'anni prima. Non solo Le Corbusier non attende più, come l'architetto fiammingo, la bellezza che guiderà le possenti braccia d'acciaio delle macchine u, ma la ritrova in esse stesse, nel loro trionfo; e, come lui, le masse. I tempi erano effettivamente maturi per dare forza e consenso allo slogan: la produzione in serie, con i suoi immediati vantaggi, era l'argomento vincente implic�to nel messaggio corbusieriano, era il paragone felice che, spontaneo, sorgeva tra «casa» e «macchina», tra fatica millenaria e futuro af francamento dalla schiavitù del lavoro pesante. La macchina portava con sé il vento d'eguaglianza, di libertà, di tempo 39
. libero, di sicurezza; in altre parole, il mito occidentale e democratico che nasceva dalla rovina degli Imperi centrali. Delle gravi profezie di un Simmel, di un Nietzsche o di un Heidegger neppure l'ombra: l'eccitamento e la frenesia del e moderno» pervadono gli architetti, le leggi dell'economia si sfumano con quelle dell'etica. A ben guardare, infatti, sono quasi sempre tematiche di rigore e di obbedienza e regole di « economia » - chiara mente, nel senso più vasto del termine - quelle che infor mano, sostanziano e, soprattutto, verificano le posizioni degli architetti moderni. Attraverso quelle leggi essi tendono a ricostituire un'etica architettonica o, meglio, a innestare un nuovo atteggiamento morale nei confronti dell'architettura e dei suoi fruitori. Emblematico, in questo senso, è il celeberrimo motto di Mies van der Rohe e nel meno c'è il più». Questo slogan presenta due facce. Una, esplicita, tutta rivolta all'attenzione tecnologica che rivela, nella perfezione del particolare, l'intel ligenza dell'uomo. Un'altra che vede nel costruito una meta fora della società con tutte le sue interne gerarchie e impone all'architetto di soddisfare, armoniosamente, anche la più remota ed umile esigenza. Recentemente, forse per enfatiz zare quest'ultimo aspetto, si è voluto associare allo slogan in questione un'altra frase ricorrente di Mies: « nel parti colare c'è Dio» 15• Frase ambigua nel suo duplice e contrad dittorio riferimento ad una filosofia della natura come mani festazione della perfezione divina e al noto insegnamento evangelico. Ma, ove si rifiuti un'identificazione delle leggi na turali con quelle divine - il che renderebbe, d'altronde, i due motti l'uno parafrasi dell'altro - si presenta un incom ponibile equivoco. Da una parte l'invito è a guardare al più misero, al più e insignificante», come segno apparentemente contraddittorio della grandezza e della bellezza di Dio, come sfuggente alla sua legge e nel quale solo la fede permette di trovare armonia divina. Diametralmente all'opposto è lo slo gan miesiano cosl come è comunemente noto. In esso il e particolare», il e meno importante», riflette l'adeguamento 40 ad una legge generale che va osservata in ogni momento, total-
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A questo proposito, basta confrontare un breve passo della kantiana Critica del giudizio per ravvisare non solamente un « loosiano» attacco all'orpello nella costruzione degli edifici - poiché un eccesso decorativo allontana l'immagine dell'edi ficio dal suo scopo, da ciò che esso deve rappresentare - ma anche il paragone con la primitiva ingenuità dei neozelandesi che ricoprono il loro corpo con tatuaggi - cosa a noi inter detta in quanto contraria al nostro evoluto concetto di uo mo 18• Per Kant, però, tutto questo non ha l'aria di una « sco perta», non è un messaggio da lanciare ma, semplicemente, è un esempio, un appello al senso comune per introdurre la differenza che egli ravvisa tra pulchritudo vaga e pulchritudo adhaerens, è un evidente e semplice passaggio all'interno della sua costruzione speculativa. Per Laos assurge ad argomento fondante e, contempora neamente, ad esito del suo pensiero; è, addirittura, distintivo della sua figura nella storia recente. Ciò proprio in virtù di una « riduzione » delle problematiche estetiche e in virtù della caduta di tensione e approfondimento culturale che segnano l'avventura del Movimento Moderno, a tutto vantaggio della divulgazione e dell'incontro con il vasto pubblico. Lo slogan « ornamento e delitto » è nuovo - o Loos riesce a far credere che sia tale - proprio in quanto slogan, in quanto calato violentemente in un contesto culturale che, di per se stesso, ne rende ragione. Non è chi non veda come il suo successo sia da rintracciare nella nausea e nel rigetto cui aveva portato l'esasperazione decorativa della decadente tradizione viennese e, più in generale, europea; nausea e ri getto che gli conferivano « pubblica verità». � evidente, · inoltre, che la validità normativa di un tale slogan, rimane legata ad una sua interpretazione estremistica, ove qualsiasi elemento architettonico che ricordi, anche lontanamente, una decorazione o un superfluo abbellimento viene eliminato. Re sta poi da considerare, in quest'ottica, sino a che punto le bianche pareti della casa Steiner, la totale assenza in essa di cornicioni, o per contro le cornici della casa Strasser, siano o no cedimenti delittuosi. Il metodo, del i:esto, ci pare funzionare, seppur con diverse
Un'indicazione di risposta potremmo trovarla in quella generale e rimozione » degli antichi problemi metafisici, che l'evo moderno ha operato nel campo delle scienze umane 19, e nella riattualizzazione, nello
slogan, dell'antico enigma pre
aristotelico così come lo illustra Colli 20• La letteratura che muove con questi riferimenti è, del resto, poco estesa e cre diamo, anzi, che applicata al tema specifico sia ancora inesi
stente; ci fermiamo, così, alle soglie di una pista ancora da battere.
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1 W. GROPIUS, Architettura integrata, trad. it., Milano 1968, p. 22. 2 Cfr. comunque, G. D'AMATO, I. PRozzru.o, L'espressione «Movimento Moderno•• in «Op. cit. >, n. 52, 1981. 3 L. BENEVOLO, Storia dell'architettura moderna, Bari 1973, p. 509 . 4 R. DE Fusco, Le Corbusier e noi, in «L'Architetto», 10, 1965. s Gropius era ben conscio di questo progressivo allontanamento e ne aveva indicato la causa nel proliferare del costume accademico. Scriveva (Tl1e New architecture and the Bauhaus, London 1935 , p. 61): «The rise of the academies spelt the gradua! decay of the spontaneous traditional art that had permeated the life of the whole people. Ali that remained was a «salon art "• entirely remote from everyday !ife, which by the middle of the XIX century had petered out into mere exercises in individuai virtuosy •· 6 LE CoRBUSIER, Verso una architettura, trad. it., Milano 1966, p. 20. 7 Cfr. M. CACCIARI, Walther Rathenau e il suo ambiente, Bari, 1979, e, dello stesso A. Pensiero negativo e razionalizzazione, Venezia, 1978. 1 G. GRESLERI, L'Esprit Nouveau, Milano 1979, p. 28. Per quanto riguarda l' «alleanza • di Le Corbusier con l'industria e il ricorso esplicito alla utilità propagandistica dello slogan si veda, nel testo qui citato, pp. 50-53. 9 W. GROPIUS, Architettura integrata, cit., p. 81. 10 LE CoRBUSIER, Sulla libertà mediante l'ordine, in Urbanisme, Parigi 1924, p. 203, cit. in G. GRESLERI, cit., pp. 117-119. 11 Lo slogan in questione si riallaccia a doppio filo sia alle fortune del Razionalismo contemporaneo sia alla più vasta vicenda del «funzio nalismo • inteso come atteggiamento critico e progettuale che riponeva nell'adeguamento alle esigenze, appunto, funzionali il metro di valu tazione per l'architettura. Si suole muovere, nell'epoca moderna, il dibattito dai concetti espressi dal Lodoli, all'inizio del XVIII secolo, e raccolti dal ME.MMo, in Elementi di architettura lodoliana, Zara, 1834. Tuttavia è da distinguersi il concetto di «funzionalità• lodoliana da quello comunemente inteso nell'architettura contemporanea. Nel primo caso per rispondenza alla funzione si intende un adeguamento alle esigenze statico-costruttive, in opposizione al «capriccio • barocco e rococò. Nel secondo caso, invece, è vista come soddisfacimento delle
primarie esigenze abitative e biologic<H:omportamentali dell'uomo mo derno. Le diverse sfumature che il termine e funzionalità• ha assunto negli ultimi due secoli si intrecciano, d'altro lato, con i concomitanti muta menti di significato del termine « razionalismo•, nel più ampio alveo del quale ricade, appunto, il dibattito funzionalista. Noi, qui, ci occupiamo esclusivamente dello slogan già ricordato e della sua importanza nella storia del Movimento Moderno. Riman diamo, comunque, ai seguenti testi per una primaria informazione sul• l'argomento. E. R. DE ZuRKO, Origins of fimctionalist theory, New York 1957; P. CoLLINS, I mutevoli ideali dell'architellura moderna, trad. it., Milano 1973; L. GRASSI, Razionalismo architettonico, Milano 1966; J. RYKWERT, The First Moderns: the Architects of the Eighteenth Century, Cambridge, 1980. Inoltre, per uno specifico precedente tematico del l'argomento, vedi in R. DE Fusco, Architellura come mass medium, Bari 1967, il cap. I, La funzione senza forma, pp. 9-27; M. L. SCALVINI, Ornamento: semiosi?, in e L'Architettura•, n. 257 e R. DE Fusco, La « riduzione" culturale, Bari 1976. 12 P. COI.l.INS, I mutevoli ideali dell'architettura moderna, cit., pp. 204-214. u H. VAN DE VEUJE, Per il nuovo stile, trad. it., Milano 1966, p. 40. 14 Ci riferiamo, per esempio, a: G. Sil\L'>'!EL, Die Grosstiidte und das Geistesleben, trad. it., in AA.VV., Cillà e analisi sociologica, Padova 1968, col titolo, Metropoli e personalità;. F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, trad. it., Milano 1968, pp. 139-142; F. NIETZSCHE, Cosi parlò Zarathustra, trad. it., Milano 1972, pp. 155-157; M. HEIDEGGER, Essere e tempo, trad. it., Milano 1970, pp. 215-226. Per una connessione dei temi trattati dagli autori qui citati all'interno di una problematica architettonica cfr. G. PIGAFETTA, Linguaggio e poetica della metropoli, in « Indice», nn. 25, 26, 27, 1981. 1s Cfr. L. PAPI, Ludwig Mies van der Rohe, Firenze 1975. 16 Notoriamente il « motto" campeggiava sui cancelli d'entrata dei campi di concentramento nazisti durante il secondo conflitto mondiale. 17 Cfr. A. Loos, Parole nel vuoto, trad. it., Milano 1972, pp. 217-228; cfr. nello stesso testo, anche le pp. 234-238. 18 I. KANT, Critica del giudizio, § 16, trad. it., Bari 1972, pp. 73-75. 19 Cfr. E. BENEVENUTO, Materialismo e pensiero scientifico, Mi lano 1973. 20 Cfr. G. Cou.I, La nascita della filosofia, Milano 1980.
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