Op. cit., 54, maggio 1982

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

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l. L. Rossi

Disincantamento e restaurazione

'1. L. Sc.u.v1N1 Lutyens fra storia e critica •. ZAGARI

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Il Bauha1LS e il teatro tedesco

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Libri, riviste e mostre

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Ula redai.ione di questo numero hanno collaborato: Pasquale Belfiore, ,iuseppina Dal Canton, Claudia DonĂ , Cettina Lenza, Maria Luisa :kalvini, Sergio Villari.



Disincantamento e rest aurazione ALDO LORIS ROSSI

, Con le recenti consacrazioni ufficiali il post-modernismo (radical eclecticism) ha finalmente potuto offrire un'articolata immagine di sé. Anche se risultano poche le opere realizzate, in compenso esse sono potenziate da « megaton di scritti » 1 .e di disegni. Il tutto costituisce, comunque, un materiale esauriente per. la comprensione sia delle opere che della loro poetica. , Del resto oggi, per gli architetti, vale più che mai l'afa­ .risma di Kraus a proposito degli artisti: e Non ci sono pro­ duttori, ormai ci sono solo rappres�ntanti ,. 2• La civiltà del• l'immagine quantificata, più che delle realtà effettive, vive della rappresentazione spettacolare delle medesime. Schematizzando, gli obiettivi strategici del movimento sem­ brano i seguenti: 1 • 1) tracciare un'estesa mappa della Internazionale post-mo­ dernista, capace di documentare il superamento del M.M,, identificato tout court con lo « statuto· funzionalista •; • 2) ricondurre . sotto la sigla .suddetta tutte le ricerche orientate al « recupero del passato,. e dell'« immaginario col­ lettivo•· In pratica, puntare sull'unificazione dei complemen­ tari schieramenti: • a) della linea pluralista (dall'eclettismo neoaccademico all'ambientismo vernacolare); b) della linea rigorista (dal mom.imentalismo al riduttivismo metastorico e metafisico). Quindi sulla convergenza di queste con e) le poetiche ·fondate sulla r:iscoperta dei· « linguaggi banali,. (dal 5


bricolage pop all'area radical). Raggruppamenti che, com'è noto, fin'ora si escludevano a vicenda (vedi Documenta 5 di Kassel, '72; XV Triennale di Milano, '73; XXXVIII Biennale di Venezia, '78); 3) assumere strumentalmente la categoria della rivolta estetica e della provocatorietà, proprie dell'avanguardia, ri­ volgendole contro l'avanguardia stessa. Se questa è fondata su un «antistoricismo programmatico», la sua contestazione radicale può avvenire solo come negazione della negazione, e cioè come riscoperta della « presenza del passato ». In realtà, il post-modernismo è un fenomeno in atto al­ meno da un trentennio e criticamente noto dall'epoca del suo primo manifestarsi. E. Battisti scriveva, nel lontano '63: e siamo in un momento di recupero del passato ed è anzi .probabile che l'immediato futuro vedrà addirittura un revi­ val neo-liberty largamente generalizzato. Né manca chi affer­ ma, paradossalmente, che, poiché il modernismo è passato alla sfera dell'industriai design, della grafica, ecc.,..., la vera avanguardia artistica d'oggi è la retroguardia» 3• Il post-modernismo è un caso particolare della più gene­ rale reazione all'International Style. Infatti dalla seconda metà degli anni '50 il problema centrale è di opporsi prima all'astrattismo geometrico, poi a quello non geometrico (in­ formale); e tale • reazione avviene come dichiarata volontà di ri-semantizzazione,. come rifondazione «mitopoietica» (G. Dorfles). Ma questa opposizione, dominata dall'ipoteca del revival, si è articolata in tre direttrici principali: a) ri-visitazione del passato; b) neo-avanguardia; e) ri-elaborazione manieristica dei linguaggi del M.M. a) Per alcuni, infatti, significa «perdita del centro » e dun­ que: riscoperta del «passato come amico», « richiamo nel grembo materno della storia», rivissuto nella sua accezione eclettica (pluralismo storicistico americano di E. D. Stone, Ph. Johnson, M. Yamasaki e correnti europee neoaccademi­ che, neobarocche, vernacolari, ambientistiche). Questo assun­ to è coniugato anche come espulsione dell'ideologia ed appro6 do all'autonomia disciplinare. Il sillogismo è: se l'ideologia è


la colpa che l'architettura sente pesare su· di sé, occorre liberarsene. Combinando elementarismo geometrico ed istan­ za archetipica, si perviene alla metafisica fissità della Pura Forma, conclusa e paga di sé (riduttivismo storicistico di L. Kahn, e «tendenze,. meta-storiche). Rispetto all'informale (F. Kiesler, H. Greene, B. Goff, A. Bloch, ecc...), si attua un'in• versione a 180° ed una reazione implosiva. b) Per altri, viceversa, l'opposizione alla linea della astra­ zione e all'International Style si realizza, nella seconda avan­ guardia, come proiezione della linea organico-vitalistica del M.M., fondata sull'idea centrale di spazio vivente e di arte­ azione: da un lato, come rilancio dell'utopia megastruttu­ rale e, dall'altro, come affermazione del principio di indeter­ minazione. Demolendo la mitologia della forma conclusa, sia di origine neofunzionalista· che neoaccademica, la neoavan­ guardia opera nell'intervallo che c'è tra arte e vita. In par­ ticolare tale prospettiva significa: · - rovesciamento dell'ideologia del M.M. in utopia e ri­ scoperta delle potenzialità dell'immaginazione e dell'universo tecnologico (K. Kikutake e Metabolism Group, P. Soleri, Ar­ chigrarn Group; ma le prime proposte di Kikutake del '58 sono precedute dal Mile-high skyscraper di Wright; '56); - negazione dello wning e proposte di unità urbane inte­ grate (Lubicz-Nycz, M. Safdie); - strutture programmate come «campo» per l'articola­ zione di caso e necessità (M. Sacripanti, R. Piano e R. Ro­ gers); - poetiche dell'aleatorio (J. Johansen); - poetiche «ruiniste » o del non-finito (J. Wines e Site Group, L. Kroll); - bricolage raffinato pop (R. Venturi, D. Scott-Brown, J. Rauch); - protesta radical, che privilegia il «vissuto"» e, dunque, il Kitsch in quanto tali, contro ogni forma di cultura, azze­ rando processi progettuali e ruoli disciplinari (H. Hollein, Global Tools); - infine, ideologia della partecipazione: come advocacy planning (L. Halprin, Ch. Hartman, J. Zeisel); o·come realiz· i


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zazione di handmade houses mediante i rifiuti della civiltà tecnologica, da parte di gruppi sperimentali (M. Reynolds, M. Pawley);. sino al dissolvimento effettivo della figura del­ l'architetto nella costruzione delle innumerevoli comunità hippies o delle·bidonvilles sorte nelle periferie urbane ad ope­ ra di abitanti anonimi. Rispetto all'informale, una· introiezione della sua fonda­ mentale lezione ed un ulteriore allargamento dell'esperienza estetica. · : e) Per. coloro, infine, che vedono il M.M. come un consoli­ dato universo formale, risulta naturale l'approdo allo speri­ mentalismo manierista, continuamente in bilico tra l'avven­ tura eretica- ed il rarefatto esercizio di retorica. Esso è fon­ dato, da un- lato, sull'anamorfosi o interferenza di strutture linguistiche acquisite (K. Tange, P. Rudolph, D. Lasdun, G. Kallmahn, ecc.) e, dall'altro, sull'elaborazione di un'ars combinatoria di elementi-base del codice adottato (Five Archi­ tects, ed epigoni). Ma una delle astuzie più candidamente interessate della critica-post-modernista è la riduzione del M.M. allo statuto funzionalista. Mediante una tale falsificazione storica è pos­ sibile decretare la sterilità e la morte del M.M. sostenendo che esso: a) in quanto espressione di. « una cultura dell'analisi. e della separatezza,»· 4 :risulta scisso dalla memoria storica ed ·. ,· è privo di pregnanze simboliche; b) poiché tende ad identificarsi con le tecniche operative dell'industrialesimo è complice dell'ideologia mercantile « ba­ sata sul profitto ad ogni costo » 5; pertanto non può e non vuole proporre alternative; . . • e) -nell'aspirazione a creare un mondo di forme per un mitico uomo moderno esclude la partecipazione dell'utente e mortifica il suo diritto alla creatività. . Per. smentire ogni comoda identificazione del M.M. con lo statuto funzionalista (da sempre omogenea agli interessi ' ·· · · restaurativi) è opportuno ricordare: - in primo luogo, all'interno dell'avanguardia storica, la vitalità delle correnti organico-espressioniste che costituisco-


no una polarità antitetica sia alla astrazione geometrizzante (e dunque al funzionalismo) che ai rigurgiti neo-accademici. Coloro che promuovono crociate contro il Modernismo, si de­ vono far carico di dimostrare che la suddetta area di ricerca rientra anch'essa nel riduttivismo dello statuto funzionalista. Area che include l'opera di Wright, l'organicismo americano cli' Schindler e di Harris, nonché quello europeo di Haring, Aalto, ecc.; la scuola di Amsterdam, l'espressionismo di Poel­ zig, Mendelsohn, Scharoun, l'apporto di Finsterlin e Kies­ ler, quello degli architetti visionari ecc.; • - in secondo luogo, all'interno della seconda avanguar­ dia, il contributo delle estetiche della formatività, nonché l'apporto di movimenti che, partendo dalle istanze organiche, hanno ripreso il filo rosso che conduce dall'arte alla vita. Tra gli esempi di tale eversione antifunzionalista, antistoricistica, anarchica, basti ricordare nel secondo dopoguerra: le posi­ zioni surrealiste (Max Emst, Kiesler, Mirò, Matta, Duchamp, ecc.): « il Moderno funzionalismo dell'architettura è morto. La funzione naufragò nel misticismo igiene + estetismo ,. 6; oppure il « Manifesto dell'ammuffimento contro il razionali­ smo nell'architettura» di Hundertwasser del '58; e, soprat­ tutto, le ricerche orientate « verso un'architettura organica,. 7• . - in terzo luogo, in ordine al proibizionismo instaurato dal M.M. implicante « la negazione del passato, o meglio la separazione morfologica tra presente e passato ,. • basti ri­ cordare (ma è davvero il caso?) la ricerca di Wright, intes­ suta da un continuo, intenso dialogo con le più diversificate culture storiche. Ma, naturalmente, la « presenza del passa­ to " non è solo riscontrabile nell'opera di Wright o nelle correnti organico-espressioniste. Essa costituisce in maniera nient'affatto contraddittoria, un dato strutturale del M.M.: « le avanguardie pongono il problema della storia· nel mo­ mento stesso in cui la ricusano con violenza polemica ,. '· Lo pongono ·nell'unica maniera legittima: non come mimesi, ma come drammatico confronto dialettico, come introiezione della sua -insostituibile lezione. L'estinzione attiva della sto­ ria avviene, infatti, .come trasfigurazione di essa in nuove realtà. :..i ..·• •· 9·


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Ma qual è il rapporto con la storia dei raggruppamenti post-modernisti? « Il passato del quale reclamiamo la presenza non è un'età d'oro da recuperare...•; il rapporto con esso « non ha più bi­ .sogno del metodo eclettico, perché può contare su una forma di disincantamento, su un distacco psicologico enormemente maggiore» afferma Portoghesi; ed aggiunge: « la civiltà del­ l'immagine quantificata ... può servirsi del passato senza più essere coinvolta in illusori revivals o in avventure filologiche ingenue• •0• A questo proposito, occorre distinguere le singole posi­ zioni. Infatti, l'assunto teorico suddetto risulta calzante per: - il bricolage de-storicizzante dell'anarchismo radical-pop che, scoprendo il kitsch, « l'arte della felicità » 11 quale espres­ sione dell'immaginario dell'uomo-massa, attraverso un mon­ taggio paratattico, punta sul pastiche disincantato, ironico, paradossale (Venturi, Mendini, ecc.); ma lo stesso è insoste­ nibile per: - lo sperimentalismo storicistico della linea neo-eclettica che scaturisce dalla contaminatio di linguaggi colti ed inat­ tuali in vista di un'unità-problematica comunque soggetta ad un ordine sintattico (Johnson, Portoghesi, Fathy, ecc.); - il neo-storicismo formalistico che, senza alcuna ironia, elegge un topos mitico della storia a modello formale da ri­ comporre nella sua sacralità (Muratori, Vandenhove, Vael, Kijima, ecc.). -. le astrazioni meta-storiche della linea rigorista che, ne• gando qualsiasi contaminatio, restaura l'alone auratico ed aspira riduttivamente ad una arte senza tempo, al silenzio metafisico (A. Rossi, L. Krier, Reichlin e Reinhardt, ecc.). �. dunque, illegittimo forzare sotto la medesima sigla po­ sizioni nettamente diversificate o antitetiche sotto il profilo del rapporto con la storia. Gli scontri tra la « tendenza • e .« l'avanguardia radical • documentano tale illegittimità. « Nella sua volontà di ricominciare da zero essa [l'avanguardia] nega la storia per ritrovare un nuovo quanto illusorio punto di partenza•. sostiene Scolari 12 • A questi, definito « il Suslov della situazione», replica Branzi affermando che la tendenza


« propone un mondo architettonico tautologico, astratto dal presente, inutile alla società perché arretrato rispetto al grado di sviluppo di qualsiasi suo settore» 13• Di fatto, il disincanta­ mento destoricizzante e libertario dei bricoleurs radical-pop è l'esatto contrario degli assunti retorico-edificanti delle altre tendenze. In realtà l'azzeramento della distanza tra il disincanta­ mento radical-pop e le istanze delle correnti restaurative è reso possibile da un elemento nuovo. E cioè, dalla teoria dell'inclusivismo venturiana che gioca nella vicenda un ruolo paradossale. In tale prospettiva ogni linguaggio convenzio­ nale, una volta « relativizzato», si metamorfizza magicamente in linguaggio popular: Moore e Ridolfi, Venturi e Muratori, Isozaki e Quentin, Gordon Smith e Portoghesi, Porro ed A. Rossi, Gandelsonas e Moretti, Terry e Gardella ... Tale teoria è onnivora quanto il ventre digestivo della me­ tropoli. Essa innesca un'esplosione a catena che finisce per rendere equivalenti tutti i linguaggi presenti, passati o futu­ ribili. La « difficile totalità » promette infatti che l'architet­ tura del nuovo corso, come afferma Portoghesi, « può essere strumento di rimozione del vecchio sistema eurocentrico ba­ sato sul mito della classicità e nello stesso tempo riconosci­ mento della validità relativa e parziale di ogni sistema con­ venzionale, purché se ne accetti l'appartenenza ad una rete policentrica di esperienze, tutte meritevoli di ascolto» 14• Le conseguenze di un'applicazione coerente del principio dell'inclusivismo si riflettono ovviamente sullo stesso Moder­ nismo. Se ogni sistema convenzionale ha una validità rela­ tiva e parziale al cospetto della « critica dell'ascolto •, il Mo­ dernismo, in quanto linguaggio istituzionalizzato, reclama il diritto all'udienza ed all'attualità diventando di fatto post­ modernista, o meglio parte integrante di questo orientamento. Il problema è chiaramente sollevato da Jencks, il quale afferma: « ••• avanziamo una richiesta maggiore, una vera e propria sintesi di tutta l'architettura storica, compresa. quella del passato recente», tale cioè da far « apparire il periodo intorno al 1870, con i suoi quindici stili, una cultura integrata» 15• Insomma, letteralmente, un pastiche di pastiches. 11


. , Ma quale ruolo assumono queste teorie in relazione alla prassi dettata dall'ideologia produttivistico-mercantile, ed in relazione ai giganteschi problemi dell'odierna metropoli? Quest'ultima, in quanto luogo deputato alla conflittualità degli scambi· e dell'informazione, si configura in . sé come esplosione permanente dell'anarchia linguistica. Nella condi­ zione post-auratica dell'arte, come ha dimostrato Benjamin, ·ogni epoca è attualizzata, ogni lontananza azzerata, ogni uni­ cità dissacrata e moltiplicata, ogni linguaggio legittimato. La espulsione del significato, l'estraniazione dal contesto e dai suoi stessi contenuti innesca nell'oggetto un processo di for­ malizzazione radicale in forza del quale esso diviene « ano­ nimo ed assoluto ». Se tale processo di de-storicizzazione generalizzata è con­ dizione della comunicazione estetica dell'universo dominato dalla mercificazione (Warenwelt), risulta evidente l'identità oggettiva di tale fenomeno con le teorie dell'inclusivismo. Il problema teorico del post-modernismo è già risolto nella prassi della metropoli. Anche se Jencks crede ancora che ·« tutte queste tendenze postmoderne cercano di dare alla luce una nuova architettura prima che sia la società consumistica a dargliene l'incarico». Egli non sa di essere il grand com­ mis di questa stessa società che, tutto sommato, gli affida un ruolo marginale: di copertura rispetto agli straordinari mo­ delli già realizzati. Infatti la Dream-land vagheggiata dall'eclet­ -tismo radicale, al di là del patetico contributo degli archi­ tetti, ha i suoi autentici templi votivi a Madonna Inn o a Las Vegas, al Getty Museum o a Disneyland, nell'Hearst Castle o nell'anarchia mitografica del caos metropolitano. Nel post-modernismo senza post-modernisti i più eterocliti frammenti dei linguaggi convenzionali, esplosi dai rispettivi centri sintattici, divengono materiali per la costruzione di spettacolari·· labirinti illusionistici. Non diversamente, il programma post-modernista per « An Architecture of Joy » (Morris Lapidus), indica l'itinerario « dal progetto triste e grigio del razionalismo verso progetti arbi­ trari e festosi » 16• Finalmente possono allinearsi « senza più inibizioni »: neo12


vittoriano e technological fantasy, afrotirolese e neometafisi­ ca, adocismo e delirious trademark, Superman e Ludwig II,. neoislamismo e buro-stalinismo, strutturalismo paleoindu­ striale e neo-déco, surrazionalismo e stile zen... La teoria dell'inclusivismo venturiano consente senza più remore un naufragio felice nel caos. « Il dono che i nuovi tempi portano alla cultura è l'avven-· to di una sola dimensione. Se questa unidimensionalità è­ parsa una catastrofe ad un intellettuale tradizionale ·come Mar­ cuse, è perché egli ha visto il fenomeno solo dal punto di vi­ sta dei valori, e non ha compreso che esso comporta anche la rovina della prospettiva strumentale e pragmatica,. so­ stiene Perniola. Ed aggiunge che la unidimensionalità e è il luogo in cui l'immagine è indistinguibile dal reale, in cui essa diventa appunto un simulacro. Il simulacro non è una imma­ gine pittorica; che riproduce un prototipo esterno, ma urt'im­ magine effettiva che dissolve l'originale,. 17• �. infatti, un fe­ ticcio che espropria e sostituisce la realtà! Il dominio delle « copie senza originale ,. si configura come iperrealtà pari a se stessa, luogo dell'immagine reificata. Potrà anche essere pre­ sentata come la « terra promessa » all'uomo-massa, ma con­ trariamente alle apparenze, tale luogo è diametralmente op­ posto alla libera fantasia creatrice. Nelle iterazioni postmo­ demiste come a Disneyland, non può accadere realmente nul­ la; tutto è già avvenuto, è finzione rassicurante. Il dramma o l'imprevisto sono opportunamente eufemiz­ zati e preordinati come i è simulated disasters,. di Coney lsland. In luogo di interrogativi reali e di .disorientamenti: effettivi introdotti dal nuovo, i domestici abbandoni in pre­ confezionate· « stranezze ». « Io mi son fatto carico (forse eccessivamente) di ricercare lo 'strano' e l' 'insolito' (nei con� fini rassicuranti di ciò che è familiare)», afferma Ch. Moore 11• · Tutte le immagini o gli stili rievocati ci assicurano che· essi sono semplicemente dei cari estinti: fantasmi innocui evocati. attraverso ologrammi. · ·· Attingendo- la sua -incontrastabile forza dal potere persua­ sivo del déjà vu, il postmodernismo raggiunge la sferica perfezione della tautologia. ·.• · · . . . 13


Il merito indiscutibile dell'avanguardia storica e del M.M. è consistito nel prendere atto del mutamento genetico avve­ nuto nell'oggetto artistico nell'epoca della sua riproducibilità tecnica. Parafrasando Adorno, diremo che l'architettura « parte­ cipa di ciò che Clement Greenberg chiamò la scissione di tutta l'arte in falsità ed avanguardia: e il kitsch, parola d'or­ dine del profitto sulla cultura se ne è ormai da tempo as­ soggettata la sfera particolare, socialmente riservata. Per que­ sto le riflessioni sullo spiegamento della verità nella ogget­ tività estetica vengono confinate unicamente nell'avanguar­ dia» 19• Dopo la suddetta scissione, una volta dichiarata esaurita la funzione dell'avanguardia, è risultato naturale che il kitsch, l'elemento antagonista, finisse per dilagare ed imporre il suo dominio sull'intera area dell'estetico. Il post-modernismo non è che la teorizzazione di tale fenomeno: un movimento teso a legittimare le istanze complementari della restaurazione storicistica e della galassia kitsch. L'ideologia industriale­ mercantile, una volta assorbito l'International Style, ha ur­ gente bisogno di teorie in grado di avallare la più gigantesca produzione di kitsch mai realizzata nella storia. Il mandato assegnato al postmodernismo è quello di effettuare il pas­ saggio dalle utopie de�l'avanguardia alla iperrealtà del kitsch, di favorire una docile, consenziente « resa al labirinto » 211• Tutti a Disneyland o a Las Vegas, dunque! Ma esiste un'alternativa alla dissoluzione dell'oggetto este­ tico, da un lato, nella uniformità asemantica dello standard (riduttivismo analitico del M.M.), e dall'altro, nel delirio del­ le ridondanze convenzionali (inclusivismo postmodernista)? Una prospettiva di ricerca in grado di contestare tanto l'ico­ noclastia rigorista che lo strapotere dilagante dell'« autenti­ camente falso»? Che sia capace, cioè, di istituire un rapporto dialettico tra impulso all'astrazione e impulso all'empatia, tra standard ed unicum, tra segno e simbolo, forma e im­ magine, arte e vita, architettura e spazio vissuto? In linea teorica, tale prospettiva dovrebbe consistere sche14 maticamente:


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1) nell'accettare della linea dell'astrazione riduttiva, la volontà di forma e la sua omogeneità ai processi produttivi; respingendone l'asemanticità di fondo, e viceversa: 2) nell'accogliere della linea dell'empatia, l'impulso vita­ listico e la sua pregnanza simbolica, neutralizzandone l'anti­ ripetitività programmatica. Nella consapevolezza che l'idea risultante di forma viven­ te, ambiente-accadimento, arte-azione, non possa essere che il punto asintotico di una drammatica tangenza. . In effetti, è vero che « per l'avanguardia storica la realtà è spezzata in contrapposizioni radicali. Esprimersi-agire in termini di avanguardia vorrà dire, quindi, portarsi o sul polo. della soggettività assoluta (energia vitale indifferenziata, ar­ bitrio, sogno, istinto, inconscio, demenza) o su quello del­ l'assoluta oggettività, dove non si distingue più tra mondo storico-umano e mondo naturale» 21• Ma è altrettanto vero che all'interno del M.M. e dell'avanguardia storica un esteso settore di ricerca ha lavorato alla istituzione di una coinci­ dentia oppositorum tra le istanze antitetiche suddette, pro­ spettando varie soluzioni. Al di là delle differenze che pure permangono, c'è una profonda analogia che lega il progetto di « forma vivente» avanzato dall'organicismo wrightiano, l'idea di « formazione, organica» di Haring, la ricomposizione di « geometria ed urlo» proposta dall'espressionismo, il concetto di « rigore biologico» formulato da Le Corbusier, i nuovi orizzonti del-· l'« arte-azione» annunciati da Marinetti, e la rivoluzionaria apertura provocata dal « dinamismo plastico» di Boccioni, ecc. .Tali prospettive, fondate sull'identità dialettica di termini contraddittori, dimostrano la fiducia o, se si vuole, la dispe-. rata volontà di assegnare un ruolo costruttivo ed, insieme, un valore semantico all'avanguardia storica. Contrariamente essa non può che precipitare, sotto le spinte antitetiche del-. l'impulso all'astrazione e dell'impulso all'empatia, nella dop­ pia polarità indicata da Fortini; e, dunque, in aporie· inso­ lubili. All'inizio degli anni '30 questa terza via trova una nuova magistrale formulazione nel piano e Obus» per Algeri 1'5 di Le Corbusier. .


L'organismo proposto, in quanto struttura autoportante a crescita controllata, può insinuarsi liberamente tra le acci­ dentalità della natura, introiettandone la varietas, facendo cioè reagire regola ed eccezione, modello teorico e genius loci. In quanto campo strutturale indifferenziato (invariante) è aperto all'ideologia della partecipazione; è disponibile cioè ad accogliere qualsiasi dissonanza sintattico-funzionale o con­ taminazione kitsch (variabile). Il noto disegno n. 14369 con­ servato alla Fondation L.C. documenta chiaramente l'intro­ duzione di « linguaggi banali » di gusto moresco e mediter­ raneo, all'interno delle strutture programmate dei terrains ar­ tificiels. Che lo specialista non intervenga nella definizione delle hand-made houses è di capitale importanza. Esse, in­ quanto risultato di un'accumulazione di fantasie individuali e mitologie private, divengono « spazi vissuti » assolutamente irripetibili, coincidenti al limite con il kitsch. E progettare da specialisti ·il « vissuto » o il kitsch in quanto tali non può che essere una contraddizione in termini: come progettare l'informale! In sostanza, tale rivoluzione è resa possibile da una du­ plice operazione: e cioè: 1) dalla fissione del continuum for­ ma-funzione-struttura; e 2) dalla definizione della sola strut­ tura come campo aperto ad un pluralismo funzionale e lin­ guistico. Ma dalla constatazione della discontinuità esistente nel· rapporto forma-funzione-struttura si possono trarre, ancora' una volta, conclusioni opposte: da un lato, la restaurazionè· postmodernista, una reazione implosiva fondata su metodi che diremmo di ri-artisticizzazione; dall'altro: l'« avanguar­ dia di massa » 21., un ampliamento esplosivo della ricerca. nel­ l'area della dis-artisticizzazione. Infatti: a) il postmodernismo, dopo la rottura suddetta, concentra.. l'interesse essenzialmente sulla forma, liberata oltre che dal­ l'ideologia anche dalla funzione ed, ovviamente, dalla coerenza· strutturale. Questo significa riscoperta: della facciata come: epidermide staccata dal resto dell'organismo architettonico;· della decorazione come qualità autonoma ed insieme attri-· buto estrinseco della forma; della rue-couloir èome · masche16


ra indifferente delle realtà interne degli edifici; degli ele­ menti stilistici o di Gestalten fortemente istituzionalizzate, quali: la colonna, il timpano, la finestra; la cupola, la serlia­ na, l'edicola, il criptoportico ecc... b) la neo-avanguardia di massa, fissa l'attenzione non sul­ l'epidermide, ma viceversa sullo scheletro strutturale, libe­ rando i parametri della funzione e della forma. Questo si­ gnifica articolazione del problema secondo tre livelli: in pri­ mo luogo, definizione della struttura come campo; quindi, polifunzionalità; infine, pluralismo linguistico. Significa, in altri termini: « edifici arrendevoli, sensoriali, duttile esten­ sione dei loro abitanti... la visione scatolare, a pacco, è su­ perata. Non ci interessa più l'epidermide, vogliamo conoscere ossa ed organi... la facciata nel senso tradizionale sparirà, surrogata da una trama di nuclei fruibili, librati nello spazio. Mosaico di facciate, bombardamento di immagini, aggrega­ zioni di elementi in flusso costante e senza specifica sequen­ za...» 23• Si realizza lo straordinario vaticinio di Boccioni: « la facciata di una casa deve scendere salire scomporsi en­ trare o sporgere secondo la potenza di necessità degli am­ bienti che la compongono. :f:. l'esterno che l'architetto deve sacrificare all'interno come in pittura e in scultura. E poiché l'esterno è sempre un esterno tradizionale, il nuovo esterno che risulterà dal trionfo dell'interno creerà ineluttabilmen­ te la nuova linea architettonica» 24• L'alternativa è, dunque, tra avanguardia di massa o neo­ accademia + kitsch: tra le due vie non può che esservi op'· posizione netta e irriducibile. Se nel piano Obus o nella prospettiva della neo-avanguar­ dia il pastiche stilistico o il kitsch come tranche de vie sono assunti nella struttura programmata in quanto « accadimen­ ti» naifs, mutevoli e consumabili, viceversa nel post-moder­ nismo essi sono l'oggetto primario dell'interesse dell'archi­ tetto. Vengono, pertanto, accuratamente progettati su tavoli da disegno da raffinati specialisti, attraverso sottili finzioni .i intellettualistiche. In realtà il post-modernismo, insidiato dall'ideologia della partecipazione e dal kitsch autentico, indifferente al proble-

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ma dei campi strutturali, sprofondato nei labirinti iconogra­ fici della metropoli, è costretto a restaurare il ruolo ottocen­ tesco dell'architetto come grand maitre degli stili e dei lin­ guaggi convenzionali Ma la « casa banale » in simil-vita pro­ gettata dallo specialista invece che dall'utente è equivalente ad un quadro na"if dipinto con meticolosa astuzia intellettuale. È una falsificazione al quadrato, sofisticata quanto tautolo­ gica che appaga solo il narcisismo ed il cinico senso di colpa dell'architetto. D'altra parte se lo « statuto funzionalista » prepara « un abito su misura per un mitico uomo moderno», viceversa, il post-modernismo, autoproclamatosi unico interprete dell'im­ maginario collettivo, nonostante l'artificio del « doppio codi­ ce», prepara abiti su misura -per un universale uomo kitsch. Ma le ambiguità e le contraddizioni si estendono: se la crisi dell'energia ed i limiti dello sviluppo rendono legittima « una moratoria nelle costruzioni alte», paradossalmente nel post-modernismo i grattacieli ridiventano accettabili ed esem­ plari se rivestiti di forme neo-gotiche o classiciste (sedi so­ ciali della P.P.G. a Pittsburgh e dell'A.T.&T. a New York di Ph. Johnsoh e J. Burgee). Infine, se gli incunaboli del modernismo si ritrovano nel­ l'architettura degli ingegneri del XVIII e XIX sec., gli incuna­ boli del post-modernismo si ritrovano negli imponenti pro­ dotti « poncifs » che nello stesso periodo vengono rovesciati sul mercato. In luogo di, o accanto a, J. Paxton, J. Bogardus, H. Labrouste, H. P. Berlage, ritroveremo i virtuosi della ri­ petizione in fac-simile, gli Esperandieu, gli Abadie, i Wallot, i Sacconi ed, in blocco, gli architetti di Ludwig II: insupera­ bili narratori di favole consolatorie, i Riedel, i Dollmann, gli Hoffmann, autori dei castelli di Neueschwanstein, Herren\.

chiemsee, Linderhof.

�- · Allora come oggi, di fronte ai terrificanti problemi della civiltà metropolitana, è fin troppo ovvio prospettare auto­ gratificanti fughe nello spazio perfetto della Forma, nel tem­ po mitico della Storia, nella dimensione ludica del Kitsch. Può anche darsi che « il crollo dei grandi discorsi rias18 suntivi che propongono interpretazioni unitarie e profezie



13 A. BRANZI, Si scopron le tombe, in « Casabella », novembre 1973, ripubb. in A. B., Moderno, Postmoderno, Millenario, Studio Alchymia, Milano 1980. 14 P. PORTOGHESI, La fine del proibi1.io11ismo, op. cit. p. 12. 15 CH. JENCKS, op. cit., p. 37. 16 A. MENDINI, Caro Morris Lapidus, in « Domus », n. 610, 1980. 17 P. PORTOGHESI, Dopo l'architettura moderna, op. cit. p. 201. 1s Ibidem, p. 121. 19 T. W. ADORNO, Filosofia della musica moderna, Einaudi, Torino 1959, p. 16. 20 I. CALVINO, La sfida al labirinto, in « il Menabò • n. 5, 1962. 21 F. FORTINI, Il concetto di avanguardia, in « I problemi di Ulisse» fase. LXXXV, maggio 1978, p. 10. 22 Riteniamo che la nozione di « avanguardia di massa • precisata da M. Calvesi nel volume omonimo (Feltrinelli, Milano 78) sia calzante anche per le ricerche della neo-avanguardia architettonica degli anni '60 e 70. 23 J. JOHANSEN, cit. in B. ZEVI, Avanguardia, retro e neo-avanguardia architettonica, in « I problemi di Ulisse», op. cit. p. 121. 24 U. BOCCIONI, Architettura futurista, Manifesto, in U. B., Altri ine­ diti e apporti critici, Feltrinelli, Milano 1972. 25 P. PORTOGHESI, La fine del proibi1.ionismo, op. cit. p. 12.

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Lutyens fra storia e critica MARIA LUISA SCALVINI

Forse nessun caso, pm dell'alternante fortuna critica di Lutyens 1, può essere considerato 'esemplare' del mutamento che, nell'ultimo decennio circa, si è verificato nell'ottica sto­ riografica e nel punto di vista adottati per analizzare la vi­ cenda dell'architettura contemporanea 2• Spesso in pratica ignorato - talora letteralmente non citato - in quei testi che hanno costruito le interpretazioni pre-canoniche e suc­ cessivamente l'immagine canonica 3 del movimento moderno, Lutyens sta conoscendo da qualche tempo un ritorno di in­ teresse 4 le cui ragioni sono probabilmente più sottili e intri­ cate di quanto non si sarebbe immediatamente portati a ri­ tenere, e del quale la celebratissima mostra tenutasi recen­ temente alla londinese Hayward Gallery 5 è solo una delle ma­ nifestazioni più evidenti, nell'ambito di una molteplicità ben più ricca e significativa di segnali critici 6• Quando l'architetto di Tigbourne Court 7 e di New Delhi muore, il giorno di Capodanno del 1944, in una « drab, de­ pressed, blitzed London » 8 (è nato nel 1869, lo stesso anno di Garnier e di Mackintosh, due anni - dopo Wright), le cele­ brazioni 9 e i commenti ufficiali - taluni anonimi - 10 sono esplicitamente laudativi o al massimo cauti, e ciò vale, oc­ corre precisarlo, sia per gli ambienti culturali e professionali più conservatori,. sia per quelli più vicini alla linea 'orto­ dossa' del movimento moderno. Infatti, come ha osservato

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Gavin Stamp, « a differenza di vecchi 'tradizionalisti' quali Sir Reginald Blomfield e Sir Herbert Baker, egli non divenne mai, agli occhi del MARS Group e dei fautori del Movimento Moderno, un oggetto d'infamia »; e ciò non solo per la sua « fondamentale simpatia per le aspirazioni dei giovani, per il suo wit e la sua vitalità», ma anche perché « la sua archi­ tettura, sempre più dominata dalla geometria, proponeva chia­ ramente delle lezioni che trascendevano le battaglie di parte sugli stili » 11• Ma se questo vale per gli ambienti inglesi della critica mi­ litante e della professione, ben diverso è il discorso per quan­ to riguarda gli storici del movimento moderno. Il caso limite - ben noto, e che polemiche recenti hanno riportato di at­ tualità - 12 è quello di Nikolaus Pevsner, che all'inizio degli anni trenta (ossia quasi in coincidenza con l'inaugurazione di New Delhi che cade nel 1931) 13, si trasferisce in Inghil­ terra, dalla Germania in cui la Repubblica di Weimar sta morendo, seguito poi da Gropius, « leader ideologico auto­ designato del Movimento Moderno, ... entrambi intenzionati a fondare una linea molto precisa e cristallina dell'architet­ tura moderna,... e ciò a prezzo di una rigorosa selezione ope­ rata sui processi storici reali,. 14• , Pevsner com'è noto omette di citare Lutyens sia in Pio­ neers of Modern Design (1936 e ss.), sia in An Outline of Eu­ ropean Architecture (1943 e ss.) 15 ; solo nel 1951, in occasione della pubblicazione dei « Memorial Volumes,. curati da Hus­ sey e Butler 16, compare il notissimo saggio « Building with Wit » 17 in cui tuttavia, nonostante alcune penetranti osserva­ zioni 18, Pevsner non riesce a sottrarsi all'ottica limitativa del proprio personale commitment nella vicenda del movi­ mento moderno 19 , mancando così di cogliere gli aspetti di più autentico interesse della personalità di Lutyens, quelli cioè legati alle valenze· più contraddittorie ed ambigue del suo talento 20• t:. difficile valutare in che misura la 'omissione' di Pevsner, probabilmente influenzato da alcuni antecedenti 21, abbia a. sua volta influito sulle posizioni della storiografia e della critica successive 22; può comunque essere di un �ualche inte� 22


resse vedere quale sia l'immagine che di Lutyens viene pro­ posta in alcune tra le più diffuse, e quindi influenti, storie dell'architettura moderna, succedutesi fino agli anni '60, os­ sia fino al periodo in cui l'interpretazione canonica si 'cri­ stallizza ' per conoscere poi il suo momento di massima dif­ fusione. Se Space, Time and Architecture di Giedion - che com­ pare nel 1941 come ripresa e sviluppo del lavoro avviato con le conferenze tenute nel 1938-'39 alla Harvard University su invito di Gropius - 23 ricalca la linea pevsneriana omettendo il nome di Lutyens, diverso è invece il caso delle due storie, di Whittick e di Zevi, che compaiono all'inizio degli anni '50. Whittick 24 cita favorevolmente, se pure con alcune riserve 25, l'attività di Lutyens nel campo della « domestic architectu­ re »; ne ricorda l'apporto al progetto di Unwin e Parker per lo Hampstead Garden Suburb (fra l'altro con opere come St. Jude-on-the-Hill) u, e nel capitolo dedicato a "The Classica! Tradition and Transition" cita la Britannic House come un esempio particolarmente riuscito di combinazione delle migliori qualità di Lutyens: « unique artistic fancy •, e « unerring sense of good proportion » rr. Quanto a Zevi 23, ; suoi riferimenti a Lutyens sono invece del tutto aspecifici, in quanto lo accomuna ad altri architetti, fra cui Voysey ed Ashbee, in un giudizio di assieme 29 che individua complessiva­ mente nell'architettura delle Arts and Crafts e nell'urbani­ stica delle città-giardino « i due grandi contributi inglesi della seconda metà dell'Ottocento », contributi peraltro « presto dimenticati e [che] parvero antecedenti remoti e conclusi del movimento moderno » 30• Più significativa, ai nostri fini, risulta la posizione di Hitch­ cock. Già in Modern Architecture: Romanticism and Reinte­ gration, del 1929, si delinea quella tesi interpretativa che anche a distanza di trent'anni, in Architecture: Nineteenth and Twentieth Centuries, del 1958, rimarrà sostanzialmente inva­ riata, e che Stamp sintetizza così bene allorché scrive che « il grande apostolo americano dell'lnternational Style... non ha mai avuto il coraggio di mettere Lutyens da parte, pur essendo posto in seria difficoltà dal suo abbandono del Sur- 23


rey Vernacular in favore della Grand Manner, visto come un passo indietro » 31 • ·, Nel secondo di questi due volumi di Hitchcock, infatti, Deanery Gardens continua ad occupare una posizione premi­ nente 32 nell'ambito dell'attività del primo Lutyens, che è sì messo in rapporto con i maggiori architetti del suo tempo ll, ma del quale però è giudicata positivamente soprattutto la produzione nel campo della « domestic architecture » 34, men­ tre non poche riserve investono i progetti inerenti ad altri settori, in particolare gli edifici a carattere pubblico 35• Quan­ to meno sorprendente è poi la contraddizione insita nel giu­ dizio per cui da un lato Lutyens viene definito « ultimo dei tradizionalisti», e dall'altro si afferma che « in un'epoca e in un luogo diversi (tanto per dire, una generazione prima o una generazione dopo in Inghilterra) avrebbe potuto essere un architetto di maggiore levatura » 36• f=: significativa, dello spostamento di interessi della sto­ riografia architettonica verso la scala urbanistica - sposta­ mento ormai maturo -verso la fine degli anni cinquanta l'attenzione di Hitchcock per l'apporto dato da Lutyens alla realizzazione del quartiere-giardino di Hampstead 37 , e so­ prattutto per New Delhi 38• D'altronde, non è certamente un caso che, nella Storia dell'architettura moderna di Benevolo, del 1960, i soli riferimenti a Lutyens riguarq.ino appunto la sua attività alla scala urbanistica, ed anzi alla grande scala 311: proprio quella New Delhi cui, dieci anni prima, Zevi non ave­ va dedicato (e lo stesso farà nell'edizione del '75) neppure un cenno. Nell'arco degli anni '60, mentre l'immagine canonica del movimento moderno si cristallizza e conosce il suo momento di massima diffusione, l'interesse della critica e della storio­ grafia 'ufficiali' europee per Lutyens segna un punto di mi­ nimo�, mentre è nella cultura architettonica statunitense - ed in particolare in certi suoi ambienti più vivaci e insof­ ferenti dell'etica 'puritana' e delle idées reçues di certi epi­ goni dell'International Style - che si manifestano i primi segni di un'inedita attenzione per l'architettura di Sir Edwin. 24 Nel 1966 Robert Stern, in occasione del terzo simposio


sull'architettura moderna alla Columbia University, include la Viceroy's House di New Delhi fra le dieci più importanti opere del decennio 1907-'17, presentate in una piccola mo­ stra 41 • Si tratta, ed è sintomatico, dello stesso anno in cui appare, di Robert Venturi, Complexity and Contradiction- in Architecture, un testo in cui Lutyens e le sue opere sono og­ getto di continui riferimenti 'in positivo' (anche se, come è stato osservato da Tafuri 42, con una finalizzazione in gran parte strumentale); d'altronde, sarà proprio lo stesso Venturi, assieme a Denise Scott-Brown, a replicare con "Learning from Lutyens", nel numero di agosto 1969 del RIBA Journal, ai saggi 'velenosi' di Alison e Peter Smithson � (apparsi nel precedente numero di aprile), mentre il centenario della nascita del grande architetto veniva ingloriosamente cele­ brato con l'insuccesso, parziale o totale, delle iniziative in­ traprese per ricordarlo 44• Se il testo di Alison depreca la morte, per mano di Lutyens, proprio di quella « domestic architecture » per la quale egli era stato sino allora presso-, ché unanimemente celebrato 45 (e già a partire da riconosci, menti internazionali come quelli prodigatigli da Muthesius), il saggio di Peter Smithson riflette una posizione 46 che non sembra assolutamente in sintonia né con la contemporanea, già avviata ripresa degli studi su Lutyens, né, più in generale, con le ormai emergenti revisioni critiche e storiografiche del movimento moderno. Una posizione, questa degli Smithson su Lutyens, che pare piuttosto allineata con gli atteggiamenti di taluni discepoli di Pevsner, come fra gli altri quel Robert Fumeaux-Jordan che, nela monografia Le Corbusier, del 1972, giungerà a narrare episodi di difficile credibilità storica, co­ me quello per cui il grande architetto, interrogato su cosa pensasse di Lutyens, avrebbe risposto Qui est-il?» 47; il che mal si accorda, in verità, con la presentazione di Chandigarh nell'Oeuvre complète 1952-'57, che si apre con un omaggio all'antecedente dell'altra grande capitale indiana 41 almeno pa­ ri, per rispettosa considerazione, all'omaggio reso a Lutyens da Wright nel 1951 con la recensione dei « Memoria! Vo­ lumes » 49• . -· '· In effetti, se il parallelo Lutyens/Le Corbusier è stato trac- 25 C(


ciato anche per altre coppie di opere 50, va detto però che, fra i tanti accostamenti evocati da New Delhi 51 , il più ricorrente è proprio quello a Chandigarh (peraltro non ingiustificato nemmeno per quanto concerne l'impianto planimetrico degli spazi pubblici rappresentativi) 52; ed è fra l'altro singolare che tale accostamento si risolva anche, talora, in certe asso­ nanze stilistico-letterarie che colpiscono tanto più in quanto i relativi autori sono dei critici fra loro assai distanti sotto tutti gli aspetti53• L'importanza dell'impresa di New Delhi - il « Britain's swan song in India» - è naturalmente assai grande pur in una carriera professionale vastissima quale fu quella di Lu­ tyens, fra l'altro perché si trattò di un impegno pressoché ventennale, che lo assorbì dal 1911 al '31 circa. Se le polemi­ che con I'establishment politico 54, e gli scontri con Herbert Baker 55, gli procurarono difficoltà ed anche amarezze, tut­ tavia non v'è dubbio che il carattere straordinario di quella occasione progettuale, e il livello della realizzazione - tale da riproporre il parallelo con Wren, spesso del resto avva­ lorato dallo stesso Lutyens 56, ben al di là del livello dell'epi­ sodio e della battuta - si risultano ampiamente confermati dall'attenzione e dai giudizi della critica anche recente. Significativo ci sembra, in proposito, il commento che Ta­ furi e Dal Co, in 'Architettura contemporanea, del 1976, dedi­ cano a Lutyens e al prògetto di New Delhi, a valle di un cenno, nelle pagine precedenti, alle sue esperienze in occa­ sione dello Hampstead Garden Suburb 58: « ... è soprattutto con la stesura del piano di New Delhy (1911 e ss.) che Lutyens tenta una saldatura di contrastanti modelli urbanistici. Tale piano si basa sull'integrazione di due sistemi viari distinti: un primo, incernierato nel nucleo monumentale attestato at­ torno alla nuova residenza del Viceré inglese, ... ; un secondo, di coordinamento delle preesistenze. Le realizzazioni architet­ toniche e il piano urbanistico sono frutto di un atteggiamento unitario: se nella residenza del Viceré affiorano recuperi lin­ guistici tratti dalla tradizione local�, il sistema viario tenta di organizzare le strutture preesistenti come un susseguirsi di 26 eventi naturalistici. Monùmentalismb e pittoresco si comple-


tano a vicenda. Gli intenti politici che spingono Giorgio V a spostare la capitale da Calcutta a New Delhy sono perfet­ tamente interpretati dal centro monumentale, arroccato in­ torno alla residenza vicereale, destinata a vivere di vita pro­ pria, pura emergenza formale di un progetto che riduce i segni della civiltà autoctona a patetici arredi. I modelli della City Beautiful e della Garden City tendono così a fondersi. New Delhy, con la flessibilità del suo impianto e le sue raffi­ natezze formali, diviene un autentico 'prototipo' di architet­ tura coloniale, di 'città imperiale' » 59. È interessante porre a raffronto questo brano con alcune osservazioni di Kenneth Frampton in Modern Architecture A Criticai History, del 1980: « da parte di Giorgio V, l'aver proclamato la fondazione della capitale di New Delhi in oc­ casione di un durbar, ossia di una cerimonia di massa tenuta colà in suo onore, non costituì che un elaborato gesto sim­ bolico, concepito al fine di mascherare il vero significato, per gli inglesi, dello spostamento della loro capitale indiana da Calcutta a New Delhi, nel 1911... La necessità di assimilare una possente cultura esotica, pur affermando contemporanea­ mente gli standards dell'umanesimo, portò Lutyens ad un li­ vello di equilibrio e di astratta precisione che non aveva mai raggiunto prima... Nella residenza del Viceré a New Delhi, Lutyens trascese lo storicismo fondamentalmente esausto delle sue country houses per teorizzare, al pari di Wright, la possibilità di una cultura 'di frontiera', di un impero sincre­ tico sul quale il sole non tramontasse mai » In particolare, nel brano di Tafuri-Dal Co, l'assunto per cui « monumentalismo e pittoresco si completano a vicenda• ci sembra sintomatico dell'avvenuto superamento intorno alla metà degli anni settanta, da parte della storiografia più 'ma­ tura' - ormai impegnata in un avviato processo di re-inter­ pretazione del movimento moderno - delle ricorrenti con­ trapposizioni (peraltro ancora di recente riproposte) 61 fra le pretese 'due anime' di Lutyens: quella della« domestic archi­ tecture », orientata al recupero del vernacolare, al revival neo­ georgiano, al gusto del pittoresco, e quella dei grandi temi pubblici e rappresentativi, con le loro valenze improntate alla 27

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monumentalità ed al classicismo. Al contrario, proprio alle frequenti commistioni fra queste due contrapposte linee stili­ stiche, molte opere di Lutyens - e basti pensare ancora una volta alla celebratissima Tigbourne Court - affidano quel ca­ rattere 'impuro' e 'inclusivo' che le rende così vicine a certo gusto odierno. Né meraviglia, peraltro, che in anni recenti siano ritornati di attualità anche gli aspetti linguistici, di Lutyens, più strettamente legati alla linea 'rigorosa' della tra­ dizione e del gusto classico: proviamo a chiederci chi di noi, davanti alle immagini del monumento alla Catalogna di Bo­ fill; non ha immediatamente 'rivisto', con gli occhi della men­ te, quell'altra immagine - da gran tempo sedimentata nella memoria - del monumento di Lutyens ai caduti della Som­ me, quel Memoria} Arch di Thiepval definito da Pesvner, nel 1951, « as geometrically perfect as any Modulor-designed exer­ cise of Le Corbusier », e associato viceversa, da Summerson 62, ai grandi modelli degli archi di Settimio Severo e di Costan­ tino, a conferma di quella ambiguità semantico-associativa che ci sembra costituire, dell'architettura di Lutyens, forse il più tipico carattere. 1:. così che il 'grande ritorno' di Lutyens oggi, il successo della recente mostra londinese, lo spazio che gli dedicano da un lato i quotidiani, da La Repubblica a Die Zeit, e dell'al­ tro riviste come Progressive Architecture, non solo - e non tanto, sembrano collocarsi nella linea di quella esigenza di 'rivedere la storia' degli anni del movimento moderno (e quindi di riportare in primo piano i 'grandi dimenticati'), che costituisce un indubbio tratto distintivo degli interessi sto­ riografici attuali, ma più specificamente sembrano corrispon­ dere alla scoperta di una congenialità, fra il suo modo di con­ cepire l'architettura e quello da molti oggi condiviso, che non è generica bensì specifica e che magari - con quel tanto di forzatura e di 'riduzione' che sono inseparabili dal ricorso allo slogan - può essere davvero riassunta nel motto per cui « architecture is building with wit ». Lltyens, cioè, ri­ sulta oggi attuale per la critica non già nonostante quegli aspetti che lo hanno reso inviso alla prima storiografia del 28 movimento .moderno, e che hanno portato questa a censu-


rarlo, bensì proprio in forza di tali aspetti: come ha così ben dimostrato Francesco Orlando 63 nella sua analisi del "Mi­ santhrope", Alceste ama Célimène non già quoique, bensì parce que lei è quella che è.

1 Significativo in questo senso è il titolo, The Rise and Fall and Rise of Edwin Ltttyens, dell'informatissimo saggio di GAVIN StAMP apparso nel n. 1017 della « Architectural Review" (novembre 1981); in esso l'A. nota fra l'altro che • ... in Lutyens' case, the rise, fall and rise again of his criticai standing ... provides an interesting sidelight on the histocy of the fluctuating fortunes of the Modem Movement». J • ... The attitudes of different historians to the architecture of Sir Edwin Lutyens are always a revealing indication of the extent to which lhey have assumcd, probably unconsciously, a Hegelian holistic out­ look ». Cfr. DAVID WATKIN, Mora/ity and Architecture, Oxford 19n, p. 114. J Mi riferisco qui al modello teorico della sequenza « risposte pre­ canoniche / processo di formazione dell'interpretazione canonica / dif­ fusione di questa / silenzio-oblio- / re-interpretazione», che JUAN PABLO B0NTA, in Architecture and its lnterpretation - A Study in Expressive Systems (London, 1979) ha proposto cd applicato alla fortuna critica del Padiglione di Barcellona di Mies van der Rohe, nonché alle ipotesi da me avanzate, nella introduziooe ("L'architettura e l'analisi storico-cri­ tica: due modelli a confronto") alla versione italiana di questo libro (Bari, 1981) circa la applicabilità di tale modello teorico alla immagine storiografica del movimento moderno. 4 Fra i libri recenti su Lutyens occorre ricordare quelli di Peter Inskip, di Dan O'Neill, di Mary Lutyens, di Roderick Gradidge; e almeno altri due (di Allan Greenberg, e di Robert Grant Irving) sono annun­ ciati. Ma è assai sintomatico il recente commento di Au.stAIR BEST (in • Architectural Review », n. 1019, gennaio 1982), in occasione della mo­ stra alla londinese Hayward Gallery: e The Lutyens Liberation Army has done its work well. First the book bombardmcnt; then the soften­ ing up of selected 'targets' (eg an exhibition at the Francis (Kyle Gal­ lery in the West of London of drawings of Lutyens' houses); finally the assault on the commanding heights of the media and the exhibition at the Hayward Gallery which opened in· November... ,., Beninteso il giu­ dizio di Best è positivo, anche per quanto concerne l'allestimento, al di là delle battute e del linguaggio ironico. s La mostra (18 novembre 1981 -31 gennaio 1982), promossa dallo Arts Council of Great Britain, era accompagnata da uno splendido ca­ talogo, con una introduzione di Colin Amery e con saggi di Mary Lu­ tyens, Jane Brown, John Cornforth, Gavin Stamp e John Summerson. 6 Fra questi, citerei l'attenzione per Lutyens mostrata recentemente da una rivista come « Progressive Architecture », che nei nn. di ottobre e dicembre 1981 ha pubblicato due estratti-anticipazioni ("Architecture as Chemistry", e "Lutyens in India") del libro di RoBERT GRANT IRVING, /ndian Summer: Lutyens, Baker and lmperial Delhi, annunciato per la 29 primavera dell' '82.


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7 t:. significativo che sia un'immagine di Tigbourne Court ad 'apri­ re', trent'anni fa, le pagine del saggio di NIK0LAUS PEVSl-:l!R, B11ildi11g with Wit (in « Architectural Review », aprile 1951) e a costituire, oggi, la co­ pertina del Catalogo sopra citato. La didascalia di AR parlava di Tig­ bourne Court (1899) come del « climax of Lutyens's work. Here his de­ light in geometry, and bis skiful use of it, are seen at their best ». 8 L'espressione è di GAVIN STAMP (The Rise and Fai/..., cit.), che così prosegue: « his Surrey houses of the '90s and the sunny world of Miss Jekyll could not have seemed more remote"· In termini analoghi si era espresso KENNETH FRAMPT0N (in Modem Architecture, London, 1980, p. 50): « As the first waves of the 1914 broke across Europe, that golden age of dreamlike English country houses, ushered by Webb, Shaw and Nesfield and rendered at its most exotic in the elaborate Country Life creations of Edwin Landseer Lutyens and Gertrude Jekyll carne definitely to a dose. Yet this era had elfectively ended even ear­ lier..."· 9 t:. probabilmente difficiÌe, oggi, e nonostante il tono dei necrologi, misurare la risonanza che la morte di Lutyens ebbe nell'ambito della cerchia culturale architettonica. C0LIN AMl!RY, nella Introduction al Ca­ talogo cit. (p. 8) ci ricorda che « When he died in 1944 the architectural magazines appeared bearing black borders, as though a king had died " 10 Fra gli 'anonimi', attenzione, c'è John Summerson (in « Architect & Building News", CLXXVII, 7 gennaio 1944). 11 Occorre precisare che Lutyens aveva espresso le proprie posizioni assai chiaramente, fra l'altro nell'articolo What I think of Modem Ar­ chitecturc (apparso in « Country Life » nel 1931), da cui Stamp riporta questo brano assai significativo: « It is this kind of haphazardness, lack of grammar, inconsequence, that I find disturbing in much modem ar­ chitecture. These adventurous young men thrill me trcmendously and all my sympathies are with them. But good architecture needs more than bright ideas, and by my traditional standards most modem buil­ dings seem to me to lack style and cohesion, besides being unfriendly and crude"· 12 Mi riferisco, evidentemente, alle polemiche innescate dalla recen­ sione fatta da REYNER BANHAM (nel « Times Literary Supplement" del 17.2.1978) al libro di Watkin già citato, e in cui quest'ultimo rimprovera a Pevsner tale omissione. Banham (e il suo titolo, Pevsner's Progress, è sintomatico) si schiera naturalmente contro Watkin. Lo 'scontro' è stato anche ripreso e commentato di recente da RoBERT MAXWEIJ., nel suo contributo su Banham nel n. monografico di « Architectural De­ sign,. (nn. 6/7, 1981), intitolato On the Methodology of Architectural History. 13 Nel gennaio del 1931, un numero monografico della « Architectural Review », a cura di Robert Byron, è dedicato a New Delhi. Il fascicolo, con splendide immagini si articola in quattro parti, nell'ultima delle quali ("The Significance of Lutyen's City") RoBERT BYRON ricollega Lutyens e l'impresa indiana a Geoffrey Scott e alla sua Architecture of Humanism; « New Delhi, in its province, has revived the. permanent verity of humanism,. (cfr. p. 30). Su Robert Byron, vedi il penetrante contributo di CouN AM!!RY, Robert Byron: lnnocence and Design, in e Architectural Design», nn. 10/11, 1979. 14 Cfr. MARIO MANIERI-ELIA, William Morris e l'ideologia dell'archi­ tettura moderna, Bari, 1976, p. ix. 15 « So out of date, so unexpressive of the Zeitgeist, was Lutyens that Professor Pevsner fails to mention him at ali in An Outline of European Architecture. His very existence is not so much as hinted at: 'For the next forty years, the first forty of our century, no English


name need here be mentioned.' ... The reason for the omission of Lu­ tyens is the vcry familiar historicist, Hegelian belief that each age in history must have its own totally consistent pattern which in turn will be replaced by the pattern of the next moving forwards in a great pian of development ». (Cfr. D. WATKIN, cit., p. 114). 16 CHRISTOPHER HUSSEY, The Lite of Sir Edwin Lutyens, London-New York, 1950; A. S. G. BUTI.ER, The Architecture of Sir Edwin Lutyens, London-New York, 1950 (3 voli.). 17 NIKOLAUS PEVSNER, Building with Wit · The Architecture of Sir Edwin Lutyens, cit. Il titolo ha un riferimento palese al motto di Lu­ tyens (« Architecture is building with wit ») citato in epigrafe, ed uno più implicito al carattere di Lutyens, ed al suo gusto della battuta. Il tema del « wit •• a proposito di Lutyens, era stato già introdotto da Summerson. 18 « ...where Lutyens's geometry seems to be most successful is where he uses il not for the sake of perfection but for the sake of con­ trast and surprise... [a Tigbourne Court] the contrast between the pertly upcurved front wall carrying two absurdly tali chimneys set diagonally, and the façade. itself further back with its low Tuscan loggia and its sheer wall abovc with windows, set wide apart and straight gables on top is irresistible... ». E ancora: « Lutyen's handling of space has not in the past been sufficiently appreciated. The staircase at Little Thake• ham is almost as ingenious with quite simple geometrica! means as the staircases of the eighteenth century which we admire in Germany and Austria ». 19 « In his serious mood he is so completely divorced from all that architects of the last fifty years have striven for, that a balanced jud• gement of his piace in history is perhaps impossible ». 20 Così ad esempio quando contrappone, come poli inconciliabili della personalità di Lutyens, la sua « wisdom » e la. sua « folly » (« Sir Edwin Lutyens. was without doubt the greatest folly builder England has ever seen ... »), il gusto della geometria (« the square, the rectangle, the circle occur everywhere in his work ... ») e quello del revivalism, so­ stenendo che tuttavia « ••• the two seemingly contradictory aspects of Lutyens's mind are au fond one thing. They are both expressive of art for art's sake, or rather architecture for art's sake ... ». 21 GuSTAV AooLF PLATZ, in Die Baukunst der neuesten Zeit, Berlin, 1927, omette di citare Lutyens anche nel riferimento a Hampstead, pex il quale peraltro ignora anche Parker, limitandosi a menzionare Ray• mond Unwin, definito « der Stadtbautheoretiker und Schopfer der Gar­ tenstadt Hampstead bei London » (cfr. p. 82). 22 Credo che almeno per quanto riguarda alcune storie dell'architet­ tura moderna, come ad esempio quella di Giedion, si possa senz'altro parlare di una influenza 'diretta' della omissione pevsneriana, le cui ra• dici 'censorie' mi sembrano, anche alla luce delle osservazioni prima richiamate di M. Manieri-Elia, assai evidenti; ciò mi porta a non con­ cordare, su questo punto, con G. Stamp che parla, in proposito, di « sins of omission rather than commission... •· 23 Su questo punto è perentorio KENNETH FRAMProN in Giedion in America: Reflections in a Mirror, nel già citato nn. 6/7 di e Architectu­ ral Design », 1981. 24 ARNOIJl WHITTICK, Euròpean Architecture in the Twenthieth Century, voi. I, London, 1950; voi. II, 1953. 25 « .•• with Sir Edwin Lutyens's houses, although many of the plans are designed according to the greatest convenience of arrangement, the elevations are symmetrical, which often means a èontradiction bet­ ween the two ». Cfr. op. cit., voi. I, p. 39. Con insignificanti variazioni

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formali, il brano è ripetuto nell'edizione, in unico volume, del 1974, a p. 36. 26 « Lutyens is eclectic in the church of St. Jude-on-the-Hill, in combining the spire and vaste espanse of pitched roof with an other­ wise Renaissance design, which is complctely dominant in the intc­ rior "· Cfr. ibidem, p. 114; il brano è ripetuto identico a p, 73 dell'edi­ zione del 1974. 27 • While preserving stone or brick constructional character. Sir Edwin Lutyens often exercised a unique artistic fancy in his trcat­ ment of design combined always with an unerring sense of good pro­ portion. In the well-proportioned Britannic House in Finsbury Circus he introduced within the generai unity of the design a variety of Re­ naissance idioms with delightful effect, giving here and there a note of gaiety which is captivating. Here, if it is not living, expressive ar· chitecture is at least the work of architectural genius ». Cfr. ibidem, p. 175; è significativo il fatto che il brano sia ripetuto identico a p. 106 dell'edizione del 1974, con l'eccezione dell'ultima frase (« Here... gen• ius »), che è eliminata. 28 BRUNO ZEv1, Storia dell'architettura moderna, Torino, 1950 e ss. 29 « Philip Webb, Eden Nesfield, Norman Shaw, M. H. Baillie Scott, George Walton, William Richard Lethaby, Ernest Newton, Dunbar Smith, C. H. Townsend, Guy Dawber, e anche le figure più note, cioè C. F. A. Voysey, C. R. Ashbee ed Edwin L. Lutyens, non furono geni. Ma anche su questo punto bisogna intendersi. Troppo spesso la storiografia architet­ tonica parla delle loro opere come di fenomeni importanti dal mero punto di vista cronologico ... Io sarei propenso ad affermare esattamente il contrario. Proprio oggi che la maniera delle Arts and Crafts è stata da decenni sfruttata... quando si incontra un villino di Voysey, un palaz­ zetto di Ashbee o di Baillie Scott, l'occhio qualificato immediatamente percepisce una genuina ispirazione"· Cfr. op. cit., p. 67. Con lievi va­ rianti (ad es., « non possedevano straordinarie tempre creative » anzi­ ché « non furono geni») il brano è riportato alle pp. 49-50 dell'edizione rinnovata del 1975. JO Cfr. ibidem (edizione 1950), p. 75. 31 Cfr. G. STAMP, The Rise and Fai/.. ,, cit. Questo tipo cli linea in• terpretativa è assai frequente nella prima storiografia del movimento moderno: si pensi a Raimondo D'Aronco, ed alla sua asserita 'caduta' da una stagione liberty vista come 'positiva' alla fase 'negativa' del Palazzo del Comune di Udine; personalmente propendo per una lettura cli D'Aronco in termini di sostanziale eclettismo. 32 « ••• il primo periodo della sua attività ha il suo vero culmine nei Deanery Gardens a Sonning nel Berkshire realizzati nel 1901..." (p. 378); e ancora: « Nelle più belle delle sue case giovanili, ad esempio quella dei Deanery Gardens ..., egli appare non inferiore a Voysey... » (p. 547). Queste, e le successive citazioni da Hitchcock, sono tratte dalla trad. it;, L'Architettura dell'Ottocento e del Novecento, Torino, 1972. 33 e A partire da circa il 1906, Lutyens divenne in Inghilterra l'ar­ chitetto più importante della sua generazione... Il successo sempre mag­ giore da lui ottenuto dopo gli anni iniziali del secolo, non inferiore certo a quello di Shaw fra gli architetti della generazione precedente... Edwin Lutyens, ha avuto particolari doti cli inventiva, pur entro schemi tradizionali, superiori a quelli di tutti gli architetti americani della sua generazione. Si è trattato però di una capacità non cli tipo vivacemente inclividuale come in un Ostberg o in un Jensen K.lint, né egli è stato capace, come invece hanno saputo fare un Asplund o anche un Hood, di accettare intorno al 1930 la disciplina dell'architettura più nuova del momento ... • (cfr. ibidem, pp. 378-9 e p. 547).


34 « Se lo stil georgiano doveva essere recuperato, come già era � avvenuto dello slile greco e cli quello gotico, difficilmente si sarebbe potuto farlo con più completezza e vivacità; è certo che gli Americani della generazione di Lutyens raramente hanno raggiunto un tale grado di eccellenza in questo particolare campo ...» (cfr. ibidem, p. 548). 35 t:. il caso di St. Jude, che mancherebbe « dell'intensità dramma• tica della chiese scandinave di quest'epoca» (p. 550), e degli edifici in Lcadenhall Street nella City (1928) e in King Street a Manchester (1929). che « non sono molto migliori di quello di Poultry [una delle sedi della Midland Bank a Londra] ... » (p. 522); mentre un giudizio positivo riscuotono la Midland Bank a Piccadilly (1922) e soprattutto la Britan­ nic House (1924-'27), « il più riuscito dei grandi edifici commerciali costruiti da Lutyens» (p. 552). 36 Cfr. ibidem, p. 553. D. WATKIN (cfr. op. cit., p. 114) definisce que­ sta affermazione di Hilchcock « palpably empty sentence ». 37 Per Hampstead Park « Lutyens fu invitato a progettate sia ur­ banisticamente che architettonicamente il gruppo di edifici pubblici al centro del quartiere e a sistemare le loro immediate adiacenze.... Le due chiese, con le piazze adiacenti, rappresentano due delle sue opere migliori. La sua attività qui indubbiamente propose una visione coe­ rente e civile che purtroppo non fu mantenuta nelle città-giardino più tarde,... » (cfr. Hitchcock, op. cit., p. 549). 38 « Da quando L'Enfant aveva progettato Washington non era più accaduto che una città decisa dall'alto, e di tanta ampiezza e grandio­ sità, venisse progettata, e meno ancora costruita. La Residenza del Viceré,... [è] ...un'impresa per la quale, sollevandosi dalle modeste mi­ sure del Regina Anna, del Neogeorgiano e del Palladiano, Lutyens ar­ rivò a immaginare un edificio di proporzioni romane. Il risultato è grandioso e vasto,... A progettare un monumento di questa imponenza, si erano preparate generazioni di francesi e di architetti d'altri paesi, che avevano compiuto i loro studi all'Ecole des Beaux-Arts; indubbia• mente c'è una certa ironia nel fatto che l'occasione di realizzarlo sia toccata a un inglese, educato secondo il più privatistico e individuale sistema inglese ... » (cfr. ibidem, pp. 550-1). L'ultimo brano viene quasi letteralmente parafrasato da RoBERT GRANT IRVING (Architecture as Che­ mistry, in « Progressive Architecture », ottobre 1981, come anticipazione del volume di cui qui alla nota 6). che scrive: « For generations, aspir­ ing students at the Ecole des Beaux-Arts had prepared for such a mo­ numental opportunity; by a supreme irony the chance carne to a largely self-taught genius from an English village». 39 Nei primi anni del '900 la cultura urbanistica anglosassone è in grado di programmare due grandi città, destinate a diventare le capitali dei due maggiori possedimenti britannici: New Delhi in India... e Can­ berra in Australia... » (cfr. p. 387). E ancora: « •• .le esperienze di Gar­ nier, di Howard, cli Soria, di Berlage sono tentativi parziali ed esitanti, che a noi preme mettere in rilievo in vista degli sviluppi successivi, ma risultano irrilevanti rispetto a quelle degli urbanisti ortodossi come Stiibben, Lutyens, Burnham, e pateticamente fuori scala rispetto all'en­ tità dei problemi che già in quest'epoca si stanno delineando » (cfr. p. 413; si cita qui dall'ed. del 1960, in 2 voli.). 40 La 'tendenza negativa' si era già manifestata, e ben la si coglie nell'Address to Students che nel 1959 il Presidente del RIBA, Sir Basi! Spence, pronunciava: « I think that Lutyens will come back into fa. vour in the future. He has been under a cloud since his death, but I think there will be a graduai coming back to the appreciation of this very great man». Come osserva Stamp, era tuttavia ancora troppo pre­ sto: « the time was not right "·

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41 t:. forse la prima volta che Lutyens viene accomunato, sullo stesso piano, ad architetti pur diversamente, ma indubitabilmente, associati al nzainstream del movimento moderno, come fra gli altri Mackintosh, Wright, Loos, Behrens, Poelzig e Gropius. 42 « ••. Solo dopo aver constatato che tensioni, contraddizioni e com­ plessità, divengono nelle sue [di Venturi] analisi storiche, parametri critici bons à tout faire, adatti a spiegare sia il Blenheim Palace che la chiesa doppia di Fuga a Calvi, che le opere di Furness, Lutyens, Fran­ cesco di Giorgio, Sullivan o Alvar Aalto, si scopre che l'adozione del con­ cetto di 'ambiguità' nell'opera d'arte, mutuato dai testi analitici del­ l'Empson e di Eliot, è finalizzata a giustificare scelte personali di pro­ gettazione assai più equivoche che ambigue... ». Cfr. MANFREDO TAFURI, Teorie e storia dell'architettura, Bari, 1968, p. '257. 43 Auso� SMlTHSON, The Responsability of Lutyens; PET!lR SM11'Hsor-:, The viceroy's House in Imperia/ Delhi. Un primo articolo nello stesso numero, The Personality of Sir Edwin Lutyens, si deve al suo biografo, Christopher Hussey. 44 Come ricorda lapidariamente COLlN Ai'.IERY nella citata Introduc­ tion, « The small exhibition to mark the centcnary of his birth which was held at the RIBA in 1969 was not a success ». In effetti, l'antece­ dente più significativo dell'ultima mostra londinese è quella che nel 1978 Arthur Drexler organizzò al MoMA di New York, su proposta di Allan Greenberg, il cui interesse per Lutyens risale al 1969, con il sag­ gio Lutyens' Arc11itecture Restr1died (in « Perspecta », n. 12). Fu in oc­ casione della mostra del MoMA che ADA LOUISE HUXTABLE ebbe a scri­ vere, nel « New York Times », che « Lutyens is exactly the kind of ar­ chitect to intrigue us in this changcd context. Today's architects ... find his work full of marvellous visual ambiguities and erudite references. He is an architect of flux and surprise, wit, anticlimax, ambiguity and sheer de!ight ». 45 « ••• thus from aproximately 1901 stems the death of English do­ mestic architecture... ». Si tratta appunto dell'anno dei Deanery Gar­ dens, una delle residenze progettate per Edward Hudson, fondatore e direttore di « Country Life », e amico di Lutyens per tutta la vita. Il ruolo di questa rivista negli esordi di Lutyens (grazie anche a Gertrude Jekyll - la straordinaria creatrice di giardini - che ne era corrispon­ dente) è almeno pari a quello successivamente svolto per la conoscenza delle sue opere. 46 « Lutyens was caught in the box of his time too tightly for it to be possible for my generation to think about his work without pain... "· 41 « In England he was asked what he thought of Lutyens. The rep!y was uncompromising: 'Qui est-il?'. Between the architect of New Delhi, capitai of British India, and the architect of Chandigarh, capitai of the Punjab, there was noi, and never couid be, any common ground what­ soever ». (Cfr. p. 6). 48 « A Chandigarh, nouvelle capitale du Punjab, on construit depuis plusieurs années. ...Cette grande entreprise se réalise aux Indes, pays de civilisation millénaire qui n'avait plus d'architectes depuis quelques siècles. Les Anglais pendant deux siècles ne formèrent pas d'architectes indiens, mais élevèrent des architectures anglaies, écossaises et... tosca­ nes, aux tropiques. New Delhi (style inspiré du toscan), la capitale de l'Inde impériale, fut bàtie par Lutyens il y a plus de trente années avec un soin extreme, avec un grand talent, avec un véritable succès. Que les critiques crient à volonté; faire que!que chose arrache le respect (du moins m'arrache le respect) ». Cfr. LE CoRBUSlER, Oeuvre complète 1952'57, Zurigo, 1957, p. 50.


49 Cfr. la recensione di FRANK LLOYD WRIGHT ai e Memoria! Volu­ mes », in • Building », XXVI, luglio 1951. so È ancora G. Stamp a ricordarci il parallelo che Sir Basi! Spence traccia fra la Cattedrale di Liverpool (incompiuta alla morte di Lutyens, e ferma allora alla cripta), e Notre-Dame du Haut: « ... Ronchamp is to me very similar in essence to the crypt of Lutyens' Cathedral in Liver­ pool. The mouldings, of course, are palladian in the crypt, where Cor­ busier does not use mouldings at ali, but there is this understanding of what great architecture is, tl1at is common to these two great men. • (cfr. The Rise and Fall ... , cit.). Su quest'ultima, importante opera di Lutyens, un recentissimo contributo è quello di John Summerson nel citato Catalogo, in cui fra l'altro osserva: « The question whether a building c:m assume a piace of authority in the world of architecture without actually being built is a curious one; but the answer is not in cloubt. Bramantes design for St. Peter's dome and Wren's great mo­ del for St. Paul's stili pull their weight in the history books and a whole treatise could be written on the influence of Bernini's rejected design for the l.ouvre. Lutyens's cathedral, no less than these, is a land• mark in the architectural history of its time. It will survive as an ar­ chitectural creation of the highest order, perhaps as the Iatest and su­ preme attempt to embrace Rome, Byzantium, the Romanesque and the Renaissance in one triumphal and triumphant synthesis." (cfr. JoHN SUMMERSON', Arches of Triumph: The design for Liverpool Cathedral, nel cit. Catalogo della mostra alla Hayward Gallery, p. 52). 51 « As with Versailles, the commissioning of New Delhi in 1912 inaugurated a period of building in which architecture would once again be exploited in the cause of the state... » (Cfr. KENNEIH FRAMPTON, op. cit., p. 212). 52 « A... Cartesian approach informed the design of Chandigarh... [where] ... the siting of the monuments was determined by the impo­ sition of a proportional grid... That similar modular devices had been used by Sir Edwin Lutyens when designing New Delhi was not lost on Le Corbusier... » (cfr. ibidem, p. 229). 53 Chandigarh was neither conceived nor bom in comfort. This city was the daughter of strife... » (Cfr. R. FURNEAUX-JORDAN, op. cit., p. 60). • The story of New Delhi is one of tragedy as well as one of triumph... • (cfr. G. STAMP, New Delhi, saggio nel Catalogo cit., p. 42). 54 È anche troppo noto, ma non si può non citarlo, il contrasto fra il Viceré Lord Hardinge of Penshurst, fautore per motivi di 'opportu• nità' politica dell'introduzione a New Delhi di elementi tratti dalla cultura architettonica autoctona, e Lutyens che, totalmente contrario, ribatteva che « God did not make the Eastem rainbow pointed to show his wide sympathies •· ss Le divergenze riguardano fra l'altro la posizione planimetrica e la quota di impianto della residenza del Viceré, rispetto ai corpi di fabbri­ ca dei due Segretariati progettati da Herbert Baker. • Possibly this controversy has been over-emphasized and over-dramatized, but it cer­ tainly mattered to Lutyens, ... Relations between the two men were sou­ red for two decades; ... In practical and economie terms, Baker was right; but Lutyens felt that his conception of arder and perfection had been spoiled by compromise and pettiness. Baker won: as Lutyens characteri­ stically remarked, he had met his 'Barkeloo' ». (Cfr. G. STAMP, New Delhi, cit., p. 39). L'ultima frase, citazione pressoché d'obbligo per chiunque si occupi di Lutyens, è un esempio tipico del suo gusto del « wit ». 56 È ben nota, e ce l'ha ricordata anche recentemente K. F'RAMPToN (cfr. op. cit., p. 50). la « Lutyens's passion after the tum of the cen­ tury for what he called 'Wrenaissance'... •·

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S7 La frase di Edward Hudson a Lady Emily Lutyens (nata Lytton, figlia del primo Viceré inglese dell'India), in occasione della cerimonia inaugurale di New Delhi - « Poor old Christopher Wren could never have done this! • - va appunto collegata all'importanza che Wren, con Palladio (e in architecture Palladio is the game•) ha nell'orizzonte cul­ turale disciplinare di Lutyens. 53 e Dal 1905 in poi, Unwin e Parker lavorano alla progettazione dello Hampstead Garden Suburb, una delle loro esperienze più riuscite. Qui, la varietà dei tracciati e il perfezionamento dei tipi edilizi entrano in composizione con un centro civico molto elaborato, progettato da Edwin Lutyens, e con una nuova tipologia delle reti stradali, accuratamente disegnate in rapporto al verde e alle loro diverse funzioni"· (Cfr. p. 39). 59 Cfr. ibidem, pp. 48-50. A questo brano segue, come già nella Sto­ ria di Benevolo, un ampio riferimento alla Canberra di Walter B. Griffin. Cfr. K. FRAMPION, op. cit., pp. 211-212. 61 Commentando il monumento ai caduti della Somme e la Vice­ roy's House, K. FRAMPTON (op. cit., p. 50) scrive che « in these two bril­ liant Neo-Classical monuments, Lut-yens ruthlessly renounced his Arts and Crafts heritage •· Non ci sembra che l'osservazione sia pertinente in egual misura alle due opere; tra l'altro, più opportunamente il Me­ morial di Thiepval andrebbe associato al progetto per la Cattedrale di Liverpool (come suggerisce anche John Summerson). 62 e ••• the Roman model is ruthlessly stripped, dissected and re­ built, its massive shoulders cut away and their weight piled on the top of the centre arch... • (cfr. J. SuMMBRSON, cit., p. 45). 63 Cfr. FRANCESCO ORLANDO, Lettura freudiana del « Misant11rope "• Torino, 1979.

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Il Bauhaus e il teatro tedesco LUCIANO ZAGARI

Se ci proponiamo di riconsiderare le esperienze e le ri­ flessioni sul mondo dello spettacolo che negli anni della re­ pubblica di Weimar hanno fatto centro intorno al Bauhaus, ai suoi corsi, ai suoi laboratori, le une e le altre ci appari­ ranno subito contraddistinte soprattutto dalla coesistenza di interessi anche radicalmente diversi. A una considerazione più attenta apparirà però ben presto che esse hanno dato luogo a fenomeni di convergenza, certo a volte sconcertanti, ma sempre ricchi di suggestioni importanti anche per noi oggi. Da un lato si hanno rigorosi tentativi di salvaguardare l'assolutezza dell'evento scenico o piuttosto di recuperarlo nella purezza delle sue potenzialità di rappresentazione: e ciò con un esclusivismo che ci induce oggi a parlare in alcuni casi di sacralità o di misticismo. Dall'altro lato si ha una non meno radicale dissacrazione dell' 'aura' (e non è fuor di luogo ricordare qui per l'ennesima volta la coeva formulazione benjaminiana). Il fatto teatrale risulta ridotto alla sua funzione di veicolo comunicativo e, per converso, di forma di consumo (o uso, Gebrauch) socia­ lizzato. Un coerente sviluppo di questa concezione mette in movimento le energie di critica razionalizzante (e perciò av­ vertita come emancipatrice) che nel fatto teatrale rimangono - -· · per .lo più nascoste, o vengono dissimulate. Storicamente il contrasto ::.._ e la convergenza ....:.... sono 37


presto chiariti: basta tener presente che, accanto al più cen­ trale filone funzionalistico, nel gruppo del Bauhaus conflui­ rono esperienze che sviluppavano, e anzi estremizzavano, ele­ menti di quell'espressionismo che è stato chiamato 'eternista' per la sua ricerca di dimensioni assolute, astoriche, astrat­ tizzanti. Anche tali esperienze contenevano spunti latenti di polemica contro ogni forma di fruizione edonistica e mon­ dana del teatro, ma anche contro ogni sua ipocrita idealizza­ zione e soprattutto contro ogni grossolana pretesa di identi­ ficare il fatto teatrale con la pienezza dei fatti reali. L'uso sociale dell'arte anche teatrale trovò più di un puntello proprio nel lavoro di rottura svolto dagli Schreyer, dagli Schlemmer, soprattutto nei primi anni di Weimar. Più che una cronaca delle vicende, per altro spesso tem• pestose, di queste convergenze, oggi può interessare lo studio delle possibilità morfologiche insite nei due punti di par­ tenza, sempre che si riesca a coglierle nelle loro diversità ma anche nelle convergenze effettive che vengono alla luce una volta che lo sguardo si sposti dai programmi al piano dei linguaggi teatrali. In primissima approssimazione si può anticipare che l'intersecazione si rivelò possibile soprattutto là dove si trat­ tava di arrivare a concepire il teatro (e, più concretamente, lo spettacolo) come totalità. Totalità che doveva valere in tutte e due le direzioni: come totalità di dimensioni umane attivamente operanti nello spettacolo, ma anche come tota­ lità di fruizione, in polemica contro le moderne forme uni­ laterali di fruizione che, costringendo il pubblico nelle stret­ toie di binari ricettivi prefissati, lo riducevano a una passività di tipo sostanzialmente (per dirla con parola brechtiana) culinario. Non parliamo qui delle implicazioni ideologiche proprie di ciascuna di queste diverse concezioni della totalità, ma dei processi che, proprio perché investono i linguaggi teatrali, consentono che venga proposto in termini operativi, attraverso canali figurativi totalizzanti, il tema della totalità. Il punto risulta poi comunque che in concreto non è possi­ bile pensare a uno scontato possesso della totalità, ma piut38 tosto a un suo recupero. Il recupero si configura come un


processo di essenzializzazione, di scarto. Soprattutto si tratta di rifiutare la presunzione che sia scontata in partenza l'uni­ tà, nello spettacolo teatrale di oggi, fra significante e signi­ ficato, fra lo strumento dei linguaggi teatrali e la possibilità di realizzare in essi una piena, totalizzante esperienza umana. Questi processi di essenzializzazione, di scarto e rifiuto hanno portato di fatto a due contrapposti tipi di conseguenze nello sviluppo dei linguaggi teatrali: o la riduzione dello spettacolo a gioco non già di segni ma di segnali astratti, pregiudizial­ mente svuotati della loro concretezza di singola operazione comunicativa e rappresentativa o, viceversa, la riduzione del fatto teatrale a ansia di comunicazione coute que coute, a tentativo di coinvolgimento, privo di mediazioni, della per­ sonalità pratica del singolo spettatore o almeno del pubblico come soggetto collettivo (e quest'ultima ipotesi spesso si risolse nel tentativo inverso di coinvolgere senza mediazioni lo spettacolo nelle dimensioni pragmatiche del soggetto col­ lettivo 'pubblico'). Queste due opposte forme di spaccatura convergono però, evidentemente, almeno in un punto. Nel realizzarsi in quanto (opposte) forme di spaccatura, storicamente e ideologica­ mente private della possibilità di attingere la pienezza tota­ lizzante, esse implicano (in maniera latente ma non perciò meno incidente sulle dimensioni operanti del fatto spetta­ colare) la prospettiva lontana di una ricostituita unità. Ciò significa però anche una decisiva sfasatura nel modo in cui quella ipotizzata unità potrebbe un giorno venire a profilarsi concretamente, una volta che fosse possibile riconquistarla. Lo spettacolo non potrà mai riproporsi come totalità posse­ duta e scontata ma si configurerà sempre come percorso verso un recupero. E in questo senso, per paradosso, anche le forme che nell'attuale fase di spaccatura il teatro entro e attorno al Bauhaus può proporre, sono già una forma di totalità ipotizzata, segnale vuoto, ma indirizzato verso la, totalità da entro l'esperienza della spaccatura fra segnale e messaggio, fra essenza e comunicazione. Per esemplificare le due tendenze converrà fare ricorso a un numero sia pur ridottissimo di nomi. Il nome che si 39


impone, nel filone proveniente dall'esperienza d'ambito espres­ sionista, è quello di Oskar Schlemmer, ballerino, scenografo, pittore, regista, direttore al Bauhaus, fra l'altro, del labora­ torio teatrale. Al centro del suo Triadisches Ballet (prima rappresenta­ zione 1922) è tuttora la figura umana e il significato cui, in definitiva, come disse una volta lo stesso Schlemmer, il pub­ blico vuole pur sempre ritornare. Figura umana e pienezza di significato sono qui però presenti solo come residuo di un radicale processo di essenzializzazione. Ciò significa scarto non solo di tutti gli strati superficiali, ma anche di tutte le . connessioni legate alla realtà quotidiana, soprattutto alle dimensioni borghesi dell'agire. Quello che cade è soprattutto, con la pienezza della personalità socio-psicologica, il realiz- · zarsi dell'individualità nella reattiva presenza di una situa­ zione determinata che, nel suo complesso fluire condizioni, stringa ma anche vivifichi e determini concretamente la per­ sonalità, specificando, e con ciò stesso rendendo puntual­ mente significative, le sue potenzialità astratte. Ma in Schlem­ mer risultano scartate in prima istanza proprio le connes­ sioni fra presenza di un nucleo di partenza e trasformazioni dovute all'inserimento in un contesto. Con ciò risulta radicale il rifiuto del carattere conclusivo della rappresentazione ar­ tistica tradizionale. Viene meno la possibilità di disporre le forme e i contenuti, i segnali e i messaggi in quelle due serie parallele che, corrispondendosi puntualmente, tradizio­ nalmente venivano apprezzate perché produttrici di gratifi­ canti coincidenze. In Schlemmer la divaricazione fra le due serie appare molto avanzata. Non è solo la scomparsa dei tratti individuali della figura umana resa cieca e anonima con la conseguente totale cancellazione della possibilità stessa di tratti individualizzati. Viene meno anche la sua connes­ sione con una qualunque situazionalità narrativa, dramma­ tica o anche lirica. Non che manchi la 'situazione', ma essa ha ormai una valenza opposta, di cornice rigida, utilizzabile · solo per incanalare e 'fissare' la figura. Questa si riduce cioè alla proiezione, in una tale situazione, di singole note (cro40 matiche, gestuali, sceniche). L'attenzione (o cioè poi, in ter-


mini di palcoscenico, l'illuminazione), viene a concentrarsi, con violento esclusivismo, non su eventuali connessioni uma­ namente significative fra tali 'note', ma su tutt'altro: sui movimenti scanditi, i ritmi rigidi, i percorsi obbligati, colti in se stessi, non correlati a uno specifico contesto dramma­ tico da cui possa scaturire una loro peculiare valenza. Il si­ gnificato, cui non si rinuncia, è piuttosto una significatività in sé, riferita solo all'astratta, assoluta capacità di disporsi secondo un tracciato, dalla capacità di funzionamento puro. Ci si può chiedere quanto ormai sia rimasto operante della ricerca espressionista dell'essenza. I termini della ri­ cerca di Schlemmer si sono ormai però venuti spostando. Al centro non è più il tentativo di far violentemente affiorare alla superficie il nucleo, inteso come radice di umanità pre­ storica e pre-sociale che la violenza stessa dell'esplosione drammatica proietta in un assoluto psichico universalmente umano o addirittura cosmico. I discorsi scenici e di balletto in cui qui la residua presenza umana si inserisce si risolvono in un processo astrattizzante assai più spinto: non si può più parlare di nucleo umano, le forme umane sono solo portatrici di colori, contorni, traiettorie. Certo solo un ben diverso esponente dell'ultima fase dell'esperienza del Bau­ haus, l'ungherese Laszlo Moholy-Nagy, si avvicinerà a un pieno ripudio della raffigurazione umana e si avventurerà nel tentativo di arrivare a scandire spazialità pure che pre­ senterà come le uniche omologhe alla formalizzazione sperso­ nalizzante del mondo moderno. In Schlemmer si arriva, comunque·, a nudi ritmi di scan­ sione spaziale ma intorno a essi fa massa un'intensa carica di rinnovata ritualità. La spaccatura che recide il segnale dalla pienezza della sua funzione segnica e porta in primo piano una dimensione di rigorosa astrazione, in definitiva è solo la forma modernamente adeguata per riattivare quella operazione magica che deve far precipitare una nuova sintesi antropologica. Il balletto (o più in generale lo spettacolo) è forma di una realizzazione, quasi in nulla più antropomorfa, di umanità. I danzatori sono nuclei anonimi ma pesantemente caratterizzati da un rivestimento volta a volta diverso, ma 41


reso portatore di un sema appunto per questo mutevole ma persistente ipercromatismo (e cioè monocromatismo inteso come colore assolutizzato). I perimetri che questi pesanti nuclei monocromatici delimitano vengono a costituire in astratta potenzialità (e cioè ritualmente e magicamente) estreme forme di nuova consistenza umana. Per Schlemmer si tratta di cercare per successive appros­ simazioni il ritorno dallo spettacolo al rito, dalla mimesi, dalla descrizione, dall'intrattenimento mondano o dallo stor­ dimento .della pseudo-magia decadente al fatto umano in ambiente umano. L'intenzione del recupero spiega ampia­ mente quel che di forzato, massiccio, didatticamente pesante, scostante e sazievole nella sua esibita programmaticità, che oggi rende a volte problematica la fruizione di simili testi. Ma è importante, proprio per giungere a un contatto più pieno con le singole figurazioni, aver presente che si tratta non di uno spettacolo chiuso nella sua rotonda pienezza in sé conclusa, ma di una puntuale realizzazione di una fra le tante possibili realizzazioni dei modi spettacolari che, in cerchi che si inanellano fra di loro, coprono tutta la gamma differenziata che va dall'atto di culto religioso all'intratteni­ mento popolare, passando dall'azione scenica sacra e dal vero e proprio teatro fino al cabaret, al varietà, al circo. Lo scopo dell'artista moderno è di recuperare lo spetta­ colo come comunicazione e la comunicazione teatrale come momento costitutivo di una presenza sociale comunitaria. L'astrattezza dell'essenzializzazione non è quindi solo un prezzo da pagare per questa differenziata e graduata speri­ mentazione di recupero, ma carattere primario di una simile avventura di ricostituzione di modi essenziali, di categorie colte nella loro trascendentale purezza. :E: proprio qui, paradossalmente, che si ha l'incontro con le premesse razionalistiche e funzionalistiche che sono poi quelle che contraddistinguono il movimento del Bauhaus nel suo complesso. Anche qui ci limiteremo a un solo nome, quello maggiore. Walter Gropius - non c'è bisogno di sottolinearlo in una 42 sede come questa - combatte l'idea che l'esteticità; di


un oggetto sia una sorta di veste sovrapposta all'oggetto stesso. In opposizione all'immagine della veste potremmo azzardarne un'altra, ad essa opposta: la forma estetica è come l'epitelio, lo strato più rivolto verso l'esterno di un organismo che nel suo interno sussiste in quanto retto da una calcolabile rispondenza tecnica a un compito da svolgere, insomma a una funzione e che è 'bello' semplicemente per la congruenza raggiunta fra strumenti e finalità. La forma estetica, questa sorta di epitelio, proprio perché rappresenta lo strato di contatto con il mondo esterno, con il fruitore, è lo strato che giunge ad affettare di sé (afticere) il fruitore e cioè a comunicargli il funzionamento di quell'organismo come congruenza (o incongruenza, nei casi negativi). Qui non ci possiamo soffermare su una prima contraddi­ zione che pure salta agli occhi: con tutto il rifiuto di tutte le « sdolcinature romantiche" sembra evidente il pericolo che il ricondurre il bello alla congruenza ( « qualcosa che funzioni correttamente») comporti in definitiva un'armoniz­ zazione, un acquietarsi in una rispondenza tutto sommato non molto più dinamica di quella tradizionale 'estetica'. Nel filo del nostro discorso interessa di più ricordare che il principio che abbiamo rapidamente illustrato anima Gropius nel suo rapporto col teatro, per es. nel progetto di teatro totale per Erwin Piscator (1927). Il teatro proget­ tato non avrebbe dovuto costituirsi in monumento ma rea­ lizzarsi in spazio teatrabile: una scansione dinamica (e quindi anche ribaltabile) di spazi doveva realizzare la funzione pri­ ma del teatro, come occasione di socialità spazializzata. La progettazione teatrale rappresenta un esempio parti­ colarmente complesso degli intenti di Gropius: si tratta in definitiva di progettare un oggetto d'uso che va giudicato sulla base della sua capacità di cogliere, di esaltare, di indi­ rizzare (o magari di deviare) la funzione propria ('naturale', 'organica') di un quid che in esso va contenuto, ma che non è, a sua volta, un oggetto ma tradizionalmente viene consi­ derato un fatto estetico. Evidentemente solo se si ripensa questo quid, e cioè lo spettacolo, non come oggetto, non come fatto estetico in sé compiuto, ma come servizio di 43


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comunicazione rispetto alla comunità dei fruitori, solo sulla base di un simile ripensamento non solo della natura dello spettacolo ma, di conseguenza, della sua morfologia e della sua sintassi scenica, sarà concretamente possibile dire ri­ spetto a che cosa il teatro come edificio debba e possa venir progettato in modo funzionale. Qui cominciano a manifestarsi le possibilità di quella pa­ radossale convergenza o almeno contiguità strutturale con gli esperimenti che abbiamo ricondotto al nome di Schlem­ mer. Proprio la necessità di costituire un legame essenziale fra Schauspiel e Schauspielhaus comporta la necessità (sia nello spettacolo che nel teatro come casa-dello-spettacolo), di ricercare l'essenza, la natura-funzione e quindi di scartare l'accessorio, il mistificante, l'edonistico, il mondano, l'elitario. Un tale lavoro di scarto può sembrare ispirato a un gusto ascetico, rinunciatario fino al rischio del 'povero' o dello squallido. Almeno nel caso del teatro un simile rischio non sembra debba venir preso seriamente in considerazione. Lo scarto si configura come ricerca di una diversa ricchezza che dovrebbe poi coincidere con la dimensione della comu­ nicazione intesa come partecipazione comunitaria, fruizione ma, ancor prima, costituzione di totalità. Anche qui la totalità non è già data ma va recuperata o anzi conquistata. Essa mira a sfuggire a quel pericolo con­ fermativo cui si accennava poco fa opponendosi a una con­ ferma dell'uomo così come era nella società weimariana o anche così come risulta fissato nelle invarianti naturali. An­ che in questo caso si tratta di un processo di essenzializza­ zione che deve individuare le dimensioni teatrali capaci di favorire il sorgere di un uomo diverso, concepito non come consonanza ma come apertura, come raggiera multiforme co­ stituita da una serie, la più complessa possibile, di rapporti di comunicazione (ricezione e trasmissione di impulsi). Ciò comporta tecnicamente la costruzione di un teatro tutt'altro che povero o ascetico (se, certo non lo si commi­ sura alle esigenze di fasto, esibizione, mondanità che caratte­ rizzava il teatro corrente). Il nuovo teatro doveva essere in grado di ospitare in maniera funzionale tutti gli strumenti





suo esponente più illustre. E però anche qui che va rintrac­ ciato il punto in cui fra le maglie antinomiche si apre lo spazio per raggiungimenti, forse parziali rispetto alle ambi­ zioni, ma di portata innegabile. Ciò vale in particolare per la contraddizione più radicale che è poi quella fra due modi di concepire l'uso puramente funzionale del teatro, visto o come recupero di una naturalità compromessa dalle menzo­ gne sociali o come scarto delle menzogne poetiche ed edo­ nistiche sul teatro che consentirebbe l'avvio all'invenzione storica di modi diversi di realtà umana e di umana comu­ nicazione. Proprio qui si innesta una particolare ricchezza di svi­ luppi che, paradossalmente, si deve ricondurre all'inconcilia­ bile divaricazione di quelle due possibilità antinomiche. La ricerca di una funzionalità pura del fatto teatrale ha infatti portato a sviluppi divergenti che, proprio nella loro sotto­ lineata unilateralità, risultano di costitutiva importanza per la nostra coscienza teatrale moderna. Schematicamente si può distinguere fra cancellazione e accentuazione della presenza dello spettatore separata dal piano della scena e dello spettacolo. Riassorbire lo spettatore sulla scena (o ricondurre lo spet­ tacolo in platea o magari in istrada) non significa distruggere il teatro o snaturarlo, ma neanche inventare qualcosa di cosi radicalmente nuovo da risultare capace di far saltare le menzogne borghesi. Oggi ci appare evidente il senso che può avere la concezione di una vita comunitaria che vive se stessa come spettacolo. Essa infatti non ha bisogno di spettatori perché si realizza come pullulare di virtualità segniche insite nel suo stesso dipanarsi e articolarsi. Viversi comunitario, quindi, come non mediato costituirsi di segni che pertanto si realizzano non come comunicazione in funzione di un ri­ cettore esterno, ma valgono solo entro l'ambito di chi in quella dimensione di evento teatrale è coinvolto come attore (cioè di colui che in essa co-agisce). Certo, questo teatro ben difficilmente appare concepibile come forma di consapevolezza critica. Se nelle forme delle 48 convivenze tribali (o comunque 'primitive') esso si è sempre



attribuito al regista, occhio per eccellenza demiurgico. Anche in questo caso assai più interessante di una scolastica sparti­ zione di lodi o censure è la constatazione di come questa accentuazione abbia incanalato le possibilità di realizzazione scenica. L'occhio del regista (ma anche dello spettatore) come fondamento della prospettiva in cui si iscrive lo spet­ tacolo porta a cogliere i grandi fenomeni drammatici soprat­ tutto come grandi sistemi di organizzazione linguistica del­ l'esperienza intesa come fatto di spettacolo. In primo piano è allora la possibilità di proiettare la supposta spontaneità dell'evento al livello di ipotesi di funzionamento in vitro, quasi come prova di laboratorio in cui l'analisi e la sintesi di dimensioni disparate permette di valutare come in tra­ sparenza o in astratto le virtualità di realizzazione piena. Anche qui l'ambizione della totalità balena come prospet­ tiva finale, ma rimane frustrata. L'ambizione di ricostituire la totalità umana, sociale e politica partendo dalla polemica e dallo smascheramento e l'ambizione di ricostituire la to­ talità dei linguaggi artistici partendo dalla scomposizione se non dalle spaccature, si sono rivelate entrambe eccessive e da tempo proviamo anzi il bisogno di distanziarci da espe­ rienze forse a noi ancora troppo vicine ma insieme ormai definitivamente separate dal nostro oggi. Ma il modo miglio­ re di fare i conti con il mondo teatrale del Bauhaus, senza · accademismi e senza complessi reverenziali, è forse da ri­ cercare non nel gioco delle condanne definitorie (né, come accadeva fino a pochi anni fa, in quello delle esaltazioni partigiane), ma in una valutazione differenziata dei complessi itinerari compiuti da questi supposti semplificatoti radicali.

INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE O. ScHLEMMER, L. M0H0LY-NAGY, F. MoLNAR, Il teatro del Bauhaus, con uno scritto di W. Gropius, nota di F. Menna, Torino 1975.

Catalogo della mostra organizzata dall'Institut fii.r Auslands­ beziehungen, a cura di K.-G. Bitterberg, trad. di E. Mortola, Stoc­

BAUHAUS,

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carda 1981.


G. C. ARGAN, Oskar Schlemmer, in Studi e note, Roma 1955. F. MENNA, Il teatro del Bauhaus, in Intellettuali società e stato nella Re­ pubblica di Weimar, Napoli 24-27 gennaio 1979, Istituto Universitario di Napoli. Teatro della Repubblica di Weimar, a cura di P. Chiarini, Roma 1978. M. CASTRI, Da Piscator a Brecht, in Erwin Piscator 1893-1966, a cura di P. Chiarini, Roma 1978. M. CASTRI, Per un teatro politico. Piscator Brecht Artaud, Torino 1973. B. BRECHT, Presentazione di «Macbeth», in Scritti teatrali, voL I, Torino 1975. Va infine ricordato il convegno dedicato a Espressionismo e neo­ espressionismo della danza tedesca (2-5 aprile 1982, Goethe-Institut di

Roma), con interventi di L. Bentivoglio, H. Milller, N. Servos, J. Schmidt, R. Garske, F. Quadri, S. Sinisi, I. Gomes, A. Millos.

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