Op. cit., 58, settembre 1983

Page 1


Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

Direttore: Renato De Fusco Segretaria di redazione: Roberta Amirante Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Te!. 7690783 Amministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Giordani, 32 - Te!. 684211 Un fascicolo separato L. 3.500 (compresa IVA) - Estero L. 4.000

Abbonamento annuale: Italia L. 10.000 - Estero L. 11.000 Un fascicolo arretrato L. 4.000 - Estero L. 4.500 Spedizione in abbonamento postale - Gruppo IV C/C/P n. 23997802 intestato a:

Edizioni e Il centro • di Arturo Carola


G. D'AMBROSIO, P. GRIMAU>I,

C. LENZA

E se Gutenberg fosse un designer?

L.

I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica

21

L'Amsterdamse School

34

Libri, riviste e mostre

45

MOSCATO ESPOSITO

P. BuCCIARELLI

S

Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Pasquale Belfiore, Gabriella D'Amato, Filippo Fimiani, Maria Luisa Scalvini, Angelo Tri­ marco.



E se Gutenberg fosse un designer? GELSOMINO D'AMBROSIO, PINO GRIMALDI, CETTINA LENZA

Il disegno deve correggere l'ottu­ sità del design (L. SINISGALLI, Calcoli e fandonie, 1970).

La proposta qui formulata di indagare i rapporti che intercorrono tra grafica e industriai design, nel tentativo di ricondurre la prima al secondo, non ha lo scopo di rilan­ ciare l'utopia, ormai regredita, di un progetto globale, con­ vinti all'opposto della specializzazione (e di una relativa spe­ cificità) dei singoli settori d'intervento; intende piuttosto far luce su alcuni aspetti del fenomeno design, passando attra­ verso un'analisi (e, se possibile, una definizione) del settore grafica. Questa analisi si è incentrata in modo privilegiato sul libro, considerato come prodotto-tipo del settore ed artico­ lato momento di sintesi di differenti «oggetti,. del lavoro grafico. A fronte delle riserve avanzate da una certa parte della critica, che esclude dall'ambito dell'industriai design un prodotto grafico, laddove è piuttosto disposta ad ammet­ tervi l'aereo o il calcolatore, si vuole proporre la tesi che proprio il libro costituisca, già dall'avvento della stampa, un esempio di prodotto di design (o proto-design). Si è dunque parzialmente (in parte e con interesse di parte) attraversato l'ormai vasto campo di studi sulla storia del libro 1 trascegliendo, in coerenza con la chiave di lettura proposta, dati ed aspetti che potessero risultare a sostegno 5


di tale tesi. Nel libro come prodotto grafico, e, in particolare a livello della sua unità minimale, il carattere tipografico, si sono così visti affrontati e risolti alcuni nodi-chiave della problematica progettuale; il che ha consentito di individuare il libro se non come primo modello (proto-tipo}, almeno come indispensabile punto di riferimento per l'attuale dibattito sul design. Grafica e industriai design

La concezione di grafica come disciplina progettuale è piuttosto recente; essa si afferma infatti solo negli ultimi decenni, prendendo il posto della tradizionale definizione di grafica come arte del disegno e della stampa o di grafica come costruzione e soluzione geometrica. Come scrive Anceschi, ll termine ( dalla locuzione « ars graphica », cioè tecnica dello scrivere) designa comunemente quel settore della produ­ zione artistica visiva che utilizza la tecnica del disegno ( in

contrapposizione alla pittura) e soprattutto alcuni procedi­ menti tècnici di moltiplicazione come l'incisione, la litografia, Ja serigrafia. Quest'accezione convive, ma tende progressiva­ mente a essere soppiantata, con un uso del termine indicante sia i prodotti sia le varie fasi della progettazione di quel tipo di artefatti che adempiono a funzioni (principalmente o esclusivamente) comunicative. Il suo significato tende cioè a coincidere con quello della locuzione anglosassone • visual ,. o • graphic design» 2.

Se nelle numerose pubblicazioni sul design (a carattere storico o antologico) non manca un riferimento, sebbene mi­ noritario, al lavoro di grafici, allorché si è trattato di teo­ rizzare i rapporti tra grafica e design, la riflessione critica li ha resi ambigui e conflittuali. Infatti, il dibattito sul design che si sviluppa a partire dagli anni '60 si preoccupa di intro­ durre artificiose distinzioni, individuando grafica e industriai design come sottocategorie separate i cui confini, all'interno del più vasto insieme del progettabile, sono stabiliti da una differente caratterizzazione tecnica, funzionale o formale dei 6 relativi prodotti. Per Munari, ad esempio, l' 'industriai design'


si occupa della progettazione di oggetti d'uso secondo le re­ gole dell'economia, lo studio dei mezzi tecnici e dei materiali, laddove il 'visual design' si occupa delle immagini che hanno la funzione di dare una comunicazione visiva: segni, segnali, simboli, significato delle forme e dei colori, rapporti tra questi, e il 'graphic design' opera nel mondo della stampa, dei libri, degli stampati pubblicitari, dovunque occorra siste­ mare una parola scritta, sia su di un foglio di carta, sia su una bottiglia J. Escludono addirittura la grafica dell'ambito dell'industriai design coloro i quali vanno sostenendo che non si fa del design se non si agisce su prodotti tridimensionali 4• Contro tale « pregiudizio » si pronuncia già Dorfles in una breve nota sulla grafica aggiunta all'edizione del '72 del suo Introduzione al disegno industriale, pubblicato nove anni prima. In essa si ribadisce che in effetti la distinzione tra product design e graphic design basata solo sul fatto che il primo sia preva­ lentemente tridimensionale e il secondo bidimensionale, è troppo semplicistica. Quello che costituisce la stigrnata più rilevante del design in genere, è il fatto di essere una proget­ tazione globale rivolta a un determinato prodotto, oggetto, operazione, e non soltanto un singolo disegno privo di quelle caratteristiche programmatrici e di strutturazione globale proprie del design 5• Escludendo di conseguenza schizzi e disegni di stoffe, di motivi ornamentali « sovrapposti » ad un oggetto, per Dorfles nell'ambito dell'industriai design si potrà includere invece ogni progetto destinato a una complessa operazione grafica, come quello della creazione di un marchio di fabbrica, di un logotipo, di un'immagine coordinata rife­ rita a ,una ditta, ad un'impresa; e in genere ogni forma di progettazione che potrà essere bidimensionale o tridimen­ sionale ( nel caso dell'imballaggio) anche se questa proget­ tazione sarà essenzialmente di carattere grafico piuttosto che di carattere oggettuale 6• Il « varco » aperto tra i due settori appare così regolato da un rapporto subordinato: la grafica è ammessa nell'am­ bito dell'industriai design allorché ne costituisce, come packaging o pubblicità, l'ideale complemento e prolunga- 7


8

mento, o si propone, accanto al disegno dello stesso oggetto, come mezzo espressivo di uno stile nella produzione. È in questo senso, notava Argan, che il disegno Industriale non si limita a progettare l'oggetto che deve produrre, ma teo­ ricamente abbraccia tutte le forme e gli aspetti connessi con la produzione: dall'architettura della fabbrica alla presenta­ zlone del prodotto, alla pubblicità 7, ove quest'ultima affida ad elementi grafici lo scopo appunto di rivelare lo «stile», la sigla di un particolare tipo di produzione, assicurando in tal modo implicitamente lo spettatore della perfezione, del­ l'esattezza ideativa e costruttiva che ha presieduto alla pro­ duzione dell'oggetto•. Nella medesima logica, a tale «varco » si aggiunge uno spazio di mediazione, un punto di contatto, anche fisico, tra intervento grafico e di design. Per Bonsiepe, se la grafica si individua pur sempre come disciplina affine (ma distinta) dall'industria! design, la «grafica dei prodotti» (e dunque tastiere, quadranti, cruscotti, pannelli e tavole di coman­ do, ecc.) rappresenta un settore situato in una zona inter­ media... Come indica il termine, rientrano in questo campo tutti quel segni che compaiono sui prodotti, attraverso i quali vengono trasmesse all'utente delle informazloni 9 (nome del produttore o del prodotto, caratteristiche tecniche di que­ st'ultimo, ecc.). Respinta ai margini del prodotto, come imballaggio o ma­ nifesto (prosecuzione della confezione stessa), o sovrapposta ad esso, in quanto marchio, etichetta, ecc., la grafica viene insomma recuperata nell'ambito dell'industriai design solo a determinate condizioni: quelle cioè di supporto della pro­ duzione ed elemento dell'immagine aziendale; in un ruolo accessorio, dunque, e confinato alla superficie delle cose, ana­ logamente ad un'operazione di styling {progettazione a sua volta dell'« involucro,. del prodotto), con tutte le connota­ zioni negative che la concezione moralistica vi ha connesso. Si dimentica così, con un'omissione tanto paradossale quanto significativa, che l'operazione grafica non si limita ad intervenire sull'« epitelio della merce», ma anzitutto struttura dall'interno il libro e gli stampati paralibrari, gene-


ralmente esclusi dalle numerose antologie sul design. In real­ tà, si è disposti ad annoverare il libro nell'ambito dell'in­ dustriai design solo se realizzato secondo gli schemi degli altri prodotti-merce, con un riferimento ad una progettazione specifica, alla tiratura della grande serie, ad una « valorizza­ zione» grafica che riguardi prevalentemente - nel libro come per qualunque altro oggetto di produzione - gli aspetti di autopresentazione, nei luoghi a ciò deputati (copertina, so­ vraccoperta, custodia, ecc.). Eppure, se, come afferma Dorfles, la grafica rientra di pieno diritto nel campo dell'industriai design allorché entra a far parte di progettazioni complesse 10, il riferimento più pertinente è proprio al settore editoriale, nel quale l'inter­ vento di progettazione grafica si esplica, oggi, dal micro­ livello del carattere tipografico a quello della pagina, del volume, della collana, della complessiva immagine coordi­ nata della casa editrice. Ma è ancor più interessante notare che, anche risalendo all'epoca dell'introduzione della stampa, ovvero della sua realizzazione meccanica e del suo primo configurarsi come prodotto-merce di larga diffusione, il libro rivela in sé i caratteri di " progettazione complessa»: infatti, è già allora possibile individuare, a livello di analisi, la com­ presenza di un corpus, portatore della funzione (che assicura cioè la trasmissione del testo) e di un involucro, che assolve il ruolo di presentazione del prodotto, distinzione funzionale che si traduce inoltre, attualmente, nella differenza, a livello tecnico e formale, dei modi e dei materiali impiegati nella realizzazione. In tal modo, nel libro si trovano anticipati " in nuce» gli sviluppi delle due tipologie della grafica: non solo, cioè, quella della grafica editoriale, ma anche quella della grafica pubblicitaria, dei cui prodotti (il marchio commerciale, il manifesto/locandina, il packaging) l'« involucro» fornisce la sintesi dei proto-tipi. Infatti, proprio col passaggio dal mano­ scritto allo stampato, si introducono una serie di elementi grafici legati alla nuova valorizzazione del libro come prodotto­ merce: l'insegna o marca tipografica, elemento di identifica­ zione di librai e stampatori, solitamente combinazione di 9


un'immagine allegorica e di una legenda o motto, che diventa tosto una vera illustrazione pubblicitaria, destinata non solo a indicare l'origine del libro, ma anche ad ornarlo e ad affermarne la qualità 11; il 'frontespizio, uno dei passi più marcati ed evidenti sulla via della trasformazione dello scritto in stampato 12 , vero e proprio elemento «spettacolare» del libro, che, introdotto per motivi pratici (le lunghe gia­ cenze in stamperia suggeriron9 di iniziare a stampare sul «verso» del primo foglio, aggiungendo sul «recto» rimasto bianco un succinto titolo che consentisse di riconoscere l'opera) passa a svolgere la funzione di «presentazione» del prodotto, uscito finalmente dall'anonimato del manoscritto, costituendo al tempo stesso una forma di propaganda, effi­ cace e a buon mercato 13; la copertina e l'allestimento com­ pleto, già previsto da Manuzio nel 1501 per la sua collana «tascabile » di testi classici, in un'epoca in cui i libri veni­ vano immessi in commercio a fogli sciolti, per essere poi rilegati al momento della vendita. Grafica editoriale e grafica pubblicitaria, come espressioni di design, nascono dunque insieme, almeno come problemi, nel libro a stampa, rispettivamente nei luoghi del corpus e dell'involucro. Per quanto attiene a quest'ultimo, comun­ que, i cosiddetti elementi di «presentazione » del libro hanno conservato una definizione di tipo più artigianale: frequen­ temente affidati in passato alla competenza di un artista incisore, si caratterizzano anche in seguito per una relativa « autonomia» nei confronti del corpus, il che li rende anche più suscettibili di risentire delle oscillazioni del gusto. An­ cora oggi, gli analoghi prodotti della grafica pubblicitaria, lì anticipati « in nuce » (marchio, manifesto/locandina, im­ ballaggio, ecc.), si rivelano privi di codificazione e di qua­ lunque formalizzazione di progetto (quindi di design), che si riduce, in genere, o ad un bozzetto, puramente indicativo, da « tradurre», o ad un esecutivo da riprodurre integralmente, · privilegiando, in coerenza con un'ascendenza «artistica», il momento ideativo, rispetto ad una riduzione/razionalizzazione schematica. Il corpus, invece, elemento più «statico » del vo10 lume, contrappone alla libertà dell'involucro la griglia del


menabò, ed una rigida codificazione, che, stabilita da una consolidata tradizione, costringe il grafico ad intervenire negli spazi ridotti di scarti minimi; il che ridimensiona la sopravvalutazione critica della grafica pubblicitaria nei con­ fronti di quella editoriale, soprattutto laddove si intenda esaminarle come fenomeno di design.

L'industria tipografica La maggiore attenzione accordata, nell'ambito della teoria del design, alla grafica pubblicitaria nei confronti di quella editoriale, sottende nuovamente un pregiudizio: ovverosia la distinzione (e quasi la contrapposizione) tra una forma « moderna » rispetto ad una « tradizionale » del settore, per cui la prima, in quanto « figlia » della rivoluzione industriale, risulterebbe più pertinente al fenomeno dell'industriai design. Per Dorfles, ad esempio, non è possibile discorrere di di­ segno industriale riferendosi ad epoche precedenti la rivo­ luzione industriale, anche se sin dall'antichità si sono dati alcuni oggetti eseguiti in serie e con il parziale intervento di macchinari primitivi come il tornio, il trapano, la ruota dei vasai e le presse a mano delle fornaci di laterizi 14 • Ma in una ricerca di precedenti non può omettersi che proprio la stampa ha costituito l'atto di nascita dell'indu­ stria, dal momento che la meccanizzazione dell'arte di scri­ vere è stata probabilmente la prima riduzione di un lavoro in termini meccanici. Se è vero che con l'avvento della rivo­ luzione industriale l'industria editoriale si trasforma per l'in­ troduzione di innovazioni e scoperte tecniche (la macchina da stampa a vapore, la macchina continua per la carta, ecc.) meccanizzandosi ulteriormente, e si sviluppa grazie alla pre­ senza nelle grandi città di un maggior numero di potenziali lettori, fin dal suo apparire a livello economico la stampa comportò una rivoluzione nella concezione stessa di produ­ zione. Con la stampa appare la nozione di moltiplicazione per mezzo di serie identiche di uno stesso oggetto uniforme e ripetibile. Il foglio stampato prodotto in innumerevoli esem- 11


plari e l'invenzione di una macchina utensile in cui la mano dell'uomo è assente hanno effettivamente trasformato l'idea stessa di produzione 1s. Inoltre, se l'industriai design va necessariamente ricolle­ gato allo sviluppo dell'economia capitalistica verificatosi solo nel XIX secolo, va comunque notato che la stampa si è inse­ rita, già dal XV secolo, nel circuito produzione-consumo come vera e propria forza produttiva, nei modi e secondo una logica che costituiscono, ancora una volta, un'anticipazione e una premessa per il fenomeno ottocentesco. Fin dall'ori­ gine, secondo Febvre e Martin, la stampa sorse come un'in­ dustria retta dalle medesime leggi delle altre industrie, e il libro come una merce che alcuni uomini producevano innanzi tutto per guadagnarsi da vivere, anche quando, come i Ma­ nuzio e gli Estienne, erano pure umanisti e studiosi. A sua volta, il mercato del libro fu sempre simile a qualungue altro. Agli industriali che fabbricavano i libri - l tipografi -, ai commercianti che li smerciavano - librai ed editori -, si ponevano problemi di costi e di finanziamenti 16: ricerca di capitali, per anticipare le spese, talvolta notevoli, per l'acqui­ sto della carta ed il rinnovo dei caratteri, contenimento dei costi, per combattere la concorrenza, attraverso un'adeguata organizzazione del lavoro. Così, nelle officine tipografiche dei grandi stampatori, come i Koberger, i Froben, i Plantin, gli addetti al torchio consegnavano dai 2500 ai 3500 fogli nelle dodici e, a volte, sedici ore lavorative giornaliere, in modo da avere una produzione media di un foglio ogni venti secondi, cifre precisate anche nei contratti di lavoro; e con­ temporaneamente si andava sempre più razionalizzando an­ che l'attività dei compositori, modificando progressivamente la posizione della cassa e la distribuzione in essa dei carat­ teri, al fine di favorire nel lavoro un certo automatismo, nozione nuova nel secolo XV 17• Il carattere industriale della produzione tipografica viene dimostrato, sul fronte della produzione, dall'aumento delle tirature e dalla parallela scomparsa del prodotto 'unico' o differenziato: Vindelino da Spira stampa nel 1471 mille copie 12 dei commenti del Panormita alla prima e seconda Decretale;


Manuzio « tira», all'inizio del secolo successivo, mille copie dei volumi della sua collana di classici; la prima edizione del Moriae Encomium di Erasmo, stampata a Basilea dal Froben nel 1515, è di milleottocento esemplari, quella della Bibbia di Lutero di quattromila, ecc. Stando a quanto schematizza Escarpit, la media dei libri stampati non superava le mille copie che verso la metà del XVI secolo; nel XVII secolo stava tra le duemila e le tremila copie e rimane a questo livello fino alla metà del XVIII secolo 18• Quindi, anche am­ mettendo, con Febvre e Martin, una tiratura media di cin­ quecento copie, si tratta di circa venti milioni d'esemplari, stampati prima del 1500. Numero impressionante anche per noi, uomini del secolo XX. Ancor più impressionante in quanto l'Europa, non dimentichiamolo, era molto meno po­ polata di oggigiorno: sicuramente meno di cento milioni di abitanti nei paesi in cui s'era diffusa la stampa, e tra questi abitanti, una minoranza soltanto sapeva leggere 19 • Si aggiun­ ga, infine, che la limitazione degli stampati non era dovuta, molte volte, a difficoltà di tipo tecnico, ma ad intese di ordine corporativo, all'alto costo della carta nei momenti di crisi, alle difficoltà dei sistemi di trasporto. Una notevole modernità caratterizza anche l'organizza­ zione della vendita. Anzitutto, per l'uso del latino l'universalità della lingua scritta rese fin dal principio la vendita del libri in commercio completamente internazionale 20 (che fu, tra l'altro, il più importante fattore nella diffusione dei libri umanistici e delle idee e delle forme del Rinascimento ) 21• Come sottolinea Goldschmidt, l'esistenza nel XV secolo di un commercio librarlo esteso all'Europa intera e pienamente efficiente ed il suo rapido adattamento alle nuove condizioni create dall'arte tipografica, l'allargata cerchia dei clienti, l'aumentato volume delle merci che dovevano essere distrl• buite, sono tutti fatti che meravigliano chiunque si accinga a considerare tali problemi 22• La creazione di tale rete com­ merciale a carattere internazionale era affidata all'attività di - « agenti », ed aveva il suo momento culminante nelle grandi fiere (di Lione, di Francoforte, di Lipsia) in occasione delle quali, almeno fin dalla metà del Cinquecento, erano ad- 13


dirittura stampati appositi cataloghi generali che segnala­ vano le novità librarie, che venivano ad aggiungersi ai nor­ mali listini dei volumi a disposizione. Altrettanto sorprendenti, s{il fronte del consumo, le cifre relative alle vendite: della prima edizione del Nuovo Testa­ mento di Lutero che uscì nel settembre del 1522 furono vendute, in poche settimane, cinquemila copie, e dopo tre mesi fu realizzata una seconda edizione per giungere alle quattordici edizioni autorizzate e alle sessantasei plagiate nei due anni successivi. Ma anche in un caso meno clamoroso e capziosamente favorevole, come per quello del libro ABC and Little Catechism, si può citare la cifra ragguardevole di diecimila copie vendute in soli otto mesi nel 1585. Al di fuori dei libri scolastici, comunque, si può ricordare il caso del libro di Tommaso da Kempis, De lmitatione Christi, stampato per la prima volta ad Augusta nel 1471, del quale, prima della fine del secolo, uscirono ben novantanove edizioni, fra cui due traduzioni: una in francese (stampata nel 1488) ed una in italiano (del 1491); il che ha portato Steinberg a considerarlo il primo libro a stampa che meriti l'appellativo di « best-seller » 23• Il libro come prodotto progettuale

14

Come nota Francesco Barberi nella voce « Grafica e arte del libro» dell'EUA, per l'impiego di elementi prefabbricati e di procedimenti meccanici, nonché per i modi di orga­ nizzazione del lavoro, e infine, per il carattere di serie della produzione, la grafica è da considerarsi come la prima forma storica di disegno industriale 24• La caratteristica di prodotto industriale, in tutte le sue possibili accezioni, anzitutto va ricercata, come abbiamo detto, nel corpus del volume, e, in quanto produzione esclusiva• mente meccanica di copie identiche, si riscontra a livello delle singole unità che lo compongono, ovverosia le pagine. È infatti sulla produzione iterativa, ripetitiva, seriale della pagina che si fonda appunto la definizione del libro come prodotto industriale (ammettendo come inevitabili fasi di


completamento le finiture parzialmente manuali della loro organizzazione in volume, rilegatura, ecc.). Questo livello di serialità è già quello della stampa silografica col torchio, che precedette la stampa a caratteri mobili; ma laddove la silo­ grafia moltiplica un modello non ulteriormente riducibile, riproponendolo ogni volta nella sua integralità, nella stampa il carattere di serialità si ritrova, con una nuova segmenta­ zione, ad un livello ulteriore, quello cioè del singolo carattere, nel duplice aspetto: della sua riproduzione sulla pagina e della sua stessa produzione (di più caratteri a partire da un'unica coppia punzone-matrice). Alla base di entrambe tali produzioni seriali vi sono, al­ l'origine del libro a stampa, due processi di standardizza­ zione: quello della pagina (del foglio) presuppone la produ­ zione, ormai normalizzata in risme e formati, di un'industria cartaria, da tempo affermata e fiorente; quello. dei caratteri è legato alla famosa «invenzione» di Gutenberg, che, come si sa, costituì piuttosto l'applicazione e l'adattamento ad un nuovo campo di un insieme di strumenti e di conoscenze tecniche già proprie, ad esempio, degli orafi e degli incisori. Tale « invenzione», che portò a suddividere il blocco unico silografico in singoli elementi prefabbricati, fu consentita a sua volta dalla riduzione a lettere isolate della scrittura ma­ nuale o corsiva, le quali, nell'impaginazione, riacquistano la continuità propria delle unità linguistiche grazie a legami per­ cettivi che sostituiscono le effettive giunzioni calligrafiche. Secondo Anceschi, non è casuale che l'introduzione della stampa a caratteri mobili avvenga proprio nell'ambito della cultura occidentale e di quella cinese (e non di quella araba, pur così avanzata nel settore tecnico) i cui sistemi di scrit­ tura, nonostante le profonde differenze, hanno proprio in­ vece in comune il tratto caratteristico dell'accostamento di caratteri isolati 25• Il sistema di composizione a caratteri mo­ bili, insomma, presenterebbe nessi, se non certi, almeno... fortemente probabili 26 con la monogrammaticità, ovverosia con la tendenza di alcuni artefatti comunicativi ad una ridu­ zione ad unità molari, sintattiche, i monogrammi appunto; definibili in base alla proprietà di essere riutilizzati sostan- 15


zialmente immutati in un altro artefatto comunicativo. Pro­ prio per tale sua caratteristica, la linea evolutiva della scrit­ tura si sarebbe progressivamente staccata da quella della raffigurazione, proveniente anch'essa dall'unica originaria ed indifferenziata attività del tracciare, secondo una strategia che ben rispondeva all'esigenza di soddisfare i crescenti bi­ sogni comunicativi a partire da un numero definito di ele­ menti « discreti». È un analogo principio di economia che conduce la ri­ cerca grafica applicata alla tipografia ad una progressiva ri­ duzione e semplificazione dei « segni » nelle casse dei compo­ sitori, con l'abbandono di politipi, legature e abbreviaziòni, diminuendo cosl il numero dei punzoni da intagliare e delle matrici da battere: manifestazione di quella tendenza al­ l'uniformità e alla semplificazione che caratterizza in molti campi l'evoluzione del libro e della sua industria v. Inoltre, la ricerca di standardizzazione si spinse dall'ambito dei ca­ ratteri e degli elementi che regolavano la composizione della pagina. (interlineature, marginature e telai) a quello della decorazione stessa, ricorrendo anche in tal caso ad elementi prefabbricati, fregi e fanalini, che già alla metà del Cinque­ cento compaiono nelle casse dei compositori. L'« economia» di tale procedimento giunse infine a suggerire addirittura il riciclaggio di silografie per le iniziali ornate e le illustra­ zioni del testo (non di rado con notevoli incongruenze, come nel famoso caso della Bibbia della Leda, cosiddetta appunto perché l'Epistola agli Ebrei era introdotta da un capolettera profano - Giove in visita a Leda sotto forma di cigno prelevato da un'edizione delle Metamorfosi di Ovidio). È l'unità minimale grafica, il carattere, a costituire in definitiva il centro motore della trasformazione del libro da manufatto artigianale a prodotto industriale, come dei suoi successivi mutamenti strutturali (si pensi al carattere al­ dino, che, stretto e condensato, permise una differente im­ paginazione, influl sui formati, consentl a Manuzio la crea­ zione di una collana di « libretti da mano»). È conseguente, allora, che quell'aspetto di progettualità, essenziale per ogni 16 fenomeno di design e finora riscontrato solo nella forma


rudimentale dello schema preparatorio per l'impaginazione, si riveli, nella sua complessità, proprio al livello di tale unità minimale. In realtà, la grafica del libro, nella sua prima determina­ zione della «forma della merce», si pone, all'origine, come «rappresentazione» di un'altra scrittura, quella del mano­ scritto, adottandone tutte le implicite convenzioni relative ai caratteri, all'impaginazione, ai formati, ecc., secondo un fe. nomeno (che caratterizzerà più tardi anche la produzione ottocentesca dell'oggetto realizzato a macchina) di «imita­ zione » da parte del nuovo prodotto del suo precedente arti­ gianale. Il carattere così scrupolosamente imitativo che rende molte volte difficile distinguere i libri stampati tra il 1450 e 1480 dai manoscritti nasceva sia da problemi di concorrenza sul mercato con i prodotti degli amanuensi, sia dalla diffi­ denza che molti bibliofili nutrivano nei confronti dei libri «artificialiter impressi», giungendo fino al punto di far ri­ scrivere a mano alcune edizioni a stampa. Sicché l'eguaglian­ za tra lo stampato e il manoscritto era, per i prototipografi, prova di abilità tecnica e garanzia di successo commerciale. È solo con la seconda generazione di stampatori che l'acquisizione, ormai stabilita, del nuovo mezzo tecnico si accompagna ad una vera e propria ricerca progettuale. In essa rientrano diverse componenti: anzitutto, in coerenza con una logica cli tipo industriale, quella di razionalizzazione, al fine di correggere la variabilità e l'empirismo dei caratteri derivanti dalla scrittura a mano tramite una « normalizza­ zione» che assume gli aspetti di una codificazione geome­ trica. In particolare, a sua volta, il disegno delle maiuscole latine «con ragione di geometria», con l'ausilio di riga e compasso, rifletteva, come nota Petrucci, un movimento, fatto insieme di imitazione e di invenzione 2i, che diede luogo ad un'autentica tradizione trattatistica la quale, non certo a caso, presenta numerosi punti cli contatto con quella archi­ tettonica. Imitazione, stavolta, non della scrittura dell'ama­ nuense, ma dell'epigrafia antica, studiata dagli umanisti anche come modello per caratteri « adeguati e convenienti» alla trasmissione dei testi latini; ed invenzione regolata, comun- 17



vento grafico trasforma la scrittura in «rappresentazione• di qualche altra cosa, connotando, nella direzione di un senso iconico, il messaggio; rappresentazione, - come per un qua­ lunque oggetto di design - di una «funzione•, intesa nel senso più ampio del termine: pratico, psicologico, simbolico, e dello specifico modo storico in cui questa si è realizzata. Se, come abbiamo visto, ricerca di normalizzazione, rife­ rimento culturale e ideologico e recupero del simbolico sono le matrici già compresenti, fin dall'origine, nel progetto del­ l'unità minimale grafica, questa si proporrebbe addirittura come proto-tipo metodologico per la più generale categoria del design. Considerando che inoltre proprio il libro ha - esso solo - realizzato la grande aspirazione del design storico, riuscendo a coniugare grande numero, qualità este­ tica e basso costo, risulta ancor più incomprensibile, se non per la mancanza di un particolare «interesse», il vuoto teo­ rico che ha circondato tale prodotto di design. Come tale, il libro non ha registrato, nel suo continuo e regolare processo di crescita, conflitti d'identità o subito rigetti ideologici, assorbendo eventuali prodotti «contro » o «radical,. al proprio interno. Paradossalmente, dunque, il design proclama oggi la sua crisi attraverso un prodotto progettuale pienamente realizzato.

t Cfr. S. H. STI:INBERG, Cinque secoli di stampa, Einaudi, Torino, 1962; L. FEBVRE, H.-J. MARTIN, La nascita del libro (a cura di Armando Petrucci), Laterza, Roma-Bari, 1977; A. PETRUCCl (a cura di), Libri, edi• tori e pubblico nell'Europa modema, Laterza, Roma-Bari, 19TI; A. PE­ TRUCCl (a cura di), Libri, scrittura e pubblico nel Rinascimento, Laterza, Roma-Bari, 1979; AA.W., Enciclopedia della Stampa, Progresso grafico, Torino, 1979, ecc. 2 G. ANCESCHI, voce Grafica dell'Enciclopedia Europea Garzanti, ora in Monogrammi e figure, La casa Usher, Firenze-Milano, 1981, p. 93. J B. MUNARI, Arte come mestiere, Laterza, Bari, 1972, p. 29. 4 Cfr. sul dibattito: A. STI:INER, Il mestiere di grafico, Einaudi, To­ rino 1978 ed in part. il cap. Rapporti tra grafica e design, pp. 145-150. s G. DORFU:S, Introduzione al disegno industriale, Einaudi, Torino, 1972, p. 43. 6

Ibidem.

19


7 G. C. ARGAN, Progetto e destino, Il Saggiatore, Milano, 1965, p. 138. s Ivi, p. 139. 9 G. BoNSIEPE, Teoria e pratica del disegno industriale, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 225. o G. DORFLES, Op. cit., p. 123. li L. FEBVRE, H.-J. MARTIN, Op. cii., p. 90. 12 S. H. STEINBERG, Op. cit., p. 117. 13 Ivi, p. 120. 14 G. DoRFLES, Op. cit., p. 15. 1s R. BARTHES, E. MARTY, voce Orale/scritto, in AA.VV., Enciclopedia, Einaudi, Torino, 1982, voi. X, p. 84. 16 L. FEBVRE, H.-J. MARTIN, Op. cit., p. 129. 11 lvi, p. 62. 18 R. EsCARPIT, La rivoluzione del libro, Marsilio, Padova, 1965, p. 20. 19 L. FEBVRE, H.-J. MARTIN, Op. cit., p. 316. 20 E. Ph. GoLI>SCHMIDT, Il libro umanistico dall'Italia all'Europa, in A. PETRUCCI, Libri, scrittura, ecc., cit., p. 113. 21 lvi, p. ll0. 22 Ivi, p. ll2. 23 S. H. STEINBERG, Op. cit., p. 113. 24 F. BARBERI, voce Grafica e Arte del libro, in AA.W., Enciclopedia Universale dell'Arte, Istituto per la collaborazione culturale, Venezia­ Roma, 1958, voi. VI, col. 509. 25 G. ANCESCHI, Op. cit., p. 74. 26

Ibidem.

27 L. FEBVRE, H.-J. MARTIN, Op. cit., p. 56. 28 A. PETRUCCI, La scrittura fra ideologia e rappresentazione, in AA.VV., Storia dell'arte italiana, Einaudi, Torino, 1980, parte terza, voi. secondo, tomo primo, p. 18. 29 G. ANCESCHI, voce cit., p. 94. .10 G. DoRFLES, Il Design, tanto arte che industria, in AA.W., Design: né arte né industria, Ed. Kappa, Roma, 1982, p. 23. 31 A. MARCOLLI, Il « Lettering», in « Ottagono», n. 54, settembre 1979. 32 Cfr. C. LENZA, Scrittura come immagine, in « Campo» nn. 11-12: Grafica e immagine, luglio-dicembre 1982.·

20


I tre livelli logici nella comu­ nicazione grafico-pittorica LILIANA MOSCATO ESPOSITO

La utilizzazione di modelli interpretativi mutuati dalla teoria della comunicazione consente, a nostro avviso, di ipo­ tizzare che la caratteristica specifica delle arti grafiche e della pittura consista in una distinzione esterno/interno il cui pre-requisito logico è la linea di contorno, e che tale distinzione sia a sua volta articolata, mediante l'elemento cornice, in una ulteriore inclusione secondo lo schema: parete/dipinto // sfondo/figura. Se tale ipotesi è vera, nei momenti evolutivi dell'arte occidentale dovremmo assistere ad una radicale messa in questione dell'una o dell'altra di queste relazioni. A sostegno di quanto ipotizzato, verranno analizzate opere del primo '900 per quanto riguarda le variazioni del rapporto sfondo/ figura e opere del '400 per quanto riguarda le variazioni del rapporto parete/dipinto. Si cercherà infine di mostrare come, proprio attraverso questa evoluzione dei rapporti, l'arte oc­ cidentale raggiunga una autonomia e una completezza della capacità comunicativa paragonabili a quelle della lingua.

Teoria della comunicazione L'impiego di modelli derivati dalla teoria della comu­ nicazione si rivela particolarmente fecondo nell'analisi delle arti figurative, campo in cui la ricerca di norme e strutture 2l



lineato che contesto, messaggio e meta-messaggio sono con­ cetti di carattere relazionale: ciò che è messaggio rispetto ad un contesto può essere contesto rispetto ad un altro messaggio e così via, e pertanto i tre elementi vanno sempre considerati nelle loro reciproche relazioni o nella eventuale �voluzione di tali relazioni, e mai presi isolatamente. Se esaminiamo le possibili variazioni nei rapporti tra questi tre elementi, avremo il seguente schema: a) appiattimento della gerarchia tra livelli cazione assente o debole b) gerarchia tra livelli

= comunicazione

c) confusione tra livelli paradossi, etc.

= comuni­

normale

= comunicazione

patologica,

Livelli di astrazione nella comunicazione visiva Come in ogni altro atto comunicativo, anche nei messaggi visivi è necessaria la presenza contemporanea dei diversi li­ velli di astrazione perché possa esservi un atto comunicativo completo. Tuttavia nei messaggi visivi in genere, e quindi anche nelle arti figurative, la fondamentale distinzione tra contesto e messaggio assume una configurazione specifica diversa da quella dei messaggi verbali; mentre infatti il mes­ saggio verbale si dispone lungo l'asse della catena parlata, che è essenzialmente un asse temporale, il messaggio visivo si configura sempre come una distinzione tra esterno e in­ terno, cioè tra sfondo e figura, distinzione il cui pre-requisito logico è la linea di contorno: è proprio da questo rapporto interno (messaggio)/esterno (contesto) originato dalla fun. zione meta-comunicativa della linea di contorno, che scatu­ risce la differenza di tipologia logica e dunque un atto co­ municativo completo. Possiamo pertanto definire la condi­ zione di possibilità di un messaggio visivo come la relazione, implicante diversità di tipo logico, tra sfondo e figura. Inoltre, la differenza tra guardare e vedere, differenza che riguarda tanto una teoria della percezione quanto una teoria della conoscenza, è generata da un processo di 'inqua- 23




Inoltre una seconda caratteristica dei motivi decorativi, cau­ sata dalla mancanza di inquadramento, consiste in una ri­ partizione della superficie tale, che il motivo può teorica­ mente essere ripetuto all'infinito: si pensi alla decorazione delle piastrelle maiolicate. Dai Paesi Bassi, e dai primi decenni del secolo, ci viene la fenomenologia più ricca sull'appiattimento dei livelli lo­ gici, grazie a due autori peraltro assai diversi riguardo al resto: il grafico Escher e Mondrian. Escher non ha mai goduto di particolare considerazione nel mondo artistico, ma la sua ricerca sui rapporti tra le figure geometriche elementari e l'uso duplice della linea di contorno nella costruzione di figure ripetibili all'infinito, co­ stituiscono una sorta di repertorio prezioso per chi voglia esplorare i margini inferiori della comunicazione visiva e voglia indagare i fenomeni di questa fascia pre-figurativa e pre-comunicativa. In Otto teste, una delle sue opere giovanili, abbiamo una delle prime applicazioni, da parte di Escher, dell'uso duplice della linea di contorno, che ritornerà nella sua ricerca nu­ merose volte anche in seguito; in questa xilografia, varie teste, quattro maschili e quattro femminili, sono collegate tra loro attraverso i profili che coincidono e sono ripetibili all'infinito; questo è un caso emblematico di appiattimento di livelli: la linea di contorno invece di generare una diffe­ renza sfondo/figura, segna una ripartizione della superficie in cui l'unica distinzione possibile è figura-figura; viene per­ tanto a mancare la differenza di tipo logico contesto/ messaggio, e difatti l'opera viene percepita come decora­ zione. La controprova ci viene da un'altra opera, Giorno e Notte; in questa xilografia una seria intrecciata di figure a forma di diamante diventa progressivamente una serie con­ tigua di uccelli neri e bianchi. Questi uccelli sono le loro stesse hnmaginl reciprocamente rispecchiate, e volano in direzioni opposte. A mano a mano che si avvicinano ai bordi, le figure si distaccano da quelle vicine: gli uccelli bianchi diventano gradualmente il panorama diurno retrostante gli 26 uccelll neri, e gli uccelli neri il panorama notturno dietro


gli uccelli bianchP. Dunque nella parte centrale, in cui l'uso duplice della linea di contorno genera la serie di uccelli bianchi e neri, noi abbiamo della pura e semplice decora­ zione; verso i bordi invece, lì dove le figure tendono a di­ staccarsi da quelle adiacenti, una metà del numero com­ plessivo di uccelli regredisce a livello di sfondo, l'altra metà resta percepibile come figura, e quindi in questa parte peri­ ferica dell'opera viene ristabilita la differenza di tipo logico che genera un messaggio visivo completo e quindi un nor­ male atto comunicativo. In quegli stessi anni De Stijl e il Cubismo, proprio agen­ do sulla linea di contorno e relativizzandola, si avviavano a destrutturare i canoni tradizionali della pittura. II fenomeno del passaggio da un messaggio visivo normale, in cui sono presenti i tre livelli logici, ad un messaggio in cui i livelli risultano appiattiti, emerge chiaramente nella serie degli Alberi o delle Facciate di chiesa di Mondrian. Queste serie, del periodo cubista, costituiscono un campo di indagine par­ ticolarmente interessante poiché in esse è graduale, e può essere analizzato fase per fase, il passaggio da una comu­ nicazione visiva normale ad una comunicazione visiva ap­ piattita e quindi problematica, e risulta evidente proprio come ciò avvenga agendo principalmente sulla linea di con­ torno. L'Albero Rosso del 1909-10 è un'opera di impianto tradizionale in cui la figura dell'albero costituisce una grande forma unitaria che si stacca nettamente dallo sfondo: i due livelli logici di messaggio e contesto sono perfettamente di­ stinti e non vi è alcun problema di comprensione. L'Albero Argentato del 1911 è ancora una forma unitaria, ma le linee di contorno mostrano già un'accentuata frammentazione e la figura è come appiattita sullo sfondo; tuttavia l'infittirsi delle linee di contorno ed il loro maggiore spessore al centro della composizione, a cui corrisponde un alleggerimento e una rarefazione verso i bordi, consentono ancora una lettura in termini di esterno/interno e l'istituirsi della gerarchia logica sfondo (contesto)/figura (messaggio). Con il Melo in . fiore del 1912 infine viene annullata quasi del tutto 4, me­ diante una ulteriore frammentazione delle linee e una distri- 27


buzione omogenea tanto al centro che ai bordi, la distin­ zione sfondo/figura ed il corrispondente dislivello logico contesto/messaggio; è il momento in cui l'opera perde la sua semanticità: il soggetto originariamente figurativo del quadro non può essere riconosciuto né nominato e pertanto questa composizione costituisce il punto di confine oltre il quale c'è il disegno geometrico puro. Allo stesso modo nella Composizione ovale del 1914, nulla può farci riconoscere, nel fitto intersecarsi di linee che si distribuiscono in modo quasi uniforme su tutta la superficie, una facciata di chiesa, a meno che non ripercorriamo all'indietro la serie di opere, sempre del 1914, sullo stesso soggetto. Negli anni 1918-20 ha inizio quella radicalizzazione della ricerca di Mondrian che lo porterà al di là del Cubismo al quale, del resto, egli rimproverò sempre di non aver voluto trarre fino in fondo le conseguenze delle proprie premesse teoriche. Da questo momento in poi, tenderà notevolmente ad attenuarsi, fino a scomparire del tutto in non pochi casi, come in talune superfici composte a scacchiera o ad anda­ mento modulare, la distinzione tra sfondo e figura, quindi la distinzione esterno/interno e la relativa gerarchia logica. Parallelamente la linea perde l'esclusività della sua funzione meta-comunicativa e in molti casi non sarà più linea di con­ torno: infatti i rettangoli, come dirà lo stesso Mondrian negli Essays, nasceranno spesso dall'incrociarsi di linee ver­ ticali ed orizzontali continue nello spazio, e dunque ideal­ mente provenienti dall'infinito e tendenti all'infinito, il che equivale ad una abolizione, o ad un tentativo di abolizione, del processo di inquadramento; infine le linee verranno ispessite per abolire il più possibile il manifestarsi di piani e di spazi. Se però, nel caso di Escher e della decorazione in genere, l'appiattimento di livello logico per la mancata distinzione esterno/interno e la ripetibilità all'infinito per mancanza di inquadramento, si pone su un piano pre­ comunicativo, la ricerca complessiva di Mondrian può essere posta su un piano post-comunicativo; benché un occhio in­ genuo possa effettivamente leggerne le opere come pura 28 decorazione, esse in realtà si collocano al polo opposto: la


decorazione appiattisce i livelli logici verso il basso e cioè verso il grado di minor astrazione, quello del contesto, la ricerca di Mondrian invece, in quanto ricerca sugli elementi primari e costitutivi delle arti visive, cioè superfici, linee e colori, è globalmente proiettata verso la massima astrazione e cioè verso il livello meta-comunicativo. In altre parole, ogni elemento di ogni quadro di Mondrian concorre a for­ mare un meta-discorso sulla pittura, e perciò all'interno delle singole opere non si danno distinzioni di gerarchia logica.

Bordi e cornici Come si è detto, ogni atto percettivo o conoscitivo, ha bisogno di un processo di inquadramento - reale o meta­ forico, fisico o mentale - onde poter discriminare corretta­ mente tra diversi livelli logici; particolarmente necessario si rivela il processo di inquadramento per quegli oggetti come libri e quadri, che sono simili a tutti gli effetti, ai numerosi altri oggetti di uso quotidiano, ma che, quanto al messaggio - verbale o visivo - di cui sono il supporto materiale, ap­ partengono ad un tipo logico superiore. Di qui la necessità, universalmente avvertita, di ricorrere nel caso di codici, libri, etc., a vari artifici grafici per isolare lo spazio scritto dal resto della pagina e, nel caso di dipinti, di ricorrere al­ l'uso di cornici in funzione di confini. La zona di confine dunque, sia essa costituita da un motivo architettonico op­ pure dal formato del dipinto (quadrato, tondo, ovale, etc.) non è un motivo decorativo aggiunto a posteriori, ininfluente ai fini della resa complessiva del messaggio, ma costituisce, dato il carattere sistemico della comunicazione visiva come di ogni altra comunicazione, un importante -elemento strut­ turale poiché funge da raccordo tra dipinto e parete: quanto alla sua tipologia logica, la cornice non appartiene né alla parete né al dipinto, ma è di un tipo logico superiore ad entrambi perché fornisce informazioni sulla relazione tra parete e dipinto. La grande rivoluzione artistica che ebbe luogo nel '400 e che investì in modo radicale seppure in momenti diversi 29


le varie arti, ci offre una ricca fenomenologia sugli aggiu­ stamenti e spostamenti successivi a cui l'elemento di confine (la cornice, appunto, e per altri versi anche il formato) andò incontro: nel mutare delle relazioni sfondo/figura, non poté non mutare la simmetrica relazione parete/dipinto in un complesso gioco di rimandi e di rapporti che può essere letto (restando salve altre interpretazioni di approcci me­ todologici diversi) come un mutare delle relazioni di tipo­ logia logica. Nel suo libro Il Quattrocento in Italia, Renato De Fusco analizza con ricchezza di particolari il periodo di passaggio in cui è possibile assistere ad un'oscillazione dell'elemento cornice, che viene alternativamente ora assunta come esterna al dipinto, ora introitata nel dipinto stesso, ora usata contem­ poraneamente sia come elemento esterno sia come elemento interno. Schematizzando al massimo, questa evoluzione può essere seguita fase per fase nel modo seguente: a) L'Annunciazione di Simone Martini, matrice ideale dei polittici e pseudo-polittici, può essere assunta come punto di partenza: sia il classico coronamento da polittico in alto, sia le colonnine tortili che separano i due moduli laterali assolvono in pieno la propria funzione di cornice, cioè di inquadramento meta-comunicativo di tipo logico, superiore sia alla parete che al dipinto. b) Col Beato Angelico, nella Deposizione come in nu­ merose altre opere, la conclusione in alto delle scene è spesso affidata ad una teoria di archi facenti parte dello stesso di­ pinto. Si può dunque affermare che la forma del supporto cornice cominci ad essere considerata non come estrinseca inquadratura, ma come parte integrante dell'immagine pit­ torica. Questa diversa concezione segna il punto in cui la « cornice ,. comincia ad integrarsi con l'opera, se non a tra­ dursi addirittura in elementi dipinti 5• È questo il momento intermedio in cui non è possibile discriminare correttamente l'elemento di confine come esterno o interno al dipinto: ciò genera una confusione di livelli logici tra contesto e mes­ saggio. 30 c) In un esame comparato della Pala Barbadori di Fi-


lippo Lippi e della Pala di S. Lucia dei Magnoli di Domenico Veneziano, al di là delle differenze pittoriche e iconografiche, ci sembra sostanziale il fatto che la seconda opera abbia incorporato nei rosei archi del dipinto, la cornice dorata della prima o che, in altri termini, lo schema fisso ed etero­ geneo del supporto-cornice si sia trasformato in un fattore della stessa composizione prospettica e pittorica 6: a questo punto cioè, la cornice, che originariamente era un elemento esterno in funzione meta-comunicativa, entra a far parte del contesto pittorico. d) La Trinità di Masaccio in S. Maria Novella, infine, rappresenta un altare con la sovrastante pala e cioè un insieme di oggetti realistici quali potrebbero esistere preci­ samente in quello spazio e in quell'ambiente nel quale effet­ tivamente si trovano: ma poiché vi si trovano non come oggetti ma come rappresentazione di oggetti, sono ad un livello logico (messaggio) più astratto di quello (contesto) a cui, secondo le indicazioni stesse del dipinto dovrebbero trovarsi. Non a caso perciò quest'opera è considerata una delle più significative del linguaggio rinascimentale:· a questo punto infatti, con l'evoluzione del contesto in messaggio, si compie la ristrutturazione tra livelli logici e, come avviene in ogni caso di 'quadro nel quadro', la pittura acquista, come la lingua, la capacità di parlare, coi suoi propri mezzi, di sé stessa. L'oscillazione ora descritta, in modo molto schematico, per la quale l'elemento cornice viene alternativamente im­ piegato come esterno o interno al dipinto, può essere rile­ vata in numerose opere del '400; essa viene attuata con una grande varietà di modi e interessa sia i polittici che gli af­ freschi; tuttavia, quale che sia la complessità e la diversità delle componenti stilistiche e formali di tali mutamenti, dal punto di vista della teoria della comunicazione essi possono essere ricondotti ad unico processo: la variazione dei rap­ porti esterno/interno con conseguente ristrutturazione dei livelli logici. Infatti mentre n�i dipinti a fondo oro i rapporti esterni, parete (contesto)/dipinto (messaggio), sono comple­ mentari ai corrispondenti rapporti interni, sfondo (contesto)/ 31


figura (messaggio), ma ne restano ben distinti pur nella loro inclusione simmetrica, le ricerche prospettiche del '400 in­ cludono, reduplicandoli all'interno del dipinto, quegli stessi rapporti tra livelli logici che abbiamo visto esistere al suo esterno: infatti a seguito delle acquisizioni prospettiche, Io sfondo-contesto del dipinto si frammenta in una pluralità di piani ed acquista una illusoria profondità spaziale; viene così trasferito all'interno del dipinto ciò che per collaudata convenzione dovrebbe trovarsi al suo esterno. Nel momento in cui i dipinti, siano essi affreschi o polittici, recuperano al loro interno, con gli stessi mezzi della rappresentazione pit­ torica, la spazialità architettonica esterna, ci troviamo di fronte un fenomeno che, dal punto di vista della teoria della comunicazione, ha una grande importanza: l'evoluzione delle strutture contestuali in messaggi e la correlata riorganizza­ zione di rapporti nella zona di confine; ciò significa che la pittura ha raggiunto la capacità di fare, con mezzi esclusi­ vamente pittorici, affermazioni metacomunicative sui rapporti tra l'insieme degli oggetti o eventi rappresentati e l'insieme degli oggetti o eventi reali. In conseguenza di questo com­ plesso processo di ristrutturazione, la pittura attua le condi­ zioni di possibilità di atti comunicativi completi; essa per­ tanto, svincolata dalle funzioni narrative e decorative che le assegnava la cultura medievale... perde quel grado di arti­ gianalità per porsi come un indipendente e specifico atto intellettuale 7• Questa autonomia troverà, per così dire, la sua espressione anche materiale, proprio in quei decenni, nella nascita del moderno quadro da cavalletto. Conclusioni

32

:E:: possibile, da quanto detto prima, giungere alla conclu­ sione che, dal punto di vista della teoria dei tipi logici, la comunicazione verbale e la comunicazione visiva hanno pari autonomia e completezza. Come scrive De Fusco, la pittura presenta una duttilità che si avvicina a quella della lingua. Questa si dice, e con notevole grado di veridicità, è In grado di rendere tutto dicibile; analogamente la pittura almeno


molto più delle altre arti visive, è in grado di rendere tutto rappresentabile 8• Dal punto di vista della teoria della comuni­ cazione questo 'tutto rappresentabile' può essere inteso in un senso anche più ampio, e cioè non solo come capacità di rappresentare tutti gli oggetti, eventi e rapporti spaziali del mondo reale, ma come capacità di riprodurre tutti i rapporti tra livelli diversi di astrazione. Infatti per quanto riguarda la lingua, la comunicazione enunciativa, così come si pre­ senta a livello umano, è possibile solo in seguito allo sviluppo di un insieme complesso di regole metalinguistiche che go­ vernano le relazioni tra parole e proposizioni da una parte e oggetti ed eventi dall'altra 9• Parimenti la pittura e le arti grafiche, con il loro specifico articolarsi in esterno/interno, sono in grado sia di riprodurre i tre livelli logici necessari ad ogni atto comunicativo, sia di fare affermazioni meta­ comunicative sui rapporti tra oggetti rappresentati e mondo reale, sia infine di fare affermazioni sulle relazioni tra classi di oggetti di tipo logico diverso: come nella teoria degli in­ siemi i messaggi racchiusi nella curva immaginarla sono definiti come membri di una classe in quanto essi condivi­ dono premesse comuni o godono di mutua rilevanza 10, così la cornice e la linea di contorno separano classi di oggetti di tipo logico diverso.

1 G. BATESON, Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976. 2 V. GREGOlTI, Editoriale della rivista e Rassegna" (numero mono­ grafico dedicato ai Recinti), anno I, numero I, Dic. 79. 3 J. L. LOCHER, L'opera di M. C. Esclter in Il mondo di Escher, Gar­ zanti, Milano, p. 14. 4 Quasi, ma non completamente: la distinzione sfondo/figura è an­ cora percepibile grazie alla distribuzione del colore; tuttavia, come l'uso del colore contribuisca alla formazione dei livelli logici nei mes­ saggi visivi è argomento complesso che esula dal presente discorso. s R. DE Fusco, Il Quattrocento in Italia, U.T.E.T., Torino, in corso di stampa. 6 Ivi. 7 Ivi. • lvi. 9 G. BATESON, op. cit., p. 220. IO lvi, p. 228-229 .

33


L' Amsterdamse School PIERGIACOMO BUCCIARELLI

Nel quadro di un diffuso ripensamento sul Movimento moderno, si registra da più parti un rinnovato interesse per il contributo olandese. Tale interesse è riscontrabile nella cospicua crescita della letteratura critica su De Stijl, Wen­ dingen, Pieter Oud e nelle recenti esposizioni loro dedicate: De Stijl: 1917-1931. Visions of Utopia in America e in Olanda,

Wendingen 1918-1931. Documenti dell'arte olandese del No­ vecento a Firenze e la mostra I. I. P. Oud 1906-1963 organiz­ zata nelle maggiori città italiane. La presenza della cultura olandese nella storiografia ar­ chitettonica moderna è stata generalmente affidata alla figura di Berlage e a personaggi emergenti della corrente neopla­ stica o razionalista come Van Doesburg, Oud, Rietveld e Dudok. La « Scuola di Amsterdam», pur contemporanea a De Stijl, si è inserita all'interno di un diverso filone di ri­ cerca e per molte ragioni - attribuibili in sostanza alle sue componenti tardoromantiche e individualistiche ritenute elu­ sive rispetto alle problematiche del tempo - è rimasta estra­ nea al dibattito sulle avanguardie europee nel periodo in­ torno alla prima guerra mondiale. Limitatamente al nostro Paese, se si eccettuano il saggio del 1957 di Guido Canella 1, un articolo su de Klerk 2 e i fondamentali contributi di Gio­ vanni Fanelli 3, l'Amsterdamse School sembra essere stata fino a pochi anni fa relegata a una posizione di secondo 34 piano nei confronti delle tendenze dominanti in seno al




costruttivi. Gli architetti più sensibili mostrano di rendersi partecipi delle istanze progressiste della borghesia, pur adot­ tando una sintassi non ancora depurata dalle scorie accade­ miche. Profondamente romantica nelle sue implicazioni e radi­ cata alle origini popolari dei Paesi Bassi, la Scuola di Am­ sterdam si riallaccia senza traumi alla generazione dei mae­ stri olandesi al fine di rinnovare dal suo interno la propria tradizione architettonica. Le fonti che contribuiscono a con­ figurare nel suo insieme il movimento sono molteplici e contraddittorie: la lezione etica e l'esempio professionale di Berlage, l'influsso di Frank Lloyd Wright (che risale alla prima metà degli anni Dieci ed è comune agli architetti De Stijl), l'eredità artigianale delle Arts and Crafts e del­ l'Art Nouveau, la compresenza nei progetti sia di una com­ ponente geometrico-razionale basata sull'uso di tracciati re­ golatori che di elementi simbolici o fantastici di derivazione mistica, i contatti e rapporti di collaborazione con l'Espres­ sionismo tedesco, la cui influenza è stata tuttavia giustamente ridimensionata, nonostante certe affinità di linguaggio e di orientamenti culturali 9 • L'eterogeneità e il sincretismo di questi caratteri - do­ cumentati nella rivista « Wendingen » grazie all'opera infa­ ticabile di Wijdeveld - non lasciano spazio a un manifesto collettivo della Scuola, il cui significato va ricercato attra­ verso composite correlazioni. Gli ideali estetici dell'Amster­ damse School sono sostanzialmente riconducibili alla convin­ zione che progettare sia una questione di espressione indi­ viduale, destinata a tradursi in una e architettura di spazi » da cui emani un « effetto plastico• 10• L'andamento dinamico delle superfici esterne, le vibrazioni luminose dei materiali (soprattutto del mattone) e la varietà dei partiti decorativi fanno risaltare i volumi per mezzo di trattamenti elaborati e pieni di fantasia, che offrono agli spettatori un'insolita capacità di resistenza alla follia oggettiva, nel presentare me­ raviglie, segreti, archetipi e configurazioni dello stupore 11• Gli architetti di Amsterdam rifiutano ogni regola formale prestabilita e rivendicano la scelta di un approccio soggettivo 37



« architettura di facciata », pur sollevando una serie di po­ lemiche, offre ai giovani della Scuola di Amsterdam l'occa­ sione di sperimentare nuove forme di complessi residenziali e di definire al contempo il volto architettonico di un settore urbano di notevoli dimensioni. L'architettura è concepita in termini di isolato, secondo le indicazioni di Berlage e sulla scorta delle meditazioni di Camillo Sitte. Ma al contrario della strada ottocentesca, in cui gli affacci degli edifici si susseguono indifferentemente col risultato di presentare blocchi uniformi e monotoni, le cortine stradali di Amsterdam individuano una configura­ zione ambientale del tutto nuova nei rapporti tra l'altezza delle costruzioni e la larghezza dell'asse viario, nel ritmo e nella sequenza dei vari complessi di alloggi, nel trattamento degli angoli in riferimento all'affaccio sulle piazze. Si analiz­ zano gli aspetti percettivi, le polarità dialettiche del lin­ guaggio architettonico (la frontalità e la profondità, la con­ tinuità e l'interruzione, il primo piano e lo sfondo), le rela­ zioni fra massa, spazio e superficie; si studiano nuovi ele­ menti di arredo urbano 13• Il legame della Scuola di Amster­ dam con l'attività di Berlage va ricercato principalmente nei presupposti teorici della sua idea di architettura e città. Pur nelle loro diverse declinazioni formali, le opere di edi­ lizia popolare del gruppo possono essere assunte come un tentativo di creare una immagine di città che inveri quel principio tardobarocco dell'« unità nella varietà» presente come « Leitmotiv » negli scritti dell'autore della Borsa di Amsterdam 14. Viste in prospettiva storica, le opere più rappresentative della Scuola (in cui agli architetti è affidato non solo il di­ segno delle facciate, ma l'intero progetto) si identificano con l'esigenza di « democratizzazione » della città borghese. L'exploit di de Klerk per la « Eigen Haard » sembra in defi­ nitiva fornire una risposta esemplare a due istanze ricor­ renti nel dibattito che si sviluppa in Olanda sul tema della casa operaia. La prima... è quella di dimostrare come i complessi di alloggi operai possano assurgere ad una nuova dignità architettonica e... abbiano la potenzialità di prefigu- 39


rare la nuova « monumentalità » di un'arte proletaria. La se• conda è quella di rimuovere la diffusa preoccupazione... che la logica del massimo contenimento dei costi debba necessa­ riamente produrre nell'edilizia popolare un livellamento este­ tico, una grigia omogeneità 1s. È interessante rileggere i giudizi, non certo benevoli, di

J. B. Van Loghem e J. P. Mieras, due autorevoli critici olan­ desi contemporanei. Il primo, sottolineando il dramma inti­ mistico di de Klerk, scrive in occasione della grande mostra di architettura svoltasi ad Amsterdam nel 1915: De Klerk... è l'artista di razza, ma la sua arte è in sostanza arte senza spirito, arte nella maniera della naturalezza; arte dissoluta... La chiarezza, che è la cosa principale dell'arte, è trasgredita e sacrificata a interiori stati d'animo. E più avanti, riferen­ dosi al blocco appena costruito nello Spaarndammerbuurt, aggiunge: De Klerk offre ai lavoratori una casa in cui si esprime la forza comune del proletariato. Finché egli conti­ nuerà a credere nel proletariato, le sue creazioni saranno in­ teriorizzate. Se egli perderà quella fede, allora la sua opera rischia di cadere nella dissolutezza 16• Tre anni dopo, in un polemico confronto tra i progetti di concorso per la nuova Accademia di Belle Arti presentati da Duiker/Bijvoet (a cui è assegnato il primo premio) e da de Klerk, Mieras sostiene che, al contrario dell'elaborato vin­ cente, quello di de Klerk mostra un entusiasmo, una virtuosità, per i quali valgono solo i superlativi... Ma questa architettura ha in sé il seme del suo tramonto... Questo progetto è tragico, perché qui uno spirito artistico ha messo il piede in un campo in cui non può esprimersi... L'arte dei giovani di Amsterdam... è una fata morgana; il suo splendore sva­ nirà prima che i suoi adoratori possano scorgere il suo sfa­ villio 17• Diversa è l'opinione di Bruno Taut: Benché molti particolari di questi edifici siano senza dubbio arbitrari, il miracolo è avvenuto, cioè la creazione di un'architettura col­ lettiva dove non è tanto la casa individuale ad assumere la maggiore importanza, quanto l'intera lunga schiera di case in una serie di strade, e inoltre l'assemblaggio collettivo di 40 molte strade in una unità comprensiva 18•


I critici di architettura hanno più volte mostrato di pri­ vilegiare le dichiarazioni programmatiche degli ideologi a sostegno delle proprie tesi; le posizioni non di rado dogma­ tiche di questi ultimi hanno individuato tendenze apparen­ temente inconciliabili ma che, a un'analisi accurata, danno vita a risultati affini e componibili. E. il caso della opposi­ zione - assunta in termini manichei da vari studiosi di orientamento razionalista - tra De Stijl e Wendingen, che ha costituito la base per un giudizio negativo sulla Scuola di Amsterdam. Si pensi, ad esempio, all'influenza sulla lette­ ratura critica dell'atteggiamento radicale di Van Doesburg, che ha contestato fin dagli esordi l'attività del gruppo, con­ siderandolo un ostacolo alla diffusione dei suoi principi. Se è vero che le due correnti riproducono la stessa pola­ rità tra l'estremismo formale dell'avanguardia e il moderni­ smo che non rinuncia ad alimentarsi della memoria, al di là della polemica contingente di quegli stessi anni, le tendenze astratte di « De Stijl » e la tendenza espressionistica del1'« Amsterdamse School» devono essere viste come comple­ mentari. Le diverse tendenze operano uno scambio produt­ tivo e le loro esperienze concorrono spesso alla formazione di uno stesso architetto 19• Nel 1923 Oud esprime un acuto giu­ dizio sulla Scuola, lasciando intravvedere il sostanziale rap­ porto dialettico tra i due schieramenti: Se il senso di questa architettura ... è principalmente individualistico, bisogna egual­ mente tener conto, per la complessiva evoluzione dell'archi­ tettura olandese, del suo contributo generale. :I:. merito loro, della loro tendenza così fortemente contraria all'arte di Ber­ lage, aver evitato che l'aspetto formale di Berlage potesse irrigidirsi, nei lavori dei suoi successori, in una specie di tradizione moderna 20• Anche Erich Mendelsohn, invitato da Wijdeveld a tenere una conferenza in Olanda, concorre alla diffusione del mito delle opposte tendenze, ma ipotizza in modo ancora più espli­ cito una loro futura integrazione: se l'una pone la «ratio» come base di ogni cosa, l'altra fonda la percezione sulla vi­ sione. Rotterdam, analitica, rifiuta la visione; Amsterdam visionaria non capisce la fredda obiettività ... Se Amsterdam 41


fa un passo verso la ragione e li sangue di Rotterdam non si congela, allora esse possono unirsi. Altrimenti Rotterdam perseguirà la via della mera costruzione con freddo mortale neUe sue vene e Amsterdam sarà distrutta dal fuoco del suo stesso dinamismo 21 • L'unione dei due raggruppamenti, dopo

la prematura scomparsa di de Klerk nel 1923, avviene in un certo senso con Dudok, che raccoglie l'eredità della Scuola di Amsterdam ma ne ridimensiona l'esasperata espressività attraverso un'architettura influenzata dal neoplasticismo, lar­ gamente disponibile alle suggestioni wrightiane e destinata ad avere una grossa eco internazionale. Gli architetti olandesi, siano essi appartenenti all'Am­ sterdamse School o a De Stijl, vivono in prima persona, creativamente, gli anni cruciali del Movimento moderno. Al di là delle diverse tensioni di ispirazione romantica o illu­ ministica che sempre caratterizzano l'architettura nel suo divenire, la Scuola di Amsterdam è la prima a lanciare la sfida di una nuova « qualità urbana» dell'edilizia e non può essere ignorata né confutata con affermazioni sommarie o convenzionali 22• Eterodossa ed eccentrica rispetto alla linea vincente del funzionalismo, essa individua un « razionalismo diverso» che costituisce un capitolo della storia contem­ poranea non meno significativo di quelli di altre correnti europee. Le motivazioni urbanistiche e strettamente umane che sono alla base della sua tematica ne fanno uno dei pochi esempi in cui l'architettura moderna rispetta la città e i suoi abitanti. :e. ancora Oud, che difendendo nel 1951 il Palazzo della Shell dalle accuse dei critici, rivendica senza mezzi termini il valore comunicativo e poetico dell'opera architettol'iica: L'architettura - vecchia o nuova - può e deve suscitare un'emozione; deve trasferire la visione estetica di un uomo (l'architetto) in un altro uomo (colui che guarda) ... L'ar­ chitetto deve tornare ad essere un artista, deve potentemente impregnare l'attività edilizia col suo sentimento, col suo spi• rito, uno spirito di ordine altamente estetico 23; ed è quanto mai sintomatico che, dopo oltre trenta anni di impegno pro42 fessionale, Oud sconfessi la sua poetica dell'oggettività e della



presero I contrasti sociali In Olanda e In Germania: In un paese che non aveva preso parte alla guerra e In un altro che questa guerra aveva perduta, In una nazione dove capitalismo e classe operala erano due termini opposti che si davano battaglia su un terreno ampiamente de­ mocratico, e In una nazione dove l'Industria, compiendo uno sforzo ciclopico, rivestiva gli stessi termlnl degli aspetti di una destra nazio­ nalista e militare e di una slnlstra spartaklsta. E Vittorio Gregotti (L'architettura dell'Espressionismo, in « Casabella-Continuità», n. 254/ 1961, p. 44), ribadendo il carattere di autonomia del movimento, ag­ giunge: Il carattere espressionista di questo gruppo non nasce dalla deformazione in veste di protesta; piuttosto dalla nùtizzazlone degli elementi del linguaggio nazionale e popolare spinti sin sul plano della favola plastica In una forma di difesa <lei soggetto contro l'assorbi­ mento egualitario della cultura di massa, attraverso la continua Inven­ zione e trasmutazione della forma. 10 W. DE WIT, « Wendingen », la Scuola di Amsterdam e Wijdeveld, nel catalogo citato, p. 27. 11 G. Bn.ANCI0NI, La cultura delle svolte: Wendingen, in « Bollettino della Biblioteca della Facoltà di Architettura di Roma», 28 dicembre 1981, p. 128. 12 J. M. L. I..AUWERIKS, Het Titanische in de Kunst, in « Wendingen », 4, 1919, pp. 3-6. Trad. it.: Il titanico nell'arte, in « Controspazio », n. 1, gennaio-marzo 1981, p. 69. Cfr. W. DE WIT, ibidem. 13 Sull'ordinamento delle facciate, il trattamento dell'angolo e delle superfici, vedi: J. CASTEX, P. PANERAI, L'école d'Amsterdam: architecture urbaine et urbanisme social-démocrate, in « Architecture Mouvement Continuité •, n. 40, settembre 1976, pp. 49-51. 14 L. GRUEFF, L'edilizia residenziale della Scuola di Amsterdam, nel catalogo citato, p. 36. 15 Ivi, p. 38. 16 J. B. VAN l.oGHEM, in « Nieuwe Amsterdammer •• nn. 11/12, 1915. 17 J. P. MIERAS, in « Bouwkundig Weekblad », n. 12, 1918. 18 B. TAUT, Modern Architecture, London, 1929. Le citazioni di Van Loghem, Mieras e Taut sono riportate in G. F,\NEl.l.I, Architettura edi­ li;.ia... , cit., rispettivamente alle pp. 35, 87 e 17. 19 G. FANEl.l.I, ivi, p. 31. Analoga posizione assume Leonardo Bene­ volo (cfr. Storia dell'architettura moderna, Bari, 1971, p. 495). 20 Il brano è tratto dalla conferenza tenuta da Oud a Berlino Lo svi­

luppo dell'architettura moderna in Olanda: passato, presente, futuro.

44

Trad. it. in: J. J. P. Ouo, Architettura olandese, Angeli, Milano, 1981, pp. 95-107. 21 Erich Mendelsohn in una lettera alla moglie, 1923. 22 Giedion, sensibile agli aspetti dell'attività municipale di Amster­ dam e all'urbanistica di Berlage, nutre molte riserve sull'architettura del gruppo in quanto essa corrisponderebbe a una concezione ottocen­ tesca della città, e si limita a un breve accenno a de Klerk. Pevsner e Hitchcock assimilano la Scuola di Amsterdam alla versione olandese dello Jugendstil e ne sottolineano soprattutto gli aspetti decorativi della tessitura in mattoni. Reyner Banham e Wolfgang Pehnt la inquadrano nel solco dell'Espressionismo. Secondo Zevi, le opere di de Klerk e Kramer sono il risultato di un atteggiamento romantico, assaporato più che sofferto..., un espressionismo elegiaco e salottiero, non di « maudits •, mentre per Tafuri e Dal Co la Scuola di Amsterdam esprime fino In fondo I propri Ideali di ambigua sospensione del tempo storico attra­ verso paternalistici formalismi. 23 La citazione, riportata in J. J. P. Ouo, op. cit. , p. 186 e 187, è tratta da una conferenza dal titolo L'edificio della Shell olandese.




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.