op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea
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Edizioni e Il centro • di Arturo Carola
Editoriale
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R. BARILI.I
Per una teoria delle variazioni stilistiche
G. D'AMATO
Il design businesslike
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c.
Le nuove frontiere della storiografia urbana
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Dal neobarocco al postmoderno
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DE SETA
G. DoRFLES
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B. GRAVAGNUOLO
Desiderio d'armonia
F. IRACE
La coda del diavolo: il dibattito sugli «anni trenta•
G. K. KOENIG
Il disegno industriale e la critica del testo
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A. MENDINI
Confessione
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F. MENNA
Itinerario critico
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A. TRIMARCO
La festa, l'ornamento
TI
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La rivista si avvale del contributo economico dei seguenti Istituti ed Aziende: Banco dĂŹ Napoli Camera di Commercio di Napoli Informatica Campania Knoll InternatĂŹonal Design
RĂŹam
Zen Italiana
Editoriale
Con questo numero « Op. cit.,. compie vent'anni. Più che tentare una sorta di bilancio del già fatto, desidero illustrare brevemente il presente numero e soprattutto indicare il pro gramma dell'attività futura. Quanto al fascicolo celebrativo, esso è anomalo rispetto alla struttura della rivista; infatti, al posto dei consueti tre articoli-rassegna e della rubrica « libri, riviste e mostre », ab biamo dieci saggi del tutto svincolati dalla formula di « Op. cit. ». Gli autori di tali saggi sono stati invitati a trattare un tema del dibattito critico che ricadesse nell'ultimo ventennio. Alcuni di essi hanno preferito rapportare nel loro scritto la propria esperienza direttamente alla n·ostra rivista, persona lizzando, per così dire, il loro contributo; altri, specie i colla boratori più abituali, hanno ripreso e sviluppato temi qui già in parte affrontati; altri ancora, pur rispettando i limiti tem porali, hanno dilatato il tradizionale arco di interessi di « Op. cit. ». Oltre a questo differente taglio, i dieci articoli si distin guono per dimensione, approfondimento e varietà d'accento. Ne risulta un quadro assai articolato e complesso che, al di là del livello qualitativo dei singoli contributi, mostra quanto ampio, problematico e pluralistico sia l'orizzonte della rifles sione critica oggi in Italia. Ma proprio l'anomalia di questo numero celebrativo mi im pone, per chi sfoglia per la prima volta questa rivista ( e per noi stessi che intendiamo rileggerla con occhio nuovo), di ri chiamare i principi generali sui quali fu fondata, quegli aspetti di essa che sono da conservare e gli altri che vanno rinnovati. 5
L'idea portante del periodico, sin dalla sua fondazione nel 1964, è stata quella di offrire al lettore - ormai nella impos sibilità di seguire tutto quanto si pubblica sull'architettura, il design, le arti visive etc. - una selezione degli scritti più importanti su tali argomenti. Ma ciò non poteva essere fatto meccanicamente: non si trattava di compilare delle schede, un catalogo, sia pure ragionato, di pensieri e rifiessioni criti che staccate dai loro originali contesti. Bisognava inserire le informazioni ( ovvero le citazioni, donde il nome della rivista) in un nuovo testo che contenesse in sé, magari sin dal titolo, una nuova proposta critica. In altre parole, l'articolo-tipo di « Op. cit. » si è configurato come un lavoro doppio di sele zione e di critica, ovvero di critica della critica, dove a questo termine non si assegna tanto un significato giudicante, quanto di chiarimento e di spiegazione. Con questa formula il lettore oltre a conoscere il nostro punto di vista su un determinato tema, ha avuto modo di apprendere « quasi » di prima mano le rifiessioni altrui connesse a quel tema, corredate dalla più ampia bibliografia. Accanto agli articoli-rassegna strutturati secondo questa formula, la rivista ha ospitato dei normali saggi provenienti da autori esterni, spesso molto prestigiosi, così come è avvenuto nel presente fascicolo. Per passare a quegli aspetti del programma originario che in questi ultimi anni sono stati in parte traditi è necessario prima accennare alle motivazioni più profonde che hanno ani mato « Op. cit.». Mi riferisco ad un tipo di informazione cul turale che, da un lato riprende la tradizione delle ottocente sche opere di divulgazione popolare: le enciclopedie, le anto logie, gli almanacchi, i supplementi domenicali dei giornali ecc. che tanta parte hanno avuto nella formazione degli auto didatti ( e ancor oggi lo siamo un po' tutti); e dall'altro si ispira alla immediatezza ed efficacia di informazione proprie dei mass-media: nel nostro caso, del giornalismo moderno in cui talvolta un « titolo » dice di più e meglio che non un lungo articolo. Entrambe queste matrici hanno dato luogo a quella « riduzione » culturale più volte dibattuta sulle pa• gine della nostra rivista. Fra i vari significati di tale espres• 6 sione ne emergono tre: a) riduzione del confuso sapere con-
temporaneo, e segnatamente per ciò che riguarda il mondo delle arti, alla struttura delle singole discipline; b) riduzione di ogni conoscenza dal complesso al semplice - in ciò recu perando la metodologia dello strutturalismo; e) adozione di un linguaggio almeno intenzionalmente accessibile a tutti. Ora, tutta quest'opera di selezione, di divulgazione, di « riduzione » culturale poteva essere affrontata da chi, oltre che convinto ideologicamente dell'intento, possedesse anche una consumata esperienza didattica e giornalistica. E pur troppo molti di noi hanno dimostrato o poca convinzione sui propositi o timidezza nel tagliare e « manipolare » le infor mazioni, sacrificando allo scrupolo filologico la funzione di vulgativa. Cosicché, ad un certo punto, « Op. cit. », nata per essere un « pratico » strumento informativo, è passata per es sere una rivista « scientificamente » rigorosa e quindi inevi tabilmente elitaria e di difficile lettura. Questo giudizio, sia inteso come apprezzamento, sia come rilievo, è ora radicalmente da modificare, cosicché la prima e più sostanziale innovazione che intendiamo apportare è quella del puntuale ripristino del suo originale programma. Lasciamo ad altri ogni filologismo, ogni puntualizzazione spe cialistica, ogni interpretazione delle frequenti crisi che si ve rificano nel dibattito architettonico e artistico, ogni schiera mento pro e contro questa o quella tendenza, ecc. Per attuare il nostro programma « pratico », sin da questo numero la rivista si avvale del contributo economico e orga nizzativo di istituti, di ditte industriali e commerciali. La loro presenza, mentre comporta una serie di evidenti vantaggi ma teriali, un più efficiente lavoro redazionale, una migliore di stribuzione, ecc., rappresenta in pari tempo un ulteriore anco raggio ai valori-interessi più positivi e condivisi. Continue remo dunque la nostra opera di « riduzione » culturale ( chi la intende come « sconto », come mera semplificazione, ecc. è fuori strada), ma essa non si effettuerà nel vuoto dei discorsi intellettualistici, quanto nel pieno dei fatti reali, primo fra tutti lo stesso problematico rapporto tra la cultura e la « forza delle cose ». R.D.F. 7
Per una teoria delle variazioni stilistiche RENATO BARILLI
Non ho collaborato molto di frequente ai fascicoli di «Op. cit. », nel ventennio di vita della rivista. Eppure non c'è stata fase saliente del mio lavoro storico-critico, nel corso del medesimo lasso di tempo quanto mai tormentato e com plesso, che non vi abbia lasciato una testimonianza consistente. Nel n. 9 (1966) proponevo una scelta di quattro artisti (Vac chi, Adami, Nespolo, Gilardi) che si ponevano entro il clima oggettuale allora dominante, pur giungendovi per vie diverse, e aprendo anche diverse prospettive sui movimenti successivi della ricerca. Qualche anno dopo, nel n. 26, svolgevo le mie personali considerazioni sull'arte concettuale, insistendo su un suo carattere «mondano» e di smaterializzazione spinta, secondo certe coordinate generali del mio modo di pensare, che poco dopo approdavano al volume Tra presenza e as senza (Bompiani, 1974), di cui appunto quel saggio formava una delle parti costitutive, per quanto riguarda l'aspetto della «presenza» (una presenza concepita come fase estrema di « forme aperte», per dirla con Wolfflin, a loro volta entrate in sintonia con il « freddo» nell'accezione di McLuhan, vale a dire con uno sviluppo armonico e organico di tutte le nostre facoltà sensoriali, sviluppo promosso dai mezzi elet tronici). In quel medesimo saggio agitavo anche la categoria del!'«assenza», interpretandola come una rinuncia, da parte dei vari operatori culturali, a essere presenti « qui e ora,., a
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contatto con il mondo, le cose, l'attualità, in favore di una corsa a ritroso nella storia, nel tentativo di andare a sinto nizzarsi via via su altre epoche e stagioni. Il che corrisponde alla pratica del «citazionismo», o come anche amo dire, della « ripetizione differente». Ebbene, devo ammettere che non ho affidato a «Op. cit.» qualche pagina decisiva su un simile atteggiamento dell'assenza, nei suoi risvolti relativi alle arti visive. Ma per me l'ha fatto Fulvio Irace, dedicandomi (nel n. 37) un'eccellente recensione, applicata al caso specifico dell'architettura. Da U nasceva una calda amicizia e collabo razione, che ancora dura, e che sfociava, nell'inverno '77-'78, in una mostra alla Galleria comunale d'arte moderna di Bo logna, curata appunto da Irace, e consistente nel verificare le categorie della «presenza» e dell'« assenza» sulle più re centi tendenze dell'architettura. Era ormai alle porte la voga del postmoderno, di cui quella mostra fu uno dei primi e più consistenti atti istitutivi. Dunque, «Op. cit. » registra tre mie scommesse successive, molto diverse tra loro: una puntata a favore delle forme oggettuali; un'altra, quasi di segno opposto, a favore dei pro cessi smaterializzati, degli atteggiamenti generali, dei «pen sieri » (il fare arte, o forse meglio animazione estetica, per vie· quasi telepatiche, o almeno di trasmissione eterea e im palpabile delle informazioni); e infine l'ultima scommessa in cui mi sono impegnato, ormai da dieci anni a questa parte, il trend citazionista, revivalista, in sintonia col postmoderno. Ma allora, di fronte a tanta mobilità di posizioni, sembra quasi divenire legittima l'accusa che si usa fare ai critici mili tanti, di essere dei voltagabbana, degli opportunisti, degli sfrontati inseguitori di mode, di cui quindi non c'è da fidarsi: oggi assertori di certi valori, domani disposti a tradirli, a dimenticarli, per «puntare» su altre carte. Per fortuna non ho mai cercato di nascondere tanta mo bilità di scelte, o di mascherarla con qualche pretesa coerenza occulta e profonda. O meglio, ho difeso la coerenza di essere incoerente, fedele in ciò al carattere temporale della vita cul turale,· una delle cui conseguenze è proprio l'emergere del 10 nuovo. La ricerca culturale ·è mutamento, innovazione� quel
suo settore specifico che si richiama all'arte Io è ancor di più, se ne fa anzi un titolo di merito, quasi una religione. Ben difficilmente i tratti dominanti di una determinata situa zione stilistica « tengono » per più di dieci anni. Quasi di regola, ogni decennio subentra appunto un mutamento. E non si tratta neppure di una caratteristica dei nostri tempi, filoneisti per eccellenza, ma qualcosa del genere può essere riscontrato anche in altri secoli, purché l'attenzione si rivolga a epoche attive e dinamiche, poste nel fiume della storia, e non attardate nei pigri meandri della preistoria o della non storia. Tutt'al più, in altri secoli bisogna ripiegare su un ritmo di innovazione che passa per un intervallo ventennale, e non soltanto di un decennio, alleandosi cioè al passo delle generazioni. Ma non è tutto, non basta cioè diagnosticare l'inevitabilità del cambiamento. Questo si esplica, per lo più, in una dire zione polare, in modo tale, cioè, da contraddire i caratteri che avevano dominato nella fase stilistica precedente. Si ritrova così la centralità dell'insegnamento di Heinrich Wolfflin, che pure continua ad essere alquanto trascurato, nei nostri tem• pi: tutti lo conoscono, più che altro per- sentito dire, ma scrollano le spalle con un gesto di noia, se qualcuno lo ri propone. Eppure non sono mancate le applicazioni clamorose della sua dottrina. L'« opera aperta», teorizzata da Eco verso la fine degli anni cinquanta, traeva partito dal fatto che il sottoscritto e altri stavano impiegando le tipiche « forme aperte» wolffliniane per cercare di comprendere l'Informale e i fenomeni ad esso affini. Poi, con regolarità da manuale; doppiato il capo del '60, alla fase di « apertura » di quegli anni subentrava l'attrazione contraria del « chiuso», col che entriamo, per così dire, in cronaca diretta, dato che appunto la mia prima apparizione su questa rivista avveniva nei panni di colui che constatava come, nella prima metà degli anni ses santa, il. panorama circostante fosse dominato dall'oggetto. Ma non necessariamente dalla Pop Art; infatti il vantaggio della metodologia del Wolfflin è anche che egli fornisce delle coordinate stilistiche generali; per esempio, quello che con.: tava, allora, era che si · seguissero forme chiuse, chiare, .. di
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superficie,. iconiche, ben definite ecc. I movimenti, i raggrup pamenti, potevano poi essere tra loro i più diversi e in apparente conflitto reciproco; restava la comune apparte nenza a una medesima fase stilistica, unificata da una stessa logica interna dei processi. E ne veniva anche l'inevitabile consapevolezza che quel predominio del « chiuso » non poteva considerarsi definitivo, ma che al contrario conveniva man tenere un occhio di riguardo per le prospettive « aperte» da cui gli artisti provenivano, e verso cui, inevitabilmente, avreb bero ripreso a marciare, non appena il calice del « chiuso» fosse stato bevuto fino alla feccia. E infatti, puntualmente, ecco che a partire dal '67 scatta una nuova fase di forme « aperte». Qui però bisogna subito aggiungere una riflessione correttiva. Wolfflin non ha mai pensato che le sue famose coppie si ripresentassero, a sca denze cicliche, tali e quali. Esse, piuttosto, si limitano a of frirci un generico schema tipologico, che di volta in volta si ripresenta, prende corpo, si sostanzia in modi specifici, emergenti, non ripetitivi rispetto al passato. Così il nuovo «aperto» che si ha dal '67 (e in sintonia con lo spirito del '68) non è un dejà vu, non ricalca pedissequamente le orme del precedente« aperto» (che era stato, come ho appena ricordato, l'Informale pittoresco e magmatico svoltosi negli anni cinquanta sulle due rive dell'Atlantico). Il nuovo « aper to » si indirizza in campi fin li inesplorati sfruttando le pos sibilità della tecnologia, e in particolare le risorse offerte dallo sviluppo delle telecomunicazioni, dell'elettronica in ge nere. Ecco così il panorama di ricerche artistiche (o meglio « estetiche », in quanto volte solo a stimolare la nostra « aisthesis», più che a fabbricare con arte un oggetto mate riale) « concettuali» o smaterializzate, di cui fissavo le linee proprio nel secondo intervento, già ricordato prima. Si apre a questo punto lo spazio per alcune riflessioni aggiuntive: una volta riconosciuto il grande merito storio grafico delle e coppie» wolffl.iniane, non è beninteso il caso di mummificarle (non lo voleva neppure il loro Autore, che del resto fu sempre molto cauto e circospetto nel farne uso). 12 Anzi, si può. e si deve avere in proposito un buon grado di
flessibilità. Fatto salvo il modello dinamico bipolare, occor rerà di volta in volta porre a contrasto indicazioni morfolo giche diverse da quelle canoniche. Per esempio, già nell'esa minare il passaggio dal clima oggettuale dei primi anni ses santa a quello concettual-comportamentista successivo, la po larità chiuso-aperto, pur non smarrendo del tutto il suo enorme potere illuminante, appare nondimeno alquanto sfo cata e generica. Risulta più appropriata e calzante una diver sa coppia, sul tipo di materiale-smaterializzato, concentrato espanso. Ma la necessità di fare sfoggio di fantasia, di in ventiva, viene messa ancor più alla prova in riferimento ai cambiamenti intervenuti alla metà circa degli anni settanta, quando appunto ci si stanca di mirare a esperienze cosmiche, allargate ed estese all'infinito, e quasi per un movimento di marea, l'arte rientra entro gli antichi contenitori. Anche in quest'ultimo caso sarebbe di scarsa utilità riproporre per l'ennesima volta il solito passaggio, anche se evidentemente invertito di segno, dall'« aperto» del concettual-comporta mentale, al « chiuso » del citazionismo, revivalismo, ripetizione differente e simili. Chi mi ha seguito nei quotidiani esercizi di intervento sui lavori in corso, sa che a questo proposito ho adottato la variante esplosione-implosione, che mi· sembra assai più calzante ed efficace, anche perché indica molto bene il rove sciarsi di una specie di vettore spaziale-temporale: se nel l'esplosione esso mira in fuori, nell'implosione punta in den tro, ritorna su se stesso, consentendo tra l'altro splendide analogie con le teorie astrofisiche della materia nello spazio e delle sue concentrazioni nei famosi « buchi neri». Devo anche aggiungere che, se il caso non mi ha fatto pubblicare nelle pagine di questa rivista qualche testimonianza di un tale mio recente affaticarmi attorno alle coppie, ha fatto apparire però un eccellente esame che ad esso è stato dedi cato da Giuseppina Dal Canton, nel n. 51 (Modelli interpre
tativi delle tendenze recenti). E per chiudere con questo capitolo di osservazioni di carattere formale, e per ribadire che Wolfflin non è da im balsamare, una volta che gli siano stati resi i dovuti onori
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come a un codificatore di un metodo che resta validissimo, vale la pena di aggiungere un'altra riflessione. Non è detto cioè che si debba tenere come invariante lo schema bipolare, pur ammettendo la più ampia fantasia nell'escogitare, di volta in volta, i termini oppositivi più calzanti alle situazioni per cui devono essere impiegati. Qualche volta i poli entrano in equilibrio reciproco; o meglio, ci sono delle zone come di grande bonaccia in cui essi si controbilanciano, determinando un clima di calma e sospensione apparente, di caduta di tensioni, che invece risulta appunto dal bilanciamento delle forze opposte. Si tratta cioè di un equilibrio dinamico, piut tosto che statico. � per esempio mia convinzione che oggi siamo entrati in un clima del genere, dato che appare ormai lontana l'«esplosione» concettual-comportamentista, ma an che un'«implosione» uguale e contraria, rivolta a un puro ricalco delle forme museali, a una citazione rigorosa e pedis sequa, mi sembra essersi parimenti logorata, aver già fatto il suo tempo. Può darsi allora che i due vettori si bilancino, senza riportare una decisiva vittoria l'uno sull'altro, in un'arte che non si arrocca nel recupero del passato, così come non si lancia nello spazio e nel tempo fino a cancellarsi come tale. In fondo, devo riconoscere che negli anni scorsi ho tratto dal migliore dei nuovi filosofi francesi, Gilles Deleuze, il con cetto di ripetizione differente; ora gli vorrei rubare l'altro, avanzato successivamente, di plateau: un altopiano, un tratto disteso e apparentemente orizzontale, che però è «lavorato», solcato, tenuto in tensione da mille linee di forza che vi si intrecciano. Si pensi anche ai satelliti artificiali che seguono docilmente la terra, in apparente quiete, ma raggiunta grazie a una vorticosa rotazione su se stessi. Un'altra riflessione si impone: le oscillazioni puramente formali, secondo lo stile wolflliniano, entrano talvolta in sin tonia con i grandi mutamenti tecnologici, e allora le due spin te, sommandosi, determinano delle svolte, dei mutamenti di grande portata. O più in genere potremmo trasportare nel l'ambito delle variazioni stilistiche il metro delle diverse lun ghezze d'onda. Gli stili, le tendenze, i movimenti mutano, si 14 succedono secondo un ritmo di onde corte, o medie, o lunghe.
Le onde corte avvengono in un puro ambito estetico, ma non per questo sono da disprezzare, poiché il compito istituzio nale, perfino sociale, che la cultura affida all'arte è proprio quello di mantenerci allenati alla produzione del nuovo; e allora è un obbligo cambiare, non appena un certo tipo di sensibilità sia giunto a saturazione. Molte volte tali cambia menti hanno una genesi puramente interna, e non serve cer care delle omologie con pretese svolte tecnologiche, o socio economiche: è questa una ammonizione che ci deve consi gliare di evitare le pedanterie dei determinismi, dei socio logismi, delle « dietrologie », in quanto certe volte, dietro un cambiamento di stile non c'è nulla, a parte la pura e sem plice, ma legittima, esigenza del cambiamento come fine a se stesso. Però esistono anche le onde medie, di cambiamenti che concernono assieme le varie arti e scienze, oppure le onde lunghe, in cui tali cambiamenti si sintonizzano a loro volta con le grandi innovazioni tecnologiche. Va da sé che nella cartografia dei fenomeni artistici che ogni studioso è• tenuto a tracciare, questi diversi tipi di onde devono essere marcati con tratti più o meno risoluti.
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Il design businesslike GABRIELLA D'AMATO
« La forma non segue più la funzione, ma il "business" in tutta l'articolazione del termine... soprattutto sembra ab bandonata ogni speranza che il prodotto possa testimoniare fisicamente l'avvento di una autentica società democratica o almeno l'utopia di essa» (Dal cucchiaio alla forchetta, in « Casabella» n. 496). Bene, facciamo pur nostre le parole di Gregotti; ma è mai possibile che di questo fenomeno ci accorgiamo solo ora? Per quanto ci riguarda, alla luce di esperienze ormai decennali, da tempo andiamo convincendoci piuttosto che il design è stato sempre essenzialmente una questione di mercato. Come infatti spiegare le tante cadute sul campo di ipotesi progettuali, di nuovi tentativi di produ zione partiti con tutte le carte in regola secondo i canoni della disciplina e la benedizione della critica e, per contro, l'affermazione di fenomeni avversati da quest'ultima, privi di sofisticati apparati teorici, ma carichi soltanto di un buon fiuto nel mettere la vela al vento? Di questa realtà si sono dovuti dolorosamente accorgere il Bauhaus e tutta la linea razionai-funzionalista che ne è derivata: quei modelli ricchi di una tensione ideologica tanto prorompente, sorretti dalle teorie pedagogiche, formali, figurative dei più grandi cervelli d'Europa alla prova dei fatti sono stati rifiutati; in altri termini, per essere brutali fino in fondo, sono rimasti in venduti. Per rimanere a galla sul mercato il « mobile per 16 tutti» ha dovuto attendere di diventare « per pochissimi»
fregiandosi inoltre del prestigioso lenocinio di un alto prezzo. Né altra sorte, al di là di una ventata di moda, è toccata al suo antagonista, il mobile scandinavo, che pure vantava padri illustri come Aalto, Jacobsen, Finn Juhl, o al mobile opulento degli anni sessanta o a tutta la linea del cosiddetto good design. E non ci si venga a dire che nel delineare un bi lancio di sconfitte abbiamo dimenticato questa o quella cor rente, questo o quel tentativo di produzione riuscito; non è un caso che siano rimasti nella penna: vuol dire che non sono andati oltre una fuggevole presenza sul mercato, oltre l'ennesimo tentativo di imporre un prodotto d'élite. La verità è che, dal punto di vista del successo commer ciale di massa, i fenomeni che hanno veramente inciso e possono vantare una certa durata sono pochissimi. A voler essere precisi si possono contare sulle dita di una mano: la produzione di Thonet che a ben vedere non era neppure un designer nel senso canonico del termine, ma che riuscì ad imporre una delle più diffuse produzioni in serie che la storia ricordi; tutte quelle produzioni basate su una nuova merceo logia come è il caso dell'AEG facente leva, tra l'altro, su un'accortissima politica industriale; quella del tanto depre cato styling che al pari degli stili del passato, in forza della sua «moderna» unità stilistica riusciva a penetrare tutti i settori merceologici suscitando un forte desiderio di acquisi zione da parte delle masse; quella, infine, delI'anonimous design divenuta parte integrante e simbolica della nostra quotidianità. Ma, stavamo per dimenticarlo, c'è anche un anello eccentrico che gira in questo ingranaggio, si tratta dello scomodo artigianato, da sempre antagonista del design, ma che continua ad avere una incrollabile e crescente pre senza sul mercato contraddicendo ogni norma legata ai tempi e ai ritmi della vita moderna: basti pensare alla più che trentennale attività della Wiener Werkstatte, singolare epi sodio di longevità commerciale dovuta soprattutto al con creto senso degli affari di Hoffmann a dispetto della « futi lità decorativa» (che però ora torna di moda) dei suoi pro dotti. Ma allora come spiegare tante contraddizioni? Forse ci
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troviamo cli fronte all'ennesimo uovo cli Colombo. � proba bile, infatti, che nella ricerca affannosa di quanto si può dire sul design si sia perduto di vista lo scopo ultimo per il quale esso esiste: l'esigenza di soddisfare le aspettative di un consu matore che alla fine deve sancire con il suo materiale acquisto il successo di un oggetto. Si tratta, come scrive Maldonado in Avanguardia e razionalità (Torino 1974), della« difficoltà di stabilire con obiettività e senza generalizzazioni astratte cosa è un consumatore ». E a tal fine egli si rifà ad una serie di interrogativi posti da Lefèbvre per una concreta ricerca teo rica sui consumi da affiancare allo studio scientifico dei rap porti cli produzione: « Dove e in quale sfera si realizza il contatto dell'uomo con i beni di consumo? Dove questi di ventano dei beni, nel senso concreto del termine? Come ven gono acquisiti?... Da dove nascono i bisogni? Dove si for mano? E come? E come trovano ciò che cercano? I bisogni costituiscono un insieme? Esiste un "sistema dei bisogni"? O una struttura dei bisogni? Quale è questa struttura?». Senza la pretesa cli fornire una soluzione a tutte queste domande, si può tuttavia provare a rispondere ad alcune cli esse proprio partendo dall'angolazione del design come affare di mercato. Innanzitutto la sfera in cui si realizza il contatto dell'uomo con l'oggetto di consumo si presenta con una doppia faccia, una pubblica e una privata: il consumatore considera i pro dotti del design come cose da fruire e cose da possedere, con una fondamentale differenza però: mentre si mostra quasi disinteressato alla forma degli oggetti che possono offrirgli solo dei servizi, diventa estremamente accorto e selettivo verso ciò che può materialmente acquistare e possedere. Dove i beni diventano tali è un corollario cli quanto sopra esposto: un bene diventa tale quando rappresenta un valore capace di soddisfare determinati interessi. Sul come vengono acquisiti tali beni, benché Lefèbvre forse pensi ad altro, ci sembra che gli attuali sistemi di vendita siano tanto sofisticati da ritenere impensabile un loro diverso funzionamento. Sul come nascono i bisogni c'è poi da dire che o provengono 18 da esigenze primarie, e sono i più diffusi, o da esigenze in-
dotte e qui il discorso cade sulla promozionalità, fattore quanto mai complesso. Essa infatti raramente raggiunge il suo obiettivo perché o risulta ermetica (pensiamo alle ri viste di settore) o eccessivamente ridondante al punto da determinare una reazione di noia e di rigetto da parte del consumatore. Tuttavia, per quanti stimoli la questione posta ci possa offrire, non c'è forse il rischio di ricadere di nuovo nella spirale delle teorizzazioni e di quel vizio congenito della cul tura del design che in luogo delle storiche certezze ha sempre preferito l'avventura delle previsioni? Se le domande sui bisogni indicate da Lefèbvre possono ridursi ad un problema di valutazioni e di scelte, non sarà forse la storia il mezzo più idoneo a mostrarcele? Come osserva infatti Dewey (Teoria della valutazione (1939], Firenze 1963), « In base alla conti nuità delle attività umane personali ed associate la portata delle valutazioni presenti non può essere validamente stabi lita fino a che esse non sono inserite e viste nella prospettiva dei passati eventi di valutazione con i quali sono continue. Senza di ciò la prospettiva futura, cioè le conseguenze delle presenti e nuove valutazioni, è indefinita. Nel grado in cui i desideri e gli interessi (e quindi le valutazioni) possono essere giudicati nella loro connessione con le condizioni passate, essi sono visti in un contesto che li fa suscettibili di venir riva lutati sulla base di un'evidenza aperta all'osservazione e alla prova empirica ».
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Le nuove frontiere della storiografia urbana CESARE DE SETA
Vorrei sgombrare il campo da qualunque aspettativa in fondata, a cui il titolo potrebbe indurre: non ho infatti una nuova « ricetta » per la storiografia urbana, tenterò solo di delineare quelli che sono gli aspetti emergenti della ricerca storica di questo ambito negli ultimi dieci anni. Debbo, in primo luogo, dar ragione di questa periodizzazione. Infatti proprio nel 1973 con gli amici Alberto Caracciolo e Pasquale Villani e la rivista « Quaderni Storici » organizzammo un convegno a Sorrento, il primo specificamente dedicato alla storiografia urbana che si è tenuto in Italia: non sta a me giudicare quali siano stati gli esiti del lavoro svolto in quei giorni (gli esiti sono a disposizione di tutti) ma certamente possiamo dire che è stato l'inizio di una sistematica ricerca: soprattutto si avviò un dialogo organico e non occasionale, tra discipline diverse, nell'ambito di quella che chiamiamo la storia urbana. Negli anni immediatamente seguenti sono accaduti fatti nuovi: tra questi ricordo soltanto la costituzione del gruppo internazionale di ricerca che fa capo alla Maison des Sciences de l'Homme di Parigi che ha promosso una serie di seminari su temi diversi. Gli argomenti sono stati comunque tali da richiamare - in sedi di volta in volta diverse (Londra, Bonn, Parigi, Capri ecc.) - studiosi italiani, francesi, inglesi, t� deschi, olandesi, americani e svedesi. Perché faccio riferi mento a queste esperienze? Perché si tratta di veri e propri 20 seminari di studio (non convegni) della durata di due o tre
giorni, e si è tentato di capire, tra chi si occupa di queste cose, che cosa sia la storia urbana e quali siano i temi emergenti sul terreno squisitamente metodologico. I Seminari hanno messo in luce alcuni fatti: fra italiaru e francesi c'è un dialogo, una analogia di prospettive; mentre per urban history il mondo di cultura anglosassone intende cose molto diverse. Questa constatazione non è certo una sco perta di questi Seminari, ma debbo dire che mai come in queste sedi si è avuta l'occasione per verificare fino a che punto queste distanze fossero colmabili e fino a che punto invece le vie si divaricassero. Prima di entrare nel merito di quelle che sembrano le prospettive della ricerca in questo campo, vorrei chiarire che cosa si intende (o meglio io intendo) per storia urbana: quan tomeno sottolineare la differenza che corre tra storia ·urbana e storia dell'urbanistica. Su questi concetti mi pare che le idee siano ormai abbastanza precise e concordi: per storia dell'urbanistica - quella che si fa da tempo nelle facoltà di architettura o in quelle (poche per il vero) di lettere - si intende prevalentemente lo studio dei sistemi di progetta zione e di trasformazione dei manufatti urbani; i rapporti che questi manufatti hanno con la storia dell'architettura e quindi con le estetiche che sono a monte di questi sistemi di progettazione e dunque di organizzazione dello spazio. La sto ria urbana è la storia delle trasformazioni complessive che agi scono nella città ma non solo in essa: il contesto materiale si trasforma per azione di forze sociali, in funzione dell'organizza zione del potere, sotto la spinta di dinamiche economiche e demografiche: in definitiva sotto la spinta di tutte le forze so ciali agenti in quel campo che è la città ed il suo territorio. Detto questo naturalmente se ne deduce come corollario che la storia dell'urbanistica non è che una parte della più vasta storia urbana. Ma l'articolazione complessa e non af fatto univoca del concetto di storia urbana presuppone una precisa idea di città: a questo punto non posso che ripetere quel che disse, nel 1967, nel famoso convegno di Cambridge, Roberto Lopez, in un intervento poi raccolto nel saggio dal titolo The historian and the city, « insomma signori miei, la 21
città è una città»; paradossalmente lo storico intendeva dire che questo nodo della città, sfugge veramente ad una defini zione. L'opinione di uno dei più illustri e autorevoli storici del mondo medioevale e moderno della civiltà occidentale ci solleva da ogni imbarazzo; una battuta, la sua, che risponde invece effettivamente alle difficoltà che si incontrano nella definizione di questa tematica. Da allora in poi, da quando in modo così icastico Lopez eludeva il problema della definizione della città, si sono com piuti parecchi passi in avanti ma non tali da poter giungere ad una definizione. Né forse questo è il problema centrale. La storia urbana eludendo i problemi tassonomici ha puntato sul confronto tra lo sviluppo e le funzioni assolte da ogni singola città; ogni città infatti ha una sua storia, una sua funzione e l'eventuale comparazione o l'eventuale periodizza zione degli eventi che interessano il suo sviluppo sono un fenomeno complesso che può essere visto da angolazioni mol to diverse, e vedremo quanto diverse, ma all'interno di questo schema si può sicuramente operare. Esiste in primo luogo il problema della periodizzazione; il vecchio desueto sistema della periodizzazione dedotta dalla storia nell'accezione gene rale, storia mediovale, storia moderna, storia contemporanea, oppure !'ancor più inefficiente periodizzazione desunta dalla storia delle arti (città rinascimentale e, dunque, città baroc ca, rococò, e così via) credo che abbia dimostrato la sua fragilità e la sua inconsistenza. Esiste un problema di mete da segnare, che siano proprie alla storia urbana: il problema non sarò io certo a risolverlo. Penso tuttavia che il XII secolo e l'inizio della guerra dei Trenta anni, costituiscono dei saldi punti di cesura, segni di svolte fondamentali nella storia d'Europa. Il terzo punto di flesso si ha con l'avvento di una organizzazione industriale della produzione. Sono questi tre momenti che non ricalcano le desuete organizzazioni della storia politica e delle arti, ma propongono una articolazione che è più congruente allo svi luppo della società urbana. È inutile dire che in questo modo si vengono a privilegiare i momenti della transizione da un 22. certo tipo di società ad un'altra piuttosto che quelli della
continuità. E mi sembra fondamentale, direi decisiva - di gran lunga la più rilevante - la distinzione che si viene a realizzare tra le società, e quindi le realtà urbane, di antico regime e la società capitalista industriale. Qui il rapporto tra città e campagna assume una rilevanza prima ignota: lo iato che si realizza tra città e campagna in età capitalistica ed in età industriale è enorme; tuttavia la storiografia urbana delle società di antico regime ha esaltato, con troppa enfasi, quello che è stato il ruolo della città. Nelle società di antico regime l'interpretazione urbano centrica dello sviluppo del nostro piccolo mondo occidentale, è stata condotta con una enfasi che parte dal canto di Pirenne sulle città della Fiandra o sul sistema anseatico, per giungere all'esaltazione delle autonomie comunali della Padania e della Toscana assunte a simbolo ed epitome di una nuova civiltà. Per rendersi conto di come ed in quale misura ci sia stata una esaltazione �el momento urbanistico nella storiografia, basti dire che nelle società di antico regime assai spesso il contado, la campagna, era parte integrante di una organiz zazione produttiva sociale, economica a circuito continuo; la città non esercitava i suoi effetti soltanto nel territorio deli mitato dalle mura da cui era pur difesa. Il problema che ritorna è anche quello della definizione di che cosa noi possiamo intendere oggi per storia urbana. In nanzitutto bisogna sgombrare il campo dalla velleità o pretesa che si tratti di una invenzione recente della storiografia; per esempio basta riandare alla scuola di Chicago degli anni venti per darsi conto del fatto che la storia urbana ha alle spalle una storia di mezzo secolo almeno. Ma se guardiamo alla storia del nostro paese, essa per antonomasia è una storia urbana: dalle Cronache del Villani su Firenze ai testi di Sansovino su Venezia a quelli di Celano o Capaccio per Napoli, fino alle mille cronache che riguardano Roma, Pisa, Siena, Genova e qualunque altra piccola o grande città ita liana. La storiografia moderna, così come noi oggi la inten diamo, nasce come storia urbana che è per definizione storia di città. Oggi pertanto insistendo sulla storia urbana noi non facciamo che riannodare un filo, spezzato per ragioni diverse;
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ma la ragione più ovvia, più vicina a noi, era la necessità di esaltare e dare maggior risalto all'acquisita unità d'Italia, mortificando, naturalmente, le storie particolari, le autonomie, « le patrie particolari », le viscere di questa nazione di cui discorreva Carlo Cattaneo. Ribadire la rilevanza di queste tradizioni storiografiche non deve esser interpretato come provincialismo campanilistico, ma suona soltanto come riven dicazione di un dato di fatto oggettivo che mi sembra sia stato troppo a lungo trascurato nel dibattito relativo alla storia urbana colle sue origini. D'altra parte è esistita e con tinua ad esistere nella storiografia una oscillazione tra la tendenza al decentramento (studiare non la singola città, non il singolo manufatto urbano, ma il sistema di relazioni che intercorrono tra territorio, campagna e, quindi, altri sistemi urbani) e la tendenza a concentrare l'interesse su manufatti che hanno una loro unità, come la città, definita assai spesso dalle mura. Questa oscillazione ha una precisa origine ed è 'l'istituzione dei dipartimenti napoleonici in cui s'afferma l'esplicito disegno di reprimere le autonomie locali e la ne cessità di organizzare uno Stato che vuole avere una sola testa che è Parigi. A me sembra abbastanza evidente che questo modello istituzionale abbia inciso - come altri fatti che sembrerebbero distanti dagli interessi storiografici nell'organizzazione della ricerca che si occupa di storia ur bana. L'identità urbana in sostanza non è soltanto fenomeno che si misura con la storia dei manufatti che compongono la città, ma si misura soprattutto sul terreno dell'organizza zione del potere, ovverosia quello dell'organizzazione com plessiva della società. Nel 1509 i pisani si difendono dalle mire espansionistiche esterne; Firenze nel 1530 si difende contro spagnoli, tedeschi, pontifici, e difende non solo le mura, ma difende in sostanza la propria autonomia, la propria libertà. Nel 1540 Perugia, nella guerra del sale, difende in sostanza le proprie origini comunali contro la politica espansionistica dello stato della Chiesa; difende così con le mura una propria identità cul turale che è fatta naturalmente di civiche libertà, di auto24 nomie, di privilegi, tradizioni e ancora altro. Nella Spagna
di Carlo V i comuneros e i comuni autonomi vengono, al mento nella Vieja Castilla, completamente cancellati ed una regione florida di tante città vede schiacciati questi medesimi centri dal potere imperiale di Carlo V. In sostanza si viene a creare una distinzione che è di doppio tipo: da una parte delle regioni, delle aree geografiche in cui la repressione del potere è tanto forte da distruggere il sistema urbano creato prevalentemente in età medioevale; in altre aree, invece, c'è questa forza e resistenza del tessuto urbano. Casi abbastanza esemplari sono quelli della Castiglia. in Spagna e del Mezzogiorno in Italia: qui la repressione delle autonomie locali risale secondo alcuni studiosi alla domina zione normanna. Una repressione così forte da condannare quest'area geografica del nostro paese ad una secolare debo lezza urbana; quantunque discussa sia questa interpretazione non v'è dubbio che nel Mezzogiorno d'Italia non s'affermò nel corso del medioevo un sistema paragonabile per forza e den sità a quello della Padania o della Toscana. Esiste, giunti a questo punto, il problema della cesura e della definizione di questa città che di volta in volta è stata definita capitalistica, dell'età liberale, industriale e così via. La città dopo il XVIII secolo può infatti essere definita come città dell'età industriale o come luogo ove è collocata l'in dustria o come luogo che ha tra le sue attività dominanti quella dell'industria. Anche in questo caso abbiamo un'oscil lazione, si è di fronte ad una variabilità di punti di vista che dipendono da caso a caso soprattutto dagli interessi che si portano nello affrontare il problema della città. Comunque è la città dell'età industriale, o del capitalismo, quella maggior mente ricca di articolazioni e problematiche, sulle quali la storiografia a scala internazionale ha prodotto un numero co spicuo di ricerche. Fare una rassegna ricca di titoli sarebbe una cosa noiosis sima e forse perfino poco utile per i fini che ci siamo proposti; ma mi pare indispensabile, brevemente, per misurare le distanze e le differenze di cui parlavo in esordio, fare riferi mento ad alcuni di quei testi che mi sembrano essenziali per capire il cammino che si è compiuto dal '73 ad oggi. 25.
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Per quanto riguarda il problema della articolazione disci plinare della storia urbana, la prospettiva del mondo anglo sassone diverge in maniera abbastanza netta da quello che accade nella storiografia francese e in quella italiana. Prima facevo cenno ai due maggiori centri del mondo di lingua inglese, cioè alla scuola di Chicago che ha avuto una enorme influenza su tutta la storia sociale nella cultura con temporanea; ma maggior pregnanza e incidenza negli ultimi vent'anni ha avuto la scuola di Leicester animata dal com pianto Jim Dyos: organizzatore e propulsore della rivista « Urban History Yearbook », il cui primo numero è apparso nel 1974, preceduta soprattutto, dai due volumi The Victorian City di Dyos e Wolff e The Victorian Cities di Asa Briggs: che possono considerarsi come i più ricchi e completi lavori sull'organizzazione della vita urbana nel XIX secolo in Gran Bretagna. Il volume curato da Dyos ci offre un quadro completo di quella che è l'organizzazione della società urbana vittoriana in tutti i suoi aspetti, dalla analisi delle classi sociali alle trasformazioni, in senso economico e quantitativo, di quelli che sono i processi urbani. È un tipo di approccio in cui in sostanza quello che manca, e in maniera abbastanza vistosa, è proprio la fisicità materiale di questo fenomeno che è la città; si tratta di indagini che mostrano scarso inte resse alla trasformazione fisica del manufatto città. Al con trario la storia urbana per noi non può prescindere da questo dato, sicché una ricerca impostata così ha pochi equivalenti nella nostra letteratura. Un testo esemplare per darsi conto degli interessi di questo filone è quello di Gareth Stedman Jones su Londra dal 1860 al 1866. Sull'Inghilterra vittoriana e sulla Londra vittoriana prospera una foresta di titoli come per poche altre realtà-urbane del nostro recentissimo passato. Nella ricerca ricordata vi sono capitoli dedicati alla città di Dickens, e a come la città viene letta nella pubblicistica con temporanea. La città viene vista come fenomeno complesso che inte ressa tutti gli aspetti della vita sociale, economica ed intellet tuale del tempo. Quindi un'ottica che è sempre più difficile distinguere da quella che è a tutti gli effetti la storia sociale.
L'articolazione disciplinare in. Inghilterra in Locai History, Ur ban History, Socia! History, diventa sempre più sfumata per cui alcune di queste ricerche sono difficilmente catalogabili ·se condo i generi ricordati: quello della Briggs, per esempio, è un libro che a tutti gli effetti è costituito su una minuta e completa comparazione tra i diversi tipi di città vittoriane. Comunque, nel mondo anglosassone la base sociale ed economica delle indagini ha una rilevanza ben evidente; a questo bisogna aggiungere un filone che ha origine negli studi di storici dell'arte, ed indagini erudite che si sono prevalen temente soffermate sul problema dell'architettura della città; caso esemplare di Locai History anglosassone, sono le decine di volumi uscite nella collana diretta da Nikolaus Pevsner partita sul finire degli anni trenta e che procede, con una certa ostinazione tutta britannica, per una via che oggi ap pare desueta. Questi conoscitori inglesi ci dicono pietra per pietra tutto o quasi della città inglese, non solo di Cambridge, ma dell'ultimo villaggio a ottanta chilometri da Cambridge. Questa è proprio la classica Locai History. Su di un livello certamente diverso, con caratteri critici e interpretativi molto più interessanti, si collocano gli studi che fanno capo al giro di studiosi che lavora direttamente o indirettamente da anni intorno a Sir John Summerson. Sono volumi dedicati soprattutto ad alcuni quartieri come Hampstead, Paddington, West Kensington di Londra e sono delle ricerche che hanno una ricchezza di motivazioni in cui, direi, la parte del leone è assunta dal manufatto architettonico con un interesse però alla scala metropolitana dei quartieri sorti attorno alla città e che oggi fanno parte integrante della Grande Londra. La tradizione anglosassone ha comples sivamente pochi rapporti con quello che su questa frontiera accade in Francia; il paese che ha probabilmente l'artico lazione più ricca e la tradizione più solida in questo ambito di ricerche. Mi riferisco a quanto scrivevano nella relazione del convegno di Sorrento Bergeron e Roncayolo, relazione che costituisce un punto di partenz a essenziale per capire quel che è avvenuto dagli inizi degli anni sessanta in Francia: francamente è difficile e poco utile riassumere quel che di-
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cono in oltre cinquanta pagine questi studiosi, ma alcuni elementi mi pare importante sottolinearli. In Francia una tradizione di studi demografici molto fer tile e ricca ha, per buona parte, irrobustito la storia urbana; così come una tradizione di storia sociale e di storia econo mica e quantitativa convergono a definire il campo di interessi delle nuove generazioni. Sono queste le coordinate nelle quali si colloca la storia urbana, disciplina che neppure in Francia ha caratteri ben delineati; sostengono infatti Bergeron e Ron cayolo che la storia urbana non ha legittimità accademica, è un'area marginale della ricerca. Destino comune al nostro, visto che neppure in Italia esiste una disciplina che si chiama storia urbana: nonostante che esistano innumerevoli disci pline che si riferiscono a questo campo di interessi. Ma almeno un testo mi sembra esemplare per avere una idea precisa della ricerca in Francia. Mi riferisco al volume di Jean Claude Perrot, Caen au XVIII• siècle, che a mio avviso costituisce un salto di qualità per la storiografia su questi temi; perché pur partendo da un problema generale - vale a dire la presenza di questa città con le sue relazioni commerciali e non solo commerciali ma di organizzazione urbana su vasta scala, cerniera tra il Sud dell'Inghilterra ed il Nord della Francia - è il primo tentativo condotto a termine con un disegno equilibrato, di valutazioni di ordine demografico ed economico, che non sono più una mera som matoria. Il libro - edito nel '75, ma la tesi credo sia degli anni '72-'73 - ha rotto le barriere di uno specialismo demo grafico e quantitativo. L'altro caso, assai più recente, che conosco - soprattutto per averne discusso a lungo con il suo autore - è la tesi su Marsiglia di Marce! Roncayolo. Le distanze con il tentativo di ricerca che si conduce da parte nostra si sono molto accor ciate: .quantunque Roncayolo abbia una formazione di geo grafo e di storico il dialogo metodologico col suo lavoro è molto più ricco ed interessante. Per quel che accade nel nostro paese è impossibile fare una rassegna bibliografica; tralasciando quelle che sono le 28. sinossi e le grandi sintesi di secoli e secoli di storia urbani-
stica che poco o nulla aggiungono sul piano del metodo, mi riferirò al tentativo che con molti amici e colleghi stiamo conducendo con la collana « Le città nella storia d'Italia ». Credo che la maniera più utile per rendersi conto di una operazione in corso, forse con qualche segno di novità, è valutare la sua articolazione nel concreto: tra i collaboratori vi sono architetti, geografi, storici; gli architetti si chiamano Insolera e Bortolotti, i geografi Gambi e Gigante, gli storici Grohmann, Ricci, gli storici dell'arte Puppi, Gozzoli, Roma nelli ecc. Tutti hanno operato all'interno di uno schema che ha un preciso obiettivo: ricostruire l'evoluzione di un sistema urbano attraverso le sue diverse articolazioni. Il sistema di potere, le strutture economiche e demografiche, gli eventi politici nel senso più propriamente detto, vengono letti attra verso un filtro che è la realtà fisica della città nei suoi singoli momenti. La storia urbana è tale perché punta su questo dato: altrimenti si fa storia sociale, economica, politica, del l'architettura ecc. Il difficile è il sapersi servire di queste diverse discipline ai propri fini. Facciamo qualche esempio: per comprendere la condi zione urbana di Napoli nel '500 sono fondamentali le strutture demografiche: noi non capiremmo niente di questa città se non ricorressimo alla statistica, alla demografia storica. Sarà poi necessario seguire i provvedimenti del potere vicereale, con la loro funzione giuridica e sociale. Saranno, in definitiva, necessarie competenze assai diverse. Il problema non è quello di organizzare un metodo di conoscenza, di indagine, che sia omogeneo, ma che sia funzionale alla città di cui ci occupiamo. Problema fondamentale nella Napoli del '500: la trasforma zione delle fortezze con le armi da fuoco, e l'effetto che tale cambiamento ebbe sullo sconvolgimento di tutti gli equilibri. Ma queste fortezze a chi servono? Studiando un po' questo argomento ci si rende conto che la più grande fortezza di Napoli, che è quella di Sant'Elmo sulla collina di San Martino, costruita da Don Pedro de Toledo, poi ampliata e rinforzata nel '600, non serve a difendersi da eventuali nemici esterni, ma serve per difendersi dalle potenziali rivolte popolari che scoppiano in città. 29
Per fare storia urbana, si deduce da questi pochi ed esem plificativi dati, che i parametri sono variabili; e possono essere di volta in volta diversi. Ma per non correre il rischio di fare un lavoro che sia occasionale o casuale, bisogna tener ben chiaro l'obiettivo: che è sempre quello di ricomporre la strut tura della città nella sua identità spaziale, fisica, materiale. Dicevo prima delle difficoltà di una definizione di storia urbana e della labilità di ogni definizione; i diversi modi di leggere questa disciplina o questo interesse disciplinare lo dimostrano a iosa. Questa difficoltà alla definizione può es sere interpretata sia come un sintomo confortante, che come un sintomo inquietante. Noi sappiamo che le discipline nascono nel momento in cui l'oggetto stesso della disciplina è in articulo mortis. La storia dell'arte come disciplina scientifica s'afferma con Winckelmann nello stesso momento in cui l'arte perde quel ruolo che essa aveva avuto nella società di antico regime: ruolo centrale e comunque diverso da quello che avrà poi; con la rivoluzione industriale infatti, l'arte patisce una pro fonda crisi di identità dalla quale sortirà trasformata in qual cosa di diverso da quel che essa era. In questo momento di crisi si istituisce la storia dell'arte come disciplina. Lo stesso può dirsi per l'archeologia antica e medioevale: esse nascono quando ormai questo mondo antico e medioevale è scomparso. Noi ci troviamo, guardando al futuro, in un momento in cui la storia urbana rischia di diventare una disciplina. Parlo di « rischio » perché effettivamente l'oggetto dei nostri interessi - vale a dire la città nella sua complessa storicità - rischia di dissolversi. � questo un rischio lontano o vicino? La civiltà urbana nella sua complessità ha dimostrato di avere una carica e capacità di risorse eccezionali. Il nostro sistema urbano su bisce da molto tempo un attacco feroce alla sua identità ed alla stessa sopravvivenza fisica, una tendenza che sembrerebbe irreversibile. Bisogna capire se questi nostri interessi siano un omaggio storiografico, una « estrema unzione » alla città o siano piuttosto, come io auspico o come io spero, un ten30 tativo di ridar vita ed energia a un sistema di organizzazione
della nostra società che - alla fin dei conti - è l'unico di cui abbiamo concreta esperienza storica, ed è - allo stesso tempo - l'immagine più pregnante della nostra civiltà. Le ragioni che muovono i miei interessi di studioso sono rivolte a questo obiettivo: assumere coscienza di questa identità, farla divenire patrimonio di tutti. Se non nutrissi questa fon data speranza, varrebbe la pena d'occuparsi di archeologia orientale o di culture primitive. La nostra società urbana, nonostante tutto, è una pianta viva anche se va difesa con sempre maggior determinazione e da un numero sempre più vasto di « cittadini ».
Fornire una bibliografia sistematica sui temi trattati non è compito di queste note in margine. Mi limiterò pertanto a segnalare i titoli a cui si è fatto riferimento. AA.VV., Dalla città preindustriale alla città del capitalismo, a cura di A. Caracciolo, Il Mulino. Bologna, 1975 (Atti del Convegno di Sorrento); AA.VV., La storiografia urbanistica, a cura di R. Martinelli e L. Nuti, CISCU, Lucca, 1976; R. LoPEZ, Intervista sulla città medievale, a cura di M. Berengo, Laterza, Bari, 1984; A. BLUNT e C. DE SETA, Architettura e città barocca, Guida, Napoli, 1979. In Italia un ruolo di sistematico aggiornamento, con talune puntate sul fronte della metodologia, l'ha svolto la rivista « Storia urbana» giunta al 25esimo numero. Sulla storiografia anglosassone a parte i ti toli citati nel testo e gli interventi negli atti dei convegni sopra segna lati assume un ruolo di verifica importantissima il volume di J. DYOS, E. ARNOLD (editors). The Study of Urban History, Londra 1968 ed ora: AA.VV., Città, storia, società, a cura di PH. AIIRAMS e E. A. WRIGLEY, Il Mulino, Bologna, 1983. Per la storiografia francese J. C. PERROT, Genèse d'une ville moderne - Caen att XVIII• siècle, Mouton, Paris-La Haye, 1976; per il dibattito che ne è seguito: AA.VV., Une nouvelle histoire de la ville (note critique), in « Annales», n. 6, nov.-dic. 1977, pp. 1237-54. Natural mente un quadro sistematico d'insostituibile riferimento sono i volumi della Histoire de la France urbaine, diretta da George Duby in corso di pubblicazione. Per darsi conto del quadro metodologico in termini effi caci cfr. M. RoNCAYOLO, La città, in Enciclopedia, diretta da R. Romano, voi. III, Torino, Einaudi, 1978. Testi di utile riferimento generale sono L. BoRTOLOTII, Storia, città e territorio, Angeli, Milano, 1979; P. PIEROTTI, Introduzione all'ecostoria, Angeli, Milano, 1982;, A. CARACCIOLO, La città moderna e contemporanea, Guida, Napoli, 1982. La collana « Le città nella storia d'Italia» edita da Laterza, inaugurata nel 1979 con una pre messa metodologica a cui mi permetto di rimandare, ha pubblicato a tutt'oggi venti volumi. Il buon esito di questa iniziativa mi ha indotto a proseguire il lavoro a scala internazionale con una collana dal titolo « Le città nella storia ,. che verrà inaugurata nel corso del 1985 con i primi titoli dedicati a città straniere. Le ricerche monografiche, tematiche, settoriali su singoli città non si contano: ma dai testi citati si traggono tutti gli elementi essenziali per farsi un guida meno provvisoria e telegrafica di quella che propo niamo in questa sede.
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Dal neobarocco al postmoderno GILLO DORFLES
Venti anni - per una rivista così attenta alle ultime e più delicate questioni critiche, come « Op. cit. » - sono molti e sono stati densi di alternative singolari, a chi consideri il difficile compito di illustrare e commentare un periodo colmo di fermenti e di contrasti come quello trascorso tra gli anni '60 e '80 nel settore delle arti visive, con l'avvicendarsi di movimenti quali l'informale e il pop, il concettuale e l'op, in pittura, e lo slittare dell'architettura da un incondizionato plauso verso il Movimento Moderno a un progressivo abban dono di quegli - creduti un tempo aurei - schemi. Soprattutto in quest'ultimo settore :ritengo sia opportuno riprendere - sia pur brevemente - il discorso, anche se proprio sulle pagine di « Op. cit. » un saggio fondamentale come quello di Aldo Loris Rossi ha ormai fatto il punto in maniera decisiva. Se ho creduto opportuno prendere in con siderazione questo argomento, è in realtà per una ragione occasionale: ossia la mia intenzione di ripubblicare - a ben trent'anni di distanza - un mio vecchio lavoro, Barocco nell'architettura moderna, edito nel 1951. Quali sono dun que le ragioni che mi spingono a ripresentare il saggio, e giustificando le quali ritengo di poter annotare qualche anti cipazione sulle pagine di « Op. cit. »? Agli inizi degli anni cinquanta, quelle mie opinioni attorno alla situazione dell'architettura contemporanea potevano sem32 brare del tutto arbitrarie e controcorrente, mentre oggi forse
possono apparire molto più in sintonia con alcune posizioni avanzate e difese - persino ad oltranza - da diversi archi tetti e critici odierni. È necessario, tuttavia, precisare cosa intendessi all'epoca in cui scrissi il mio saggio con il termine e il concetto di «neobarocco ». Non si tratta, né si trattava, d'un'analogia esclusivamente «nominalistica» con l'autentica era barocca; e neppure si trattava d'un'applicazione delle in genue categorie d'orsiane che miravano ad estendere il con cetto - anzi l'eone - di «barocco» ad ogni epoca e ad ogni civiltà, secondo un'idea di corsi e ricorsi stilistici di cui oggi non ritengo si possa ammettere la reale esistenza. E neppure si deve credere che, risfoderando la mia idea di neobarocco, io intenda identificarla tout-court con l'attuale concetto - o indirizzo - di «postmoderno ». Eppure, con le dovute riserve circa i molti limiti e i molti abbagli del postmoderno (o di quanto di solito viene indicato con questo appellativo), credo di poter affermare come esi stano negli aspetti «migliori» del postmoderno alcuni ele menti che sono o sarebbero facilmente riconducibili a quel genere di concezione architettonica che ebbi allora a definire come «neobarocca ». Effettivamente: negli anni cinquanta, di fronte a una re verente e spesso supina accettazione di moduli e schemi funzionalisti e ad un'assoluta acquiescenza verso le persona lità dei Quattro Grandi, nonché di relativo disprezzo per altre personalità altrettanto grandi ma spesso trascurate (come fu il caso per Mendelsohn, e per lo stesso Aalto, da parte d'un Giedion; come fu il caso per Hèiger, per Steiner, per Haring, persino, fino a un certo punto, per il geniale Scharoun), non era certo facile né pacifico prendere posizione a favore di tendenze che non fossero in sintonia con quelle difese a oltranza e quasi dittatorialmente da Giedion, da Platz, da Taut (e s'intende, dai nostri architetti e critici di ortodossa osservanza funzionalista; anzi addirittura protorazionalista). Ho appena bisogno di rammentare come la stessa apologia dell'organicismo wrightiano ad opera di Bruno Zevi gli avesse valso molte rampogne perché si giudicava il maestro ame ricano come un sentimentale, un eclettico, non abbastanza
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ligio ai dettami della razionalità. Io stesso - che nel 1950 non avevo ancora una conoscenza «de visu ,. delle sue ope re - ebbi a scagliarmi contro certe intemperanze più che altro verbali del Gran Vecchio; mentre in un secondo tempo, dopo aver visitato Taliesin West, osservato da presso le Prairie Houses e conosciuto personalmente il loro autore, dovevo fare ammenda dei miei primi e affrettati giudizi; senza con ciò, includere il maestro americano tra coloro che volevo de finire come «neobarocchi». Ma, se Wright e Le Corbusier (salvo per la sua Cappella di Ronchamp) rimanevano fuori dalla mia classificazione di neobarocco, vi rientravano in pieno altri architetti come Gaudì e buona parte degli adepti del modernismo catalano, come pure alcuni dei migliori seguaci dell'Art Nouveau da Horta a Guimard; e inoltre tra i contemporanei (di allora) Scharoun, Rudolf Steiner (la cui importanza, sia pure margi nale e paradossale, non era ancora stata messa in luce), Men delsohn, Aalto, e in parte Saarinen, Mollino e un certo Miche lucci. « Non si tratta - scrivevo allora - d'un ridestarsi di impulsi romantici che seguano a un presunto periodo classico (come pretenderebbe d'Ors nella sua tesi che vede avvi cendarsi periodi classici e barocchi), ma piuttosto del fatto che - liberatasi da schemi e preconcetti meccanicistici oggi l'architettura può ritrovare alcune "costanti barocche" che aveva temporaneamente perdute». Si trattava, in definitiva, di considerare positivamente al cuni dei tentativi anti-razionalisti, anti-stereometrici, anti meccanicistici, per dare maggior rilievo a quelli che preco nizzavano una maggior libertà plastica e compositiva e una maggior aderenza dell'architettura all'organicità dell'individuo umano. Questo genere di «organicità», tuttavia - sia ben chiaro - non aveva nulla, o poco a che vedere con l'organi cismo di stampo wrightiano; anche se era giusto riconoscere al maestro di Taliesin grandissimi meriti soprattutto per quanto riguardava lo sviluppo d'una spazialità del tutto pe culiare in molti dei suoi edifici. L'artista, invece, che aveva posto con maggior chiarezza 34 l'ipotesi d'un organicismo legato all'architettura moderna si
deve considerare Henry van de Velde, che, come è noto, aveva ragionato già precocemente d'una «linea organica» a partire dal suo scritto Zum neuen Stil (1907). La mia presa di posizione d'allora non doveva avere sulle prime molto seguito. Si era, infatti, nel pieno del dominio incontrastato del Movimento Moderno e dei suoi vari epi goni; e soltanto pochissimi dei maggiori architetti dell'epoca (penso ad esempio a Aalto, Bruce Goff, Scharoun, Saarinen, Kiesler), mostravano di aver intuito certe possibilità espres sive e costruttive quali si erano già palesate, più che altro in forma utopistica, nei progetti e negli schizzi di Mendel sohn, di Bruno Taut, di Haring. Questo breve preambolo al tema che vorrei ora affrontare doveva servire più che altro a ripresentare i limiti e gli spunti di quella che fu la impostazione del mio discorso di allora. Se ora, per contro, osserviamo più da vicino quanto è acca duto in questi ultimi due o tre lustri, ci accorgeremo che forse le mie idee d'allora si possono considerare come, almeno parzialmente, precorritrici d'un indirizzo che si è venuto svolgendo ulteriormente. Quando una decina d'anni or sono si fece strada quell'indi rizzo poi definito «postmoderno» (e preceduto inizialmente dalle diverse correnti della «radical architecture», dell'adho cismo, dei Global Tools, e delle diverse tendenze confluite nei gruppi di Archigram, Metabolism, e in quelli italiani di Archizoom, Superstudio, Ufo, ecc.), si assistette ad un feno meno alquanto paradossale e foriero di infiniti equivoci. Ossia al fenomeno per cui le più disparate correnti architettoniche si disputarono il privilegio di appartenere al postmoderno. Non per nulla, nel suo preciso saggio chiarificatore («Op. cit.» n. 54, 1982), Aldo Loris Rossi giungeva ad affermare che, sotto l'etichetta di postmoderno si potevano includere i più eterogenei atteggiamenti: «Il bricolage raffinato pop (Venturi, Rauch), le poetiche dell'aleatorio (Johansen); il «non finito» (Gruppo Site); la protesta radicale (Hollein, Global Tools), il ribaltamento dell'ideologia del Movimento Moderno in utopia (Metabolism, Soleri, Archigram); il brico-
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lage de-storicizzante (Mendini, Portoghesi), le astrazioni meta storiche (Aldo Rossi, Krier) », e via dicendo (senza neanche citare altre partizioni «inventate» dall'autore come il «neo vittoriano», l'«afrotirolese», il «neoislamico», il «neo déco » ecc.; che tuttavia danno ragione alla mia convinzione che non si possa considerare il postmoderno come qualcosa di unitario. Ma senza giungere a simili estreme conseguenze, non c'è dubbio che alcuni aspetti d'un postmoderno bon-à tout-faire si possono considerare come dei pastiches stilistici quando con questa etichetta si cerca di avallare delle mere restaurazioni storicistiche; mentre d'altro canto sarebbe al trettanto ingiusto non riconoscere l'immensa portata d'una corrente che ha avuto il coraggio di dichiarare guerra a certi schematismi ormai sterili derivati dall'International Style e ha saputo recuperare altri spunti presenti, come dicevo, nel migliore Wright, nell'ultimo Corbù, e in quelle architetture «neobarocche» cui dianzi ho accennato facendo i nomi degli Aalto, degli Scharoun, degli Steiner. L'efficacia liberatoria di molta nuova ornamentazione, ad es. può certo dare impulsi anche in un settore così incarta pecorito come quello del product design; ma ciò non toglie che la rielaborazione manieristica del Movimento Moderno possa mostrare la corda e permetta di biasimare gli eccessi ornamentali spesso utilizzati in alcuni recenti tentativi di nuovo arredamento. :E:. per queste ragioni che ho sempre con siderato rischioso fare delle affermazioni decisamente positive o negative a proposito d'un postmoderno indifferenziato. Men tre credo che si debbano accettare, quali opere di grande interesse, alcune di quelle realizzate dai migliori cultori dello stesso (e posso ripetere i nomi d'un Hollein, d'un Venturi, di Stirling, di un Roche). Non solo, ma mentre in certe particolari circostanze si può anche considerare «spiritosa» un'opera come quella dei SITE (che, per solito, non può che apparire assurda) e persino certi « decorated sheds » di Venturi (quan do ci si limiti ad applicare delle decorazioni Kitsch ad ano nimi contenitori devoluti a supermarket, certamente desti nati a vita effimera e situati in un contesto che non viene 36 comunque «turbato» da tali ornamentazioni), in altre circo-
stanze ritengo che simili «giochetti" non debbano certo es sere incoraggiati. Se ora vogliamo prendere ancora brevemente in conside razione il problema del rapporto tra Liberty o Art Nouveau e postmoderno, ci dobbiamo chiedere fino a che punto si possa ammettere l'esistenza d'un legame, d'un'interdipenden za, tra questi due momenti storici. Dobbiamo cioè considerare entrambi questi movimenti come due momenti abnormi e paradossali nel cammino del l'architettura (e dell'arte) del nostro secolo? Oppure dob biamo per contro ammettere che solo, o soprattutto con gli stessi si sia rivelata la presenza di nuovi impulsi creativi che in precedenza erano andati quasi completamente soffocati dal conformismo della tradizione? In questo caso un parallelismo sarebbe da porre tra l'architettura «vittoriana» o «umber tina» fin de siècle, e quella dell'International Style alla metà del nostro secolo; considerandole come due momenti di stasi e di letargo precedenti la ripresa fantastica dell'Art Nouveau Liberty, da un lato, e del Postmoderno-Neobarocco dall'al tro. Sarei abbastanza propenso a credere che questa seconda ipotesi sia la più giusta. Ossia: tanto l'Art Nouveau che il Postmoderno (quello migliore con le debite riserve di cui so pra) costituiscono due momenti di rottura e di ripresa crea tiva. Naturalmente in entrambi i casi è necessario distinguere tra bizzarria e autentico rinnovamento stilistico, tra gioco e inventiva. Gli esempi di queste situazioni contrapposte non mancano in entrambi i casi. Se osserviamo, ad es. alcune realizzazioni del Liberty o del Modernismo catalano ci accor giamo facilmente come molte di esse abbiano soltanto rive stito di futili ornamentazioni edifici privi d'ogni innovazione tecnica e strutturale; mentre in altri casi, assistiamo a straor dinarie scoperte strutturali, stilistiche e statiche come nei già citati casi di Gaudi, di Horta, di Van de Velde. Un discorso analogo vale anche, e a maggior ragione, per il postmoderno. Se crediamo che le scoperte di questo movimento s'identi fichino con quella che Jencks definisce Bizarre Architecture (e quindi con edifici come il Palais ldéal di Ferdinand Cheval 37
o le Watts Towers di Simon Rodia; o certi progetti come quelli citati dei SITE) allora siamo certamente fuori strada (come pure se crediamo che sia alcunché di positivo il « post moderno» d'un Bofill o d'un Moore), come lo siamo a' mag gior ragione se consideriamo positivi certi « ritorni» neoclas sicheggianti e revivalistici (altrettanto fasulli di quelli neo metafisici e neoclassici tentati in pittura dai cosiddetti pittori della memoria). E ne abbiamo numerosi esempi nel settore del design e dell'arredamento dove questa dicotomia è più evidente; e dove esiste tutta una serie di realizzazioni assurde, antifunzionali, e del più autentico Kitsch. Se invece guardiamo con più attenzione e minori preven zioni a certe geniali soluzioni di un Hollein, di un Domenig, di uno Stirling, e dello stesso, troppo biasimato, ma•in realtà geniale, Philip Johnson, non potremo che dirci soddisfatti di fronte allo svecchiamento di molte formule funzionalistiche ormai desuete e di tante accademiche costruzioni ricalcanti maldestramente la grande lezione dei Mies o dei Corbù (e non si dimentichi che lo stesso Le Corbusier a un certo punto della sua vicenda creativa era giunto a costruire edifici come la cappella di Ronchamp o il padiglione Philips, additati oggi come opere neoliberty o postmoderne ante litteram). Tutto ciò che significa in definitiva? Che forse viviamo veramente in un periodo di estrema rarefazione di quei valori affermatisi a partire dagli anni più fecondi che videro l'esplo sione e la maturazione del Movimento Moderno, e che siamo forse soltanto agli inizi d'un nuovo periodo inventivo e in sieme tecnologicamente costruttivo; come lo furono, a suo tempo, i grandi maestri del Barocco architettonico - da Bor romini a Guarini, da Balthasar Neumann all'Aleijadinho e i migliori maestri del modernismo e dell'Art Nouveau. Pur cheé anche questa volta, non accada come agli inizi di questo secolo, quando i germi d'una rinnovata fantasia neobarocca (presenti negli esempi migliori dell'Art Nouveau) vennero soffocati da incauti revivalismi o da malposte frivolezze orna mentali; per poi essere del tutto spenti con l'avvento della lunga e cristallizzata parentesi protorazionalista e dal diffon38 dersi ubiquitario e livellatore dell'International Style.
Desiderio d'armonia BENEDETTO GRAVAGNUOLO
Il tema emerso con maggior evidenza dal dibattito teorico sull'architettura degli ultimi vent'anni è senza dubbio il ripen samento sull'eredità culturale del passato. Si è trattato di una questione riproposta con motivazioni ed intenti diversi, ma con tale insistenza da far ritenere non eccessiva la defini zione di « ossessione della storia». Eppure, rivisto da tale ottica, il panorama dei primi anni sessanta sembrerebbe a prima vista dimostrare il contrario. È proprio allora infatti che quel vasto fenomeno interna zionale che va sotto il nome di «neo-avanguardia» raggiunse una provvisoria ma significativa egemonia all'insegna del sug gestivo slogan sulla « nostalgia del futuro». E non è casuale che un autorevole compagno di strada della « internazionale dell'utopia», quale Reyner Banham, abbia dedicato un capi tolo centrale del suo libro su Le tentazioni dell'architettura: Megastrutture proprio al 1964, eletto a «mega-anno», « annus mirabilis per idee e progetti... l'anno, tanto per cominciare, nel quale Fumihico Maki impiegò per la prima volta il termine stesso di "megastruttura"; in cui fascicoli fondamentali di "Bauen+ Wohnen" e di "Architectural Forum" contribuirono a cristallizzare il corpo d'idee che si riferiva; in cui un certo numero di forze nuove, come Archigram, ebbero il primo influsso reale; e nel quale la maggior parte delle megastrut ture realmente costruite venne progettata». Quella «marea montante» di profezie avveniristiche, su-
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perstrutture utopiche e disegni fantascientifici operò una vi stosa mitizzazione della tecnologia, caricandola di valori pro gressivi e di attese escatologiche evidentemente improbabili. Ma, a ben vedere, sotto la scorza della deformazione carica turale e fumettistica della macchinolatria si celava già il seme dello storicismo. Lo dimostrano, ancor più direttamente delle esplicite affermazioni di Peter Cook sulla necessità di « assor bire il nuovo nel tradizionale » e sull'importanza di « un dialogo tra conservazione e invenzione», i fotoromanzi di Arata Isozaki sulla città futura in cui i giganteschi piloni di cemento che reggono i grigliati spaziali degli « edifici ponti » coesistono con la maestosa grandezza dei ruderi di antiche colonne, in uno scenario dominato da un'estetica delle rovine di vago sapore piranesiano. Al di là di questi e di altri esempi che si potrebbero ad durre a riprova, ciò che più conta è la constatazione dell'in negabile coesistenza della duplice tensione sia verso il pas sato che verso il futuro rintracciabile in quegli anni persino nelle elaborazioni più avanzate della «neo-avanguardia»; il che lascia ritenere legittima l'assunzione del binomio «storia utopia » quale autentico contrassegno dell'ultima produzione architettonica - come già proposto da Renato De Fusco nel capitolo conclusivo della sua Storia dell'architettura contem poranea. Il ripensamento del passato è peraltro ancor più evidente nelle coeve formulazioni teoriche e progettuali di alcune fi gure carismatiche degli anni sessanta. Si pensi al messianico neoilluminismo delle pure costruzioni geometriche di Louis Kahn; alle suggestioni vittoriane evocate dalle compatte masse murarie di mattoni rossi contrapposti alle trasparenti cascate di vetro degli edifici di James Stirling; alle esortazioni di Aldo van Eyck a portare « l'antico nel nuovo, riscoprendo le qualità arcaiche, senza tempo, nella natura umana»; alle reiterate po lemiche di Ernesto Nathan Rogers contro i«custodi dei frigi daires » in nome di valori di « tradizione» e di« continuità ».•• In questi progetti teorici il legame con la storia prevale sulla tensione utopica verso il futuro, senza tuttavia che 40 quest'ultima componente venga mai meno. E un'analoga di-
sponibilità ideativa a coniugare il nuovo con la riflessione retrospettiva sulla memoria storica è riconoscibile in quella fase anche nella produzione di alcuni cosiddetti maestri del movimento moderno, tra i quali soprattutto il Mies van der Robe della Galleria d'arte di Berlino e il Le Corbusier de la Tourette. Del resto l'etimo stesso della parola progetto im plica il senso della proiezione, ovvero la volontà di prefigurare una trasformazione dell'esistente, che, nelle espressioni cultu ralmente più motivate, sottende spesso un intento etico di marca utopica, anche quando lo sguardo viene rivolto al1'antico. E il laccio latente che lega tra loro quei diversi pen sieri d'architettura è, appunto, la critica al « cattivo pre sente», vale a dire la contrapposizione polemica della propria idea del costruire alla «terrificante volgarizzazione » della modernità diffusasi nella produzione corrente dei primi anni del secondo dopoguerra. In ogni epoca una codificazione stilistica, una tendenza formale o, se si preferisce, un atteggiamento ideologico sul progetto acquista il suo senso - e il più delle volte anche un'egemonia culturale - proprio in forza dei «no». Ma al mutare delle condizioni quelle stesse negazioni di un codice autoimposto finiscono spesso col perdere la loro ragion d'es sere. Così la « rimozione » del passato, che nei primi anni del secolo aveva trovato il suo fondamento nell'opposizione ai tardi esiti dello sclerotizzato storicismo accademico (inca pace di riflettere sulle ragioni delle forme), negli anni del secondo dopoguerra non aveva più senso. Come ha ben chiarito Rogers (in Continuità o crisi?), « ••• era ormai caduta la ragione polemica che aveva sollecitato i precursori del Movimento Moderno a qualificare le proprie azioni "contro" quelle dell'ambiente nel quale avevano do vuto operare con spirito di crociata, con un massimalismo anche verbale, con i manifesti ». Le questioni da affrontare erano ormai altre: era, per cosl dire, cambiato il nemico. Il nuovo avversario non era più l'eccesso di storicismo, ma - all'opposto - l'assenza di senso storico. Episodi come la ricostruzione di Rotterdam e l'lnterbau di Berlino - che san civano anche in Europa il trionfo del funzionalismo banale 41
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dell'International Style - imponevano infatti un cambia mento di rotta. Non può sorprendere, quindi, che siano stati proprio i « pionieri » del moderno ad indicare la strada del ritorno alla storia. Si può infatti affermare che in quella fase il rappel al passato esercitò un ruolo polemico e innovativo analogo - anche se di segno contrario - a quello esercitato dall'antipassatismo delle prime avanguardie storiche. In quel le date condizioni le nuove «avanguardie» intellettuali non potevano che guardare alla storia. Ma a distanza di vent'anni il clima è di nuovo cambiato: sta montando la marea dell'internazionale della nostalgia. Il richiamo al passato è ormai inflazionato, banalizzato, in volgarito. L'eredità della storia rischia di ridursi alla miseria dei facili bricolages di stilemi presi a prestito da altre epoche. Per questo proprio chi vede ancora « il passato come amico» deve porsi delle domande sul come relazionarsi alla storia. È difficile infatti non condividere la considerazione di Nietzsche Sull'utilità e il danno della storia per la vita laddove afferma: « Certo, noi abbiamo bisogno della storia, ma ne abbiamo bisogno in modo diverso dall'ozioso raffinato nel giardino del sapere». Sul «modo» insomma è importante discutere. Nei limiti di questa nota non è possibile dar conto della pluralità dei pareri sull'argomento. Ne sceglieremo pertanto solo alcuni che possono valere da paradigmi di orientamenti progettuali di stretta attualità - sostanzialmente antitetici nel modo di relazionarsi alla storia - eppure troppo spesso accomunati nella conciliante etichetta di «postmoderno». Schematizzando possono allora essere assunte come punte di icebergs di più vaste correnti le posizioni progettuali di Ro bert Venturi, Leon Krier, Peter Eisenman e Aldo Rossi. Com'è noto Venturi è stato allievo di Kahn, così come in maniera più o meno diretta lo sono stati Giurgola, Moore, Tigerman, Vreeland, Millard ed altri architetti protagonisti dell'ultima stagione dell'architettura americana. Il lascito del «maestro» è riconoscibile senz'altro nella questione della storia. Tuttavia profondamente diversa si presenta la soluzione avanzata da Venturi al problema già formulato da Kahn: non solo sul piano formale - per il sensibile spostamento dell'asse refe-
renziale dal classicismo al barocco -, ma anche e soprattutto sul piano concettuale. Alla mistica di un'estremizzata sempli cità protesa verso forme archetipe elementari senza tempo, viene infatti contrapposta una teoria della Complessità e con traddizione in cui gioca un ruolo non secondario l'influenza esercitata dall'estetica della Pop-art. Il che vale soprattutto per la rappresentazione spregiudicata dell'attuale cultura di massa, osservata e accettata, con sottile ironia, per quella che essa è e per come essa si mostra, anche nei suoi aspetti pubblicitari, banali e di cattivo gusto. La critica all'ascetico rigore del «Iess is more " miesiano - mossa appunto da Venturi nel suo libro-manifesto del 1966 - assume il senso inequivocabile di una rivendicazione del diritto all'eccesso, alla ridondanza, alla simbolicità, già espressa nel saggio Main Street is almost right e successiva mente ribadita in Learning from Las Vegas. Così il passato finisce con l'essere rivisto attraverso le lenti deformanti del l'effetto spettacolare, in bilico fra la trovata pubblicitaria e la meraviglia barocca. Questa singolare versione dello stori cismo contemporaneo, lungi dal porsi come critica al pre sente, si traduce insomma in un'apologia dell'esistente. In tutt'altra direzione si muove il passatismo di Leon Krier, che condivide con Maurice Culot e Quinlan Terry l'at teggiamento di radicale « resistenza antindustriale ", il che equivale ad una virtuale negazione dell'intera fenomenologia architettonica degli ultimi due secoli. Il legame ombelicale col « maestro " James Stirling è stato reciso in modo ancor più netto. Piuttosto che per allusioni o per metafore, il passato preindustriale viene infatti evocato con i disegni in tutta la sua spettrale integrità, senza cedimenti, senza compromessi col «maestro» James Stirling è stato reciso in modo ancor di questo itinerario progettuale sono il progetto per la casa atelier per Giorgio Mayer, che rappresenta, per sua stessa dichiarazione, l'opera-manifesto del ritorno ad una condizione artigianale apoditticamente assunta come «genio di un lin guaggio collettivo dove la forma è il risultato di un dignitoso sistema di produzione " (senza porsi dunque domande sulle ragioni storiche di quel modo di costruire) e poi i disegni 43
per la città di Lussemburgo, che tentano di imbalsamare sulla carta « l'ordine gerarchico» della bellezza perduta delle città europee del XVIII secolo. Le sue paradossali affermazioni - « Faccio dell'architettura poiché non costruisco» e « Non costruisco perché sono architetto» - risultano quindi a loro modo coerenti alla consapevolezza d'aver formulato una pura utopia; anche se - ma è forse superfluo aggiungerlo - si tratta di un'utopia regressiva. Nelle acque dello storicismo naviga anche la ricerca di Peter Eisenman, a sua volta emersa verso la metà degli anni sessanta assumendo come stella polare le considerazioni di Colin Rowe sulle similitudini e le differenze tra il movi mento moderno e il Rinascimento. Tra i « five architects » che si imposero nel 1969 sulla scena newyorkese, candidan dosi a protagonisti del nuovo corso della nostalgia americana di una storia mancata, Eisenman è certamente colui che ha sviluppato con maggior rigore la linea analitica dell'autori flessione sulle strutture profonde del linguaggio architetto nico. La prima sensazione di revival in chiave « minimalista » del purismo degli anni venti, trasmessa dalle sue prime « architetture di cartone», cede subito il passo, ad un'in dagine appena più ravvicinata, alla comprensione del più autentico interesse « sintattico» che governa le sue compo sizioni. Vengono infatti applicati all'architettura alcuni prin cipi analitici della linguistica trasformazionale di Chomsky, che postulano una critica all'ideologia della « rivoluzione permanente » dell'invenzione, insinuando il dubbio della per manenza metastorica delle strutture profonde che regolano la sintassi stessa del progettare. Non trascurabile inoltre, ai fini del discorso fin qui svolto, è la dimostrazione del possibile sviluppo di uno storicismo assolutamente alieno dalla mimesi di forme già viste: uno storicismo insomma che indaga sui rapporti costitutivi della struttura compositiva latente degli edifici del passato, piut tosto che sulla copia dei loro elementi simbolici, inevitabil mente legati alla cultura referenziale associativa del tempo in cui essi furono concepiti. Peraltro la concezione stessa 44 del passato viene dilatata fino ad includere al proprio interno
la vicenda dei primi decenni del nostro secolo. Come ha di chiarito lo stesso Eisenmann, · nella sua ricerca giuoca un ruolo determinante « il lavoro analitico e il suo contesto è essenzialmente storico. Si concentra su due periodi: i lavori rinascimentali del Palladio, Vignola, Scamozzi, Giulio Roma no, ecc.; e il movimento moderno (in particolare il lavoro di Le Corbusier e di Giuseppe Terragni). L'analisi è centrata sul rapporto tra forme e idee per definire la natura, e da questo estrarre ciò che io chiamerei le relazioni invarianti che si pos sono trovare in questo rapporto » (Cardboard Architecture, in « Casabella » n. 374). Anche la riflessione di Rogers ha trovato sviluppi inediti ed originali nell'opera teorica e architettonica di Rossi, Bon fanti, Gregotti, Canella, Semerani, Aulenti, Aymonino, Grassi, Monestiroli ed altri. Rinviando ad altre sedi l'approfondi mento di tale vasta e pluriforme area culturale, adotteremo qui come prova di sondaggio la teoria di Aldo Rossi. La vasta risonanza che - nel bene o nel male - questa elaborazione ha avuto nel dibattito architettonico degli ultimi anni ci esime dal riassumerne i principi chiave, limitando qualche considerazione ai soli aspetti di più stretta attinenza al « mo do » di relazionarsi alla storia. E a tal proposito va sotto lineata innanzitutto l'insistenza - formulata nell'ormai ce lebre saggio del 1966, L'architettura della città - sul concetto di « permanenza » di alcuni caratteri urbani riconoscibili co me invarianti della cultura del costruire di un dato « luogo ». Si tratta di una ipotesi desunta dalla « teoria delle persi stenze » di Marce! Poete traslando nel dibattito architettonico le acquisizioni di fondo di un filone di pensiero storiografico francese di matrice strutturalistica. « Il significato degli ele menti permanenti nello studio della città - scrive Rossi può essere paragonato a quello che essi hanno nella lingua; ed è particolarmente evidente come lo studio della città pre senti delle analogie con quello della linguistica soprattutto per la complessità dei processi di modificazione e per le permanenze. I punti fissati da De Saussure per lo sviluppo della linguistica si potrebbero trasporre come programma per lo sviluppo della scienza urbana ». 45
L'altro aspetto su cui vale la pena di soffermare l'atten zione è la scelta di un legame privilegiato con quella linea di pensiero della « architettura della ragione » che a partire dall'illuminismo di Boullée e Ledoux - passando attraverso le teorie dei primi moderni del novecento: Loos, Behrens, Tessenow... - giunge fino ai nostri giorni. V'è un anelito dunque alla « continuità» e non alla negazione delle prime « teorie del moderno», anche se va precisato che si tratta di un virtuale prosieguo lungo un ben definito alveo concet tuale pervaso dal desiderio d'armonia che altro non rappre senta se non la riproposizione attualizzata dei principi basi lari della classicità. Fin qui alcune distaccate osservazioni sulle idee-forza messe in campo sul tavolo dell'attuale partita progettuale. E. ben vero che di solito il critico - come il poeta di Benja min .....; « non partecipa al gioco. Se ne sta in un angolo, e non è più felice di loro, dei giocatori». Ma almeno una volta vorremmo provare anche noi l'emozione dell'azzardo e prender parte al gioco. Diciamo subito che i modi più convincenti di relazionarsi al passato ci sembrano quelli che evitano di riproporre il simulacro o gli elementi simbolici e iconologici del passato stesso, privilegiando il lavoro analitico sulle strutture pro fonde o il procedimento analogico nella rappresentazione. A rigore questi atteggiamenti andrebbero ascritti alla dimen sione « metastorica» piuttosto che a quella « storicistica» così come essa è stata tradizionalmente intesa. Ma qui sta il dato di maggiore differenziazione della parte migliore dello storicismo contemporaneo da alcuni precedenti fenomeni solo apparentemente simili, quali ad esempio l'eclettismo stori cistico ottocentesco. Alla radice v'è una nuova concezione del metodo storico che impedisce la ricaduta nelle costru zioni « in stile» e conduce alla « interpretazione» tesa a ri produrre il senso e non l'apparenza dell'antico. Certo questo vale solo per una parte dello storicismo contemporaneo, sulla quale la linguistica ha giocato un ruolo non trascurabile di « scienza pilota». Non mancano, peraltro, esasperazioni « pas46 satistiche», e valga ad esempio il neopalladianesimo pedis-
sequo di Quinlan Terry. Ma ciò non può inficiare l'impor tanza di un autentico ripensamento sull'eredità culturale del passato, ma solo mettere in guardia contro le degenerazioni che si accompagnano quasi sempre alla divulgazione delle idee. In tal senso le categorie di «moderno » e «postmoderno» ci appaiono troppo vaghe, troppo generiche, troppo povere di indicazioni per operare dei veri distinguo all'interno delle forze che si muovono sulla scacchiera dell'architettura con temporanea. È ormai a tutti chiaro che ciò che è stato defi nito movimento moderno ha incluso ·al proprio interno una pluralità di antinomie concettuali irriducibili ad un disegno unitario, se non negli schemi narrativi dei «grands récits » dei primi storici di quell'esperienza, schemi in cui prevale la strategia di difesa delle idee in una battaglia di cultura, piuttosto che l'accertamento disincantato dei fatti. Ma, a bat taglìa conclusa, possiamo riconoscere con serenità che ritro viamo dentro quel « movimento » tendenze vistosamente stori cistiche opposte ad altre di impronta avveniristica; tendenze espressioniste opposte e talvolta confuse ad altre raziona listiche; tutto e il contrario di tutto. Per questo parlare del l'avvenuto superamento del «moderno» suona strano. È forse più efficace ..,.... per quanto possa apparire provo catorio - rileggere la stessa vicenda del nostro secolo alla luce dell'antica millenaria antinomia tra apollineo e dioni siaco, armonia e dissonanza, ordine e disordine, esclusivo ed inclusivo, classico e anticlassico. Ed è singolare notare come, nonostante le inequivocabili dichiarazioni in tal senso di alcuni «pionieri » di quel movi mento, la genesi «classica» della linea razionale del «mo derno » sia stata trascurata o sottovalutata dai primi nar ratori di quella vicenda. Solo poche voci isolate - come quella di E. Kaufmann (Da Ledoux a Le Corbusier, Vienna 1933) e, più di recente, di J. Summerson (Il linguaggio clas sico dell'architettura, Londra 1963) - si erano opposte al coro della storiografia ufficiale. Pecca probabilmente di faziosità la tesi di Summerson che afferma che il linguaggio classico rappresenti «la modalità
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disegnativa più generale e stabile che 11 mondo abbia mai veduto ». Noi sappiamo infatti che il principio dell'armonia ha generato dalle proprie stesse viscere l'impulso alla disso nanza e all'informe e che questo conflitto ha perennemente segnato le varie epoche storiche, contraddistinte dal relativo e provvisorio prevalere dell'uno sull'altro «gusto». Tuttavia è innegabile che il «senso dell'ordine» - come ha recente mente dimostrato Gombrich - sia «innato» e radicato nel fondo della psiche umana, legato all'istinto stesso di soprav vivenza degli esseri viventi. I canoni della venustas classica e della quiete visiva - così come i ritmi dell'armonia musi cale - non hanno nulla a che vedere con la mimesi della natura. È proprio là dove finisce la natura che comincia la costruzione logica dell'architettura, vale a dire la realizza zione di un ambiente adeguato alle più profonde esigenze psichiche e biologiche dell'uomo. Se ciò è vero, se ne può allora dedurre che la stessa volontà di dominare il caos della civiltà epocale, piegandolo ad un progetto «forte», ad un ordine logico e coerente è un desi derio ineludibile di ogni teoria architettonica di impronta umanistica: passata, presente e futura. È un desiderio più forte dello stesso ragionevole pessimismo sulle effettive pos sibilità di riuscita allo stato attuale delle cose. Pur consa pevoli della probabile sconfitta, non riusciamo tuttavia a non simpatizzare per questa linea dell'apollineo. Per questo, se qualcuno ci chiedesse di indicare due testi che segnano sim bolicamente la partenza e l'approdo di questi vent'anni di dibattito architettonico, proporremmo i Principi architetto nici nell'età dell'umanesimo di Rudolf Wittkower e Il senso dell'ordine di Ernst H. Gombrich.
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La coda del diavolo: il dibattito sugli « anni trenta» FULVIO IRACE
Associati come sono alle lunghe ombre della Grande De pressione, all'insorgere e all'affermarsi in Europa di regimi politici autoritari o dittatoriali, ai luttuosi travagli e alle traumatiche distruzioni del secondo conflitto mondiale, gli Anni Trenta non hanno mai goduto di una buona reputazione storiografica. La Devil's decade - così è stato battezzato con icastica sinteticità dalla cultura anglosassone quel decennio «nero» che si apre nella fosca prospettiva della crisi del '29 e si conclude con le sinistre deflagrazioni della grande guerra coincide in Italia con la. nascita e l'affermazione del razio nalismo in un contesto politico caratterizzato dalla fortuna massima prima e dal declino irreversibile poi del regime fascista; inaugura in Germania il sistematico smantellamento dei presupposti e delle strutture istituzionali del « neues bauen », provocando persecuzioni e flussi emigratori di ope ratori ed intellettuali; assiste, nel resto d'Europa, a quel generale rifiorire delle culture nazionalistiche e del «ritorno all'ordine», cui si è soliti ascrivere uno dei più corposi para grafi del ben noto capitolo delle « difficoltà politiche » del l'architettura moderna. Sollevando dunque interrogativi e tensioni da un passato imbarazzante e relativamente oscuro nella meccanica di così contrastanti pulsioni, gli Anni Trenta sono stati più spesso esorcizzati nel gesto della condanna totale o della congiura 49
del silenzio che non criticamente analizzati col distacco con sentito da una ormai riconosciuta e definitiva distanza sto rica. Pesa infatti nell'accorta valutazione di quella straordi naria congiuntura d'eventi il giudizio tracciatone a caldo da quelli che possono considerarsi i fondatori .e i sostenitori di una linea storiografica di lunga durata e straordinaria resistenza: è in questi anni, infatti, che si avvia la stesura di quelle motivazioni etiche, estetiche, sociali, attorno alle quali andrà poi concrescendo quell'immagine « canonica » dell'architettura contemporanea da noi resa oltremodo po polare dalle fortunate «storie» di B. Zevi (1950) e L. Bene volo (1960). Come è stato convincentemente proposto in questi ultimi tempi (cfr. M. L. ScALVINI - M. G. SANDRI, L'immagine storio grafica dell'architettura contemporanea da Platz a Giedion, Roma 1984), la sublimazione letteraria operata, a partire dalla fine degli anni '20, dalla prima generazione storiografica dei testi di A. Platz, H.-R. Hitchcock, N. Pevsner, W. C. Behrendt, S. Giedion, fonda la messa in sequenza operativa di un comune schema interpretativo che - riassumendone sinteticamente i termini - assegna all'operosità precorritrice dei nuovi pionieri il compito di ristabilire la perduta organicità della grande architettura delle epoche passate e di reintegrare le falde di quella frattura cui l'insincerità dell'eclettismo e la conseguente « mascherata degli stili » avrebbero ridotto la disciplina con la netta separazione delle figure dell'archi tetto e dell'ingegnere, dell'arte e della tecnica, dell'immagine e della struttura. La selezione e il riordino di quei recentissimi eventi se condo una precisa intenzionalità ideologica e comuni impli cazioni associative, segna così l'instaurarsi di un metodo d'assemblaggio e l'avvio di una tradizione concettuale che assiste all'addensarsi attorno a pochi e ben definiti para metri - il tema della moralità, ad esempio, e della sincerità espressiva; la rigida corrispondenza biunivoca tra arte e cultura; i miti della «funzione», della trasparenza, dell'ano nimità stilistica, ecc. - delle linee portanti della nuova in50 terpretazione. « L'interpretazione "classica" del movimento
�- ha scritto qualche tempo fa Charles Jencks in un saggio non a caso intitolato Storia come mito - venne forgiata in un insieme basato sui concetti di logica, di salute, di stan dardizzazione, contrapposto all'irrazionalità, alla malattia e all'individualità. Questo fu uno di quei periodi storici esem plari (come quello della rivoluzione francese) in cui tutte le tradizioni solitamente contrastanti si fondevano e venivano a chiarificazione, cosicché una parte qualsiasi dell'equazione implicava inequivocabilmente le altre e chiunque non veniva condotto irresistibilmente verso la risposta esatta non poteva che essere o poco intelligente o reazionario ». Il darwinismo latente in quest'attitudine selezionatrice della « nuova tradizione » trova nell'orizzonte tecnico dei « tempi moderni» la sua meta obbligata, quasi la dirittura d'arrivo di una hegeliana trasformazione della processualità storica: agente riformatore e specchio, allo stesso tempo, delle nuove condizioni, l'architettura vi è chiamata a svolgere una decisiva missione che ha come posta il vagheggiato pareggiamento tra nuova forma e riformata società. È la nozione di Zeitgeist, della potenza attrattiva dello « spirito epocale» sul cui lungo punto di fuga l'architettura dei pionieri ambisce misurare le sue aspirazioni e confor mare il suo operare; anonirnità, sovraindividualità, fede nella tecnologia, .fiducia nel progresso, fondatività morale dei nuovi presupposti stilistici, ecc. sono le principali caratteristiche dei movimenti architettonici d'avanguardia, descritti come la testa di ponte di un grandioso e totalitario processo di libe razione graduale dalle miserie progettuali del presente. Nikolaus Pevsner - che alla costruzione di questo mito palin genetico dell'architettura diede un formidabile contributo a partire da quel seminai book per eccellenza che è il Pioneers of the Modern Movement del '36 - cosi ne riassumerà, a dieci anni quasi di distanza, i tratti costitutivi: « Quando, terminata la prima guerra mondiale - scrive dunque lo storico . te desco nel suo Outline of European Architecture (1943) -· l'edilizia diede segni di ripresa, l'architettura si trovò a dispo zione un nuovo stile. Lo aveva creato un certo numero di architetti risoluti e spericolati, uomini che erano dotati di 51
una fantasia e di una forza creativa fuori del comune (... ) i pionieri del ventesimo secolo scrissero sulle loro bandiere -l'avanzata in un territorio assolutamente sconosciuto. Che tutti i motivi logici fossero dalla loro parte è fuori discussione. Quanto fecero doveva necessariamente essere fatto. Era l'as solvimento di un compito che l'epoca stessa si era posto, e lo stile che essi avevano creato corrisponde ai dati sociali e tecnici del secolo nascente». Il trasferimento della nuova architettura nella sfera supe riore dei Valori Assoluti tradisce la volontà di sottrarne gli esiti a ogni contingente verifica di validità: la non conte stabilità delle nuove forme - così come la prova decisiva della loro assoluta supremazia su tutto ciò che non era assi milabile al loro cono visuale - veniva dunque fatto risiedere nel fatto che esse riflettevano l'obiettiva realtà delle cose (« la volontà d'un'epoca», appunto, e « l'interpretazione au tentica del tempo») e non lo stato soggettivo di una ristretta élite intellettuale. Non a caso, d'altra parte, proprio al nevralgico binomio di « morality» e « architecture» si intitola uno dei più pole mici (e discussi) saggi tra quanti si sono, in questi ultimi tempi, dedicati all'analisi e alla dissezione della costruzione storica pevsneriana. Mettendo dunque in relazione i Pioneers del Nostro con i Contrasts di Pugin, pubblicati in Inghilterra esattamente un secolo prima, David Watkin ne ha così sinte tizzato quell'ambigua tendenza a sovrapporre alla dimensione più specificamente estetico-stilistica il peso di un'ipoteca etico- politica: « Con un analogo tono di crociata, entrambi questi libri hanno sostenuto un genere di architettura non molto popolare nell'Inghilterra dell'epoca in cui, rispettivamente, vennero scritti: il Gotico nel caso di Pugin, l'International Modem in quello di Pevsner. E pure, nonostante l'enorme differenza esistente fra questi due tipi d'architettura, en trambi i critici fanno ricorso allo stesso genere d'argomenta zioni a sostegno del tipo prescelto: che non si tratta, cioè, di uno stile, ma di un modo razionale di costruire, evolutosi come inevitabile risposta alle esigenze di ciò che realmente 52 la società è, o dovrebbe essere, per cui porne in discussione
le forme è sicuramente antisociale e probabilmente immo rale» (Morality and Architecture, Oxford 1977). Se a ciò si aggiungono il carattere «politico» del nuovo stile, la sua immediata associazione con quei. valori di ri forma sociale che permearono tanto la letteratura propagan distica delle origini quanto le sperimentazioni su larga scala nel campo dell'edilizia residenziale di massa, si riesce a for mulare un quadro attendibile di quel contesto entro cui ha potuto maturare la successiva trasposizione del primitivo bi nomio etico=estetico in quella più diretta coincidenza tra estetica e politica. La drammatica congiuntura di eventi che, nel breve volgere di pochi anni, pose fine alle vicende di Weimar e ridisegnò la geografia politica del continente eu ropeo, rese quasi automatica questa conversione che al movi mento moderno finì con l'associare connotazioni democra tiche e progressiste, stigmatizzando come reazionario ed ottusamente conservatore tutto quanto non ricadeva nella li nea d'ombra del suo riconosciuto mainstream. La sconfes sione - o la cancellazione col silenzio - di quella produzione architettonica relegata sullo sfondo delle vicende architetto niche a mo' di oscuro contrappunto, ha fatto così avanzare l'ipotesi di «una sorta di rivalsa per la sconfitta politica delle sinistre centro-europee, con un processo che potrebbe per certi versi essere assimilato ad uno "spostamento di livel lo"... così che una linea politica "perdente" sul terreno della storia delle cose, è stata sublimata in una tendenza supposta "vincente" su quello della storiografia architettonica, grazie anche a quella peculiare "internazionalità" che la metteva al riparo dalle smentite costituite dalle vicende dei singoli paesi europei» (M. L. SCALVINI, op. cit.). Egemonizzando, d'altra parte, simpatia ed attenzione del campo critico, le manifestazioni dell'avanguardia si sono di fatto identificate con il filone portante della cultura artistica contemporanea, quasi che, come ha felicemente sintetizzato Jean Clair, non tanto esse avessero una storia quanto fossero la storia. Per quanto vario ed accidentato ne fosse il tracciato - che comunque le «difficoltà politiche» potevano solo mo mentaneamente deviare ma non definitivamente interrompe-
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re - le espressioni dell'avanguardia hanno costituito un lu minoso filo d'Arianna, attorno al quale e oltre il quale si stendevano gli opachi territori di una produzione informe e trascurabile, reazionaria e retriva al pari di quell'oscuro in ferno stilistico che si credeva definitivamente debellato dalla bonifica radicale dei pionieri e verso il quale, invece, le insor genze « tradizionalistiche » minacciavano di ripiombare. Rele gata l'esistenza di una storia della cultura avversa alle avan guardie nel patetico fenomeno delle sopravvivenze, sembrava dunque che al di fuori della « nuova tradizione » non si desse possibilità di salvezza o ipotesi di riscatto: tanto da autorizzare le più incredibili performances indiziarie e i più sottili . distinguo pur di giustificare le palesi aporie cui una tale assiologia critica conduceva. Che gli itinerari politici, ad esempio, dell'intellighenzia italiana del ventennio fossero tutt'altro che didascalicamente lineari sembra ormai un dato acquisito, al pari forse della scontata evidenza con cui si è soliti additare i proverbiali esempi di artisti ed operatori come Terragni o Pagano, Sironi o Bontempelli, tanto per citarne alcuni. Eppure operazioni di difficile esecuzione sono state tentate per separare ragioni formali e intenzioni metaprogettuali, analoghe a quelle arti ficiose ed insostenibili distinzioni dal Pevsner, ad esempio, operate attorno alle due componenti della teorizzazione e dell'attività pratica di William Morris, precursore da un lato, conservatore dall'altro. Si ingenera così una curiosa giran dola di paradossi come quello vistoso che alla cancellazione della figura di Marcello Piacentini e dello « stile littorio » da parte della storiografia italiana,· fa corrispondere la cauta sospensione di un Pevsner (« il neo-classicismo italiano fu una pianta più sana e meno artificiosa. [di quello tedesco]. In più, agli Italiani venne in soccorso il loro speciale talento per i grandi edifici... che... li preserva più di ogni altro popolo dalla volgarità e dalla m�canza di gusto. Nacquero archi tetture come il nuovo centro di Bergamo; di Marcello Piacen tini, come le nuove città di Littoria e di Sabaudia, come il padiglione dell'Esposizione mondiale di Parigi del 1937 (au54 tori Piacentini e Pagano),. come il Foro Mussolini (1937) ed
altre. Non è da escludere che molti edifici fra quelli costrui ti nelle grandi città italiane... verranno un tempo giudi cati con maggiore obiettività»), o le sorprendenti rivalutazioni di Hitchcock che dell'opera di Piacentini loda la « sicurezza e l'ampiezza di proporzioni», nonché « durevoli pregi non in degni delle tradizioni nazionali italiane», spingendosi addi rittura a recuperare « i colonnati di via Roma » per le « di mensioni e nobiltà veramente romane» (L'architettura del l'Ottocento e del Novecento, Torino 1971). L'esigenza comunque di presentare un'immagine del mo vimento moderno omogenea e compatta nell'intorno stilistico delle sue espressioni si scontra con le aporie suscitate da alcuni nodi di eventi particolarmente resistenti a tale assimi lazione. Sono troppo recenti e note· le lunghe polemiche sul « consenso » alle fortune sociali del regime per poter pensare in questa sede di ripercorrere le tappe di un dibattito che vanta ormai il conforto di una complessa e pluralistica tradi zione. Non è mancato però chi con tanta immeditata irruenza si è affrettato a commentare la polemica rassegna milanese de Gli Anni Trenta: « ma cosa credono che significhi ritirar fuori tutto il censurato, tutto ciò che era ritenuto pattume... Che bisogno c'era ... di andare a rimestare tra un lazzaretto contagioso le scorze sociologiche di tanto passato?» (cfr. L. VERGINE, Nostalgia del futuro e un futuro di nostalgia, ne « II Manifesto» del 30-1-1982). Lo spettro della rimozione, utilizzato da alcuni come gri maldello per forzare l'inconciliabilità presunta tra cultura e fascismo, è ritorto da altri nei limiti gratuiti di un giustifi cazionismo privo di ogni assiologia critica, quasi un pretesto, insomma, come ha paventato Dorfles, « per riscoprire quello che non ha bisogno di essere riscoperto, per osannare a quello che avevamo ormai imparato a deprecare ». Una sma nia neoarcheologica, vale a dire, o un vezzo revivalistico che rischierebbe di « capovolgere alcune delle poche convinzioni acquisite dalle generazioni più giovani: quella dell'effettiva mediocrità di molte operazioni artistiche legate al fascismo» (Quei mediocri, provinciali Anni Trenta, ne « Il Corriere della Sera» del 24-1-1982). 55
In realtà, quel progetto moderno totalitario nei suoi pre supposti teorici ed esclusivista nelle sue manifestazioni for mali, costruito dalla « storiografia della continuità» nell'arco di due cruciali decenni, non sopporta l'attacco di revisioni strutturali, che non si limitino quindi al mero ritocco delle sue articolazioni narrative. Mettere in discussione la fonda tezza dei suoi criteri aggregativi equivale ad un reato di lesa maestà, anche quando appare maggiormente palese l'usu ra e l'insufficienza di certi dispositivi interpretativi che si riducono allo schematismo di fittizie polarità: modernisti e tradizionalisti, avanguardia e restaurazione, internazionalismo e nazionalismo, innovazione e ritorno all'ordine. Nonostante che « a dispetto di tutta la pubblicità il movimento mo derno abbia prodotto solo pochi lavori» (G. STAMP, Intro duction, in « Architectural Design» n. 10-11, 1979), si con tinua a ritenere che possa darsi storia limitandosi alla lumi nosa esemplarità di isolati capi d'opera, trascurando l'iceberg sommerso di una produzione cui pure si deve il volto e l'aspet to di tanta parte ancora della nostra civiltà urbana e le tracce di un lavoro multiforme e complesso che la lontananza da ogni forma di programmatico ideologismo ha fatto considerare scarsamente degno di menzione. Incastrato tra le due figure chiave dell'avventura moderna - l'Art Nouveau e il Funzionalismo - il filone del classi cismo, ad esempio, è apparso poco più di un interludio per ciò che partecipava dell'uno o anticipava dell'altro, e una fa stidiosa interferenza per quanto invece mostrava di proten dersi attivamente nella contemporaneità. Ma « le sopravvi venze in genere - ha detto H.-R. Hitchcock, introducendo il tema dell'architettura tradizionale del XX secolo - non interessano i posteri. Il Gotico dell'Italia quattrocentesca o quello dell'Inghilterra seicentesca non hanno attirato l'atten zione degli storici come invece hanno fatto le forze nuove dell'architettura di quelle epoche. I risultati tardi e anacro nistici quando anche accade che trovino ammiratori, vengono spesso accreditati... all'epoca precedente». Eppure, in un momento in cui, ribaltato il gioco delle 56 parti, sono i prodromi della cultura razionalistica a recitare
il ruolo di imbarazzanti sopravvivenze, non deve stupire né il ritorno del rimosso né il ridisegno del già noto. La riscoperta dei grandi dimenticati - da Lutyens a Muzio, la casistica si arricchisce di una insospettata gamma di va riazioni tonali - o la messa in discussione di momenti ed episodi della nostra storia recente - e si pensi alle grandi rivisitazioni d'assieme che al periodo degli anni trenta si sono andate intitolando in questi anni dall'Italia alla Francia, dall'Inghilterra ai Paesi Scandinavi - non solo rientrano con diritto in quella linea di revisione degli anni eroici che caratterizza gli interessi storiografici più vivi ed attuali, ma sembrano CJrrispondere quasi ad una operativa congenialità espressiva con la pratica progettuale dei nostri più vicini ed immediati intorni cronologici.
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Il disegno industriale e la critica del testo GIOVANNI KLAUS KOENIG
Ogni critica che si rispetti non può esercitarsi che par tendo del testo. La ricostruzione dei testi originali, non mano messi o interpolati, sia in letteratura (con la complicazione delle traduzioni infedeli) che in musica, è un lavoro che ap passiona da tempo i migliori specialisti. Adesso si è comin ciato a ritrovare i testi originali dei film (tagliati per ragioni commerciali), dal Sigfrido di Lang al Ludwig di Visconti, otte nendo risultati di sorprendente efficacia, capaci di ribaltare i giudizi critici consolidati. Nell'architettura le cose vanno peggio, sia perché alcune opere sono irrimediabilmente scomparse che per la corrutti bilità stessa dei materiali, che impone di ricorrere periodica mente ad interventi di restauro, spesso infedeli. E non im porta risalire al mitico Mausoleo di Alicarnasso; basti pensare che solo oggi, ritrovando a Berlino i veri disegni esecutivi del Padiglione di Barcellona (Ludwig Mies van der Robe, 1929) ci si è accorti che questo paradigma della Nuova Ogget tività non aveva affatto il tetto piano - e su questo tutti abbiamo per anni teorizzato, scritto e fatto lezione: alzi la mano chi è senza peccato -, ma era coperto con un tetto a capanna, sia pur ribassato, invisibile nelle poche foto prese tutte dal basso, e ben mascherato dalla gronda« alla romana», cioè nascosta nel cornicione. Come se non bastasse, come trasgressione, il tetto poggiava anche sui muri, tramite invisibili piolini di acciaio, fa58
cendo andare a carte quarantotto un altro dei fondamenti teoretici di quell'edificio. Ho scritto « veri esecutivi », ossia quelli redatti da Sergius Ruegenberg, assistente di Mies (pri ma di passare a Scharoun: che salto) e direttore dei lavori del Padiglione; e non quelli fatti a posteriori da Mies in Ame rica, per le pubblicazioni postume, e che ci avevano portato fuori strada, non avendo mai visitato, per ragioni anagra fiche, il Padiglione dal vero. Basta questo esempio - anche se quello dell'Einsteinturm, costruita in cemento armato e non in mattoni, com'è stato scritto e riscritto, è ancor più clamoroso - per dimostrare quanto poco sia praticata nell'architettura una seria critica del testo. Probabilmente, per un fatto elementare: che i testi di letteratura si portano a casa o si trovano nelle biblio teche a portata di mano, mentre l'architettura bisogna an-. dare a leggersela per il mondo. E se poi si volessero vederne le «varianti» per indagare il processo creativo, cercando i debiti dell'autore, spesso mascherati ad arte, salvo. poche eccezioni (Wright, Mendelsohn, Aalto) rintracciare i veri schiz zi di progetto, ammesso che esistano ancora, è una impresa che richiede, assieme, le doti di Philip Marlowe e di Hercule Poirot. Nel campo del disegno del prodotto industriale, trattan dosi per definizione di prodotti di serie, a rigor di logica le cose dovrebbero andare molto meglio; come è avvenuto · nella letteratura dopo l'invenzione di Gutenberg. Ed infatti; talvolta, la ricerca non è difficile; per esempio, nel campo delle ferrovie. All'Archivio di Stato di Firenze sono conservati i disegni di Isambard Kingdom Brunei per la stazione di Santa Maria Novella, assieme ai piani di Robert Stephenson per la precedente stazione della Firenze-Livorno. E non c'.è casello ferroviario o ponticino della linea il cui disegno, a china acquarellata, non sia catalogato e conservato con cura (mi fanno sorridere gli archeologi industriali: non c'è me stiere più tranquillo). Circa il materiale mobile, l'archivio del Servizio Materiale e Trazione delle FF.SS., a Firenze (unico esempio di ministero decentrato e quindi perfettamente efficiente) conserva tutto, 59
compreso i disegni ereditati nel 1906 dalle precedenti Ammi nistrazioni ferroviarie: una miniera di disegni eseguiti con una perizia grafica oggi dimentcata. Identica, gradevole sorpresa si può avere nel campo delle costruzioni navali militari. I disegni delle nostre navi da guer ra degli anni Trenta, finalmente fuori dal segreto militare, sono ora consultabili, riservando sorprese sensazionali. Ad iniziare dall'arredo, in puro stile hollywoodiano, da « Se guendo la flotta » (mancano solo Ginger Rogers e Fred Astaire, nonché l'immancabile Edward Everett Horton), per finire al team dei progettisti, dalle carene ai motori, dalle armi all'ar redo. Pugliese, Levi, Sacerdoti e Pulitzer: tutti e quattro ebrei, che dovettero lasciare incompiute alla fine del 1938 le loro corazzate, che per questo tardarono ad esser messe in squa dra, non navigando mai come avrebbero potuto, se fossero state messe a punto dai loro progettisti. Altri campi si rivelano invece quasi indissodabili. Per esempio, quello degli idrovolanti da corsa della Coppa Schnei der e delle trasvolate atlantiche degli anni 1925-1934. Del l'aereo più famoso del mondo, il SIA! Savoia-Marchetti S. 55, non esiste più nemmeno un esemplare, perché quello conser vato ad Orbetello (era l'idrovolante personale di Balbo) fu distrutto nel 1944, assieme agli hangar di Nervi. E circa i disegni esecutivi, sopravvivono alla SIA! quelli della prima versione del 1923, molto diversa da quella atlantica di dieci anni dopo. Si deve però dire che si trattava di prodotti indu striali costruiti in piccolissime serie e realizzati ancora semi artigianalmente, in legno. Verrebbe da pensare che nel campo delle automobili, dove le serie sono grossi numeri, le ricerche fossero assai più semplici. Ed invece, niente affatto. Basti dire che per la recente mostra della storia delle auto prodotte al Lingotto, con tutti gli sforzi della Fiat - detta a Torino « Nostra Signora del Pistone », per i miracoli che, quando vuole, può fare - non è stato possibile rintracciare una To polino Fiat 500 B Giardinetta con gli sportelli di legno. Una macchina che tutti abbiamo impressa nella memoria, con vinti di averla vista non più di un anno fa. Il perché è 60 semplice: nessun collezionista si è mai occupato di quel
trabiccolino tuttofare (ultimo exploit artigianale della Fiat nell'immediato dopoguerra, quando abbondava la mano d'ope ra specializzata e mancava l'acciaio); e chi lo possedeva gli voleva così bene che lo ha usato fino a quando non è diventato un rottame. Il contrario avviene per i mezzi militari: l'Esercito italiano conserva autocarri marcianti che risalgono alla prima guerra mondiale, curati con più passione dei veri collezionisti. Circa gli automezzi della seconda guerra, non esiste nessun pro blema. Mezzi e disegni si trovano dovunque, e non a caso abbondano le pubblicazioni su questa produzione, special mente ad opera degli studiosi inglesi, che di questo argo mento ne sanno più di noi; oggi come ieri, dato che posse devano le copie dei disegni originali prima ancora che noi mettessimo in produzione i vari modelli. Peggior destino hanno avuto le tante automobili morte sul nascere, ossia quei modelli che per vari motivi non sono mai andati in produzione, e la cui memoria è affidata a sbia dite fotografie ed a qualche schematico disegno d'insieme. Il caso più clamoroso è quello della Fiat 123, nelle 4 versioni progettate da Dante Giacosa, con un motore a 3 cilindri raf freddato ad olio, già sperimentato su un prototipo militare, ancora oggi rivoluzionario ed adatto a girare in qualsiasi condizione climatica. Era l'automobile che avrebbe dovuto motorizzare l'URSS, ma poiché Valletta era testardamente contrario alla trazione anteriore, nonostante che gli ingegneri sovietici fossero entusiasti di quel modello, impose invece la costruzione dell'onesta Fiat 124, affidabile più di ogni altra macchina, ma non certo all'avanguardia come i prototipi di Giacosa. Ebbene, di quel capolavoro della tecnica degli anni Sessanta non restano tracce. Sono stati distrutti migliaia di disegni esecutivi, testimoni di miliardi di lavoro, e rottamati i 4 prototipi che avevano marciato per centinaia di migliaia di chilometri, dall'Alaska al Sahara. E non è, purtroppo, un caso isolato. Se poi si cercano informazioni su Case non più esistenti (tutte quelle scomparse nella crisi del 1929, come l'Isotta Fraschini) il reperimento di foto e disegni originali diviene una fatica improba per il ricercatore. 61
Dobbiamo dire· a malincuore che· questa incuria è tipica delle industrie italiane. Nella disastrata Germania della guerra nulla è andato perduto, perché nelle miniere di salgemma, assieme ai tesori artistici, furono sistemati anche gli archivi dei disegni delle grandi industrie; mentre all'Alfa Romeo nul la è restato perché tutto l'archivio è andato in cenere sotto le bombe incendiarie delle incursioni aeree del 1943-44. Non possiamo dunque, nella conservazione della cultura del pro dotto industriale, paragonarci all'Inghilterra, dove tutto è conservato per principio; battuta solo dal paese più conser vatore del mondo (in questo senso), cioè dall'Unione Sovie tica. Purtroppo, per uno straniero non è affatto facile accedere agli archivi, per le fin troppo note ragioni. La nostra incuria può spiegarsi solo con la mancanza della coscienza, da parte di chi dirige le grandi industrie, di cosa rappresenti il patrimonio storico di cultura industriale che possiede; col risultato che gli unici nobili del ramo sem bra siano la Rolls-Royce e la Bugatti, quest'ultima defunta senza eredi. Ho constatato con stupore la pressoché totale ignoranza dei giovani e bravissimi ingegneri sulla storia dei loro prodotti; per i tecnici esiste solo l'ultimo modello e quello di dieci anni fa è già dimenticato, come se la storia della tecnica fosse solo evoluzione e non un complesso andi rivieni di corsi e ricorsi a zig-zag, come avviene nell'architet tura e nelle arti visive. I dirigenti, a cui spetterebbe il compito di spianare la strada allo sviluppo della cultura del prodotto industriale, erano affaccendati a far quadrare i bilanci dell'anno e le que stioni sindacali, .e quindi il discorso culturale gli è stato estraneo per lungo tempo, soprattutto perché avrebbe richie sto consistenti investimenti nella creazione di archivi e musei. Per anni chi si occupa di queste cose è stato guardato con sospetto - « Vorresti forse insinuare che quel modello di vent'anni fa è migliore di quello d'oggi?» - negandogli, forse per pudore, l'accesso agli archivi in disordine. Per trovare i primi disegni della Vespa di Corradino D'Ascanio, testimoni diretti della nostra più personale inven62 zione tecnica e formale del dopoguerra, Roberto Segoni e
quindi tutto ciò che al riguarda, abbia un valore non inferiore Angelo Tito Anselmi hanno perso mesi di ricerche in soffitte e cantine, riducendosi come cenciaioli. Ma non si deve igno rare che la Piaggio, celebrando in pompa magna il trentennale della Vespa, sei anni or sono, si dimenticò di invitare il pro gettista ottantenne che stava di casa a Pisa, a pochi chilo metri da Pontedera: tanto è corta la memoria di una grande industria. Adesso basta colle geremiadi: non avrei scritto questa nota se non avessi intravisto un lieto fine. La conservazione, voluta dalla Fiat, del grande (in tutti i sensi) capolavoro di Mattè Trucco - il Lingotto - e la mostra dei progetti per il Lingotto al Lingotto (singolare coincidenza: divertitevi, amici semiologi) che ha avuto più di 100.000 visitatori in meno di un mese, segnano una provvidenziale inversione di tendenza. Assieme ai 20 progetti la Fiat ha organizzato una rassegna delle auto prodotte al Lingotto, dal camion 18 BL alla Delta, messa in scena ottimamente da Castiglioni e Cerri. Era la prima volta che una grande Casa, come l'Angelus Novus, volgeva il capo all'indietro, facendo un panorama di quasi un secolo. L'incredibile successo di pubblico ha mo strato come, spendendo quanto si spende in una settimana per la pubblicità della Casa, i benefici superino di gran lunga i costi, dando un'immagine pubblica del prodotto industriale, attraverso la sua storia, che equivale ad una patente di no biltà che non si sapeva di aver diritto a possedere. Per questa operazione non bastano i musei storici, poco frequentati e raramente aperti al grande pubblico. Occorre richiamarlo, sensibilizzandolo con tutti i mezzi informativi che si avvici nano allo spettacolo ed ai mezzi di comunicazione di massa, come ·è stato fatto a Torino. Si potrebbe osservare che una sola rondine non fa pri mavera e che non è il caso di farsi illusioni. Ciononostante sono convinto che qualcosa sta finalmente cambiando; e se sta cambiando rotta un capodoglio, lo. seguiranno anche i delfini. Si sta ora sviluppando in Italia, sebbene con colpevole ritardo, l'idea che la cultura del disegno industriale, e quindi tutto ciò che la riguarda, abbia un valore non inferiore 63
alle altre· culture, letterarie, artistiche e musicali. Le Cor busier lo predicava già nel 1925 (non a caso dopo aver visitato per la prima volta il Lingotto: la seconda volta si fece re galare una Balilla), ma ci è voluto mezzo secolo a superare il pregiudizio. Forse, è la volta buona.
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Confessione ALESSANDRO MENDINI
Caro De Fusco, la tua rivista « Op. cit. ,. compie vent'anni. In questa occasione tu fai ad alcune persone e anche a me una richiesta sfrontata: la proposta di confessarti vent'anni di attività culturale, che per me sono venti anni di vita « co me tale », più che di vita culturale. A te che sei un amico molto lontano, forse quasi ignoto, dirò molte cose di me. Per una istintiva affinità mi viene voglia di rispondere a fondo a questa tua richiesta. Allora: io e la cultura. lo « in quanto intellettuale inserito nel contesto degli anni che vanno dal '65 all'85 •· lo sono nato nel 1931 e se cerco di indagare il più lontano nella mia attività creativa o intellettuale o culturale, devo riconoscere l'esistenza di una specie di neutralità, di disinteresse, di indif ferenza di fondo alla cultura cui collegarmi. Certamente non ho nomi o movimenti molto vicini a me, sui quali si sia in nescato il mio interesse tanto da condizionarmi; e se cerco dei nomi di persone, li trovo in ambiti molto diversi che non appartengono a quello specifico all'interno del quale poi ho realizzato il mio lavoro. Citerei Kierkegaard, Dreyer, Picasso, Musi!, Buddha, Bergman, in una maniera informale, perché questi nomi possono continuare, e poco coincidono con per sone con le quali ho parlato direttamente, che lavorano al l'interno della problematica del progetto. Per cui fra l'uomo « che vive » e l'uomo « che · lavora • scelgo il primo: io sono un uomo che lavora vivendo, non 65
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una persona che vive lavorando, e qualsiasi mia reazione in tellettuale e culturale è sempre basata sull'esistenzà, è di tipo esistenziale, La mia biografia perciò è molto personale, con difficoltà di messa a fuoco dei valori cui agganciarmi tipiche degli umori che si succedono nel tempo, con la sensazione fissa di essere un privilegiato, un intellettuale privilegiato che tratta di problemi sottili, mentre milioni di uomini hanno problemi di sopravvivenza elementare, i problemi della fame. Ho cominciato ad essere sensibile al mondo visivo dise gnando vignette caustiche, con l'intenzione di sfogarmi del l'ambiente borghese nel quale vivevo, e vivo tuttora a Milano. E successivamente, negli anni in cui si dava credito alla ra zionalizzazione e alla tecnologia del progetto, ho partecipato allo studio Nizzoli, per me una grande esperienza di coordi namento psicologico del lavoro creativo, la mia prima espe, rienza di gruppo, per poi allontanarmene e affrontare la mia prima prova come direttore di rivista, « Casabella», che mi è arrivata fra le mani in un momento molto interessante della .trasformazione ideologica del progetto, nell'epoca, il 1968, del design radicale. In quel periodo disegnavo degli oggetti mistici, poi rom pevo la carta e la gettavo. Realizzavo pure alcuni di quegli oggetti e li bruciavo nei prati, in un tentativo di sublimazione, di astrazione, di spiritualità, di « vita vissuta», di anticon, form.ismo dell'oggetto, con un incubo che mi batteva nella testa: quello di distruggere, di non lasciare tracce del mio operato, di falsare la mia biografia. Allontanato da « Casabella», ho pensato a un'altra rivista, l'ho inventata ex novo: «Modo» si è presentata sulla scena delle pubblicazioni progettuali in Italia con l'idea di assem blare fra loro nelle pagine, in una successione incoerente, le più disparate discipline della visione: dalla fotografia al, l'architettura, alla moda, alla grafica, al design, all'archeo logia, dove azzerare le distinzioni fra le arti maggiori e mia nori, e dove considerare sullo stesso piano, con valori uguali, tutto quanto nel mondo si trasforma in oggetti della visione, E durante il lavoro di « Modo » mi è venuta l'esigenza opposta a quella che avevo a � Casabella»: quella cioè di sviluppare
un enorme cumulo di tracce delle mie cose, tanti disegni, tanti oggetti, tanti scritti, tante mostre, eccetera, non solo fatte da me, ma anche dai miei collaboratori, da una mia possibile scuola, senza troppo interesse alla perfezione di quanto si veniva nevroticamente inventando, ma con l'inte resse centrato sulla quantità dei messaggi, sulla diffusione di stilemi allegri, coloratissimi, disincantati, amorali, addirit tura cinici. È questo l'inizio di un'epoca vitalistica, quella dell'incontro e della creazione dello studio Alchimia di Sandro Guerriero, per me tuttora strumento fondamentale di tra smissione del mio pensiero. Già da prima e più chiaramente ora il mio metodo di lavoro cerca di insinuarsi, di svolgere un'azione di clepto mania da un lato nelle culture marginali, dall'altro in quelle di avanguardia e di post-avanguardia, con un'attenzione, più che culturale, istintiva a tutto quanto non è istituzionale, a tutto ciò che è minoritario, al contropotere. Un metodo di lavoro basato sul paradosso, la metafora, l'eccesso, lo spiazza mento, il grottesco, che mi ha fatto pensare a certi slogan, a certe teorizzazioni come il «robot sentimentale» (ovvero un uomo moderno estremamente sensibile ma parzialmente meccanico), la « sopravvivenza sottile,. (ovvero l'esigenza, nella civiltà dello sviluppo, di produrre oggetti e comporta menti sempre più sofisticati e sempre più lontani dal natu rale), l'idea di «nuova religiosità», l'ipotesi del « progetto molle», del «de-progetto» (cioè di un progetto che tolga an ziché aggiungere, che semplifichi anziché aumentare la com plessità), lo slogan del « black design» (ovvero la coscienza che è difficilissimo da parte di noi progettisti capire cosa av verrà nel 2000 e pertanto la necessità di dire chiaramente che nel futuro del design si vede nero), il miraggio di un mon do senza oggetti (cioè del «non-oggetto»), l'idea che possano esistere, che possano essere fatti degli «oggetti senza tempo ,. (privi della connotazione dello stile e dell'epoca in cui na scono). Un metodo che mi ha aperto il campo a quella stilematica decorativa, a quell'immagine caotica, a quella caleidoscopica attività visiva chiamata neo-moderno. L'ipotesi è quella che 67
debbano sussistere due elementi fra loro opposti nella realtà del progetto «per l'uomo», da un lato un'architettura che ho detto «ermafrodita», che induca al massimo di approfon dimento, di sensibilità e di personalizzazione psicologica e antropologica, dal lato opposto un'architettura «banale», quella che si diffonde ovunque al di là di qualsiasi intelligenza progettuale, e che provoca nell'uomo inteso come folla il massimo di deconcentrazione, di superficialità. Per quanto mi riguarda più da vicino, in quanto essere vivente, non è il progetto che mi interessa: io uso la realtà progettuale non al fine di progettare, ma al fine di comuni care, perché il mio problema è quello di «comunicare». La mia vita in sé non ha intenzioni progettuali, non vuole realiz zare obiettivi o programmi: è un accumulo di esperienze, eventi più o meno normali o eccezionali o alienati o segreti, tutti tentativi di comunicazione, la mia vocazione personale. Perché credo che ciascuno debba fare al meglio ciò che sa fare, interrogandosi proprio su cosa sa fare, anche se è difficile; ma capito che si ha una vocazione, da lì è bene non uscire, qualsiasi sia la vocazione e la sua moralità. Per cui, analizzando me stesso, mi ritrovo indifferente alle tecniche: non ho la fortuna di avere una tecnica che prevale sull'altra. Allora il disegno, la parola, l'oggetto, una rivista, un'altra e ancora un'altra rivista, la mostra, la lezione, la poesia, l'in stallazione, sono possibili materiali attraverso i quali svilup pare questa idea ossessiva di «esprimermi». t:: una specie di mossa tragica e disperata, una specializzazione alla ro vescia, la «specializzazione nel dilettantismo». L'idea di «dire» ciò che la mia persona capta, in quanto sismografo di fenomeni umani; senza distinzioni fra il momento in cui sono intelligente o stupido, mostro o santo, buono o cattivo, fra il bello e il brutto, fra il maniaco e il normale, nel con trasto fra il bisogno «forte» di emergere e il desiderio « debole» di restare sommerso nel magma dell'inespresso, di annegare nella folla. Ma che cosa comunicare? Se dalle tante parole che esistono debbo estrarne poche e basilari, quelle cui penso sono: vita, morte, amore, dolore, caos. Attorno a queste tematiche mi interessa parlare, non so bene 68
a chi, se a delle persone specializzate, se a una élite, se a una moltitudine, se a poche persone, se addirittura a una sola, se a nessuno ma solo a me stesso. Questo modo di «lavorare vivendo ,. ha la caratteristica di un fenomeno autoterapeutico, pure nella coscienza che più uno sta bene meno intense sono le ipotesi che esprime. II la voro si manifesta come spreco, come « consumo di sé» nella difficoltà di oggettivarsi, nella fatica ma anche assieme nel disinteresse di staccarsi da sé per vedersi dal di fuori. E sotto la calma, sotto il progressivo aspetto di saggezza che uno a poco a poco acquisisce, esiste un pauroso terremoto, quello che per via romantica conduce al bisogno di parlare, addirittura di urlare, a tutti o a nessuno, anche nella co scienza dell'erroneità del messaggio, dell'apparire diversi da ciò che si è davvero. E poi la vita come avventura. Avventuriero da bicchiere d'acqua? Qui esce fuori un'altra importante parola, la parola «eroe»: cioè quanto una per sona sappia davvero esporsi, quanto giochi in prima persona, quale quantità di eroismo abbia in sé, se sappia « essere,. oltre i limiti di sicurezza o stare solo dentro di essi. Compare la voglia periodica di impazzire, di tradire, di morire, assieme alle domande «che cosa è la mia vita», «che cosa so fare dentro la vita». Allora uno guarda indietro (per esempio come ci chiedi tu De Fusco), pensa ai vent'anni passati e constata di essersi creato forse non proprio un bicchiere, comunque una prigione dorata, che contiene solo delle cose conosciute: parole, problemi, affetti, oggetti conosciuti, quelli che offrono il massimo di garanzia, che danno il massimo di sicurezza, ma che evitano accuratamente l'avventura pericolosa. Perché dentro alla prigione dorata manca l'ignoto, non c'è nulla di sconosciuto: l'avventura è fuori e la prigione è un troppo piccolo spazio nella enorme dimensione dell'universo esterno, sembra solo una costruzione di progressiva protezione. Forse potrei definirmi allora come « architetto di prigioni dorate», perché vale per me un'altra parola molto importante: la parola « paura». Forse la parola paura è la più importante di tutte, in una ipotesi di vita che si pone anche come fuga. L'ipotesi di avanguardia conduce al piccolo eroismo di di- 69
struggere tutti i ponti culturali alle proprie spalle. Ma da un lato c'è la paura che tutti questi ponti siano all'interno della prigione dorata, dall'altro lato c'è la paura, la timidezza verso quanto è davvero una scoperta, verso quanto è davvero l'even tualità (troppo dura) di un comportamento eroico. Per cui c'è questa sensazione: dello svolgersi di una vita nella quale non accade nulla di apocalittico. « NULLA »: è un'altra parola a cui ho pensato recentemente come parola fondamentale, cioè il bisogno di azzeramento, il tentativo di riproporsi ex novo, la sapienza che nulla accade, quell'altalena fra ottimismo e pessimismo che spesso vede prevalere il pessimismo, la scontentezza, e talvolta la stanchezza. Perché la paura è anche delle cose, delle mosse minime, degli stati d'animo molto molto piccoli; non c'è solo la paura dei grandi avvenimenti, che sono fenomeni sociali più che personali, fenomeni legati agli andamenti delle masse ma non agli stati d'animo delle singole persone (e non di me stesso). In pratica mi pongo come centro del mondo, così come ogni uomo è il centro del suo mondo. Se uno cerca di mettersi in contatto con le per sone singole (con quelle con cui tratta) in uno stato non di sensibilità ma di iper-sensibilità, cercando di incontrare la iper-sensibilità di ognuno di quei singoli, con i suoi stati d'animo, con le sue sofisticatissime, originali, personalissime mosse minime, in quel momento la trasmissione dei pensieri, l'espressione della creatività comunicativa è molto difficile: perché si scontra anche con la glaciale cattiveria della quale siamo impregnati tutti. Da un lato siamo molto sensibili, dall'altro lato siamo pochissimo sensibili. Mentre procedono gli anni siamo sempre più carichi di apparati di difesa per sopravvivere al quotidiano soffrire, con la freddezza di per sone che in un'ampia parte del loro tempo di vita si chiudono dentro le protezioni del banale. Allora la guerra, la durezza, i falsi e i finti problemi, l'artificio culturale. Per quanto mi riguarda, il tentativo di non difendermi, di non pormi in concorrenza, di non offendere, e un'altra domanda che è questa: « quale è il mio dono? esiste un impegno morale? sono al servizio di qualche bisogno? ». A questa domanda 70 non so (non voglio?) dare risposta. Caro De Fusco: mi sono
sforzato, come vedi, ma anche limitato ad elencare sinteti camente, quasi per punti, i problemi davanti ai quali di anno in anno mi trovo. Forse, se dovessi concludere con un'ipotesi di lavoro, direi che il mio possibile dono è (potrebbe essere?) quello di inoltrarmi nel modo più totale, intenso, dentro l'uso della « mia fantasia». E presentarmi al futuro nel massimo possibile della mia verità e nel minimo del mio artificio.
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Itinerario critico FILIBERTO MENNA
Vorrei cogliere l'occasione dì questo mio intervento per i venti anni di« Op. cit. » per ribadire un punto centrale del mio lavoro critico, una sorta di motivo ricorrente che tiene in sieme le diverse fasi di una ricerca peraltro orientata in direzioni molteplici. Si tratta di una idea che costituisce l'assunto di base della mia Linea analitica dell'arte moderna e che consiste in una sorta dì assioma secondo cui l'arte moderna nasce dall'acquisizione teorica e operativa della natura convenzionale ed astratta del linguaggio artistico; tale acquisizione determina una vera e propria rottura episte mologica nella problematica dell'arte nei confronti di una concezione naturalistica del linguaggio attraverso una messa in questione del presupposto dì una corrispondenza più o meno immediata tra linguaggio e realtà. Una prima conse guenza che si può inferire da tale assioma è che si deve considerare moderna solo l'arte che ha attraversato il varco stretto dì questa acquisizione teorica: l'arte che non si è accorta di questo passaggio, di questo punto dì non ritorno (e ce n'è tanta ancora oggi) non è arte moderna ma solo cronologicamente contemporanea. Ma la conseguenza più im portante che si può dedurre da quell'assunto dì base è che una interpretazione dell'arte (in questo caso dell'arte mo derna) non può essere il risultato solo di un'analisi storica ma richiede una idea generale, una teoria, una teoria del72 l'arte moderna.
La linea analitica costituisce, appunto, il tentativo di porre le basi per un'interpretazione siffatta e non è certamente un caso che essa abbandoni le metodologie esclusivamente stori cistiche per privilegiare una impostazione strutturalista. L'in dagine storica si costituisce così in teoria, in una teoria del l'arte moderna interpretata come un sistema in cui sincronia e diacronia interagiscono e forniscono gli assi portanti del l'indagine. Si tratta di un assunto, questo, che nella Linea analitica agisce in maniera più implicita che esplicita, mentre viene portato in piena evidenza teorica nella mia Critica della cri tica, del 1980, dove esplicitamente si afferma che la funzione storica è stata ed è fondamentale in ogni fatto critico, anche quando questo è rivolto alla più immediata contemporaneità, ma non è in grado di assolvere pienamente il suo stesso compito se non procede insieme alla funzione teorica che introduce nella serie continua e praticamente infinita dei fatti un elemento di pertinentizzazione e una ipotesi di defi nizione di campo. In proposito citavo un passo di Starobinski, che vorrei qui ricordare di nuovo per la sua inequivocabile evidenza: « Quel che manca maggiormente non sono i fatti in se stessi, ma i principi di selezione e di coordinamento. Non tarderemo ad accorgerci che il fatto non diventa perti nente se non attraverso il suo inserimento in un certo ordine di fatti (o piano di realtà) e che quest'ordine di fatti non si risveglia e non si configura che a seguito di una questione posta. :e. nella serie nella quale si coordina che un fatto diventa interessante». Con questi due testi viene posto, tra l'altro, il problema, quanto mai attuale ancora oggi, del senso che arte e critica possono avere in un momento così ricco di trasformazione come questo che stiamo vivendo: arte e critica sono conti nuamente chiamate, cioè, a verificare con spregiudicatezza intellettuale il proprio statuto, i propri strumenti operativi e la loro incidenza nel contesto sociale. Detto in altri termini, arte e critica si trovano di fronte ad un interrogativo di fondo che mette in gioco i principi della loro identità e della loro legittimazione. L'attraversamento analitico dell'arte e 73
della critica dà una risposta a quegli interrogativi ponendo in primo piano le questioni del linguaggio, per cui i principi di identità e di legittimazione vengono ritrovati non fuori dell'arte e della critica ma al loro interno, nella loro capacità di costi tuirsi in un sistema il più possibile formalizzato. Nello stesso tempo, però, questi procedimenti di formalizzazione dell'arte (La linea analitica) e della critica (Critica della critica) rico noscono i propri limiti; in entrambi i casi il testo si fonda su un doppio movimento, su un discorso e un controdiscorso: l'opzione metodologica è sorretta dalla convinzione che le scienze dell'uomo possano dare contributi importanti alla critica e che questa, a sua volta, non possa non andare in contro ad una serie di trasformazioni, affrontando anche un salutare processo di formalizzazione. Nello stesso tempo, però, il testo è incessantemente percorso dalla consapevo lezza della impossibilità dell'arte, come della critica, di at tingere il livello di una formalizzazione piena dei propri pro cedimenti, un livello del resto inattingibile dalle stesse scienze esatte. Il controdiscorso dell'arte insiste quindi sulle rela zioni che l'arte non può non stabilire con l'altro da sé, con ciò che non è interamente riconducibile alla struttura espli cita del convenzionalismo linguistico e affiora tra le maglie della formalizzazione; la riflessione della critica sul proprio statuto incontra lungo il percorso della chiarificazione teorica e metodologica la questione del soggetto, del soggetto della critica, con tutte le sue determinazioni e surdeterminazioni inconscie. Il processo critico viene quindi identificato con un percorso attraverso il quale il fantasma del soggetto si sposta da una originaria condizione privata a un piano intersogget tivo, dove i contenuti fantasmatici non vengono meno ma si trasformano in discorso con tutte le articolazioni retoriche che ogni discorso comporta. Per queste ragioni (ed era ap punto questa la conclusione della Critica della critica) la cri tica mantiene incessantemente aperta la contraddizione tra il piano del soggetto e il livello oggettivo, tra principio del piacere e principio della realtà, così da presentarsi al tempo stesso sotto il segno di una erotica e di una retorica. 74 Da questa postazione mi è sembrato di intravvedere con
più precisione le vie attraverso le quali la teoria e la pratica psicoanalitiche possono offrire efficaci strumenti interpreta tivi per comprendere meglio i procedimenti che presiedono alla funzione critica. In un saggio di Mannoni di qualche anno addietro (Un commencement qui n'en finit pas. Transfert, interprétation, théorie) viene sostenuto con molta decisione il ruolo fondamentale del transfert, e quindi la presenza forte del soggetto, nella definizione del campo teorico psicoanali tico. Un ruolo determinante che ne costituisce anche il tratto epistemologico distintivo per cui la psicoanalisi si presenta come una pratica scientifica diversa dalle scienze positive. Ora, è proprio la scansione a tre termini posta da Mannoni (una scansione che indica anche un percorso dal polo sogget tivo a quello oggettivo) che trovo particolarmente significa tiva ai fini di una ridefinizione del lavoro critico, che nel mio libro già ricordato riconducevo anch'io a tre momenti fonda mentali e cioè al momento della lettura, a quello della inter pretazione e infine alla fase della costruzione. In entrambi i casi non si tratta di un superamento delle ragioni del soggetto (transfert, lettura) nei momenti oggettivanti suc cessivi, ma di riconoscerne la presenza costitutiva nella messa a punto sia della interpretazione psicoanalitica che di quella critica. Il punto di arrivo, in questa fase della mia riflessione teorica, mi porta a cogliere tra la professione del critico e quella dello psicoanalista alcuni tratti comuni di fondo: in parti colare nel fatto che esse costruiscono un sapere in cui il soggetto ha un ruolo determinante e, cosa che conta forse ancora di più, ben riconoscibile. Da questo punto di vista la critica (ma il discorso può valere ancora di più per la psicoanalisi), ben lungi dal risultare una pratica fuori gioco, come si pretende da più parti, può avere una presenza di notevole portata nel dibattito odierno sulle forme del sa pere, nel senso che essa (e non essa soltanto) può contribuire a far meglio comprendere come ogni sapere implica forti margini di soggettività; che senza questa consapevolezza la forza del sapere e dei saperi è solo apparente, in quanto rivela un carattere difensivo e in sostanza repressivo. Appa-
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rentemente, l'irruzione del soggetto nella costruzione del sa pere sembra introdurre un fattore di debolezza, un luogo di minore resistenza. In realtà, è un passaggio obbligato o, me glio, una condizione inevitabile per giungere a un nuovo tipo di razionalità, più articolata e flessibile, più consapevole dei propri limiti e, in sostanza, più potente nel senso vero e non mistificato del termine.
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La festa, l'ornamento ANGELO TRIMARCO
Negli anni sessanta la festa diviene il modello dell'arte, riprendendo del resto un'antica consuetudine. Infatti come non ricordare la festa di Antonin Artaud? O, su altri ver santi, la festa degli artisti del costruttivismo russo nel giorno dell'utopia realizzata? Artaud come Tatlin o Rodcenko, Li sickij, parlano la festa: la festa che alimenta il corpo glorioso del teatro, la festa che si è fatta Rivoluzione sociale. Dunque, la festa è stata modello dell'arte. Non c'è dubbio. Lo è stata per l'avanguardia storica, lo è stata per l'arte degli anni sessanta. Non lo è più (e per ragioni diverse) ora mai da un pezzo. Ma se la festa, come ci insegnano gli antro pologi, gli etnologi e gli storici delle religioni, non è più possibile per noi, allora di quale festa si è trattato? « Le feste odierne - avverte Furio Jesi in uno scritto di ardua deci frazione - non sono altro che ... pause, periodi in cui il cono scere razionale si disgrega temporaneamente in oblio di sé, pronto a ricomporsi e ad assumere un istante più tardi, terminata la festa, la situazione di privilegio che in latenza è sempre rimasta sua». Perciò, si continua a leggere, « l'insi stenza degli studi sulle feste di ieri (degli antichi, dei primi tivi) come sospensione del tempo, pause del tempo storico, epifanie di tempo dei primordi perennemente ritornante». Oggi, dunque, è difficile potere pensare la festa come irru zione, nel tempo del quotidiano, del « tempo primordiale», del « tempo delle origini», del « tempo creativo», del « tempo 77
di rigenerazione ». È improbabile che le feste di oggi conser vino ancora quel vedere, quella visione, che della festa di ieri costituiva l'essenza. È impensabile affermare con Kerény che oggi la festa è abissalmente non quotidiana. La festa che diviene modello dell'arte (dell'avanguardia storica come di ampie zone dell'esperienza artistica degli an ni sessanta) è, allora, un simulacro, un Ersatz, un'immagine sbiadita di quella festa di ieri, degli antichi o dei primitivi. Eppure, ridotte a simulacro, conservano della festa di ieri alcuni caratteri, qualche aspetto, dei tratti, che sollecitano l'arte a considerarle punti di riferimento privilegiato. « Piantate nel centro di una piazza un palo con una ghir landa di fiori, radunate il popolo e avrete una festa. Fate ancora di più, fate degli spettatori uno spettacolo: fateli diventare attori anch'essi », consiglia Rousseau nella Lettre à D'Alembert. E questo suggerimento di Rousseau, con di versa calibratura, ha fatto il giro del Novecento. La piazza, il centro, lo spettatore che diventa attore, il teatro che si fa spettacolo del mondo, sono parole, termini, nozioni, che si ritrovano, con diversa coscienza, in ogni scrittura dell'avan guardia storica, dal futurismo ad Artaud, dal costruttivismo a Gropius. Termini e parole che ritroviamo negli anni sessanta nelle folgorazioni del Living, nel teatro di strada come in Joseph Beuys o in Vito Acconci.
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Queste vicende c'insegnano che il teatro, divenuto il luogo della festa, diviene, a sua volta, il modello dell'arte. C'è uno scambio costante, lo sappiamo, fra architettura e teatro, nel l'arte contemporanea (ma invero non soltanto nell'arte con temporanea), nell'assumere un ruolo privilegiato. Una fun zione, difatti, che, nel tempo del romanticismo e delle istituzioni poetiche di fine secolo, è stata esercitata dalla musica o dalla poesia. Ora è il teatro, spazio della festa, di una festa impossibile, a suggerire alle altre arti, agli antichi generi ormai in disuso (alla pittura, alla scultura) di abban donare la parete, di rompere la cornice, di sporgersi oltre il limite del quadro, di occupare lo spazio reale degli spettatori, di fare degli spettatori i nuovi attori di uno spettacolo nuovissimo. Le serate futuriste, le feste della Rivoluzione d'Ottobre,
il dadaismo, la stessa messa in scena dei conflitti all'interno· dei gruppi e delle formazioni (gli scontri fra Breton e i suoi amici d'avventura, per esempio), l'happening, il richiamo al corpo come geografia di segni e orizzonte di sintomi, come gioco della teatralizzazione, l'idea (in fine o, forse, al prin cipio) che l'arte è !'altrove del quotidiano. Un altrove che, se non apre più (e non lo potrebbe) alle incursioni del tempo dei primordi, del tempo creativo, è almeno una pausa, un'interruzione del tempo storico, dello scorrere dei ritmi del quotidiano. Un altrove che diventa Utopia. Non più, così, il tempo che rigenera ma il senza luogo, non . più (allora) il tempo creativo ma il senza tempo. Al tempo dell'origine è subentrato il senza tempo dell'Utopia che il teatro mette in scena: uno scenario sul quale si affac ciano, si è detto, l'arte e l'architettura, perfino il design. L'arte, incontrando la festa (assumendola a modello), di viene adesso teatro dell'Utopia. Per trovare una pausa dal quotidiano scrive il copione del senza luogo e del senza tempo. L'arte incomincia, così, il suo viaggio fondato sulla nostalgia e sul desiderio del ritorno: il ritorno alla pienezza dell'essere perduto, alla totalità smarrita, all'età dell'oro. La festa che si fa modello dell'arte, proprio perché modello scaduto e impossibile, conserva soltanto alcuni tratti formali di ciò che la festa era, anzi di ciò che non era. Giacché della festa si può parlare solo al negativo, raccomanda ancora Jesi. Ed, in più, nel corso di queste vicende la festa diviene Utopia. E con l'Utopia ricompare la nostalgia della Totalità. La to talità positiva della festa della Rivoluzione dei costruttivisti, di Rodcenko e di Tatlin, l'utopia negativa del dadaismo, la speranza in una condizione felice, dentro il quotidiano, delle avanguardie degli anni sessanta, nel segno della profezia di
una società estetica.
Ho ricordato come questa condizione dell'arte e della festa sia diventata un emblema nel lavoro di Joseph Beuys. Come Beuys sia divenuto, presto, un simbolo di questa profezia, un eroe in qualche modo. Un simbolo e un emblema ai quali subito si sono contrapposti l'opera e i giorni di Andy Warhol. Per lungo tempo (e non del tutto a torto)
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Beuys e Warhol sono stati i poli di due diverse concezioni, di due differenti, affascinanti (disperate) avventure. Addirit tura della diversità fra l'Europa e l'America: l'Europa del l'impegno a mutare le cose, dell'utopia appunto, e l'America chiusa nel proprio sogno, quell'american dream che viene da lontano e rischia, ogni giorno di più, di essere la morte ame
ricana.
Warhol se ne accorge immediatamente se, nell'autunno del '63, confessa a Swenson: « Mi resi conto che qualsiasi cosa stavo facendo doveva essere morte ». Morte, dunque: e cioè silenzio, identità perfetta, ripetizione accecante, stereo tipo, anonimato. « Penso che qualcun altro dovrebbe essere capace di fare i miei quadri. Non sono riuscito a fare tutte le immagini chiare e semplici e uguali. Penso che sarebbe fantastico se più persone si servissero del silkscreen cosi che nessuno potesse riconoscere il quadro mio da un altro ». Non c'è dubbio, allora, che, in Warhol, a differenza di Beuys, l'arte è dentro la stessa morte americana, un fram mento anonimo nelle maglie di una desolazione dalla quale l'autore deve sparire per lasciare il posto a ciò che non ha nome e non può essere nominato. E evidente, mi pare, che Warhol è lontano da Beuys, dalla sua idea dell'arte come rigenerazione, dalla sua concezione dell'uomo a mezza via fra l'animale e l'angelo, così com'è distante da Cage, che se condo Lyotard inaugura la condizione postmoderna. In verità non è Cage ad affacciarsi (o ad inaugurare) il postmodern ma, semmai, Warhol. Perché in Cage, nell'opera sua capitale, Sile11ce, il soffio della vita riaffiora, attimo dopo attimo, attraverso rumori e palpiti, voci e mormorii. Il fatto è che in Cage, come in Beuys, come nell'arte di comporta mento (una delle tante definizioni per queste esperienze), l'arte s'immerge nel flusso dell'esistere, lungo e dentro i bordi del vivere. Un'illusione, estrema, che si frantuma ap punto con Andy Warhol. E, infatti, con Warhol che la festa, l'utopia, la speranza della cifra, vanno perdute per sempre. Warhol, nell'epoca della fine della metafisica, reca testimo nianza dell'occupazione del banale e dell'inutile, della feli80 cità del Kitsch.
:t:. con Warhol che l'arte o quel che ne rimane tralascia la nostalgia della festa. Quella nostalgia che, in fondo, ab biamo visto avere preso il posto della festa oramai impossi bile. Con Warhol l'arte diviene compiutamente superficie e si mostra per quello che è: gioco di regole, che non rinvia a niente altro, che non custodisce verità, abissi o profondità. Perché abisso e profondità è la superficie splendente del l'opera che ci sta di fronte, silenziosa e appartata, anonima. Con Warhol cede anche quell'altra speranza che sul finire degli anni settanta, ha alimentato e continua ad accarezzare le generazioni più recenti. La nostalgia per la felicità del dipingere: la gioia di combinare colori e linee in funzione di un racconto che riprende a nominare sentimenti e desideri. :t:. con Warhol, a partire dal suo esempio, che l'arte si fa ornamento. Ornamento, però, non come decoro e lucentezza di forma, ricchezza di intrecci, ma come vuoto e assenza di valori, come silenzio e morte, come ciò che è banale, quoti diano, residuale. La tensione centro/periferia, che, in un modo o nell'altro, sopravvive nella festa, ora si spezza crudel mente. II residuale e il marginale vivono senza più tensione o interesse per il centro, il vuoto è dimentico del pieno, i bordi abbandonano le linee che conducono al culmine. Le preoccupazioni di Laos vanno, oggi, dunque, ben al di là della sua ansia di pulizia (formale e morale). « Se avviene che un uomo tatuato muoia in libertà significa semplicemente che è morto qualche anno prima di avere potuto compiere il proprio delitto ». Ora, non c'è dubbio, lo sappiamo, che non c'è uomo che muoia un giorno prima d'avere messo in opera il suo delitto. Quel delitto, Verbrechen, aborrito dalle scritture loosiane. Ma è un delitto (questo è il nodo) tanto diverso da quello temuto e combattuto dall'architetto della finis Austriae. Loos, io credo, non sarebbe mai stato sfìo�to dall'idea che ornamento, Verbrechen, potesse essere il banale, il quotidiano, il nulla, quella stupidità di cui parlerà qualche anno più tardi un grande scrittore austriaco, Robert Musil. Ornamento, decorazione, Kitsch, banalità, stupidità, sono proprio i termini e le parole, che l'arte, dal tempo di Warhol, e con sempre maggiore insistenza, ha messo in circolazione 81
a sottolineare il fatto che la « tradizione del nuovo » è tra montata, che il Movimento Moderno si è eclissato, che la committenza trova nella felicità del Kitsch le proprie ra gioni, secondo un precoce suggerimento di Moles. Nel nostro tempo il discorso sull'ornamento, odiato da ·Loos e studiato con grande perizia e amore da Sir Ernst H. Gombrich qualche anno fa, è diventato pensiero di ciò che non ha fondamento. Loos, nel 1910, minaccia Ulk che si è preso beffa di Ornamento e delitto con queste terribili pa role: « E io vi dico che verrà il giorno in cui l'arredamento di una cella carceraria ad opera del tappezziere di corte Schulze o del professore Van de Velde sarà considerato un inasprimento della pena ». Ernst Gombrich, con più incanto, dimostra come proprio nella Vienna di Loos, ad opera di Riegl e della Scuola Viennese, l'ornamento riprende quota. Paradossalmente, però, per dimostrare, dai rispettivi, diffe renti, punti di osservazione, che l'ornamento esprime, mette in scena, il senso del disordine o, all'opposto, il senso del l'ordine. « La disposizione degli elementi per similarità e per differenza, il godere della ripetizione e della simmetria, si estendono dall'infilar perline all'impianto della pagina... e, ovviamente, al di là, fino ai ritmi del movimento, del parlato e della musica, per non menzionare le strutture della società e i sistemi di pensiero ». Gombrich, dunque, dà conto di quel delitto che ogni uomo compie nel corso della vita. Ma non rende ragione, pur rovesciando l'assunto minaccioso di Loos, dell'istanza avanzata da Andy Warhol e tessuta dall'arte più recente (anche se, talvolta, con meno lucidità, si è ricordato). La tendenza, cioè, a guardare al marginale e al residuale, all'ornamento, piuttosto che al permanente e al fondamentale. Gombrich, insistendo sulla regolarità e sull'ordine, sull'abi tudine e sulla tradizione continua a pensare che ogni tra sgressione sia, infine, una variante già prevista dal codice. In sostanza, continua a pensare nell'ordine del discorso clas sico. C'è un recente lavoro di Mendini e Anna Gili che si chiama «Nulla»: Idea per un ambiente. A chiarimento gli autori ci 82 dicono che « questo ambiente si chiama "Nulla" perché pone
il... problema di non rappresentare, non significare assoluta mente nulla. In esso non accade nulla e di esso non resterà nulla », difatti. Sarà solo il « nulla del design decorativo, in una condizione di vuoto ornamentale •· Alla festa (dei primitivi e degli antichi) si è sostituita poi la festa come Utopia. Ora, all'Utopia l'Ornamento che reca la notizia dell'avvento del Nulla. La fine di ogni conso lazione. Perfino della consolazione del Senza Luogo e del Senza Tempo.
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