op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea
Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Livio Sacchi, Sergio Vi!lari Segretaria di redazione: Roberta Amirante Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 • Te!. 7690783 Amministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Giordani, 32 • Te!. 684211 Un fascicolo separato L. 3.500 (compresa IVA) • Estero L. 4.000
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. Edizioni � Il centro ,. di Arturo Carola
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P. BEI.FIORI!
Architettura: tra proibizionismo e abusivismo
R. DE Fusco
Note su semiotica e design
L. SACCHI
Automobile e cultura
A.
Il New s11rrealism
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Libri, riviste e mostre
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TRIMARCO
Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Roberta Amirante, Benedetto Gravagnuolo, Fulvio Irace, Sergio Villari.
La rivista si avvale del contributo economico dei seguenti Istituti ed Aziende:
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Architettura: tra proibizionismo e abusivismo PASQUALE BELFIORE
Proibizionismo è termine colto, usato nel linguaggio dei chierici per indicare una stagione del passato prossimo nella quale sarebbe stato represso l'istinto verso la fantasia, la memoria, l'immaginario; ma è anche la più recente filosofia del legislatore che in materia urbanistica vieta, limita e sempre più non consente. Abusivismo è parola dei mass media e, pur avendo una costellazione di referenti, designa oggi in particolar modo quello edilizio. Il proibizionismo colto ha provocato negli architetti delle inibizioni dalle quali si stenta a liberarsi. Quello legislativo non ha provocato inibi zioni di sorta se è vero che il recente condono edilizio porterà in sanatoria l'equivalente di cinque città grandi come Napoli. Da un lato, i discorsi degli architetti, ciò che di recente è stato definito il « sovrastrutturale» dell'architettura 1• Dal l'altro, il problema della casa, l'equo canone, gli sfratti, le proroghe, il condono edilizio. Due mondi separati, un. divario nel quale . proibizionismo e abusivismo operano un parados sale raccordo facendo derivare in buona · misura il confuso attivismo. dei fatti dal carattere a volte perentorio a volte vago del dibattito. 1:: possibile che· non esista una terza via che fermi il pen dolo oscillante tra la noia dell'asfissiante cultura ·e la rabbia per i bisogni disattesi? 1:: possibile che dalla valanga di carta stampata non esca un'idea in grado di mordere i fatti? Stati sticamente,...marciamo con.. un fascicolo di rivista al
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giorno ·csono quasi sessanta le testate di architettura, urba nistica e design stampate in Italia) ed un libro a giorni alterni. Sempre a scadenze giornaliere, conferenze, seminari, tavole rotonde (L'orecchio è stanco, diceva Ceronetti). I giudizi non collimano 2: abbiamo bisogno di architettura; chi ha stabilito che esiste un vero bisogno di architettura? Ritornano antichi dilemmi: dal Piano al Progetto o viceversa? Il gioco degli opposti: necessità di conoscere la storia; necessità di igno rare la storia. I sussulti di scepsi totale: l'urbanistica non è una disciplina autonoma. Si vola alto sul campo delle opinioni. Di converso non si decolla su un problema centrale e riassuntivo, la casa nelle grandi città. Come dire, dalla pianificazione urbana all'archi tettura, al tema dei centri storici, dell'economia, del mercato immobiliare, delle leggi. Materia vasta, ma non incandescente perché ristagna in una palude di leggi, di limiti apparente mente insormontabili, di modi di pensare impigriti dal con formismo. I termini dimensionali del problema casa, desunti da stati stiche ufficiali, già smentiscono alcune diffuse idee. Non è vero che ci sono più famiglie che alloggi e non è vero che si costruisce sempre meno. Nel 1981, il patrimonio complessivo di alloggi era di 21.852.000 con un incremento percentua le di 25 punti rispetto al decennio precedente. Ai 320.000 vani costruiti negli anni sessanta, ritenuto il periodo del co, siddetto boom edilizio, corrispondono i 450.000 vani costruiti negli anni settanta. Ciò nonostante, due milioni di famiglie cercano casa e cinquecentomila sono gli iscritti nelle gradua torie dell'edilizia sovvenzionata 3• Le società immobiliari con fermano che la domanda più cospicua è riferita ad alloggi nel centro delle grandi città, cioè proprio laddove l'attività edi lizia ha subito negli anni settanta una flessione del cinquanta per cento. f:. qui il vero nodo della questione abitativa, dove proibizionismo e abusivismo presentano gli intrecci più seri. Perché .non si costruisce nelle grandi città? Per il regime vincolistico delle leggi e per la presenza dei centri storici, si risponde. Questi, in verità, ci sono sempre stati, eppure si costruiva nelle città. La differenza è nel grado di maturazione
attinto dalla odierna cultura che alla tradizionale concezione organica di una città che vive e cambia al suo interno, che rigenera funzioni, che sostituisce organi vitali, che muta di continuo pelle ha imposto un elenco paralizzante di concetti come ambiente, tutela, conservazione, vincolo. :e. ovvio che tutto ciò è importante e necessario, ma è il modo radicale e esasperato di coniugare queste idee, a fronte dei modesti risultati fino ad oggi conseguiti, che dovrebbe indurre a rivedere .tutto il contenzioso. E se il discorso deve incomin ciare daccapo, perché non partire dal modo di organizzarsi della produzione industriale? Il design - è. stato osservato - si articola nei quattro momenti del progetto, della produzione, della vendita e del consumo 4• L'architettura attraversa un ciclo analogo ma con un elemento aggiuntivo e specifico, il topos, che informa di sé tutto il processo. Il progetto deve tener conto·del « genius loci »; la produzione è condizionata dalle capacità e dal li vello della imprenditoria locale; la vendita, e quindi il valore commerciale, si diversifica proprio in ragione del luogo; il consumo, nei- modi e nei tempi, è regolato dal grado di tutela della zona; Quando l'insieme di questi elementi· è ben sedi mentato; allora la casa, che è merce, o vale quanto un Raf faello o · non- vale nulla. Sul piano economico, infatti, non conta l'autore del progetto, la qualità· architettonica, la sta gione del gusto che esprime; in misura trascurabile contano le condizioni statiche e di manutenzione. Detta legge solo il topos.· L'indubbia, maggiore razionalità con cui si organizza il settore della produzione industriale è inficiata, in architet tura, da questa costante. Il mercato degli oggetti della più vasta produzione industriale si può preordinare, il valore prestabilirlo attraverso il nome del designer, i materiali adot tati, il numero di pezzi prodotti, una programmata azione promozionale. In architettura, squallide costruzioni in luoghi privilegiati hanno un valore di mercato superiore ad un edi ficio da antologia. L'attuale .mercato immobiliare italiano, spiega Gabetti, è formato per 1'87% dalla compra-vendita di case usate, do vute alla mancata immissione. sul mercato di case nuove. Nel
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libero gioco tra domanda e offerta di alloggi, si creano delle situazioni congiunturali estremamente negative che portano in alcuni momenti ad impennate vertiginose, come è acca duto nel 1980, anno in cui i prezzi degli appartamenti usati aumentarono dal 40 al 60 per cento. Il bene-casa, pur restando sempre lo stesso, si rivaluta non per un suo miglioramento intrinseco ma per la sua rarefazione. Tutte le leggi, egli con tinua, sono state fatte tenendo presente il problema dei meno abbienti e trascurando il ceto medio che rappresenta la parte più cospicua della domanda. Il mercato immobiliare muove risorse e agisce sulle leve del risparmio che è tipico del ceto medio. Se questo non può accedere al bene-casa, toglie spazio al livello inferiore che tradizionalmente, e secondo discutibili ma consolidate regole, occupa in terz'ordine gli alloggi li berati 5• Divario tra domanda e offerta significa in primo luogo lievitazione non fisiologica dei prezzi. Il costo della vita è a�mentato nell'ultimo decennio del 375%, il costo del danaro del 380%, il costo delle costruzioni del 500% circa. Chi ha comprato una casa agli inizi degli anni sessanta in una zona centrale o signorile di una grande città, vede moltiplicato per 15 il valore dell'immobile. Chi l'ha acquistata con le stesse caratteristiche in una zona periferica deve moltiplicare solo per 5 il valore iniziale. Non sappiamo molto sul modo di scardinare la dittatura del topos che crea, soprattutto sul versante economico, si tuazioni grottesche. Probabilmente, una via praticabile è quella di una seria riflessione sullo zoning, seguita da con crete sperimentazioni" sulla industrializzazione dell'architet tura (cosa diversa da quella dell'edilizia). Ma è un argomento, soprattutto il secondo, ancora da impostare. Topos per antonomasia è il centro storico, con una parti colare natura dei problemi. Qui, il proibizionismo - esplicito nelle leggi e cordiale nelle Carte del restauro per l'uso della parola « raccomandazione » - attinge vertici assoluti. Chiu sura al traffico veicolare, rigorosa selezione delle funzioni, uso delle sole categorie del· restauro e del risanamento conservativo, .. rispetto delle densità edilizie esistenti, limiti di
altezza, notarili prescrizioni di materiali e colori, dell'arredo urbano. La pedante precettistica configura in questo caso un abusivismo sui generis, quello del potere politico che, attra verso provvedimenti sollecitati da una cultura di fatto con servatrice, rende difficile ed ansiosa la vita a quei cittadini che, per sventura a questo punto, abitano nel centro storico. Si premette di continuo che la città storica non deve diventare un museo. Ma si tratta del classico esorcismo, perché cos'altro sarebbe se non un museo un ambiente sottoposto a « rigide misure di salvaguardia»? Tra tutti i precetti, quello più ves satorio è la chiusura al traffico automobilistico. Ma si fa anche di peggio, con soluzioni « intermedie » che ostruiscono par zialmente o totalmente alcune strade, che impongono divieti ad orario, che qualificano verde la zona totalmente inacces sibile e rossa quella accessibile a· metà, che autorizzano per fino l'uscita in macchina a giorni alterni. Insomma, un sistema paranoico studiato - e questo è il risvolto più singolare per rendere più vivibili le condizioni del centro. Tutti con� cordiamo che il vero nodo del problema è quello del traffico automobilistico. Allora, non è possibile rinunziare all'auto mobile? No, e non per principio. Si tratta d'altro. Chi non conviene sui discorsi della libertà individuale a prendere o non prendere la macchina, si convinca almeno di un nuovo clima nei rapporti tra cittadini e potere. La società post-industriale, ha osservato Eugenio Scalfari, non sopporta il vincolismo e sembra avere come sua piattaforma program matica la deregulation, cioè lo smantellamento delle bardature amministrative che pretendono di tutto prevedere e di tutto prescrivere 6• Ciò che l'apparato burocratico nega o limita, la società si procura per altra via. Ma c'è anche dell'altro. Strutture, complessità, disordine, densità, sistemi, cam biamento, comunicazione, dinamica, società, mass-media, in• formazione, gestire li tempo, gestire lo spazio; energia, trafile, calcolatore, ideologie. Ecco venti parole, e perché non 20.000? Per farne che? Per farvi capire molto seriamente che le cose intorno a voi stanno cambiando. Le cose? E cioè? Eb bene: i ritmi di vita, i ritmi di produzione, l processi di ap propriazione... Rivoluzione culturale? No, state tranqullll;.Mao
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non attira più le f!llle di intellettuali. Quello che ora li ap passiona sono i sistemi, le strutture, I concetti... Guardatevi intorno. Si fanno circolare le automobili laddove circolavano carrozze. Si installano cucine elettroniche in spazi concepiti per tutt'altri sistemi di vita. Si continua a produrre in edifici obsoleti, grazie a tecniche avanzate. Guardatevi bene intorno: viviamo in un mondo di contraddizioni e di divieti, dove viene mantenuto uno scarto continuo fra contenitore (il costruito) e contenuto (le attività) e ci avviciniamo ad un fatale punto di rottura 7• Per i centri storici, questo punto di rottura è già arrivato perché essi stanno morendo di tutela, di ambiente, di vincoli. La precisazione scientifica di questi concetti ricorda molto da vicino i discorsi degli urbanisti negli anni sessanta .. Dal quartiere alla città, alla conurbazione, al territorio, secondo un procedimento che finiva per pianificare il deserto dimen ticando la città. Così, allo stesso modo, dal monumento al l'ambiente, al contesto storico ed ai rapporti di questo con la città al contorno. Oggi, però, sull'altro versante, si parla con decisione di fare progetti di architettura per la città e non piani. Allo stesso modo, sarebbe necessario ritornare a discutere sui monumenti, ridimensionando concettualmente e. territorialmente l'invadenza .della nozione di ambiente. E questo almeno per due motivi: perché in pratica non è pos sibile tutelare intere parti di città .e perché non è corretto da un punto di vista culturale. Ogni epoca ha operato delle scelte in ragione della « variazione e intermittenza degli ideali estetici » 8• Queste scelte, solo nelle epoche della « damnatio memoriae » si sono appuntate anche sui monumenti, ma in genere sono state espresse dalla parte più disponibile del sistema monumentale, cioè proprio dall'ambiente. Si· modi fichino allora la morfologia e le dimensioni dell'ambiente storico laddove ad una valutazione storico-critica ciò. apparè legittimo. In caso contrario, si invochino dalla tecnologia tutte le possibili e compatibili soluzioni -· tunnel e parcheggi sotterranei, svincoli aerei, nastri trasportatori, scale mobili, ascensori - che consentono di attraversare il centro. storico, . to cone· e' g1us a · seconda dei casi, dentro, sopra o. sotto. Nt
siderare tali innesti come il male minore, perché le espressioni della moderna ingegneria nel campo delle infrastrutture per i trasporti sono tra le cose più belle e significative dell'archi tettura contemporanea. Si rifletta ancora su uno dei numerosi corti circuiti prodotti da una esasperata cultura della tutela. Se in città è praticamente impossibile o economicamente non conve niente costruire, si costruirà all'esterno della città, cioè su suoli agricoli. E questo proprio nel momento in cui dal mondo dell'agricoltura vengono allarmanti rapporti sull'erosione dei terreni provocata dall'espansione della città che solidifica e addensa gli anelli periferici e svuota il centro. Un'altra osser vazione andrebbe fatta sulle nuove destinazioni funzionali del centro storico. Anche in questo caso c'è una compatta con vergenza su destinazioni di tipo culturale che, a parte la vaghezza del termine, non tengono conto delle nuove tipologie sollecitate da modi inediti di usare la città. A Roma, ha os servato di recente Aymonino, c'è bisogno, ad esempio, di foresterie e seconde case di ridotte dimensioni per tutti coloro che sono legati in qualche modo all'apparato istituzionale e burocratico della capitale. In ogni città, c'è bisogno di case per anziani, per gli studenti, di case-albergo a rotazione per gli abitanti del centro stesso i cui alloggi sono interessati da lavori di ristrutturazione o ricostruzione, di idonei centri per handicappati, di un numero sempre maggiore di sedi per associazioni, enti, partiti, movimenti e nuovi soggetti espressi dalla società. Come mediare allora tra chi vuole che nulla cambi e chi vuole cambiare senza regole? Ancora una volta, tra chi proi bisce, e proibendo abusa di potere, e· l'abusivismo tradizionale sempre in agguato? Non abbiamo, naturalmente, soluzioni si cure e complessive, ma una semplice domanda da porre. Perché rion tentare con la categoria della « sostituzione edi lizia» gestita da privati? Aprire dunque una breccia nella cittadella assediata del centro storico per introdurre il fami gerato cavallo di Troia? Sì, se agli occupanti del cavallo sa remo in grado di imporre nuove e reciprocamente convenienti 11 regole di azione.
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Il discorso su questo tema, almeno· nelle sue linee cli par tenza, è molto semplice. La società dei bisogni, s'è detto, non ha mai tollerato regimi troppo vincolistici e l'attuale clima di deregulation sembra incoraggiare maggiormente questa ten denza. Le leggi sono state disattese e lo Stato s'è rivelato im prenditore incapace e inadempiente (ed è sufficiente ricordare il fallimentare capitolo della « 167 »). Su queste basi, la tutela non sarà mai assicurata. Occorre dunque scendere a patti con le richieste della società, pagando anche i dovuti prezzi, come una revisione complessiva di idee come ambiente, centro storico, paesaggio, bellezza, valore artistico, ecc. Quanto al l'imprenditoria privata, alle leggi dell'economia e della produ zione, si registra oggi un diverso atteggiamento anche da parte di ambienti politici tradizionalmente sospettosi. Se il 6.orire delle leggi volte al controllo minuzioso del territorio è coevo ad un diligente abusivismo - ha scritto Lucio Libertini, re sponsabile della politica della casa per il P.C.I. - non bastano le scomuniche e le condanne: occorre riflettere sulle ragioni profonde di quella contraddizione. Forse è meglio program mare meno ma meglio, cogliere ciò che conta, proporsi di dire ciò che veramente si riesce a fare. L'Importanza grande· e decisiva del recupero, la crescente esigenza di questa scelta, non può sfociare nell'archeologia urbana, in un riflesso con dizionato contro la produzione 9• La sostituzione edilizia appare lo strumento più idoneo a. mediare tra la volontà di haussmannizzare il centro storico e l'attuale condizione di passività totale. Questo tipo di in tervento è stato sempre guardato con sospetto perché com porta due pericoli: introduce il moderno nel centro storico e si presta a possibili speculazioni con aumenti cli superfici, cubature e altezze. Quanto al primo, la parte più progressiva della cultura architettonica ha ormai da tempo legittimato la presenza del· moderno accanto all'antico. I pericoli di una speculazione, poi, andrebbero eliminati sulla base del nuovo significato che la sostituzione edilizia dovrebbe assumere. Perché, ovviamente, non pensiamo a quella definita nella vi gente legislazione. In sede di dibattito, già alcune idee vengono sottoposte
a serrate critiche: lo zoning, gli standards, il carattere ··gene rale della legislazione, l'eccessiva difficoltà progettuale a de streggiarsi tra limiti di altezze, distanze, superfici, volumi. E, d'altra parte, concetti come uniformità, allineamenti, coe renza stilistica, rispetto dei tipi edilizi non appartengono certo alla cultura architettonica contemporanea. La sostitu zione edilizia potrebbe in tal senso diventare il punto di coagulo del complesso di queste revisioni. Si tratterà però, anche, di pensare ad un sistema di incentivi che incoraggi l'intervento dei privati, un qualcosa in più che bilanci gli alti costi derivanti dalla particolare natura dei lavori. Gli obiettivi che un ragionato sistema di sostituzioni edi lizie dovrebbero conseguire sono: un aumento della densità abitativa con l'offerta di nuovi alloggi nel centro della città; una necessaria operazione di medicalization in parti di città caratterizzate dalla fatiscenza edilizia; una struttura urbana meno ostile al traffico automobilistico. Diciamo queste cose - che possono apparire espressioni di una cultura antistoricista - confortati proprio dalle esor tazioni che ci vengono dagli storici più avvertiti. � proprio necessario ribadire che la storia è dinamica, azione, progetto del futuro? Chi sottoscrive le attuali idee e procedure sul cen tro storico è contro la storia o, quanto meno, contro una sua moderna e corretta visione. La storia così intesa è un atto tra i più gravi di abusivismo. L'incomprensione del presente nasce fatalmente dall'Igno ranza del passato. - ha scritto Mare Bloch - Forse non è però meno vano tentar di comprendere il passato, ove nulla si sappia del presente. Già l'ho raccontato altrove: accom pagnavo a Stoccolma Henrl Plrenne, il quale all'arrivo ml disse: « Che cosa andiamo a vedere prima di tutto? Mi pare cl sia un Municipio nuovissimo. Cominciamo di là.». E poi aggiunse, quasi volesse prevenire il mio stupore: « Se fossi un antiquario, non avrei occhi che per le cose vecchie, ma sono uno storico. Ecco perché amo la vita ». Questa facoltà di apprensione di ciò che vive: ecco la massima virtù dello storico... Un grande matematico non sarà meno grande, sup pongo, se . passerà ad_ occhi chiusi attraverso il mondo in 13
cui vive. Ma l'erudito che non ami osservare Intorno a sé né gli uomini, né le cose, né gli eventi, meriterà forse - come diceva Plrenne - il nome di utile antiquario; e agirà da saggio se rinuncerà a quello di storico 10•
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I R. DE Fusco, Del sovrastruttura/e, ne « Il Messaggero", 18 no• vcmbre 1982. 2 Risposte del;unte dalle interviste pubblicate in: e AURA "• a. I, n. ,1, giugno 1983. 3 ISTAT, Indagine sulle abitazioni, maggio 1981. 4 G. D'AMATO, R. DE Fusco, Per chi ta11to design?, in e Op. cit. •, n. 59, gennaio 1981. s R. MOSTACCI (a cura di), Il mercato edilizio e i suoi operatori, Edi zioni delle Autonomie, Roma, 1984. 6 E. SCALFARI, Il secondo impero di Ronald Reagan, in « La Repubblica •, 26 agosto 1984. 1 Pietà per chi vive, intervista con Ioi-.u ScHEIN, in e Panorama •, 31 marzo 1985. a R. · AssuNl'O, Monumento, in Enciclopedia Universale dell'Arte, voi. IX, s.v. 9 Intervento pubblicato su e Rinascita•, 3 novembre 1984. 10 M. BLOCH, Apologia della storia, Einaudi, Torino, 1950, pp. 51-52:
Note su semiotica e desig� RENATO DE FUSCO
Il proposito di riprendere dopo qualche anno di assenza (e non solo personale) un discorso sulla semiotica - . che intanto ha sempre sostenuto metodologicamente i miei studi « sul campo » di storia e di critica delle arti - mi sembra t quasi impedito dalla quanti à di temi e problemi via via sorti e dalle stesse cose da me pensate e non espresse in questi ultimi tempi. Avvertendo tali difficoltà e rimandando ad altra occasione e sede una trattazione unitaria e sistematica, di più approfondita teoria, qui voglio svolgere e raccogliere al cune riflessioni, magari slegate, provvisorie ed ipotetiche, nel l'intento di richiamare, e con una certa- urgenza, l'attenzione sull'approccio semiotico al design. E ciò sia perché i con tributi in tal senso sono stati modesti anche quantitativa mente, sia perché ritengo il campo del design uno dei più interessanti da inquadrare. nella prospettiva semiologica. Pri ma di entrare nel vivo dell'argomento è necessario accennare ad alcuni aspetti dell'attuale situazione generale di detta pro spettiva,. almeno per quanto concerne l'architettura, le arti visive e appunto il design. Che la semiotica attraversi un momento di crisi è indubbio; viceversa le cause di questa crisi pongono numerosi dubbi ed interrogativi: i mancati risultati pratici del metodo semiotico-strutturale sono dovuti ad errori di impostazione teorica? al disaccordo fra gli autori? alla reciproca disinfor� mazione e impermeabilità delle loro tesi? al -loro feticismo
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scientista? alla difficoltà del loro stesso linguaggio? Certo, tut to ciò ha avuto il suo peso nella crisi suddetta, ma non vi sono altre cause oltre quelle della sfera teorica? Probabilmente al cune sono da ricercare in una interpretazione, per così dire, ideologica della semiologia applicata ai campi sopra menziona ti. Infatti, da molti operatori, anche se in maniera non espli cita, la semiotica non è stata intesa come un metodo di analisi idoneo a spiegare tutte o quasi le linee di tendenza dell'ar chitettura e delle arti pure o applicate, affrancandole da quel la ineffabilità ad esse conferita dal pensiero idealistico-roman tico, ma piuttosto come una « poetica » da affiancare ad alcune correnti operative meglio che ad altre. Ad appannare l'ottica semiologica non è stata una diversa proposta teorico-critica, che nessuno ha avanzato, bensì qualcosa; di più facile « com prensione» e accattivante pubblicità, che è nato negli ateliers degli artisti, negli studi degli archit�tti e designers, nell'am bito del mercato d'arte, negli allestimenti delle mostre, nella pubblicistica delle riviste e dei rotocalchi. E questo qualcosa ha legato la prospettiva semiotica alla sezione « razionale » dell'avanguardia intanto che veniva affermandosi, con mag giore successo in ogni campo, la sezione «viscerale» della stessa. Insomma, nonostante qualche scritto che smentirebbe la mia tesi, nei fatti il Post-modernismo in architettura, tutti gli « ismi» successivl all'arte concettuale, il Radical design e il Neo design hanno costituito il maggiore ostacolo agli svi luppi della semiologia, richiamando su di sé l'intero di battito. : Beninteso, non mi meraviglia .che una metodologia critica sia associata ad un gruppo di poetiche, né è la prima volta che capita nella storia delle arti: basti pensare al Purovisibi lismo fiedleriano da considerarsi il fondamento teorico di tutte le tendenze conformative e costruttive dell'arte contempora nea ma totalmente inadatto a spiegarne altre: quelle illu strative, contenutistiche, surrealiste, dadaiste, ecc. Ma, se nell'associazione suddetta c'è qualcosa di vero, diventa allora legittimo, estendendo il discorso, pensare ad un'altra. Come tutto il «Moderno», per dirla con Habermas, anche la semiologia -,- relegata a torto .o a ragione nel versante • razionale ,.
dell'avanguardia - non risulta un fenomeno definitivamente archiviato, bensì «un progetto incompiuto ». Un terzo ordine di cause della crisi semiotica è da ricer care nella erronea politica culturale condotta dai semiologi. Se gli scopi principali della nuova scienza erano la razionalità, la chiarezza, lo scoprire le strutture nascoste nelle confuse forme dei fenomeni, lo svelare i loro significati, il definire codici e norme operative, soprattutto il ricondurre la vita sociale nell'ordine oggettivo dei segni di ogni specifico e pertinente campo, tutto ciò non poteva sostenersi su cavillose e bizantine dispute, ma richiedeva la più vasta conoscenza e il più ampio consenso degli operatori e dei fruitori di artefatti e di segni. In altre parole, se la semiologia voleva porsi come una scienza nuova dei segni e in particolare dei segni nuovi di una società industrializzata e tecnologica, do veva inevitabilmente venire incontro alle istanze della cultura di massa, adottare una forma di politica e di divulgazione che altrove e in più occasioni. ho definito « riduzione cultu rale ». Sono persuaso che senza questa logica conseguenza, strutturalismo e semiologia sono inevitabilmente condannati al fallimento. Se qualche risultato pratico c'è stato (e non a caso in settori nuovi quali il cinema, il fumetto e altri mass media), esso si deve agli scritti di coloro che sono passati per divulgatori (qualcuno considera tale anche Roland Bar thes), mentre gli altri, gli «scienziati» scrupolosi quanto er metici, hanno finito per ricondurre la semiotica nel suo ori ginario alveo della filosofia e della logica. Dopo questi cenni su una ricognizione generale che, come s'è detto, sono tutti da rivedere e approfondire in un ap posito saggio, veniamo alle considerazioni sul rapporto se miotica e design, che costituiscono il tema centrale delle pre senti note. Diciamo subito che il design non è un'appendice dell'ar chitettura (in un certo senso è vero il contrario) e pertanto la sua semiotica non va impostata con gli stessi strumenti usati per l'architettura, così come ha fatto la gran parte degli studiosi che si sono occupati dell'argomento. Il che non vuol dire che qualche caposaldo della semiologia architettonica
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non possa valere per il design, così come io stesso ho tentato di mostrare in altre occasioni e segnatamente nel libro Le Cor busier designer, i mobili del 1929. Il corpus disciplinare del design, interessando la produzione di ogni genere di artefatto industriale, è tanto più ampio, vario, eterogeneo e complesso rispetto all'architettura e alle arti, che ha smentito ogni ten tativo di una sua definizione. Nella mia Storia del design, di prossima pubblicazione, non mi sono basato su una definizio ne ma sulla fenomenologia del design, non su cosa esso è ma su come si manifesta con i suoi quattro momenti invarianti: il progetto, la produzione, la vendita e il consumo, ognuno indissolubilmente legato agli altri come le parti di un quadri foglio. Ma se la concezione del design così espressa· mi ha consentito di riconoscere appunto che non si dà design in assenza di uno solo di questi momenti, la complessità di una simile · fenomenologia mi ha confermato nella· convinzione che per studiarla occorre uno scandaglio ancor più acuto di quelli adottatì per l'architettura e· le arti, in ogni caso già corredate di un loro tradizionale armamentario teorico-critico. Viceversa, è assai probabile che il fallimento di tante teorie e definizioni del design si debba. al fatto che per esso si sono presi a prestito strumenti da altre discipline o esperienze.e non si è individuata una logica o appositamente concepita. o adattabile ad esso nel migliore dei modi. È evidente a questo punto che alludo alla logica semiotica come la più idonea alla comprensione dei temi e problemi, della teoria e della pratica della disciplina di cui ci occupiamo. · Il primo nodo del design che forse solo la semiologia è in grado di sciogliere è. quello relativo al contrasto fra una visione monistica e una pluralistica· di esso. È noto che per alcuni autori tutti i settori del design possono affrontarsi con un'ottica unitaria, segnatamente metodologica, così come vuo le il famoso aforisma « dal cucchiaio. alla città ». Per altri autori viceversa, considerati appunto i differenti modi di progettare, produrre, vendere è consumare le varie tipologie di prodotti, non vi sarebbe un solo design, ma tanti quanti sono i settori merceologici. Ora, per quanto, ad essere reali-stici, si possa propendere per la seconda concezione, è tut-·
tavia innegabile che qualcosa deve pur legare automobili e macchine da ufficio, elettrodomestici e mobili, macrocosmo e microcosmo dei prodotti industriali, altrimenti l'idea stessa di design verrebbe a cadere. Cosicché, sia pure per ragioni diverse, c'è del vero tanto nella visione monistica quanto in quella pluralistica del design; e, come anticipavo, l'approccio semiotico è forse il più adatto per riconoscere nella congerie di tante tipologie quei prodotti che sono da distinguere è quelli che sono da accomunare. Quanto ad una semiotica che serve per distinguere, essa va ben oltre l'empirica differenziazione dei settori: nessuno certo confonderà il visual design con il furniture design, i prodotti della meccanica con quelli dell'elettronica, ecc.; ma questo non basta. Se è vero che l'enunciato fondamentale della semiologia ·è quello per cui ogni sistema di prodotti è un linguaggio o può essere visto come un linguaggio, il· metodo semiotico aggiunge ed integra agli scandagli empi•. rici, tecnici, economici, estetici, ecc. quello appunto lingui• stico: serve a farci riconoscere i segni, le regole. combina•· torie, le valenze semantiche, lo spessore storico di ciascun tipo di prodotti. Chi può negare che esista un linguaggio, non solo delle grandi categorie di manufatti, ma .anche del le più particolari produzioni? che accanto al linguaggio dei mobili, poniamo, esista anche quello più particolare delle sole sedie? Di conseguenza, visti gli esiti deludenti nell'ana lizzare sedie e macchine da scrivere come se fossero quadri o sculture, ognuno dovrebbe convenire sulla necessità di con cepire, realizzare e descrivere uno specifico tipo d'oggetto riportandolo ad una sua propria entità segnica, ad un de• terminato codice, ad una specifica comunicazione semantica, ovvero a tutti i fattori che danno luogo ad un linguaggio. Ancor più interessante risulta la prospettiva semioticanel compito di unificare. Essa accomuna prodotti apparte nenti a categorie diverse, aventi diverse forme, funzioni e modalità d'uso; e in tanto li accomuna in quanto si basa su invarianti strutturali soggiacenti alla estrema variabilità delle produzioni particolari. Per dimostrare questa tesi è necessario indicare almeno una di tali invarianti; e la più emblematica 19
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di tutte è l'invariante segnica. · Ma· si può individuare uri segno basilare, il più unificante possibile i vari prodotti del design? A tal fine, senza la pretesa di estendere alla semiotica di quest'ultimo quella dell'architettura, procedimento che, come s'è detto, va considerato erroneo, utilizzo tuttavia la defini zione del segno architettonico almeno come provvisorio mo dello di quello del . design. Altrove ho definito il segno architettonico un'unità mini� ma dotata di spazio interno fruibile a scala umana, per esem pio una camera. Le componenti «significato» e «significan te » di tale segno sono rispettivamente lo spazio interno e quello esterno, più esattamente l'«invaso» e l'«involucro».. La liceità di chiamare «significato» il primo e «significante» il secondo sta in ciò che l'invaso costituisce il luogo dove si vive, la ragion .pratica del costruire, il senso dell'operazione, mentre l'involucro costituisce il fattore che conforma e rea lizza materialmente quel luogo; tutto questo in una analogia �bbastanza simile al rapporto esistente tra « concetto» e « suono» di una parola, ovvero alle componenti del segno linguistico. Ora, l'aver assunto questo provvisorio modello di segno mi pare che contribuisca alla individuazione di quello più ricor rente e unificante i segni dei vari settori del design. Infatti, ogni prodotto di design può sempre ricondursi alla dicotomia interno/« significato»-esterno/«significante» (un'automobile, una poltrona, persino una tavola di un ripiano con le sue facce superiore· e inferiore), laddove questo interno è tal volta un vuoto (e in questo caso l'analogia col segno architet tonico è maggiore) e talaltra un pieno (e qui l'analogia non esiste affatto, ma ciò serve positivamente a differenziare i due sistemi semiotici), costituito molto spesso da un mec canismo, mentre l'esterno è sempre un involucro, ovvero qual cosa che conforma, protegge, fissa l'immagine, la «bella» apparenza delle cose. Si può obiettare: perché insistere tanto sul noto binomio linguistico? e perché ostinarsi a volerlo rintracciare « fisicamente» in ogni singolo oggetto-segno? Unifico i due interro-
gàtivi in una sola risposta: perché nella mia concezione del segno, quale che sia il sistema cui appartiene (ma sempre, beninteso, riferendomi ai campi dell'architettura, delle arti visive e del design), - una concezione che non discende solo dalla linguistica saussuriana ma anche dalle teorie formali stiche e purovisibiliste, proprie della tradizione critica delle arti figurative - il segno non è qualcosa che sta per un'altra, ma una conformazione che contiene in sé tutto quanto basta alla sua significazione, almeno a livello sintagmatico. Al tempo stesso non ignoro una diversa concezione semiotica che afferma essere esattamente il contrario, ossia che il segno è segno di qualcos'altro, ma considero vera questa diversa visione solo sul piano associativo. Più chiaramente, scusan domi con gli esperti di richiamare nozioni ampiamente note, c'è un «significato » interno al segno avente valore sintagma tico, avvertibile cioè in praesentia e riguardante tutti gli aspet ti percettivi, ottici, tattici, gestaltici, ecc. e c'è un «signi ficato » fuori dal segno, in absentia, associativo e riguardante tutti i possibili rinvii, le valenze simboliche, i condiziona menti eteronomi, la vita sociale, le stratificazioni storiche, ecc. Non è chi non veda quale contributo alla migliore cono scenza della fenomenologia del design possa ricavarsi da queste nozioni semiotiche. Se è vero che il segno-design - non importa se qui provvisoriamente mutuato da quello architet tonico, perché è la logica di almeno un « precedente » ciò che conta - significa se stesso, la sua forma, la sua tecnica, la sua funzione, ecc. e in pari tempo significa pure altro, denota altre «cose», connota altri valori semantici e simboli, il tanto invocato status symbol, ecc. si comprende bene come .un sistema formato da segni così ricchi e pregnanti dia luogo ad un codice ancor più vasto e complesso di tante altre espe rienze; anzi come tale sistema dia luogo ad una serie di codici .ove si osserva che il design non è solo progetto, ma in solido anche produzione; vendita e consumo. Questa plu ralità di codici, anche se comporta alcune difficoltà «tecniche » - chi si occupa di design non può ignorare la semiotica e quindi il codice degli strumenti produttivi di ogni settore merceologico oppure la semiotica e quindi il . codice della 21
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pubblicità necessaria alla vendita dei prodotti, ecc. - confe risce al design una tale abbondanza di strati e di sensi, da richiamare, sia pure a suo modo, la nozione di « codice mul tiplo». · Nel libro Storia dell'arte contemporanea ponevo il que sito del perché l'arte di oggi non viene capita come quella del passato e trovavo una risposta nel fatto che ogni ten denza artistica moderna ha elaborato codici singoli e specia lizzati, donde tante chiavi di lettura accessibili solo ad una élite particolarmente informata. I codici singoli (del Cubismo, del Futurismo, dell'Astrattismo, del Dadaismo, ecc.) hanno segnato la fine del « codice multiplo», proprio dell'arte del passato e con essa la perdita di popolarità. Infatti, fino al l'Ottocento l'arte si caratterizzava per una molteplicità di livelli di lettura: la pittura, ad esempio, presentava un rac conto, tratto dalla vita, dai testi sacri, dalla letteratura; una scena, tratta dal teatro, dalle sacre rappresentazioni, da varie altre forme di spettacolo; un ordine compositivo, tratto dalle regole proporzionali, dalle armonie musicali, dall'architettu ra; un simbolismo, tratto dai miti e dalle credenze; soprat tutto una mimesi dei referenti naturali, ecc. Insomma il codice multiplo dell'arte del passato consisteva in tanti strati di conoscenze e in tanti sistemi semiotici tali che ogni singola opera, per questo o quel motivo, dal più ingenuo al più sofi sticato, poteva essere compresa dal maggior numero di per sone, quale che fosse il livello della loro informazione cultu rale. Questa eredità è passata oggi al cinema, un linguaggio il cui codice principale ne contiene altri particolari, grazie ai quali lo spettacolo filmico risulta tra le arti più popolari del nostro tempo. Qualcosa di simile è avvenuto anche per alcuni momenti della storia del design. Lo Styling, ad esempio, da considerarsi una delle fasi più significative del design, presenta il caso più emblematico di ciò che può dirsi un codice multiplo. In esso può riconoscersi l'aerodinamica, tratta dalla scien za; la plasticità dei materiali, tratta dalla tecnologia; il gusto della velocità, tratto dal mondo delle arti, segnatamente dal Futurismo; il simbolismo dinamico, tratto da· tanta !eta
teratura sul modernismo, l'efficientismo, l'organicismo ameri cano, ecc. Certo, ritornando al più generale discorso,· non è d�tt� che l'analisi semiotica di un determinato settore del design comporti obbligatoriamente quella dei vari codici e sotto codici che esso contiene, ma nemmeno che se ne debba volu tamente trascurare qualcuno perché in definitiva con il design siamo in presenza di un sistema di sistemi semiotici, donde la sua ricca fenomenologia e la sua popolarità, ovvero la sua comprensione da diversi livelli di cultura; una comprensione necessaria per la comunicazione linguistica di un prodotto ma addirittura indispensabile ove si pensi che è il consumo degli oggetti ciò che ne garantisce in definitiva il successo. La conclusione riprende alcuni temi iniziali. Quali che siano le cause dell'attuale crisi semiotica, per il futuro rap porto tra design e semiologia possono avanzarsi tre ipotesi. Nel caso, non improbabile come mostrano alcuni sintomi, di un ritorno al design «classico», arricchito ovviamente delle esperienze più recenti, questa fine della vacanza della ragione farà sì che la prospettiva semiotica valga sia come teoria d'indagine che come poetica appunto del razionale. Nel caso che permanga la presente situazione di stallo con· punte ten denti all'irrazionale, la semiologia per sopravvivere dovrà di mostrare tutto e solo il suo potenziale analitico. Nel caso infine di un completo e generalizzato declino del teorico, essa non varrà in alcun modo, ma c'è chi non esclude che anche quella della deriva sia comunque una maniera di navigare.
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In ordine cronologico si susseguono sette sezioni corri spondenti grosso modo alle decadi del XX secolo: un ideale itinerario culturale attraverso la storia dell'automobile. Contemporaneamente è stato pubblicato un libro, Auto mobile and Culture, in cui le fotografie di Henry Wolf accom pagnano uri importante saggio di Gerald Silk sull'iconografia dell'automobile nell'arte e tre scritti minori sul fenomeno delle « fuoriserie » e sul design automobilistico americano ed europeo, redatti rispettivamente da Henry Flood Robert jr., Strother MacMinn e Angelo Tito Anselmi. Nella prefazione, scritta da Pontus Hulten, si legge: L'automobile è virtual mente onnipresente - nessun'altra Invenzione tecnologica ha alterato la vita così radicalmente: essa ha cambiato le città, i paesaggi e il modo di guardarli, l'ambiente, l'architet tura, il nostro modus vivendi. ( ... ) Sin dal momento in cui l'automobile è stata Inventata, gli artisti ne sono rimasti affa scinati, commentando nelle loro opere, a volte con amore, altre con odio, il mondo dell'auto. Grandi fotografi ne hanno ritratto le sagome, il mistero della velocità, la magia delle finiture smaltate e dei dettagli cromati, le forme virili o femminili. Gli architetti hanno spesso progettato con cura il garage, l'alloggio dell'auto, gli urbanisti e gli specialisti di costruzioni autostradali continuano a misurarsi col numero sempre crescente di automobili. Commenti e considerazioni su ciò che per quasi ognuno di noi è una compagnia quoti diana costituiscono l'argomento di questo libro e dell'esposi zione 'Automobile and Cult-ure'. Si tratta della prima retro spettiva di design automobilistico 1•
Automobile e arti visive La mostra si apre con le profetiche visioni leonardesche, disegni di carri a propulsione meccanica, improbabili quanto affascinanti, mitici ascendenti dell'odierna automobile. L'ap proccio in equilibrio fra arte e tecnologia (la figura dell'artista ingegnere è, com'è noto, nella tradizione dell'Italia rina scimentale) ci appare presago di analoghi atteggiamenti ritro vabili nelle avanguardie -storiche. Più ricche ed immaginifiche
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sono le incisioni del Diirer dedicate al trionfo di Massimilia no I: l'ampio uso di figure allegoriche maschera abilmente l'ingenuità meccanica dei veicoli rappresentati. Dobbiamo arrivare alla fine del XIX secolo per trovare l'automobile come oggetto di rappresentazione artistica: forse la prima immagine è una litografia di Toulouse-Lautrec del 1896, in cui il cugino dell'autore è ritratto al volante di una incontrollabile vettura, mentre sullo sfondo, nella più pura iconologia impressionista, si delinea la silhouette di una dama che passeggia con il suo cane. Agli inizi del secolo l'auto compare in una serie di posters ed in numerose illustrazioni di libri e riviste: lo stesso Lau trec, com'è noto, ebbe un ruolo importante nella diffusione della qualità estetica nelle immagini commerciali. Ma prima che l'auto, come del resto tutti i prodotti della tecnologia del tempo, entri a far parte del repertorio di immagini dei pittori bisognerà aspettare ancora a lungo: la cultura europea, imbevuta di classicismo, si rivela estremamente.paralizzante ai fini delrinclusione della iconologia tecnologica nell'arte. Significativo in tal senso l'apporto americano, più disin volto e disponibile. I pittori della Ashcan School, della « spaz zatura», come furono chiamati dalla critica ostile alle rozze qualità della loro arte, che nascevano prevalentemente come illustratori,· furono i primi ad introdurre l'automobile nelle loro opere: l'esplorazione, spesso critica, dell'evolversi della metropoli contemporanea prevede la presenza dell'auto, an che se come incidentale comparsa di sfondo. A volte, pen, siamo al Gray and Brass di John Sloan, essa diventa pre testo per un'astiosa ironia sulle classi emergenti goffamente legate ai simboli della moda. L'automobile s'impone però presto ·come soggetto favorito dei grandi fotografi: le immagini di Lartigue e Demachy, di Atget e di Alfred Stieglitz ci presentano un mondo in rapida transizione che impone nuovi modi all'espressione artistica. Un posto di rilievo è naturalmente occupato dai futuristi: Balla, Russalo, Severini, Boccioni e Sironi sono i primi ad interessarsi direttamente all'automobile, a subirne il fascino e a coglierne la sensazione di novità: a tal punto che nel
tentativo di distinguere il Vorticismo, un movimento artistico tecnologico inglese, dal Futurismo; l'artista e scrittore Wyn dham Lewis etichettò, con intenzioni denigratorie, il movi mento italiano come mero «automobilismo» 2• Nel manifesto fondativo del Futurismo si legge esplicitamente:. Noi affer miamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un (sic) automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a ser penti dall'alito esplosivo ... un automobile ruggente, che sem bra correre sulla mitraglia, è più bello della 'Vittoria di Samotracia' 3. Del solo Balla si ricordano oltre cento opere il cui sog• getto principale è l'immagine di un'auto in corsa o l'effetto visuale che ne deriva. Com'è noto, l'influenza di Bergson conferma le intuizioni spazio-temporali dei futuristi: velocità e dinamismo assurgono ad un ruolo guida, in chiara opposi zione ai canoni classicisti di stabilità e di ordine. È signifi cativo che il rinnovamento iconologico si accompagni ad un'ardita riformulazione del vocabolario estetico-letterario. Ricordiamo ancora un passo tratto dal I Manifesto del Futu rismo: Ci avvicinammo alle tre belve sbuffanti, per pal parne amorosamente i torridi petti. Io mi stesi sulla inia macchina come un cadavere nella bara, ma subito risuscitai sotto il volante, lama di ghigliottina che minacciava Il mio stomaco. ( ... ) E noi correvamo schiacciando su le soglie delle case i cani da guardia che si arrotondavano, sotto i nostri pneumatici scottanti, come solini sotto il ferro da stirare. La Morte, addomesticata, mi sorpassava -ad ogni svol to., per porgermi la· zampa con grazia, e a quando a quando si stendeva a terra con un rumore di mascelle stridenti, mandandomi da ogni pozzanghera, sguardi vellutati e carez zevoli 4• . Curiosamente, stilemi futuristi sono ritrovabili in un fa moso romanzo scritto nel 1962, legato all'ala· depravata e violenta del pop inglese, A Clockwork Orange: .Le auto par cheggiate ll vicino non erano cinebrivido per niente, delle trucche bige e scasse, ma locchial una Durango 95 che poteva anche andare. Georgie aveva una di quelle policlef. nel suo 27
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portachiavi, così cl saltammo sopra allampo - Bamba e Pete dietro che sfumacchiavano le loro cancerose come due spocchiosi - ed lo misi subito in moto. Lei cominciò a bor• bottare da clnebrivido, bella calda gorgogliante che ti andava su· e giù per tutto il budellone. Poi misi giù la patta e ce ne partimmo dolci dolci, e nessuno Jocchiò un bel nulla. Ce la spassammo un po' in quello che chiamavamo il retroclttà, spaventando ·vecchi martlni e le vecchie semprocchie che attraversavano la strada e zigzagando dietro al gatti e cose cosl. Poi pigliammo la strada ovest. Non c'era molto traffico, cosl lo continuai a pigiare la patta che quasi facevo un buco di sotto, e la Durango 95 si mangiava la strada come spa• ghetti 5• Il riferimento al Manifesto di Marinetti è palese. Del 1917 è il grande quadro di Matisse Attraverso il parabrezza. Stavolta non è più l'interesse per la velocità a toccare l'artista, quanto la visione del mondo dai cristalli di un'auto, punto di vista insolito e straniante, collegabile tuttavia alla tradizione del paesaggio inquadrato da una fi. nestra. Analoga, anche se posteriore, la gouache di Stuart Davis Windshield Mirror: una immagine duplice e ambigua, che sarà poi ripresa da tanti artisti pop. Macchine o pezzi di macchine, carichi di simboli antro pomorfi, di valenze erotiche e· allusioni sessuali compaiono nelle litografie e nei disegni di Picabia. Automobili anche nei disegni di Duchamp, nei collages di Hanna Hoch, in una litografia di Làszlo Moholy-Nagy. La stessa Hoch, quasi a smentire la convenzionale interpretazione di Dada come mo vimento anti-tecnologico, · dichiara: Il nostro .scopo finale era di integrare nel mondo dell'arte oggetti presi dal mondo delle macchine e dell'industria 6• . Di particolare interesse. sono i disegni di Amedée · Ozen fant per la Hispano Suiza del 1911, di Le Corbusier e Pierre Jeanneret per la Voiture Maximum del '28 e di Walter Gropius per le eleganti Adler. Gli anni '20 si chiudono con i coordinati di Sonia Delaunay per abiti e automobili, con le foto di Paul Strand, con il famoso autoritratto di Tamara de Lem· picka alla guida di un'auto, eseguito per la rivista tedesca « Die· Dame �-
· Tre opere di Edward Hopper vedono l'auto protagonista. Nell'acquerello- lo in Wyoming del '46 la moglie dell'autore è ritratta di spalle, seduta in una macchina, intenta a dipin� gere il paesaggio montano inquadrato dai finestrini. Nel più grande Gas una stazione di servizio è vista attraverso gli occhi di un automobilista che vi si dirige. La libertà pro messa dall'alato Pegaso della Mobil contrasta ironicamente con la banale prevedibilità del paesaggio americano ·e con l'aria dimessa e distratta del benzinaio. Nel terzo quadro, Western Motel del '57, una donna (è la Lolita di Nabokov?) aspetta, in una squallida camera, di riprendere il viaggio con l'auto che l'attende all'esterno. Per tornare all'Europa ricordiamo i manifesti disegnati per la Fiat da Marcello Dudovich; una insolita « 1400 » del 'SO dipinta da De Chirico (sempre per la Fiat) sullo sfondo di un mitologico cielo di nuvole in cui galleggia una immaginifica apparizione di Bellerofonte col suo cavallo alato; due inquie tanti Spettri di automobili, opere sinistre di Salvador Dalì. Col passare degli anni, in particolare dopo la seconda guerra mondiale, la presenza dell'automobile nell'arte si fa massiccia ed aggressiva. L'esplosione della cultura di massa e l'uso artistico di tecniche nate nel mondo della grafica pubblicitaria fanno della macchina una delle immagini più rappresentate. Un collage di Edoardo Paolozzi del 1949 costituisce il primo esempio di auto nell'arte pop. Le immagini sono ritagliate da « Life », il testo sacro del pop inglese. Del '51 è l'Automobile Tire Print di Rauschenberg, ottenuta con la sua Ford Model A: alla guida era John Cage. La morte in auto è il tema del Five Deaths Twice di Andy Warhol; ancora incidenti nell'happening di Jim Dine alla Reuben Gallery nel '60, in The Accident di Larry Rivers, nell'Ultra-Violet Car Touch di Rosenquist. Un maggiolino Volkswagen occupa il Landscape 5 di Tom Wesselmann, autostrade e stazioni di servizio si susseguono nelle .opere di George Segal, Allan D'Arcangelo, Ed Ruscha. Ancora macchine nelle compressions di César e nei lavori di John Chamberlaifl. Lo stesso Chamberlain ricorda: ml 29
guardavo intorno in cerca di altro materiale, ne ero rimasto a corto... Andai a casa di Larry Rivers, c'erano l pezzi di una' vecchia macchina, una Ford del '29, era un suggerimento nuovo... Mi venne in mente che dappertutto c'erano ammassi di rottami ed era fantastico .,..... del materiale a disposizio ne - avere del materiale a disposizione allora era essenziale.· Ed era lì, acciaio pronto per l'uso, già verniciato 7• Automobili compaiono in tutte le opere degli iperrealisti Estes, Bechtle, Goings, Eddy. Ma la più famosa automobile dell'arte è la Back Seat Dodge '38, un'opera di Edward Kien holz. Quando fu esposta per la prima volta, nel '64, suscitò accuse di immoralità per l'esplicita ricostruzione dell'attività sessuale possibile nei sedili posteriori di una macchina. L'uso di specchi che riflettono l'immagine degli spettatori altera oltraggiosamente i rapporti precostituiti tra fruitore ed opera. Ancora automobili negli ingrandimenti di Roy Liechten stein e nelle molli sculture di Claes Oldenburg. Ma è l'auto stessa a diventare opera d'arte nel Cadillac Ranch ad Ama rillo, in Texas, dove il gruppo Ant Farm ha conficcato a testa in giù nel terreno dieci vecchie Cadillacs e nel Ghost Parking Lot in uno shopping center di Hamden, nel Connecticut, dove James Wines (S.I.T.E.) ha ricoperto con un manto di asfalto sette macchine gradatamente emergenti dal suolo come i neri fantasmi di uno sconfinato parcheggio. Automobile e architettura
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Significativa è stata l'influenza esercitata dall'automobile sugli architetti, influenza che ha provocato profonde modifi cazioni nel concetto di città ed ha portato alla creazione di tipi edilizi completamente nuovi. Notissimi sono i disegni di Antonio Sant'Elia per la « Città Nuova» e per la Stazione centrale di Milano, progetti in cui il caotico intersecarsi del traffico urbano su più livelli ha significativamente ispirato Le Corbusier prima, nel progetto per la città contemporanea di tre milioni di abitanti, e .il figlio di F. LI. Wright, Lloyd, poi, nell'ipotesi mai· realizzata per il centro civico di Los Angeles. Ancora Le · Corbusier,
condizionante: 'dagli ambiti semoventi degli Archigram, alle grandi torri di Kahn per il piano di Philadelphia, fino al Sin Center, un peccaminoso complesso drive-in progettato da Michael Webb per ospitare ogni sorta di locali notturni sul modello della newyorkese Times Square. Un significativo slittamento del gusto verso posizioni più inclusive e spregiudicate nella lettura delle immagini urbane è stato analizzato e forse accelerato dai noti studi di Robert Venturi sulla cultura pop e sui suoi riflessi ambientali; pro prio Venturi ha organizzato nel 1981 una grande mostra alla Renwick Gallery di Washington dal titolo « Signs of Life: Symbols of the American City ». L'acquisizione di una matura consapevolezza dei valori pop ha portato ad atteggiamenti che solo dieci anni fa sa rebbero stati impensabili: attualmente è in corso una cam pagna per conferire la qualifica di 'landmark' al più vecchio chiosco esistente per 'hamburgers' della McDonald, a Downey, in California s. Automobile e design
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I rapporti esistenti fra automobile e design presentano profonde differenze se studiati nel contesto della cultura americana o europea. Due aspetti in particolare caratteriz zano, com'è noto, il design automobilistico americano. Il pri mo è che, .nonostante i continui tentativi di razionalizzazione operati da managers e progettisti, nella speranza di codificare gli elementi per cui un'auto ha successo da un punto di vista commerciale,: il suo· design continua ad essere considerato un enigma. Le leggi del mercato sembrano essere le sole ispiratrici delle scelte di progetto e infiniti sono i compro messi cui il designer deve sottostare nel difficile cammino verso la resa finale. Il secondo aspetto caratterizzante è che, in un paese legato al mito dell'auto in misura ben più coin volgente di quanto sia mai avvenuto in Europa, sono state spesso le sollecitazioni della base ad influenzare il design delle grandi industrie di Detroit .. Due fenomeni in particolare serviranno a chiarire questo
punto: hot rods e customs. Si tratta in realtà di aspetti di versi di una stessa esigenza: modificare e personalizzare l'automobile di serie, il simbolo stesso dell'uniformità e della produzione di massa. Il primo è legato alle corse su strada (e fuori strada) che dagli anni '20 agli anni 'SO costituirono uno dei miti dei teen-agers della costa occidentale: migliaia di· Ford, di Ca dillac, di Oldsmobile venivano truccate, i motori aumentati di potenza, trasmissioni, differenziali, ruote e pneumatici adattati all'aumentata velocità, i pesi drasticamente ridotti. Le strade meno frequentate prima, e le grandi distese del Mojave Desert a nord-est di Los Angeles, poi, divennero il terreno di gara favorito fino agli anni '50, quando il centro delle sempre più affollate competizioni fu spostato nelle pia nure del Grande Lago Salato, nello Utah. Nel 1957 la rivista « Life » dedicò una copertina al feno meno, che aveva assunto proporzioni vastissime: centotrenta piste in quaranta stati, due milioni e mezzo di spettatori, cen tomila hot rods riuniti in quindicimila associazioni. Quali le cause? La teen culture, certo, la cultura giovanile che scari cava sull'auto tutta l'aggressività e la sessualità dell'adole scenza. Ma soprattutto il culto dell'auto fine a se stesso, del l'auto che era considerata sempre più come una vera e propria estensione non solo del corpo ma anche della personalità del proprietario. I modelli roadster della Ford divennero dal '28 al '35 i veicoli favoriti per l'hot rod, specialmente il Modello B del 1932. A mano a mano le modifiche apportate alle macchine diventavano più consistenti: negli ultimi anni '40, con la grande esperienza meccanica ricevuta dalla guerra, molte automobili erano truccate a tal punto da non poter più cir colare su strada: le lakesters e le incredibili belly-tankers avevano ormai perso ogni rassomiglianza con le classiche
roadsters.
Mentre è l'aspetto competitivo ad essere caratterizzante per l'hot rod, nel fenomeno delle customs, delle auto fuori serie, l'interesse per la velocità cedeva il posto alla novità stilistica. L'autorappresentazione espressiva andava sostituen-
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industriale: il rapido consumo di un'automobile, diversamen• te da quanto avviene per un edificio, impone un forte impatto visivo ottenibile solo caricandone il design con significati sim bolici. La novità delle tesi di Banham non fu colta; lo stesso Banham si rese poi conto del crescente favore ottenuto da prodotti che, al di là della loro obsolescenza tecnica, si sal vassero da un rapido consumo stilistico in ragione della loro qualità estetica. In realtà la sobrietà dello styling europeo ha finito con l'influenzare Detroit, fino alla graduale estinzione dei « dino sauri ». Specie più piccole ne hanno preso il posto, più vicine in apparenza alla controllata tradizione europea. Questa nel frattempo ha iniziato a percorrere le strade della razionaliz zazione: i procedimenti costruttivi odierni lasciano poco spazio ai prototipi sperimentali e alle dream- cars. Pure, l'ultimo pezzo esposto nella mostra di Los Angeles che ci ha fornito lo spunto per queste considerazioni è una dream car: la Lamborghini Countach. « The Contemporary », un giornale formato tabloid pubblicato dal M.O.C.A., riporta: La parola 'Countach' è una espressione dialettale in uso fra gli italiani delle regioni montane a nord di Milano per espri mere stupore e ammirazione. Con la sua scocca in alluminio e la carrozzeria in fiberglass, la Countach è considerata l'og• getto più drammatico che sia mal esistito nella moderna produzione di design. ( ... ) Trasportata qui dall'Alitalia, le ruote della macchina non hanno mal toccato il suolo 13•
I P. HULTEN, prefazione ad AA.VV., Automobile a11d Cullllre, Harry N. Abrams, Inc., Publishers, New York, The Museum of Contemporary Art, Los Angeles, 1984, p. 13. 2 Cit. in G. S11.K, The Automobile in Art, in AA.VV., Automobile and Culture, cit., p. 46. 3 F. T. MARINETTI, Fondazione e Manifesto del Futurismo,. in M. DE MICHELI, Le avanguardie artistiche del_ Novecento, Feltrinelli, Milano,1971, p. 370.
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4 Ivi, p. 368. s A. BURGESS Arancia ad orologeria, Einaudi, Torino, p. 28. 6 Cit. in G. SILK, The Automobile iri Art, cit., p. 85.
1 lvi, p. 142. 8 E. A. T. SMITH, The Drive-in Culture, in AA.VV., Automobile and Cullttre, cit., p. 203. 9 T. M. FITCH, in una conferenza dal titolo The critic's shifting view, cit. in A. T. ANSELMI, Automobile Design on the Continent, in AA.VV., Automobile and Culture, cit., p. 256. 10 T. MAUX>NADO, in una conferenza alla Fiera Mondiale di Bruxelles del 1958, cit. in A. T. ANSELMI, op. cit., p. 257. 11 Cit. in A. T. ANSELMI, op. cit., p. 257. 12 R. BANHAM, Machine Aesthetics, cit. in A. T. ANsELMI, op. cit., p. 259. U E. SMITH, P. PAINI!, Automobile & Culture, in e The Contempo rary •, a Museum of Contemporary Art Publication, voi. 1, n. 3, 1984.
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Allora non si tratta di un altro scandalo, nato nel segno dei personaggi storici del surrealismo che a New York hanno trovato prima e dopo la seconda guerra nuovo slancio e vigore, ma di una ripresa (se di ripresa conviene parlare) di temi, motivi, figurazioni,· movimenti, che certo apparten gono al surrealismo. E che ora, com'è giusto, si mescolano e s'intrecciano ad altri fatti e ad altri percorsi, ad itinerari imprevedibili. . 2. Di New surrealism, come sempre, è stato qualche cri tico (Moufarrege, McCormic, Dan Cameron) a parlare. E. come sempre galleristi, in America e in Europa, ne hanno rilanciato l'etichetta che come un ombrello protegge ( o do vrebbe proteggere) il lavoro di artisti che poi, per conto loro, rifiutano l'emblema. Una mossa, anche questa, secondo copione. Comunque, ecco i nomi americani. Si chiamano Ken ny Scharf, George Condo, Peter Schuyff, Thierry Chevemey, Steven Pollack. Dove è evidente che Kenny Scharf è stato uno dei protagonisti dell'arte di frontiera, cioè dell'avventura del graffitismo. Una frontiera dalla quale sembra che si stia muovendo verso il New surrealism perfino il suo capofila, quel Keith Haring che sulla scena del mondo traccia segni e simboli di una memoria arcaica, dissemina tracce di una lontananza indecifrabile. Un intreccio di esperienze che in contrano, si è detto, ricerche europee meno note o addirittura trascurate. Mi riferirei soprattutto al contributo. di Milan Kunc, un praghese del 1944 che vive e lavora a Diisseldorf. A Kunc, von Wilfried W. Dickhoff,- che ha pensato una mostra dal titolo tardo-romantico Nouveau Bohème, ha affiancato, insieme ad alcuni americani -appena citati, appunto Laure Chenard, Jiri Georg Dokoupil, Peter Fischli, Gerard Kever, Andreas Schulze, Dieter Teusch. dunque, dalla lingua estrema di Manhattan che è par• tito il New surrealism, da quel groviglio di gallerie e da quel fermento inquieto dal quale è nato e si è sviluppato il lavoro dei graffitisti. Ancora una volta è stata Pat Hearn a darsi da fare: questa gallerista veloce e aggressiva che fa sentire la sua voce e sta agendo sul mercato dell'arte con una pre- 39
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senza sempre più incisiva. E, probabilmente, questa presenza è stata decisiva perché esperienze così diverse (l'arte di fron• tiera e il New surrealism) potessero convergere su passaggi e orizzonti comuni di ricerca. Ma esistono orizzonti nuovi (diversi) di ricerca in questa zona infernale dell'East Village? Esiste insomma un'arte East Village? Oppure esiste soltanto una generazione, un gruppo forse meglio, che irride ai valori consolidati, agli artisti che hanno già una storia definita, al mercato grande delle gallerie del West Broadway? In altre parole (per rendere ancora più esplicita la domanda), al di là dell'interesse sociologico e dell'innegabile tensione antropologica, l'impeto lacerante e selvaggio di questa formazione agguerrita riuscirà alla fine a configurare una scena che si raccomandi per la forza e l'acutezza delle sue proposte?
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3. Va comunque subito detto che gli artisti ai quali ci si riferisce hanno raggiunto già (e qualcuno da tempo) una sta tura e una dimensione precisa. Non si tratta di quella costella zione di creativi disseminati, in spazi provvisori anche se sug gestivi o addirittura per strada, lungo la traiettoria che dalla miseria sconfinata della Bowery conduce all'Avenue B, a quel crogiuolo di strade che, non avendo neppure un nome, sono contrassegnate dalle prime lettere dell'alfabeto. Dunque, per quanto aggressivi, primitivi, selvaggi, questi artisti hanno da tempo raggiunto gallerie apprezzate, critici, giornali, mercato. Al New surrealism credo che sia capitato quello che, soltanto qualche anno fa, hanno vissuto i graffitisti. Giovani (all'inizio non si consideravano per niente artisti) che, dal fondo del Bronx o di Harlem, scrivevano le loro angosce ma anche la loro felicità, il proprio nome, quasi sempre il nome di bat• taglia, un nomignolo, sui vagoni della metropolitana. Un gesto per dire che anche questa generazione di emarginati aveva una cultura, possedeva e manipolava i segni di una storia antica che era giusto tornare ad affermare. Più tardi questo fenomeno è diventato, muovendo .proprio da queste Ave nues che non recano nomi ma soltanto i segni dell'alfabeto, l'ar�e di frontiera. Da questi .labirinti della città sotterranea
bile di segni e di cifre, di indizi impalpabili. Del resto se Pollack è disinteressato alla portata teorica del surrealismo, altri suoi colleghi pensano addirittura alle mediazioni (sen z'altro ricche e vitali) che l'action painting continua a solle citare. Il surrealismo, lo si è ricordato, ha consegnato tecniche e modalità specifiche al progetto di Gorky e di Pollock: modalità e tecniche che, oggi, possono essere ancora utili per fronteggiare la città dell'immagine nella quale tutti, cia scuno alla sua maniera, siamo coinvolti. Dunque, fra i protagonisti del surrealismo e il New sur realism sembra che corrano per davvero pochi fili, sembra che il loro intrattenimento non vada oltre la citazione. D'altra parte la citazione è stata la grande stella dell'arte dalla fine degli anni settanta in avanti. Sembra allora che il new sia proprio soltanto un prefisso.
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5. Tuttavia è innegabile che, al di là della filologia e dei rapporti consolidati dalla storia, esista un'aria di famiglia, fra queste esperienze americane (ma anche europee) e il mo dello a cui ci si riferisce. Un modello che non è certo un paradigma né un codice di norme e di comportamenti ma soltanto un ricordo e una memoria, fra l'altro diversamente stratificati. Un gioco, fra sogno e veglia, che s'intreccia al l'imagerie popolare, che poi altro non è se non l'immaginario tecnologico con i suoi misteri e le sue angosce ,. con la sua disarmante banalità ma anche con l'ossessiva drammaticità· della sua iterazione. Allora Magritte e Dalì, Delvaux o Max Ernst si mescolano fino a scomparire nella favola allucinata della fantascienza o nel racconto della mitologia popolare. Allora Mir6, in certe opere di Cheverney, viene assunto per brani e frammenti; viene sezionato e presentato attraverso spezzoni e brandelli. Così anche Max Ernst, che mi pare attivo specialmente in certe zone della pittura di Kenny Scharf. Comunque, al di là dell'individuazione di momenti e temi pertinenti, nei selvaggi dell'East Village c'è uno stato di sospensione e di incertezza che rimanda al modello storico. Ma non più di tanto, invero. Quello .che forse più. direttamente si ricollega al surrea-
lavorato senza felicità, fosse soltanto la gioia artigianale del fare. Il New surrealism, da questo punto di vista, è· assai di verso dalla situazione italiana, si è detto. Tirelli, Gallo, Pizzi Cannella, Dessì, i napoletani di Evacuare Napoli sono eredi di Paladino e di Clemente, di Longobardi e di De Maria. Su questo ha ragione Bonito Oliva. Ma, d'altra parte, Pollac]r e Condo, Cheverney e Schuyff, Milan Kunc (che è tra i più interessanti degli europei), sono certamente più radicali ed estremi. Non c'è dubbio. Il loro lavoro, almeno per adesso, ha perduto anche quell'attenzione alla decostruzione del si stema linguistico, ha smarrito finanche quel gusto per il piacere del dipingere che, dopo l'ascetismo minimalista e concettuale, sono stati le bandiere dell'arte. degli anni ot tanta. Ora, con il New surrealism, la pittura è diventata sol tanto un repertorio d'immagini banali. Un tentativo estremo (forse l'ultimo?) per tornare a ripetere che la pittura è una tecnica che illanguidisce nel suo stesso gioco di linee e colori. Una proposta, quali che saranno gli esiti futuri (impre vedibili e incerti), da considerare, proprio per questa radi calità, con attenzione e senza eccessivi sospetti.
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