Op. cit., 64, settembre 1985

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op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Livio Sacchi, Sergio Villari Segretaria di redai.ione: Roberta Amirante Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 7690783 Amministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Giordani, 32 - Tel. 684211

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Edizioni e Il centro ,. di Arturo Carola


F. PURINI

Nove ÂŤfigure" per il disegno d'architettura

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V. PASCA

Una tena via per il design

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A. PANSERA

Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti

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Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Michele Bonuomo,

Carlo Q�telli, Livio Sacchi, Angela Tecce, Sergio Villari.


La rivista si avvale del contributo economico dei seguenti Istituti ed Aziende: AgorĂ Alessi Banco di Napoli Camera di Commercio di Napoli Driade Informatica Campania Knoll International Design Riam Zen Italiana



inizio i cui segni son<;> destinati a permanere, anche se in forme molto diverse da quelle originarie, si costituisce cq­ me « memoria genetica» del luogo, come sua memoria « iner­ ziale autonoma», premessa e guida delle operazioni succes­ sive. Queste ultime, nel loro insieme, nella loro successione temporale ma anche nelle varie sintesi storiche che ci pro­ pongono, determinano la seconda forma del paesaggio, nel­ l'ambito della quale ha senso quel lavoro analitico che, pur all'interno della più ampia relatività, contiene qualcosa di oggettivo o, meglio, tende ad istituirsi come un lavoro i cui esiti siano comunicabili e confrontabili. Il paesaggio delle trasformazioni avvenute si configura come la somma non algebrica del luogo più la storia, e cioè come modificazione del supporto naturale inteso come entità selettiva in re­ lazione con gli sviluppi conseguenti al suo primo « ricono­ scimento» fondativo. Se per '1a -prima forma di paesaggio abbiamo parlato di e memoria genetica» in questo caso do­ vremmo parlare di e storia» come ricerca delle intenziona­ nalità del luogo nel tempo, intenzionalità senz'altro superiori alla semplice volontà di continuità riproduttiva: i luoghi tendono a rendere intellegibile il senso nascosto neHa loro memoria genetica estraendolo dall'indecifrabilità specifica della « tecnicità insediativa» per trasformarlo in qualcosa che può essere comunicato attraverso il discorso verbale. Nella terza forma, quella del progetto, convergono sia l'im­ magine dello scenario originario che quella delle strutture reali considerate non tanto in sé quanto nella loro succes­ sione e nelle loro retroazioni ma soprattutto assunte come forme « interrotte», dotate cioè di una volontà di completa­ mento non solo fisico ma riguardante il più complesso pro­ gramma rappresentativo che le ha ispirate. Questo schema ci autorizza a sostenere che il momento e .costruttivo» del

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progetto ha bisogno, per esistere, di una preliminare fase e decostruttiva» o addirittura e distruttiva»: nessun pro­ getto è possibile se non passando attraverso l'analisi e questa non ha senso se prima non si è metaforicamente« demolito» il sistema delle tracce fisiche del luogo alla ricerca del nucleo genetico della sua memoria. Ma se la prima .forma comporta .


un« allontanamento» dalla scena reale e un« avvicinamento» a quella perduta dell'origine, la seconda implica un opposto movimento, e cioè l'avvicinamento alla realtà fisica e la lonta­ nanza dal primo atto fondativo. Il progetto infine si configura come un momento di quiete sospesa, anche se instabilmente, un momento di « arresto temporale» che consente di isolarsi in quella dimensione simultaneamente tranquilla e guardinga nella quale consiste l'« atmosfera» creativa. Queste tre figure, l'allontanamento, l'avvicinamento, la quiete, corrispondenti ad una reverie recedente verso il passato, alla fase dell'analisi ed ad una reverie procedente verso il futuro, si rit.rovano anche in altre, parallele, idee di paesaggio. Il paesaggio nel quale si è nati, quello nel quale si è scelto di vivere, quello ideale che corrisponde al nostro paesaggio interiore ripropongono le stesse figure cosi come il paesaggio nel quale un'architettura sta, quello nel quale vorrebbe essere, vale a dire il paesaggio dell'astrattezza modellistica e dell'affermazione trattatistica, il paesaggio.infine nel quale vorremmo che fosse. In tutti questi casi abbiamo a che fare con rimozioni e riproposizioni, con abbandoni e riprese, con dimenticanze e memorie ma anche con immobili presenze. Il disegno traduce in vari modi queste tre figure. Mentre l'assonometria si costruisce come pratica dell'allontanamento, la prospettiva si con.figura al contrario come « misurazione » di una distanza dagli oggetti; il « primo schizzo » ma anche i disegni « tranquilli» della stesura di un progetto, quando tutto o quasi tutto è risolto o almeno previsto, parlano di una condizione di quiete, uno stato di osservazione pacificata nella quale i disegni delle piante, delle sezioni, degli alzati possono finalmente assumere una indiscutibile convenzio0:a­ lità. Ma queste tre figure descrivono altrettanto bene anche le modalità e la fine di un viaggio. Meditare sul paesaggio implica senza dubbio il viaggiare, sia esso un vero sposta­ mento nello spazio che una ricognizione autour de la chambre, anch'essa stanza reale o immaginaria. E nel disegno e nelle sue prime tre figure, appena descritte, è rintracciabile la stessa temperatura emotiva del viaggio che trova nell'« im­ previsto » non solo la correzione del suo progetto ma anche 7


la ragione delle difficili relazioni tra allontanamento, avvici­ namento e quiete, strutture di qualsiasi « descrittiva,. del mondo. Disegno dell'allontanamento quello di Loos, incal­ zato da un ansioso rifiuto dell'« arbitrario»; disegno dell'av­ vicinamento quello di Mendelsohn, avvicinamento testimo­ niato dal fulmineo arco di cerchio c�e racchiude i segni; di­ segno della quiete quello di Figini e Pollini ma di nuovo disegno dell'allontanamento quello di Terragni e di Libera, nell'opera dei quali l'inquietante limpidezza della scrittura architettonica parla della volontà di dimenticare luoghi asso­ luti e felici appena intravisti.

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Il fine primo dell'architettura consiste nell'espressione, per mezzo del suo fine secondo, il costruire, del senso dell'abi­ tare dell'uomo sulla terra. Questa definizione indiretta im­ plica che l'aspetto tecnico/costruttivo dell'architettura, an­ che se ampliato fino ad includerne le categorie più propria­ mente stilistico/formali non ne risolve l'intero significato consistente nella « rappresentazione ,. della « condizione uma­ na,. per quanto quest'ultima può tradursi in forme fisiche, da quelle insediativo/planimetriche a quelle edilizie, tridimen­ sionali. Forme peraltro da non assumere esclusivamente nella loro dimensione tipologica e storica ma da interpretare come sintesi di un rapporto tra l'uomo e il mondo nel quale si rappresenta la finalità umana, il senso del dolore e della fe­ licità, il timore della morte, la speranza di una superiore con­ tinuità del destino individuale nella continuità della specie. L'architettura, in definitiva, non esprime altro, con il suo linguaggio di forme tridimensionali costruite attraverso il peso, la materia e la luce, che questi pochi e immutabili mo­ vimenti dell'anima. Anche in questo caso non è difficile individuare tre figure fondamentali. Si ,può tentare ad esempio di« ricordare,. il senso dell'abitare per trasmetterlo, se questo è vissuto come positivo o comunque come un valore da tramandare una volta che lo si sia istituito come tale; si può al contrario dimenticarlo non allestendo dispositivi rappresentativi o falsandoli; lo si può infine « registrare ,. senza inserire nella trascrizione del suo stato presente o passato alcun


elemento progressivo. Ricordare e dimenticare sono infatti entrambe pratiche attive mentre esiste al contrario la possi­ bilità «neutrale» di una registrazione che non sia a a futura memoria» ma si esaurisca nella sua stessa appiattita feno­ menologia. Anche il disegno d'architettura non sfugge a queste figure. Esiste un disegno della « dimenticanza », una pratica dell'oblio al cui interno la rescissione dei legami con la sto­ ricità delle forme <lella rappresentazione, per una scelta· in qualche modo atemporale di moduli figurativi astratti, se­ gnala con una punta di «eroismo» piuttosto che di ascetismo la volontà di ricostruire ex novo le fondamenta della «visione ,. del progetto, attorno al quale si fa il vuoto e del quale si sottolinea il momento nativo, irripetibile, della sua « appa­ rizione» alla coscienza. «Annunciazione», forse, più che «ap­ parizione »: il progetto si presenta al mondo come un asso­ luto, posseduto in pieno da una autonomia profondamente anticontestuale che « allontana» da sé il paesaggio reale e quindi H paesaggio dell'abitare che pure dovrà accoglierlo. Il disegno forse più programmaticamente «moderno» del nostro secolo, quello di un Van Doesburg, di un Sartoris, di un Mies, disloca il senso dell'abitare in un «altrove» lon­ tano facendone così scattare, proprio per mezzo della sua assenza, il più forte desiderio, la più forte nostalgia. Esiste al contrario un disegno della «memoria » nel quale i segni dell'abitare antico coesistono « in tempo reale » con quelli dell'abitare nuovo, siano essi le «macchine» lecorbusieriane o le romantiche forme di Wright. Se i disegni di Le Corbusier sono infatti sostenuti e animati da un ampio gesto classico, da un respiro che non smentisce ma corregge l'Accademia, quelli di Wright nella loro «punteggiatura » decorativa par­ lano di un lungo e minuzioso lavoro umano mentre lo sfu­ mare delle sue architetture sullo sfondo naturale anticipa qualcosa sul destino del rudere che aspetta qualsiasi edificio, destino nel quale si riconciliano le forme artificiali e quelle del paesaggio originario, di nuovo emergente e di nuovo vin­ cente. La presenza della mano, che nella celebre illustrazione lecorbusieriana inserisce la cellula dell'Unité nella sua casella e che nei disegni di Wright «tormenta» le superfici è invece 9


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del tutto omessa nel disegno «radicalmente moderno» il quale si ,propone come un già fatto, un assoluto artificiale senza apparenti genealogie. Così, ancora, il disegno di un Le Corbusier o di un Wright pratica « tutte» le forme della rappresentazione, piante, sezioni, alzati, assonometrie, pro­ spettive, sezioni prospettiche quasi a significare la volontà dell'architetto di «abitare» integralmente la propria opera, mentre il disegno «radicalmente moderno» sembra eleggere una sola forma della rappresentazione come unico piano di esistenza del manufatto. A fronte di questi due estremi, il dimenticare e il ricordare, le algide pagine di un Wolckers o di un Klein propongono una condizione neutrale di regi­ strazione dell'esistente nella quale non c'è spazio né per il passato né per il futuro. L'abitare si dà nel « senza tempo ,. del quotidiano e per questo ciò che può essere rappresentato è solo un modo d'uso, una pratica di autoaddestramento, un sistema di autodifesa verso forme ritenute inquietanti perché ridotte alla sola dimensione della loro descrivibilità tecnica. Che altro sono -infatti le tecniche di codificazione nomiativa se non ,pratiche di registrazione del costruito prive voluta­ mente di qualsiasi riferimento alla sostanza concreta, terre­ stre dell'abitare? Che altro è, al contrario, il progetto d'ar­ chitettura se non· «memoria attiva ,. dell'abitare o, in alter­ nativa, progetto della sua cancellazione? Atteggiamenti, questi tre, discriminati dalla categoria del tipologico assunta nella sua pienezza e nella sua difficile operabilità. La tipologia contiene infatti al suo interno almeno due contraddizioni in­ sanabili ma essenziali, la prima che vede opporsi al ver­ sante classificatorio quello creativo, la seconda che divide la stessa classificazione in due metà irriducibili, un «a prio- . ri ,. e un «a posteriori ». Meno importante è invece la consi­ derazione della tipologia come mera e descrittiva», come compilazione o elenco di generi edilizi, considerazione della quale vive fa pratica del « trascrivere», nella quale si perde anche la pur ridotta progettualità esistente nella classifica­ zione. Dimenticare e ricordare, e quindi il disegno come oblio e il disegno come memoria, sono collegati in modo diretto ma complesso a queste divisioni così come ci dimostrano i


disegni di Ridolfi e Scarpa. Pagine intere dell'abitare· o sue frasi staccate o addirittura semplici parole riproposte da Ridolfi; accorte cancellazioni e difficili, anche se apparente­ mente gradevoli, rimozioni di un abitare identificabile in Scarpa, distillatore di essenze allontanate con ogni mezzo dalla propria origine. A fronte di questi due esempi il duro, solitario e quantitativamente esiguo, disegno di un Muratori il quale è risalito fino alla geografia per riannodare le tracce di ciò che ha preceduto lo stesso abitare. Ma dimenticare, ricordare, trascrivere, sono anch'esse figure all'idea del viag­ gio, sebbene questa sembri apparentemente contrastare con la fissità dell'abitare. Ma non è in fondo questo uno sposta­ mento nel tempo e nello spazio e, in uno stesso spazio, nel tempo, di forme insediative, di forme architettoniche ma soprattutto di «racconti,. attorno a queste forme, memorie orali che istituiscono rispetto all'architettonico una sorta di « tavola delle corrispondenze simboliche ,. moltiplicanti le possibilità di immaginare altre forme e altri luoghi? Un edificio può essere definito come una «società,. di materiali naturali sui quali è stato fatto un lavoro per met­ terli a contatto stabilmente in vista della costruzione di un interno definito contrapposto all'esterno circostante, sia esso distinto o indistinto. H concetto di società è superiore a quelli di insieme e di sistema. L'idea di insieme di materiali non ci dà alcuna informazione sulla loro gerarchia interna mentre quella di sistema, sebbene più appropriata, si limita ad introdurre alcune distinzioni gerarchiche relative ad esempio alle relazioni tra elementi portanti ed elementi portati, atl'equilibrio tra struttura e decorazione, alla definizione. dei caratteri distributivi, all'organizzazione degli spazi, ma non interviene nell'identificazione della finalità di un edificio, finalità che certo non si esaurisce nella coerenza dei suoi valori formali né si risolve all'interno del suo rapporto più o meno equilibrato con altri manufatti, questo nel caso che l'edificio sia inserito in una situazione urbana. Se è vero che la finalità di una società umana non si identifica con la sua so­ pravvivenza né col semplice miglioramento delle condizioni

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disegni di Wachsmann, un protagonista del'ala normalizza­ trice del razionalismo tedesco, disegni nei quali si « rap­ prende » la complessità di tutte le forme in un solo punto, nel mitico « nodo strutturale », origine e destino di ogni spa­ zialità. Esiste infine un disegno neutrale, spesso il disegno definito normalmente come «professionale», il quale tende a negare, attraverso la cancellazione dei valori conflittuali dell'edificio, la sua analogia con la società umana. I:l disegno di Albini costituisce il più alto esempio della volontà di « riduzione» del significato anche autonomo della rappresen­ tazione architettonica, costretta a farsi « diaristica» di una normalità, di un mestiere « assolto» o semplicemente privato di quella percentuale anche piccola di rischio e di dramma la cui accettazione permette al progetto di venire al mondo.

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L'allontanamento, l'avvicinamento, la quiete; il ricordare, il dimenticare, il trascrivere; la discordia, la concordia, la neutralità: sono queste le nove figure del disegno d'architet­ tura attraverso le quali chiunque pratichi questa disciplina è costretto ad- aggirarsi. Nove figure a partire dalle quali è possibile, al di là di moralistiche querelles ·sull'ascesa e ca­ duta -dell' « architettura disegnata», definizione quant'altre mai impropria se non scorretta, costruire una teoria della rappre­ sentazione che sia prima cii tutto una teoria del « rappresen­ tarsi». Se è vero infatti che il disegno è la ricerca dell'identità dell'oggetto attraverso l'identità del soggetto e se è anche vero che in questa ricerca il mondo esterno si trova in oppo­ sizione a quello interiore, allora il problema della rappresen­ tazione consiste nella necessità di rappresentare proprio questo conflitto, i cui esiti sospesi costellano tutta la storia dell'architettura. Tra la « convenzione » rappresentativa costruita nella storia e la sua concreta espressione si inserisce il singolo disegnatore il quale è consapevole della forza evocatrice ma in definitiva inspiegabile del suo gesto e del suo gesto nello spazio, spazio di cui rimane · traccia nel disegno; è conscio anche del labile confine tra disegno e scrittura; è esperto nell'arte di riconoscere l'esistente per mezzo di quell'opera-


zione di apparente .ricalco che è il rHievo, in realtà difficile « ricreazione » del reale resa pericolosa dalla possibilità teo­ rica di produrre « copie »; è convinto del fatto che la bel­ lezza che ricerca non può che essere « una promessa di feli­ cità»; è certo infine della saldezza e della durezza del lavoro di chi l'ha preceduto, opera collettiva che oppone una resi­ stenza tenace ma non invincibile a qualsiasi cambiamento, a qualsiasi accrescimento.


Una terza via per il design VANNI PASCA

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Com'è noto, non si dà critica senza storia e viceversa, mentre sembrerebbe che nella cultura del design la riffes­ sione storica non abbia trovato un suo ruolo tanto da poter considerare l'antistoricismo il vizio di nascita di questa cul­ tura 1• Si tratta di un'importante affermazione, contenuta in un articolo apparso su questa rivista, che evidenzia un pro­ blema non più eludibile da parte della cultura italiana del design. Che, malgrado le apparenze, non si segnala oggi per la particolare vivacità del dibattito, nemmeno sulle riviste specializzate. Non fa contraddizione il fatto, sottolineato da D'Auria in un recente acuto articolo, che l'Italla detiene pro­ babilmente il singolare primato di riviste più o meno specia­ lizzate che si occupano di arredamento, di bricolage e, ap­ punto, di design 2• Come si sa, ciò è stato portato spesso a riprova della vitalità della cultura del design. Ma ormai non dovrebbe sfuggire a nessuno come questo primato sia con­ nesso più che altro alle crescenti esigenze promozionali delle industrie in un mercato che, almeno per ciò che riguarda l'arredamento, si presenta alquanto stagnante. Se nel 1966 gli investimenti pubblicitari costituivano il 6,7% degli inve­ stimenti totali annui delle industrie del mobile, nel 1976 ammontavano già all'll,7% (nello stesso periodo la ricerca tecnologica passava dal 2,7 al 4,3%) 3: sarebbe interessante conoscere dati più recenti. Ciò, tra l'altro, è fonte di sempre maggiori conseguenze sull'informazione fornita da buona parte delle riviste.


Per tornare alla citazione iniziale, essa è senz'altro esatta. C'è forse solo da aggiungere qualcosa per quanto riguarda le cause del fenomeno. Non c'è infatti solo carenza di riflessione storica autonoma. C'è anche una mancata attenzione al di­ battito sulla storia dell'architettura che si è sviluppato in questi ultimi venti anni con molto vigore. Dibattito e pro­ cesso di revisione storiografica troppo avanzati perché sia accettabile che i loro termini non :filtrino o filtrino poco e male nella cultura del design (il che è tanto più grave se si tiene conto del fatto che questa dedica gran parte della sua attenzione proprio al design dell'arredo). E quel processo di revisione ha investito questioni che con la storia del design sono fortemente implicate. Basti pensare che uno dei suoi punti di partenza è stato fornito dal libro di Wingler sul Bauhaus 4; e che uno dei libri che ha prodotto maggiori di­ scussioni in Italia negli anni '10 è stato quello di Manieri Elia su Morris 5• Si potrebbero fare molti esempi a questo proposito: qual­ cuno risulterà evidente nelle considerazioni successive. Qui basti accennare a uno dei libri più recenti, La casa calda, di Andrea Branzi 6• L'autore, per raccontare le magnifiche e progressive sorti del neodesign (Il Nuovo Design italiano si assume però un ruolo guida ben più importante del semplice rinnovamento linguistico e superficiale della produzione cor­ rente, in tutto il campo d'azione che va dal design all'architet­ tura, verso la città ... L'arco di ricerca quindi a cui il Nuovo Design si applica, tende a collocarlo tra i punti di rifonda• zlone della stessa architettura) 7, fa precedere i capitoli sugli anni recenti, in buona misura autobiografici, da un riassunto delle vicende del design a partire dalla metà dell'800. Ciò che sorprende è come questa ricostruzione ripercorra, sia pur rovesciandoli in negativo, i termini della più classica storiografia «canonica•, per usare un termine caro alla Scal­ vini 8: quella del mito del «moderno », «da Morris a Gro­ pius », per intenderci. Il libro di Branzi sembra scritto ap­ posta per confermare una tesi di Tafuri: Chi ha inventato il « post-moderno» non ha fatto altro che confermare, per antitesi quella storia sacra 9• 17


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Probabilmente questa assenza di osmosi tra cultura del­ l'architettura e cultura del design ha alla base la ormai con­ sumata separazione tra mestieri che oggi hanno articolazioni completamente diverse e sono a loro volta alla ricerca di identità diverse 10• Ma questa separatezza si sta rivelando sul terreno culturale un gravissimo limite per ·le possibilità del · design di costruire una propria identità anche sulla consa­ pevolezza storica e non mitologica dei propri percorsi. Ciò può chiarirsi meglio se si osserva come in questi ul­ timi anni questioni storiografiche riferite al design siano in realtà- emerse: prima fra tutte quella che si può definire la questione delle origini o del termine a quo. Eppure sono rimaste formulate dai singoli autori senza che ne sia nato non dico un dibattito ma neanche la necessaria attenzione all'importanza delle questioni poste. Sembra utile, quindi, tentarne una sommaria ricognizione. Ma, oltre a ciò, sembra utile parlarne perché, come si sa, l'interesse delle questioni storiografiche non è costituito solo dai problemi che esse di per sé pongono: è costituito anche da-I fatto che determinate domande maturano non a caso in certi periodi e non in altri. Esiste cioè un rapporto, mediato e indiretto, con l'operare progettuale. E qui, per semplicità ma in realtà anche per scelta, si .fa riferimento particolare d'ora in poi al design dell'arredo. La prima questione riguarda la data di nascita dell'indu­ striai design. Dorfles, tempo fa, scriveva: Non è possibile discorrere di disegno Industriale riferendosi a epoche prece­ denti la rivoluzione Industriale anche se sin dall'antichità si sono dati alcuni oggetti eseguiti In serie e con il parziale Intervento di macchinari prlmltlvi 11• E con questa afferma­ zione intendeva anche polemizzare con le opinioni diverse espresse in precedenza da altri studiosi come Read 12, Tale posizione, fino a pochi anni fa, era largamente accettata. Gregotti pone la data di nascita del design italiano al 1860, data convenzionale di inizio del processo di industrializza· zione nel nostro paese u. A proposito del design più in gene­ rale scrive: la .fissazione del ruolo possibile del designer è già Individuata con chiarezza nel rapporto che Josiah


Wedgwood Instaura Intorno al 1870 con Io scultore John Flaxrnan quando gli commette I modelli per le proprie ce­ ramiche industriali u. Ma in questi ultimi anni è emersa da più parti una im­ postazione differente. 1:. possibile riassumerla con le parole di Quintavalle secondo cui la progettazione industriaole nasce con l'industria e quindi, per il bacino mediterraneo, almeno dall'età greca e dalla romana In avanti, per cui risulta ridi­ colo leggere storie che cominciano dalla rivoluzione Indu­ striale ( così detta) settecentesca Inglese, ed ottocentesca per il resto dell'Europa 1s. Quintavalle è certo studioso troppo avvertito per sotto­ valutare la differenza tra produzioni isolate con l'impiego di macchine e la diffusione dell'industria e della divisione del lavoro come modo di produzione generalizzato. Né le affer­ mazioni sue o di altri possono intendersi come ovvia ricon­ ferma del fatto che mobili e suppellettili si fanno da sempre. 1:. evidente quindi come questa polemica vada approfon­ dita. Ma, per ora, può essere utile leggerla come 'spia' di un diverso problema. L'interpretazione che si può avanzare è là seguente. 1:. venuta meno da tempo l'ipotesi di una progetta­ zione globale dell'ambiente, dagli spazi urbani a quelli abi­ tativi agli arredi, centrata su quella che Gropius definiva la ricerca di soluzioni fondamentali, passibili di sviluppo, cre­ scita e ripetizione 16• Entra in crisi quindi la legittimità e l'utilità di leggere il design dell'arredamento come percorso autonomo fondato sulle ricerche degli anni Venti e iniziato a partire dalle prime forme di produzione seriale e indu­ striale: con esclusione o funzionalizzazione ad esso di ogni altra ricerca che si presenti con caratteri eterodossi. La querelle sulle origini fa emergere quindi la difficoltà di continuare a mantenere una frattura concettuale con la storia del mobile, delle sue tipologie, delle sue invarianti e delle sue variabili: o almeno di continuare a scrivere la storia del design dell'arredo secondo il paradigma finora adot­ tato. Un punto ulteriore, ancora connesso con la questione delle origini, emerge da un articolo di Fratelli che, in polemica con 19


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Gregotti, contesta l'opportunità di assumere come data di na­ scita del design italiano l'inizio -del processo di industrializ­ zazione. Egli interpreta la storia del design italiano di Gre­ gotti come animata da una concezione integralista design­ industria di matrice produttivistica, in ultima analisi alter­ nativa alla concezione a sostegno della autonomia culturale del design. E aggiunge in nota: si rischia di sovrapporre nella retrodatazione del design... matrici culturali abbastanza di­ verse. Di conseguenza sul piano ideologico, proprio in questa ottica, viene cancellata la relativa autonomia del progetto rispetto al mondo della produzione 17• L'uso del termine «retrodatazione» diventa chiaro se si pensa che il libro di Frateili, Il disegno industriale italiano, prende le mosse dal 1928 e ha come presupposto implicito ideologico-culturale una tesi pregiudiziale (che) sta nella esi­ stenza della matrice del design wùcamente nel grande alveo razionalista, di eredità bauhausiana 11• Non importa qui discutere la concezione del design di Frateili: importa mettere in rilievo come il suo intento sia ribadire l'esigenza di autonomia del design dai condiziona­ menti produttivi. Gregotti, dal canto suo, concepisce il design come punto di intersezione di cultura industriale e cultura progettuale: la sua autonomia quindi non si pone in un principio di auto­ fondazione. Ritiene che la cultura del progetto... è definibile ... solo a partire dagli aspetti quantitativo-ripetitivi e dal mo­ delli di metodo offerti dalla rivoluzione Industriale 19: e da questa inizia il suo discorso. In un articolo, scritto con Au­ lenti e Bohigas, dal titolo significativo Avanguardia come professione, scrive: Il reale non è un'impurità da eliminare, un compromesso a cui sottrarsi ma invece materiale portante della produzione architettonica 20• Ci troviamo quindi di fronte a due interpretazioni: una assume come data di fondazione il definirsi di un pensiero teorico unitario con il Bauhaus, garanzia contro il riassor­ bimento del design come attività subalterna alle esigenze produttive. Gregotti invece, per quanto riguarda l'autonomia del progetto, crede nella necessità di una tensione ideale e


ritiene che il mito positivo del movimento moderno, sino a quando è rimasto autenticamente tale, non ha affatto deter­ minato decllnl negli strumenti disciplinari 21• Ma si trattava di un mito, appunto, ed oggi è venuta meno la tensione ideale che esso portava con sé. Oggi quindi l'autonomia va fondata altrove: in una tensione verso una necessità collet­ tiva, verso 'un principio di speranza' 22. A questo punto la polemica tra Frateili e Gregotti non può non essere vista anche come esigenza di risposta da parte di entrambi ai rischi di perdita di identità e di auto­ nomia del designer nella situazione odierna. Che è problema connesso al carattere sempre più market oriented delle in­ dustrie, alla frantumazione del mercato e alla modificazione dei ruoli che il designer è chiamato a giocare in questa si­ tuazione. � ancora Gregotti a rilevare come in Italia c'è una posizione particolare del designer in quanto intellettuale con tutte le sue contraddizioni, ma anche con la preoccupazione di far corrispondere un'azione ad un pensiero 23• � una posi­ zione, come si sa, che sembra incontrare difficoltà crescenti. Intanto è sotto gli occhi di tutti il processo involutivo del­ l'ADI, l'associazione dei designers italiani, che non a caso ha posto nel 1979, come atto fondativo del rilancio della sua attività, l'annullamento della mostra progettata da Mari come tentativo di analisi e di demolizione dei miti residui di fronte alle modificazioni intervenute nel rapporto del design con la produzione e il consumo. Mostra sostituita con un'altra che, in orrore ad ogni problematicità, si presentava come una sorta di fiera promozionale di prodotti delle in­ dustrie. In definitiva al di sotto della polemica di Fratelli con Gregotti, il problema che si avverte è: ci sono ancora possi­ bilità oggi di mantenere aperta una distanza, uno spazio di non coincidenza, tra le aspettative fstituzlonalizzablll del gruppi sociali e le proposte della creatività progettuale nel senso più globale del termine 24• La questione delle origini, quindi, rinvia o perlomeno si pone in parallelo a una crisi del concetto di industriai design e a una simultanea crisi del ruolo stesso del designer. Ciò si 21


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ricollega, probabilmente, a un ulteriore problema che qui ci si limita ad accennare. :E:. emersa da· più parti in questi anni una proposta di variazione terminologica che non ha niente di nominalistico. Cosl ·D'Amato e De Fusco, nell'articolo già citato, affermano essere il design, quali che siano tutte le altre definizioni, certamente arte applicata 25• E in un numero di Casabella, in parte dedicato al design, Dal Co scrive: E di 'arti appli­ cate', appunto, si dovrebbe ancora oggi parlare. Nell'espres­ sione arte applicata vi è molto più spazio di quanto non ve ne sia in quello ora usualmente utilizzato di design, sebbene i due concetti si implichino 26• Si pongono qui due temi di notevole interesse. Il primo riguarda la distinzione concettuale design-architettura; che ci riconduce al problema non solo della distinzione delle fi­ gure professionali ma dell'autonomia e della diversità delle due discipline. E in questo senso Dal Co scrive: Ripensare al 'design' in tennlnl appunto di « arti applicate», signi­ fica innanzi tutto tentare di approfondirne la specificità, co­ glierne le peculiarità... Ma d'altro lato ciò implica anche li riconoscimento delle diversità di quanto è 'arte applicata' rispetto ali' 'architettura' n. Il secondo deriva dalla mag­ giore estensione del • concetto di arte applicata rispetto a quello di design. Ciò permette non solo di ristabilire un rapporto con la storia del mobile ma di evitare aporie che nella storia del design sono presenti. Si pensi, tra l'altro, al tema enunciato su questa rivista secondo cui quel feno­ meno che fu in modo incerto definito Protorazlonallsmo non è un fenomeno esauritosi. .. con gli lnlzi del razionalismo, ma sl svolse in parallelo con questo ed è rlscontrablle ancora oggl21. Come si vede, discorrendo per lo più di date, sono emerse questioni abbastanza complesse: e sarebbe interessante a questo punto tentare di sovrapporle al quadro che offre oggi il design. Accenniamo alcune brevi considerazioni. 1:: sotto gli occhi ·di tutti come il design di matrice razio­ nalista sia approdato in gran parte a stanchi e ripetitivi esiti. Del resto, a parte le condizioni produttive e di mercato che


sono alla base di questo processo, è il filo teorico cui i desi­ gners ortodossi facevano riferimento che si è interrotto. g la stessa nozione di «movimento moderno» ad essere andata in crisi. Intanto gli anni passati hanno visto l'esplosione del «neomoderno», come si è autodefinito in un implausibile sforzo di distinguersi dal «post» (da cui si distingue ben poco, va aggiunto, anche perché si è definito, al pari di quello, come liberalizzazione rispetto al «puritanesimo» del mo­ derno). Proseguimento del «radical design», al di là del­ l'estinguersi del suo «punto incandescente», ha sostanzial­ mente perseguito due ipotesi. Una, quella della costruzione di una nuova Gesamtkunstwerk, una nuova opera d'arte to­ tale in cui vita e arte si intrecciano, sviluppando modelli ela­ borati in tutto l'arco della sua lunga esperienza da un capo­ scuola come Ettore Sottsass nel piacere del gioco colorato e della presenza magico-rituale degli oggetti. Nell'illusione, direbbe Menna, che ci possa essere tra pulsione e linguaggio una continuità felice e senza problemi 29• Dall'altro lato, la critica al progetto «razionalista» come metafora della prima età della macchina è slittata dolcemente nella proposta della stessa metafora aggiornata ai tempi: la metafora dell'universo elettronico e informatico, con la deco­ razione come spia di un rapporto irrisolto con l'innovazione tecnologica, in una sorta di neo-futurismo che gioca inter­ testualmente a combinar citazioni dal vissuto e parodie e rivisitazioni delle avanguardie storiche e di immagini desunte dalle comunicazioni di massa. E, superato l'uso critico-ever­ sivo della cultura pop, resta la protrazione non dichiarata di quel Warhol con cui già negli anni '60, come ha scritto Trimarco, l'arte si fa ornamento... come woto e assenza di valore, ·come silenzio e morte, come ciò che è banale; quoti­ diano, residuale 30• Ma se questa è cronaca recente, tuttavia è già consegnata al bilancio. E da un lato il proliferare di oggetti colorati e futili è diventato testimonianza di un atteggiamento diffuso per cui essere creativi in modo sfrenato sembra essere diventato un obbligo e insieme una scorciatoia, con esiti di assue­ fazione misti a noia. Dall'altro lato lo stesso Mendini si è 23



archetipi radicati nel mito più che nella storia. A volte sono quasi oggetti rituali, spesso hanno sapore antico di mobili contadini. Ed è proprio Natalini a ricordare come le pratiche rituali derivino da antiche pratiche agrarie; e ad affermare come memoria collettiva e originarietà siano ottimi antidoti all'arbitrio dell'individualità e dell'originalità. Ancora si può parlare delle forme e architetture per in­ terni di Luca Scacchetti, delle geometrie elementari e laco­ niche di ascendenza « rossiana » e insieme dalla solida, « neo­ classica» presenza; dell'eleganza ascetica degli arredi di Un­ gers per il museo di Francoforte. E ancora, per allargare un po' il campo, della delicata poeticità di certi piccoli mobili di Boris Sipek; del gar:bo sottile di ascendenza « milanese » degli oggetti di Umberto Riva, dove il nitore delle forme di­ venta finemente decorativo; di certi stipi di Antonia Astori, con « schinkeliane » cimase, recuperi di immagini familiari in cui l'autobiografia è percorsa da un filo di ironia. � interessante ora sapere che Renato De Fusco ha scelto di progettare dei nuovi mobili, sulla base di un discorso teo­ rico di recupero delle tipologie storiche, con attenzione di­ chiarata ai tipi piuttosto che alle forme, con volontà di veri­ fica del patrimonio del passato e di riproposta critica attualiz­ zata. E si è in attesa di conoscerne gli esiti. Come si vede, è un panorama ancora poco indagato 31, non certo omogeneo. Non è, evidentemente, l'unica via che oggi si stia praticando né l'unica prospettiva aperta. Ma certo è una delle più interessanti.

1 G. D'AMATO, R. DE Fusco, Per chi tanto design?, in e Op. cit." n. 59, gennaio 1984. . 2 A. D'AURIA, Fashion &- Design: la cultura-del-successo, in e Op c1t." n. 62, gennaio 1985. . . 3 S. SILVESTRELLI, Lo sviluppo industriale delle imprese produttrici di mobili in Italia, Franco Angeli, Milano 1980, p. 276. • Cfr. H. M. WINGLER, Il Bauhaus, Feltrinelli, Milano 1972. s Cfr. M. MANIERI ELIA, William Morris e l'ideologia dell'architettura moderna, Laterza, Bari 1976.

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6 Cfr. A. BRANZI, 1A casa calda, Idea Books, Milano 1984. 1 Ibidem, p. 144. a M. L. SCALVINI, M. G. SANORI, L'immagine storiografica dell'archi­ tettura contemporanea da Platz a Giedion, Officina, Roma 1984. 9 M. TAFURI, Lettera, in • Op. cit." n. 51, maggio 1981. IO L'affermazione di V. Gregotti, espressa nel corso di una tavola rotonda, è riportata in: AA.VV., Per chi lavora il designer?, Ediesse Milano 1983, p. 151. Il G. l>oRFI.Es, Introdut.ione al disegno industriale, Einaudi, Torino 1972, p, 15. 12 Cfr. H. REAi>, Arte e industria, Lerici, Milano 1961. Il V. GREGOTTI, Il disegno del prodotto industriale. Italia 1860-1980, Electa, Milano 1982, p. 12. 14 V. GREGOITI, Questioni di metodo e area di studio, in « Ottago­ no" n. 32, marzo 1974. 15 A. C. OUINTAV,\LLE, Enzo Mari, CSAC dell'Università di Parma, Parma 1983, p. 34. 16 W. GROPIUS, cit. in: L. BEN'BVOI.O, L'ultimo capitolo dell'architet­ tura modema, Laterza, Bari 1985, p. 246. 11 E. F°RATEILI, Ulteriori considerat.ioni attinenti al 'design', in « Hin­ terland" n. 26, giugno 1983. 1a E. F'RATElL I, /I disegno industriale italiano: 1928-1981, Celid, Torino 1983, p. 13. 19 V. GREGOTTI, Il disegno del prodotto industriale, cit., p. 8. 31 G. AUI.ENTI, o. B0HICAS, V. GRECOlTI, Avanguardia come profes­ sione, in • Lotus International" n. 25, 1980. L'articolo parla di archi­ tettura ma sviluppa argomentazioni che non sembra illegittimo consi­ derare utili anche per il design: • la pratica artistica vive nel mondo della produzione e dei suoi rapporti e ... ciò costituisce per l'architet­ tura un indispensabile spessore di consistenza. Che ciò avvenga in mezzo a contrasti e contraddizioni è ovvio ma che tali contraddizioni siano oggi sempre fatali per l'architettura, questo è falso"· 21 Ibidem. 22 V. GRECOTl'I, op. cit., p. 7. 2l V. GRECOTTI, in: AA.VV., Per chi lavora il designer?, cit., p. 151. 24 V. GREGOTTI, Premessa in: AA.W., Un'industria per il design, Lybra Immagine, Milano 1982, p. 9. 2S G. D'AMAro, R: DE Fusco, op. cit. l6 F. DAL Co, Una successione meccanica? in • Casabella " n. 484, ot­ tobre 1982. ?I Ibidem. 2a G. D'AMAro, R. DE Fusco, Continuità del Protorazionalismo, in « Op. cit. " n. 55, settembre 1982. 29 F. Ml!NNA, in • Percorsi" n. 2, gennaio 1981. JO A. TRIMARCO, 1A festa, l'ornamento, in « Op. cit." n. 61, settem­ bre 1984. 31 Scriveva Isa Vercelloni in • Casa Vogue" n. 155, settembre 1984: « Siamo stanchi di design asettico, ma anche di quello futile e mon­ dano, di consumi frenetici e di cose che si ostinano ad azzannare il presente per agganciarsi ansiosamente al momento che passa: un tempo così breve da apparire come privo di spessore. Cosl questi oggetti che vorrebbero vibrare d'energia si scaricano sin troppo in fretta e subito si disgregano, inerti. Vorremmo invece -cose che parlino in modo più. pacato, oggetti calmi, positivi ... capaci di riallacciare i fili tra pas­ sato e futuro, ... Il che induce i migliori a lavorare sugli archetipi, a confrontarsi con materiali ricchi di storia per innestarvi nuove tensio­ ni, a fare i conti con la tradizione e persino con la natura "·


Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti ANTY PANSERA

Verso il 1900, la Germania, l'Austria e l'Ungheria non riu­ scivano a produrre o almeno non riuscivano insieme a ven­ dere un quarto degli oggetti d'arte industriale che riuscivano a vendere la Francia, l'Italia e l'Inghilterra. Queste nazioni tenevano in Europa e in America in questo campo il primato. Invece nel 1913 su tre miliardi di franchi di oggetti d'arte industriale fabbricati, venduti e comperati in Europa, due miliardi erano fabbricati dalla Germania e dall'Austrla­ Ungheria. L'altro miliardo veniva diviso tra Francia, Belgio, Inghilterra, Olanda, ultima l'Italia. Come s'erano rovesciati I due termini del confronto? Con le scuole. La brevissima constatazione, la domanda retorica e la secca risposta sono parte del discorso inaugurale di Ugo Ojet• ti, per l'apertura dell'Università delle Arti Decorative, in Villa Reale a Monza, il 12 novembre 1922. Iniziava quell'anno la storia, ancora quasi sconosciuta e forse sottovalutata, del­ l'unica scuola italiana che abbia tentato, tra le due guerre, . di affrontare il problema del nuovo rapporto tra l'artigianato e l'industria, tra la creatività e la progettazione (tale prepa­ razione non deve essere superficiale, empirica, basata sulla sola 'genialità',... ma precisa, quadrata, fatta in profondità, sì che la personalità del giovane ne esca completa, cosciente e sicura, padrona dei suoi mezzi tecnici ed estetici; da una relazione di Elio Palazzo, 1932). Se per quanto riguarda le esperienze straniere il dibattito tra i due termini del binomio è stato - almeno setto-

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rialmente e in termini nazionali - già affrontato, la critica italiana non l'ha ancora preso in esame con un taglio artico­ lato, tenendo quindi ben presenti sia le problematiche interne del mondo dell'arte e della formazione dell'artista, che il na­ scere e crescere dell'industrializzazione che in Italia ha avuto, ad apertura del secolo, come protagonisti soprattutto dei tec­ nici. E questo è per certi versi imputabile sia ad un'origine ancora molto recente di questo spazio d'intervento, sia al tipo di figura professionale che, nel nostro paese, ha fino ad oggi affrontato i terni della storia e della critica della cultura . progettuale. Rimandando dunque ad un futuro, prossimo, un primo approccio « per una storia della critica», si vogliono ora, anche se in poche cartelle, offrire delle note con dei dati inediti per una riflessione. Parte del materiale grezzo analizzato è scaturito quest'an­ no dai recessi stessi della Villa Reale di Monza, « salvato » (quel poco che c'era ancora da salvare dall'incuria, umidità, ratti famelici) dall'entusiasmo di un gruppo di studenti e rac­ colto a conclusione del ciclo di studi frequentati nel rinato - dal 1968 - Istituto d'Arte. Ma anche solo l'elencazione ragionata e contestualizzata dei nomi dei direttori e dei docenti che si sono succeduti per vent'anni sulle cattedre dell'Università delle Arti Decora­ tive e l'individuazione di alcuni operatori d'oggi che vi si sono formati, ben suggerisce come proprio Monza possa essere stata - fors'anche non casualmente, tenuto conto della sua particolare dislocazione geografica e del contesto circostan­ te - il centro del rinnovamento del gusto italiano, privilegiata area di discussione e ricerca cui parteciperanno anche dal1'estero alcuni esponenti della cultura contemporanea. Pro­ prio a fianco della scuola, il 19 maggio 1923, si apriva anche la I Biennale delle arti decorative, destinata a tramutarsi poi in Triennale, che per quattro edizioni - -prima del trasferi­ mento a Milano - avrebbe catalizzato l'attenzione interna­ zionale sul complesso piermariniano: e le due istituzioni erano emanazione di una stessa volontà. Il complesso scola­ stico e quello espositivo, infatti, rappresentarono uno dei nodi di quella « città ideale» che la milanese e socialista



progetto per l'istituzione di una scuola-laboratorio di arte applicata all'industria. Nel 1919, alcuni corsi speciali avevano

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teso ad una fusione dell'insegnamento artistico con quello tecnico, inserendosi così in un clima europeo, e anche la pre­ senza del romano Duilio Cambellotti indicava la volontà di una svolta: La parte sostanziale del mio insegnamento - scriveva - è dialettica, tecnologica, in quanto tende a dare una visione e conoscenza precisa delle ·cose, degli og­ getti, delle loro funzioni. Il metodo dunque che io seguo consiste in questo: faccio constatare nelle piante e negli animali l'esistenza dominante di una forza che si manifesta con linee esterne costanti corrispondenti ad una precisa fun. zione. Poi lascio al miei allievi una piena libertà. Pochi co­ munque, e va ricordato, erano allora gli artisti disponibili all'insegnamento sia nelle scuole d'arti e mestieri che in quelle scuole d'arte applicata all'industria che dalla seconda metà dell'Ottocento erano sorte un po' <!ovunque in Italia dotandosi anche, sull'esempio inglese, di un proprio« museo», struttura didattica complementare alle lezioni e ai laboratori; istituzioni che non sono state ancora studiate né contestuac lizzate. Maestri - ve n'ba molti in Italia - ma pochissimi pos­ sono assumere incarichi di insegnamento od i pochi che oggi ciò fanno lo adempiono per un apostolato giacché ciò signi­ fica rinunciare quasi al bisogni della vita. La povertà la de­ vono vincere con altro lavoro fuori scuola di modo che anche i migliori possono dare solo una parte della loro attività al­ l'insegnamento, commentava infatti, un po' deamicisiana­ mente, Alessandro Mazzucotelli in Arte pura e decorativa (giugno 1922): e alcuni documenti burocratici - lettere d'as­ sunzione, di richiami, di licenziamenti - sono una precisa testimonianza di una condizione non certo invidiabile nep­ pure per chi usufruiva del convitto e/o dell'atelier. L'e illuminato • Augusto Osimo propone così, nel dicem­ bre 1922, le «Norme• che portano il suo nome. Per le ma­ terie di e coltura letteraria• si dovrà puntare non tanto sul componimento .quanto, soprattutto, sul « diario•, che meglio permette di evitare « convenzionalismi di pensiero e di


forma». Si suggerisce anche di abbandonare gli esercizi mnemonici, nel senso di non confondere Il vero sapere con l'Imparaticcio... Occorre abolire il verbalismo... Ad Illustrare le sue parole Il ragazzo farà, quando sia possibile, disegni o schizzi. Ma predominante è la parte professionalizzante e pratica: tre sezioni, all'apertura, che diventeranno otto nel 1929, dieci nel 1931. La prima, del mobile, era diretta da Giovambattista Gianotti, un « professionista» - si direbbe oggi - titolare a Milano delle Officine Riunite d'Arte Deco­ rativa, fondatore, nel primo decennio del secolo, con Melani e Labò, di una rivista dalla sia pur breve durata, Per l'arte, dove si auspicava la « solidarietà ,. tra le ,produzioni a basso costo. Al suo fianco, nei laboratori, l'ebanista Angelo Assi e il maestro/intagliatore Luigi Pasetti. Ad insegnare « Disegno architettonico ed ornato» gli succederà dopo qualche anno Tommaso Buzzi, che a quel tempo stava lavorando a mobili e arredamenti dalla raffinata aITI11onia formale, e il « florea­ leggiante» (A. D. Pica) fare del primo sarà rimosso dalla plastica neoclassicità del secondo. Un segno che i tempi sta­ vano cambiando. Il corso di decorazione fu invece fin da allora coordinato da Ugo Zovetti, l'allievo italiano di Kokoschka, assistente a Vienna di Kolo Moser, personalità costantemente incidente che sopravviverà all'alternarsi delle direzioni. A e decorazione pittorica» insegnerà invece Giacomo Caramel (rinomato per le sue pale -d'altare) e Ugo Bemasconi a« decorazione murale». La terza sezione, dedicata al ferro battuto, era invece retta da Alessandro Mazzucotelli assistito da Gino Manara che, dal­ l'anno accademico 1923-1924, assumerà anche la direzione del­ l'intera scuola, la quale se era sorta ad anticipazione della Riforma. Gentile ( ed autorizzata con un Regio Decreto il 30 gennaio 1922, perfezionato il 23 febbraio con la denomina­ zione. Università delle Arti Decorative) verrà proprio allora riconosciuta ufficialmente come ISIA ( Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) e dedicato a Costanzo Ciano. L'artista del ferro battuto, anch'egli già docente all'Uma­ nitaria, indirizzò la scuola sulla scia della sua raffinata, deca­ dente• interpretazione del floreale. Ne .sono testimonianza i

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lavori degli studenti pubblicati sulle riviste del tempo e pre­ sentati anche alle Biennali. Tra gli insegnanti di questo primo ciclo, Arrigo Andreani (composizione decorativa ), Paolo Maggi (scenografia e tecno­ logia), Guido Lieti e ancora Luigi Pasetti (intaglio), Eugenio Bajoni (plastica), Temistocle Antonicelli (disegno), Augusto Calabi (storia dell'arte), tutti licenziati al cambio di direzione, quando le avvisaglie di una crisi economica - endemica, come si vedrà - farà sostituire anche gli addetti al Convitto con le suore della Congregazione Religiosa delle Serve di Gesù Cristo. Il Convitto e l'attività a tempo pieno (la giornata di studio e di lavoro è di 7 ore giornaliere) rappresentano altre due valenze costanti della scuola di Monza che puntava ad un'elaborazione comune tra studenti e docenti e a rispondere anche a commesse esterne per un più diretto impatto con il mondo del 'lavoro. :t:: la cattiva amministrazione - ma fors'an­ che il superamento dell'ormai « maturo » Liberty e di espres­ sioni ancora legate ad ipoteche folcloristiche in vista dei muta­ menti linguistici in corso - che porta ufficialmente alla no­ mina di un Commissario straordinario, il senatore Giuseppe Bevione (lo stesso che resse l'organizzazione della IV Trien­ nale, presentatario anche della legge del 2 luglio 1929 che statalizzava la manifestazione portando allo scioglimento del CMMU, il Consorzio Milano-Monza-Società Umanitaria), e alla chiamata a Monza di Guido Balsamo Stella, a quel tempo ( dicembre 1928) alla direzione dell'Istituto d'Arte di Padova. Accentramento delle direttive artistiche e stilistiche nella direzione... tendere ad ottenere col tempo una perfetta unità di stile di tutta la scuola, dando la massima importanza al laboratori... Per i corsi superiori: insegnamento quasi esclu­ sivamente pratico. Sono alcune delle indicazioni dell'artista in una lettera ( da Padova, 20 dicembre 1928): rifletto con viva simpatia sulla eventualità di accettare il posto, ove possa essermi assicurato un trattamento pari alle responsabilità ed attività a questo inerenti e l'Istituto dotato in modo da po­ tere, fra qualche anno, giustificare il titolo assunto. Dal 1929, così, Guido Balsamo Stella assume la direzione dell'ISIA: formatosi a Monaco e a Stoccolma, buon conosci-


tore delle esperienze straniere - francesi ma soprattutto « nordiche », che seppe immettere nella cultura italiana -, chiamò intorno a sé alcuni protagonisti italiani dell'architet­ tura, dell'arredamento, della decorazione, inimicandosi però il corpo docente. A lui si deve il coinvolgimento, anche se per un solo anno, di Arturo Martini (1929-1930), a cui subentrerà Marino Marini (a Monza fino al '40, quando sarà nominato all'Accademia di Belle Arti di Brera), dell'orafo Ravasco, di Pio Semeghini, di Mario Vellani Marchi. Le sezioni aumentano e si aprono anche quelle (solo femminili) di ricamo e tessitu­ ra, dirette da Anna Balsamo Stella, con Margherita Kronberg e Anita Puggelli come insegnanti: loro scopo era preparare... 'autorevoli' collaboratrici nell'arredamento moderno della ca­ sa (Carlo A. Felice, in « Domus », 1931). Nel 1929 si parla an­ che di una sezione del cuoio e curiosamente se ne trova trac­ cia in un carteggio tra Gio Ponti, Mazzucotelli e la Federazio­ ne degli Artigiani. Vivo e contrastato, il triennio della dire­ zione Balsamo Stella vide il dissenso di alcuni docenti far promuovere ispezioni, mentre i pettegolezzi sulla correttezza del comportamento degli insegnanti (Martini ma anche lo stesso direttore) riempiono pagine di verbali, sottraendo spa­ zio ad analisi e dibattiti sui programmi, di più sicuro inte­ resse, almeno per i posteri. Quattro i corsi che l'ISIA propone, in questo periodo: il primo, preparatorio, ha un anno di durata, cui seguono tre « di specializzazione » che si concludono con un ·diploma di maestro d'arte specializzato o capo laboratorio. Il biennio «superiore » licenzia poi gli allievi come insegnanti d'arte decorativa, libero professionista o dirigente per la produzione artistico-industriale permettendo anche l'accesso ad un ul­ teriore «perfezionamento» - anch'esso biennale - che si conclude con un attestato per documentare la perizia tecnica ed artistica raggiunta e comprovata nelle esercitazioni di la­ boratorio. E i laboratori si sono moltiplicati: ebanisteria, scultura, intaglio in legno, scultura decorativa in pietra, cera­ mica, forgiatura del ferro, •lavorazione dell'ottone, arte del­ l'argentiere, decorazione pittorica, tessitura e ricamo. Di par­ ticolare interesse - a dimostrazione ancora una volta di un'at- 33


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tenzione per il mondo del lavoro - i «corsi liberi», per gli artefici e gli artisti che abbiano compiuto il diciassettesimo anno di età: la frequenza diventa per costoro obbligatoria solo per i laboratori della sezione prescelta e per quelle materie culturali e grafiche di stretta attinenza con essi. L'orario gior­ naliero è però aumentato a otto ore, in un calendario che inizia il 1 ottobre e si conclude il 30 giugno: da 30 lire annue a 300 la tassa d'iscrizione, tutti i materiali a carico dello stu­ dente. La scuola -e sarebbe -un'altra indagine da fare - con­ tinua anche a lavorare per conto terzi ed esegue, ad esempio, le lampade per la Cappella del Collegio Bianconi di Monza. Nel 1931 l'Istituto Superiore Industrie artistiche della Villa Reale di Monza si presenta con i propri«saggi scolastici » alla Galleria Milano, nel capoluogo lombardo: la mostra rappre­ senta l'apogeo della direzione Balsamo Stella, commiss!l,l"io straordinario della scuola Giulio Barella (amministratore an­ che de«Il Popolo d'Italia», presidente poi della V e VI Trien­ nale), vice-direttrice Anna Balsamo Stella, docenti (tra i venti citati nel colophon del catalogo rinvenuto nell'archivio di Gio­ vanni Pintori) Tommaso Buzzi (disegno architettonico), Raf­ faele De Grada (disegno di ornato libero), Marino Marini (pla­ stica decorativa), G. Posem (ceramica), Pio Semeghini (disegno di figura e animali), Ugo Zovetti (piccola decorazione pitto­ rica), Natale Vermi (argento). Lusinghiere le recensioni, da - naturalmente _; «Il Po­ polo d'Italia ,. a e Il Corriere della Sera» a e Il Secolo · La Sera». La«modernità dell'atmosfera estetica» e «la schietta latinità del substrato creatore ,. sono le due valenze unifor­ memente rilevate. Carlo Carrà, dalle pagine de. «L'Ambrosiano» (15 giugno 1931), valutando questi saggi e una completa esposizione d'arte decorativa», muove però delle obiezioni gestionali alla scuola: i problemi urgenti da risolvere sono tre: siste­ mazione giuridica che disciplini l'ordinamento e ne riconosca l'alta funzione educativa; sistemazione finanziaria che ne ga­ rantisca la stabilità; trasportare a Milano l'Istituto. Anche«The Studio » - nel suo numero di maggio di quell'anno -, a firma del direttore Holme, si occupa di Monza



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e sostituendo gran parte del corpo insegnante. Anche la sop­ pressione delle sezioni di scultura e intaglio in legno, tessi­ tura, ricamo e piccola decorazione è motivata dal punto di vista della produzione e degli « indirizzi estetici dominanti ». Il coordinamento degli insegnamenti, scanditi per « blocchi ,. anche all'interno degli spazi della Villa; una particolare attenzione al contemporaneo (specificata nei programmi di storia e storia dell'arte); visite a stabilimenti, officine, studi; conferenze di ogni tipo (dai linguaggi delle contemporanee correnti artistiche ai nuovi sistemi di lavorazione dei mate­ riali, all'organizzazione scientifica del lavoro); proiezioni ci­ nematografiche su temi settoriali (lavorazione delle materie, posizione dell'operaio al lavoro); organizzazione di una biblio­ teca, di un archivio fotografico, di « raccolte tecnologiche e merceologiche ,. sono i punti salienti di un progetto, in buona parte realizzato, che prevede anche una continua messa a punto delle attrezzature da parte di un « ufficio tecnico». Sotto la direzione di Palazzo (che conoscerà anch'essa problemi di bilancio e difficoltà economiche) l'ISIA di Monza vede sancito il suo carattere internazionale: sedici docenti, quattro capi laboratorio, due assistenti lavorano con alunni provenienti non solo da ogni parte d'Italia ma anche dal­ l'estero (Germania, Svizzera, Lettonia, Lituania ...). Frequenti le. visite di delegazioni straniere: lo testimoniano anche al­ cune lettere, tra cui quelle del direttore del College of Art . di Edimburgo e del direttore del Board of Education di Whitehall (Londra). Sono gli anni in cui insegnano a Monza Marcello Nizzoli ( grafica pubblicitaria), Giovanni Romano ( l'arte del mobile), Giuseppe Pagano ( critica d'arte), Agnoldomenico Pica ( sto­ ria dell'arte) e Persico vi tiene delle conferenze: e questi sono solo i nomi dei docenti più legati ad un fare proget­ tuale che si concretizza nelle tensioni del dibattito raziona­ lista. Ma andrebbero ricordati anche Umberto Finelli, Gio­ vanni Vergelio, Aldo Salvadori. Qualità, quantità, tempo sono le tre valenze che gli stu­ denti devono arrivare ad acquisire nella metodologia progettuale in relazione alle materie prime e In genere ai consumi. ·



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1936 al 1938) dove anche il suo conterraneo Giovanni Pintori - tra gli antesignani del visual design italiano - lavorerà dallo stesso anno, diventandone direttore artistico nel '50: a Monza il loro incontro con Nizzoli, Persico, Pagano. La chiusura della scuola, imposta nel 1943 dalla guerra e fors'anche da non nuove difficoltà finanziarie, i rimpianti e i dibattiti per riaprirla già nell'immediato dopoguerra hanno rappresentato un lungo intervallo durante il quale si sono succeduti numerosissimi, pregnanti avvenimenti che hanno sancito l'affermazione del design italiano, sempre in assenza di un momento scolastico specifico. Con l'apertura nel 1967 di un istituto, costretto però nei ranghi delle scuole medie superiori, la nuova chiamata nelle aule della Villa Reale di professionisti milanesi da parte del direttore Mario Tevarotto, l'ultimo presidente dell'MSA (Movimenti Studi d'Architettura), si è voluto riaffermare una continuità; e la sperimentazione, ottenuta ad apertura degli anni Ottanta dal nuovo direttore, Maria Anna Criscione, per un Dipartimento per la Comunicazione Visiva, il Design e l'Ambiente (DCVDA) è stata il riconoscimento ministeriale della pregnanza dell'attività che vi si svolge, in attesa della richiesta riapertura dell'ISIA. Il corso sperimentale, frequentato ormai da una popola­ zione scolastica che ha superato le mille unità e che proviene da un bacino d'utenza non solo lombardo - quasi ad ulte­ riore conferma di una mantenuta qualità didattica - è ora scisso nei due settori della comunicazione visiva e del design per l'industria e l'ambiente, articolandosi in un biennio pro­ pedeutico e in un triennio preprofessionalizzante: l'area della progettazione è il cuore di un sistema che vede ruotare in­ torno a sé altre tre aree omogenee, la linguistica, la mate­ matico-scientifica, la visivo-percettiva. Vi insegnano, tra gli altri, A. G. Fronzoni, Alfonso Grassi dello studio MID, Ugo La Pietra, Paolo Nava, Nanni Valentini, Massimo Dradi, Nar­ ciso Silvestrini, Maurizio Vitta e chi scrive. E se certo la problematica odierna è del tutto diversa da quella degli anni Venti e Trenta forse si può affermare che la storia di Monza non è finita: è però un'« altra» storia.




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