Op. cit., 65, gennaio 1986

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della <;ritica d'arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: . Roberta Amirante, Livio Sacchi, Sergio Villari Segretaria di redazione: Roberta Amirante Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 7690783 Amministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Giordani, 32 - Tel. 684211

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Edizioni « Il centro » di Arturo Carola


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R. DE Fusco

Verso un nuovo "ismo" architettonico

A. D'AURIA

Vanità della fiera? appunti sul Salone del m��

L.

Le "riflessioni" dipinte

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Libri, riviste e mostre

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MOSCATO ESPOSITO

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Laura Cherubini, Gabriella D'Amato, Benedetto Gravagnuolo, Livio Sacchi, Sergio Villa ri .


La rivista si avvale del contributo eco11omico dei seguenti Istituti ed Aziende:

AgorĂ Alessi Banco di Napoli Camera di Commercio di Napoli Driade Informatica Campania Knoll International Design Riam Zen Italiana


Verso un nuovo "ismo" architettonico· RENATO DE FUSCO

Le più recenti esposizioni, i libri, le riviste e tutto quanto concerne la cultura architettonica, benché sorretti da un apparato promozionale tra i più efficaci, confermano non solo una profonda crisi ma soprattutto un ristagno di idee, le poche in circolazione essendosi incanalate in vie senza uscita. Se molte cause dell'attuale situazione culturale sono note e imputabili a fattori più generali, alla vicenda politico-econo­ mica, alla « forza delle cose », esistono anche fattori negativi nello stesso specifico campo della ricerca architettonica. In quest'ambito, per così dire, sovrastrutturale, è assai proba­ bile che, per contribuire a determinare una svolta che molti si attendono, qualche fantasioso autore ben presto ci annun­ cerà la nascita di un nuovo « ismo,. architettonico. Prima che ciò si verifichi, vorrei esporre alcune considerazioni af. finché tale evento nasca su basi più ragionevoli e condivise rispetto alle ultime tendenze. Non si tratta di proporre un manifesto o un programma prefabbricato, né di tradurre in architettura una scoperta della sociologia (com'è avvenuto con il Post-industriale), tanto meno di fare profezie, ma di « progettare » un orientamento dell'architettura per i prossimi anni. Infatti, pensare ad una nuova tendenza architettonica, per quanto operazione teorica* Questo saggio raccoglie, opportunamente modi"fìcato, un gruppo di articoli a.pparsi ne "Il Messaggero" dall'ottobre al dicembre dello scorso anno.

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mente piì.1 complessa, appartiene alla stessa attività mentale che entra in gioco in ogni altro tipo di progettazione, da quella di un piano territoriale a quella di un singolo edificio. Ovvia­ mente tale «progetto » non può farsi in questa sede, nella quale mi propongo solo cli indicare alcuni punti del dibattito architettonico in corso da rimuovere o da rivedere; di stabi­ lire alcune premesse perché si possa procedere « verso » una nuova architettura. Cominciamo col notare che, mentre tutti gli altri settori dell'industria culturale non hanno mai perduto il contatto con il pubblico, anzi si sforzano di coglierne i bisogni fino al punto di crearne di nuovi, l'architettura più recente, sul mo­ dello delle avanguardie figurative, sta chiudendosi in un pro­ prio recinto donde sono espulsi i temi pratici contemporanei e le istanze più elementari della gente. Va detto per inciso che se l'ermetismo delle avanguardie, il loro fare e disfare tendenze, la breve durata di quest'ultime, ecc. erano in gran parte artifici volti a richiamare sulle esperienze figurative l'interesse di un pubblico distratto, erano giustificati da una domanda di artisticità certamente più ridotta rispetto al passato, la «chiusura» dell'architettura non può spiegarsi in questo senso perché per essa la domanda non è mai mancata ed è anzi sempre crescente. All'impopolarità della nostra di­ sciplina contribuiscono senza dubbio il carattere prettamente individuale delle ricerche, l'ambizione cli distinguersi a tutti i costi, la fabbrica o il quartiere « firmato » come un quadro, una scultura, un prodotto d'alta moda. Certo, qui non si rimpiange quell'orientamento « realisti­ co » degli anni '50 e '60, quando prima di progettare un pol­ laio si richiedevano indagini economiche e inchieste socio­ logiche, ma va notato che la giusta esigenza, manifestatasi un decennio più tardi, di concentrare tutto l'interesse sugli aspetti specifici della disciplina si è spinta tanto oltre da produrre una sorta di autopromozione dell'architettura dal novero delle arti applicate a quello delle arti pure, che ovvia­ mente non giova affatto alla vitalità del discorso architetto­ nico. Quando si arriva a sostenere che l'architettura si muove indipendentemente o addirittura contro l'urbanistica, che la


funzione è un fattore trascurabile, che un edificio disegnato equivale ad uno costruito, ecc., a chi importa più dell'archi­ tettura oltre la cerchia degli addetti ai lavori? Che cosa ri­ darà fiducia alla figura professionale dell'architetto, propo­ stasi poco tempo fa come quella di un politico radicale o di un assistente sociale ed oggi come quella di un archeologo eclettico o di uno stilista di moda? Comunque, quali che siano le mutevoli vocazioni degli architetti e le loro sofisticate ma­ nifestazioni espressive, tutto ristagna nell'ambito di una cer­ chia elitaria. Ma anche in questa, quando ci si è schierati pro o contro quel paio di poetiche oggi in voga, statiche e peren­ torie, che altro resta da dire? Fino a che punto può sostenersi un« fare» architettonico che trova la sua sola ragion d'essere nella polemica contro il fantasma del Razionalismo? Insom­ ma, la latitanza degli architetti di fronte ai problemi pratici contemporanei, oltre al divario a forbice tra la nostra disci­ plina e la realtà socieconomica, trova un puntuale riscontro nella povertà delle loro stesse ricerche linguistico-formali. E tuttavia occorre far rivivere, non dico un passato entusia­ smo civile e morale, ma almeno quel tanto di attaccamento all'architettura sufficiente per una corretta pratica professio­ nale e per gestire meglio il pur complesso apparato dell'Uni­ versità, degli studi di progettazione e di ricerca, dell'editoria e della pubblicistica di settore. Una via d'uscita e al tempo stesso una premessa per una nuova tendenza architettonica - senza attendere una più ra­ dicale svolta imposta dalla « forza delle cose» - potrebbe essere la riappropriazione da parte della nostra disciplina di molti temi oggi affidati ai politi�i e agli amministratori, dalla revisione degli standard urbanistici ed architettonici ai popo­ lari problemi dell'equo canone e del condono edilizio. In questo modo la corporazione degli architetti riacquisterà al­ meno la forza di un gruppo di pressione, avendo dalla sua la grande domanda del mercato e le istanze dell'intera sfera so­ ciale. Ma se la riconquistata popolarità è condizione neces­ saria, essa non è sufficiente. Perché si possa « progettare» una tendenza per l'architet­ tura di domani è indispensabile rivedere altre posizioni, ri- · 7


muovere altri ostacoli. In sintesi, gli architetti dovranno mi­ gliorare un'altra serie di « cattivi rapporti». Segnatamente la loro ignoranza dei dati di fatto, la loro relazione col mondo tecpologico e persino quella che cosl maldestramente hanno instaurato con la storia.

Ideologia e dati di fatto

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Per dato di fatto è da intendere un elemento certo, del cui valore è impossibile non tener conto nello svolgere qualsiasi attività. Quelli riguardanti l'architettura vanno dai condizio­ namenti socioeconomici alle norme urbanistiche e edilizie, dagli strumenti di produzione alla situazione topografica entro la quale si inserisce ogni fabbrica. Tutti sanno che in passato, tranne alcune eccezioni, la produzione architettonica è stata sempre fedele alle circostanze, alla domanda di una committenza per lo più autorevole, alle possibilità offerte dalla tecnica, alle prescrizioni, ecc., donde il rispecchiamento nell'architettura della vicenda storico-sociale. Viceversa da qualche tempo in qua, da quando cioè la figura dell'architetto cedeva il suo prevalente carattere di magister ad uno più intellettuale, ovvero da quando l'ideologia ha prevalso sul «mestiere», nell'etica e nel costume di questa categoria pro­ fessionale si è spesso tentato non di superare le difficoltà poste dai dati di fatto, bensì di effettuare una loro radicale rimozione. Di fronte ad un bando di concorso, ad esempio, ad un regolamento edilizio e a qualunque cosa che sia codi­ ficata, il primo impulso dell'architetto è quello di mettere in dis'cussione tali condizionamenti. Certo, alcuni di questi sono giustamente criticabili, altri possono positivamente trasformarsi in tempi più o meno lunghi, per cui è spesso utile revocarli in dubbio e d'altra parte molte cose giustificano la critica mossa alle istituzioni; ma in generale l'ideologismo ha generato il cattivo rapporto della cultura architettonica coi dati di fatto, segnatamente con quello socioeconomico. � noto che la proprietà privata, l'economia di profitto, il contrasto tra interesse pubblico e privato sono alla base di


molti fallimenti dell'urbanistica e dell'architettura contem­ poranee. Ma come spiegare che in altri campi - e penso in particolare a quello dell'industriai design, per citarne uno più vicino alla nostra disciplina - questi fattori esistono appunto come dati di fatto e non impediscono lo sviluppo e la produttività? Quando verrà tradotto in architettura (quella beninteso che è manifestazione di cultura e non di asservito professionalismo) un modo di pensare ormai con­ diviso da tutti, da destra come da sinistra, che i concetti di « privato » e di « profitto» hanno anche un loro risvolto po­ sitivo? Quando ci renderemo conto che in molti casi il com­ portamento di alcune istituzioni pubbliche - delle quali un tempo pensavamo tutto il bene possibile in opposizione a quelle private - si è rivelato nonché scorretto anche ineffi­ ciente? Siamo ancora convinti che la cultura architettonica (('spressione che comprende la produzione delle opere, i di­ scorsi da laboratorio degli architetti, le poetiche, la critica, le associazioni per la tutela dei monumenti e dell'ambiente, ecc.) sia congenitamente un fenomeno di contestazione? Che essa da sola sia in grado di salvare il mondo e, non riu­ scendovi, che non se ne debba addirittura occupare? Come non accorgersi che gli strumenti di produzione, pubblici o privati che siano, rispondono ad una stessa logica, che co­ stituiscono appunto un dato di fatto col quale bisogna quo­ tidianamente confrontarsi ma non necessariamente scontrarsi? Lascio ad altri più esperti di economia la risposta a questi interrogativi, qui limitandomi ad una sola certezza, quella cioè che l'architettura, arte applicata per antonomasia, è un'attività di servizio ed inevitabilmente al servizio di qual­ cuno: Io stato, le chiese, le istituzioni, le corporazioni, il più vasto pubblico purché questo riesca a costituirsi in gruppi aventi, quale che sia, un peso politico e/o economico. Ma se queste realistiche quanto amare constatazioni valgono a smentire l'ideologismo di tanti architetti, esse vanno ulte­ riormente elaborate perché diventino indicazioni utili al « progetto» di una nuova tendenza architettonica. A tal fine, limitandomi solo ad un cenno, bisognerebbe cominciare a considerare i condizionamenti esterni· non solo e non tanto 9.


come insormontabili remore quanto piuttosto come « materia prima », per così dire, del fare architettonico. In altre parole, se i dati di fatto verranno intesi come insieme di fattori invarianti esterni all'architettura, punti di riferimento e quindi parte della stessa domanda sociale, bisognerà trovare una corrispondente risposta all'interno della nostra disci­ plina. Un esempio è già riscontrabile nella nozione di tipo­ logia. Essa è pertinente il nostro discorso essendo per sua natura normativa e in pari tempo in grado di dare poten­ zialmente una risposta prevedibile ed obiettiva ad ogni sorta di domanda. Notiamo per inciso che con molte probabilità l'architettura di domani sarà fortemente caratterizzata in senso tipologico perché molto differenziata sarà la domanda (più ampia articolazione dell'edilizia residenziale, più vasta gamma di edifici industriali, maggiore segmentazione dell'ar­ chitettura per l'istruzione, moltiplicarsi dei tipi di strutture per il terziario, ecc.). Ma, oltre l'esempio tipologico, il compito di introitare i dati di fatto resta uno dei principali per l'archi­ tettura del futuro e uno dei modi più efficaci per uscire dalla crisi attuale, dovuta in parte, come s'è detto, ad una errata impostazione ideologica. In sintesi, dovrebbe essere possibile far sì che i dati di fatto da punto di partenza diventino punti di arrivo. A chi non condivide queste indicazioni, non coglie il tra­ vaglio creativo nel trasformare le remore in norme attive, non vede in esse se non la riproposta della vecchia massima di fare di necessità virtù, fino a giudicare ovvio il richiamo ai dati di fatto, replico che anche questa interpretazione così riduttiva del mio scritto ha un senso: ammessa e non con­ cessa l'ovvietà di tale richiamo, essa è un segno dei tempi e assume un significato in una stagione culturale che prefe­ risce surrettiziamente l'effimero al duraturo, la fantasticheria alla razionalità. Dalla tecnologia al linguaggio 10

Che la cultura architettonica più recente, tranne le solite eccezioni, abbia un cattivo rapporto con la tecnologia appare


indubbio. Sarà il rimpianto di un tempo nel quale la nostra disciplina era all'avanguardia della tecnica, sarà l'infelice parto gemellare architetto-ingegnere, sarà l'indecisione del­ l'architettura a schierarsi con le cosiddette scienze dello spi­ rito o con quelle della natura, ecc., è certo che questa serie di problemi o falsi problemi ha contribuito a · relegare la nostra professione in una posizione di isolamento, di arretra­ tezza, di inavvertita storicità. È assurdo pensare come le stesse società avanzate siano ancora afflitte da irrisolti pro­ blemi quali la mancata pianificazione urbanistica, la delu­ dente industrializzazione edilizia, la crisi degli alloggi, il caos del traffico e simili, mentre la tecnologia in altri campi, aventi minori pretese ideologiche, ne ha risolti di ben più complessi, magari con tanto zelo da crearne di nuovi. Sul rapporto fra architettura e tecnologia è interessante citare un passo di Peter Blake, scritto negli stessi anni in cui in Italia si pole­ mizzava nel modo più sterile sui centri storici, si moralizzava contro la speculazione edilizia, ci si imbrogliava in una legi­ slazione urbanistica in gran parte responsabile dell'attuale paralisi nel settore delle costruzioni. « Conosciamo tutti, nota Blake, i progetti 'visionari', proposti in varie occasioni, da gente come Cedric Price e altri Archigrammisti. Ora, tutti sanno che le loro idee sono completamente assurde. Come può un individuo sensato proporre edifici o città mobili? Tutti sanno che proposte simili rasentano la follia; ma qual­ cuno ha dimenticato di dirlo a quei pazzi patentati di Capo Kennedy, e così quelli sono andati dritti per la loro strada e hanno costruito enormi strutture mobili, senza sapere che quello che facevano non si poteva fare ». Con lo stesso accen­ to Blake parla di un altro famoso caso: « Consideriamo la brillante proposta avanzata da Kenzo Tange parecchi anni fa per espandere la città di Tokio sulla sua baia... Tutti sospet­ tavano che si trattasse di una idea folle. Ma qualcuno ha dimenticato di dirlo alla Freeport Sulphur Co., e così la Freeport si è costruita un paio di città minerarie nel golfo del Messico, dieci o quindici miglia lontane dalla costa, lunghe mezzo miglio l'una ... È semplicissimo, ma è chiaro che nel campo dell'Architettura Maggiore e del Dipartimen-

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produzione risultano in definitiva sempre ripagati. Anche qui, per risolvere radicalmente il problema dell'industrializzazione, si dovrebbe ipotizzare un'architettura svincolata dal luogo, dalla situazione topografica entro la quale si edifica. Bisogne­ rebbe cioè rendere l'intero organismo architettonico omoge­ neo a tutti gli altri prodotti industriali che, fabbricati in spe­ ciali officine, si possono poi utilizzare altrove collocandoli ovunque. Ma se ciò può sembrare una utopia - e l'errore di considerare la tecnologia come matrice di visioni utopiche è assai frequente -, parliamo di una industrializzazione che non investe l'intero organismo architettonico ma solo alcune sue parti. In quest'ottica di microindustrializzazione, la tecno­ logia non va vista né come un puro mezzo, né come un tota­ lizzante fine, ma come autonomo sistema esterno all'archi­ tettura da introitare parzialmente in quest'ultima. Perché ciò sia possibile, gli spazi, le componenti, gli elementi architetto­ nici andrebbero articolati, tra l'altro, secondo le possibilità offerte dalla tecnologia e tutti questi « pezzi » assemblati e composti secondo regole combinatorie dettate, oltre che da altre cause, anch'esse dal potenziale tecnologico. In altre e più conclusive parole, poiché abbiamo chiamato in causa elementi e regole combinatorie - fattori propri di ogni tipo di linguaggio - l'assunzione della tecnologia da parte del­ l'architettura dovrebbe effettuarsi prevalentemente sul piano linguistico. A sua volta tale linguaggio, oltre a valere per le sue qualità confonnative e espressive, servirà ad orientare l'industria �egli elementi e componenti. Cosicché il passag­ gio dalla tecnologia all'industrializzazione avverrà attraverso l'esperienza del linguaggio architettonico. Uso ed abuso della storia È possibile modificare il malinteso senso della storia nu­ trito oggi dagli architetti in una concezione della stessa, criticamente meglio fondata e più utile al « progetto ,. per l'architettura di domani? Sul rapporto storia-progettazione si è versato un fiume d'inchiostro, e da esso sono nate le più recenti correnti archi-

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tettoniche e si è persino costruito qualche edificio. In linea di massima va detto che l'interesse dei progettisti per la storia, ivi comprese le sue distorsioni, è complessivamente positivo. Basti pensare a quanto ha scritto Dewey in fatto di valori e valutazioni: « In base alla continuità delle attività umane personali e associate, la portata delle valutazioni pre­ senti non può essere validamente stabilita fino a che esse non sono inserite e viste nella prospettiva dei passati eventi (il corsivo è mio) di valutazione con i quali sono continue. Senza di ciò la prospettiva futura, cioè le conseguenze delle presenti e nuove valutazioni è indefinita». Anche quegli au­ tori che considerano la storia diversamente, ossia come una serie di eventi discontinui, non negano l'utilità dell'esperienza storica nelle azioni presenti. Ma accantoniamo queste diverse concezioni filosofiche della storia per accennare al « cattivo rapporto,. che, nei tempi più recenti, l'architettura ha stabi­ lito con essa. Tale rapporto può datarsi dal noto programma di Gropius di bandire l'insegnamento della storia dalla sua scuola, per il timore (rivelatosi poi fondato) che questa di­ sciplina venisse utilizzata dagli architetti come una sorta di repertorio di modelli da copiare. Con la fine del Razionalismo questo ostracismo verso la storia aveva termine, anzi per combattere tale tendenza lo storicismo veniva assunto come una bandiera; una bandiera in verità venuta via via logoran­ dosi senza molto onore dei relativi alfieri. Infatti, se con Kahn, che può considerarsi il suo iniziatore, lo storicismo attuale non ha disdegnato il« progetto moderno», man mano esso è venuto sempre più regredendo verso stilemi passati, l'eclettismo di ogni tempo e paese, il culto del dettaglio e della manualità artigianale. Quando, sulla scorta della socio­ logia, gli architetti hanno dato una versione del post-moder­ nismo, l'immagine che ne è risultata, come molti hanno detto, è piuttosto pre-modema. Certo, è facilmente comprensibile come, di fronte a tante occasioni perdute dal «moderno», al suo ideologismo, alle sue velleità, ecc., il pubblico prima e gli ·architetti poi abbiano sempre più apprezzato aspetti delle fabbriche e delle città del passato. t-:. altrettanto comprensibile come, di fronte a tante esperienze della « tradì-


zione del nuovo », consumatesi con una rapidità senza prece­ denti, molti architetti abbiano pensato di recuperare forme e tipi rimasti inutilizzati. Ma in ogni caso si tratta di uno storicismo ingenuo, non solo e non tanto perché cita testual­ mente brani di architettura antica, pretende di imporre ele­ menti appartenenti ad altre stagioni e civiltà, quanto soprat­ tutto perché esso si esprime in contrasto con la storicità del presente. In altre parole, i rifacimenti storicistici, restando meramente formali, non si addicono all'attuale tecnica co­ struttiva, non rispondono alla domanda del pubblico, sono estranei ai nostri usi e costumi. Con buona pace dei ben­ pensanti, alcune affermazioni e previsioni dei futuristi, il precetto corbusiano della « casa come macchina per abitare», per ricordare solo qualche orientamento del Movimento Mo­ derno, più o meno direttamente, sono entrati nella mentalità comune, hanno anticipato appunto l'attuale storicità; è evi­ dente allora che poco o nulla può fare contro i suddetti orientamenti la rivendicazione da parte degli architetti della libertà di ispirarsi a fabbriche di ogni tempo e paese. In effetti, il rapporto fra storia e progettazione, come si ricava dall'esperienza del passato, non è stato mai così esplicito e diretto, bensì più mediato e profondo. Prima di far cenno a questo secondo e più fondato rap­ porto, chiediamoci qual è l'effettivo spartiacque tra uso ed abuso della storia da parte del moderno fare architettonico. Una prima risposta sulla direzione positiva è stata già impli­ citamente data: è lecito riproporre temi e soluzioni di passate esperienze sempre che queste rispondano alla domanda del mercato, alle attuali convenienze produttive, alle moderne funzioni. Oltre a ciò, sembrerebbe legittimo riprendere dal patrimonio storico molte indicazioni tipologiche: in urba­ nistica, ad esempio, i vari tipi di piazze, di percorsi porticati, di gallerie in ferro e vetro, ecc.; in architettura, i vari tipi di case a schiera (rimasti pressoché costanti in ogni epoca), quelli di case a piccole e grandi corti, gli schemi delle ville e degli stessi palazzi rinascimentali, ecc. Ma, per quanto le riprese tipologiche consentano, grazie al loro carattere inva­ riante, un più corretto uso della storia rispetto alle arbitrarie

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riprese di stili e di forme, non è possibile stabilire la norma per cui sempre le riprese tipologiche costituiscono un cor­ retto uso della storia mentre quelle morfologiche un abuso della stessa. Il vero spartiacque fra questi due comportamenti si ricava, a mio avviso, grazie alla concezione linguistica del­ l'architettura. Come ho sostenuto nel precedente paragrafo, ogni sorta di linguaggio, ivi compreso quello dell'architettura, può strut­ turalmente considerarsi formato da elementi costanti e da regole combinatorie. Tali elementi e regole da soli non pos­ sono costituire un messaggio. Un evento storico, un «mes­ saggio», (nel nostro caso) un edificio è invece costituito da una particolare, unica e irripetibile combinazione di elementi. Ora, finché il progetto di una fabbrica attingerà dalla storia compiute conformazioni, «eventi», esso riprenderà, ripeten­ doli passivamente, precedenti «messaggi» e avrà un marchio storicistico, eclettico, revivalistico. Se, viceversa, la progetta­ zione attingerà dalla storia elementi costanti e regole combi­ natorie, ossia tutto quanto non si configura come un mes­ saggio, essa avrà individuato termini del sistema linguistico, fattori strutturanti la lingua architettonica, che potranno essere utilizzati nel programmare una nuova fabbrica, anco­ rata sì alla tradizione storica, ma del tutto inedita, in quanto nuovo messaggio, per ciò che conforma e comunica. Questo secondo modo di guardare alla storia è, a mio parere, il più corretto, il solo in grado di affrancarci dall'attuale eclettismo storicistico e il più idoneo al «progetto» di una nuova ten­ denza architettonica. Processo e sistema

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La serie di considerazioni finora svolte, muovendo dalla critica del dibattito in corso e proponendo alcune nuove soluzioni, ha inteso essere un programma di ricerca per l'ar­ chitettura dei prossimi anni. A voler riassumere tale pro­ gramma, ho finora indicato un unico principio per risolvere i vari problemi trattati. Così i «dati di fatto», esterni all'architettura, dovrebbero essere introitati da questa; la


tecnologia avanzata, costituente anch'essa un autonomo ed esterno sistema, dovrebbe entrare a far parte della stessa; il patrimonio storico, che è pure a sé stante, dovrebbe rien­ trare, utilmente orientandolo, nel fare architettonico. Tutte queste assunzioni nell'architettura di fattori esterni sono pos­ sibili, oltre a quanto suggerisce il senso comune (è impensa­ bile infatti che una produzione costruttiva non tenga conto dei dati socioeconomici, della tecnica, dell'esperienza storica), grazie alla concezione linguistica dell'architettura. Riferia­ moci in questa sede al solo rapporto fra storia e progetta­ zione, ma lo stesso metodo può valere anche per i fatti sociali e quelli tecnologici. Il metodo architettonico-linguistico cui mi riferisco si basa su un assunto fondamentale dello strutturalismo, il rapporto cioè tra processo e sistema. Come ha scritto anni fa il lingui­ sta ed epistemologo Hjelmslev, «a priori sembrerebbe gene­ ralmente valida la tesi che per ogni processo c'è un sistema corrispondente in base a cui il processo può essere analizzato e descritto per mezzo di un numero limitato di premesse. Bisogna presupporre che qualunque processo possa essere analizzato in un numero limitato di elementi che concorrono in varie combinazioni. .. Dovrebbe inoltre essere possibile co­ struire un calcolo generale ed esauriente delle combinazioni possibili ». In tal modo si formulerebbe una teoria in cui « tutti gli eventi (combinazioni possibili di elementi) sono previsti, e le condizioni della loro realizzazione stabilite». Ecco allora che se il processo, nel nostro caso la storia del­ l'architettura, viene studiato in un certo modo si riconosce il soggiacente sistema, nel nostro caso, un codice, una struttura, un modello utile alla previsione progettuale. In particolare, dal rapporto processo-sistema possiamo ricavare: a) gli «eventi», ossia le opere realizzate; b) gli «elementi» archi­ tettonici o grammaticali; c) le «regole combinatorie» o sin­ tattiche. Evidentemente per un sistema progettuale non sono gli eventi - variabili, unici ed irripetibili - che contano, bensì gli elementi e le regole combinatorie perché sono ripe­ tibili ed invarianti. Quali esempi delle suddette invarianti ricordiamo: nel

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codice dell'architettura classica, elementi sono le parti degli ordini (colonne, capitelli, architravi, ecc.), i pilastri, gli archi, le volte, le varie forme di aperture e di coperture; regole combinatorie sono la disposizione degli elementi negli ordini, la posizione di ciascun ordine rispetto agli altri, l'unione colonne-architrave e pilastri-arco, il raccordo di una super­ ficie piana con una a cupola, ecc.; nel codice dell'architettura razionalista (la sola fra le tendenze moderne per cui è lecito parlare di un codice), gli elementi sono i pilotis, la facciata libera, la finestra in lunghezza, gli angoli svuotati di Gro­ pius, ecc.; mentre le regole combinatorie possono considerarsi i cinque punti di Le Corbusier o, meglio, il principio che li lega, le varie interpretazioni della pianta libera, l'evidenziata corrispondenza fra interno ed esterno, la scomposizione neo-· plastica dei volumi in piani, ecc. A queste invarianti note ne andrebbero aggiunte altre, grazie ad un più approfondito scandaglio del processo, operato nella logica del sistema e magari con l'ausilio del calcolatore. In pratica, per una ricerca che per ora è tutta da impo­ stare, si dovrebbe anzitutto scegliere, quale processo, un periodo storico in base alla sua attualità ovvero alla sua potenzialità di offrire fattori ancor oggi validi. In particolare, per avere un « repertorio » più ampio, cioè un processo più ricco ed articolato, si dovrebbe prendere in esame l'intero Movimento Moderno, che non si limita allo statuto del Razio­ nalismo ma, come ho notato altre volte, comprende tutte le correnti del Novecento, dal tardo Art Nouveau all'Espres­ sionismo tedesco e della Scuola di Amsterdam, dal Proto­ razionalismo all'Art Déco, dallo stesso Razionalismo al Movi­ mento organico, dal Brutalismo alla poetica macrostruttu­ rale, ecc. Individuato quest'arco storico, le invarianti, siano esse elementi o regole combinatorie, andrebbero ricercate non in ciò che distingue dette correnti e le opere degli archi­ teti maggiori, ma in ciò che le accomuna. Si tratta in sostanza di ribaltare il principale caposaldo del metodo storicista, volto alla ricerca dell'individualità e dell'unicità (delegandolo al tradizionale studio degli eventi), a vantaggio del fondamentale principio del metodo strutturalista, volto alla ricerca



Vanità della fiera? appunti sul Salone del mobile ANTONIO D'AURIA

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La visita ad un Salone del mobile - come quello che si tiene annualmente a metà settembre a Milano, contempora­ neamente a Euroluce e alla rassegna di mobili d'ufficio, Eimu - costituisce l'ulteriore verifica, se ce ne fosse bisogno, di quella equivalenza, ormai svelata da tempo, da Valéry ad Adorno, tra Museo e Mercato. Un'occasione come il Salone, in questa prospettiva, può risultare particolarmente rivela­ trice almeno quanto, poniamo, una Triennale. Non solo per l'assortimento dei pezzi presenti, non limitato dalla selezione di alcun curatore, non solo - aggiungiamo - per la possi­ bilità di confrontare diversi livelli di progettazione (ossia da quella definibile Gute Form alle sperimentazioni formali della nouvelle vague, dai mobili in stile al Kitsch) e di produzione (dalle es�cuzioni raffinate con materiali più o meno pregiati alle sede economiche, da supermercato), ma anche perché è possibile constatare quali siano i complessi dispositivi di pro­ mozione e le sofisticate strategie di marketing messe in atto da ogni azienda, che si trova, nella circostanza di una mani­ festazione siffatta, a do.ver proporre la sua produzione in concorrenza con tutte le altre industrie del settore, non solo nazionali. Un Salone del mobile risulta in definitiva il luogo privile­ giato per osservare da vicino e simultaneamente, in un vasto spaccato sincronico, due dei fattori di quel fenomeno « uno e quadruplo,. che è l'industriai design 1, ossia il progetto e



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del fatidico Padiglione 30 che accoglie il nucleo delle ditte più qualificate, è una vetrina rivolta innanzitutto ai compratori stranieri, ed è una celebrazione multipla del prodotto: come progetto raffinato di design, come tassello di una sofisticata regia di promozione e di vendita, come immagine rinviante, con significativa metonimia, alla qualità complessiva della produzione industriale nazionale, come soggetto privilegiato dell'attenzione della stampa quotidiana e periodica, specializ­ zata e non. Se il Salone è tutto questo, il critico non può non occuparsi dei due aspetti più rilevanti della manifestazione, vale a dire, lo si ribadisce, il Salone come mercato e come mostra di design (inerente cioè la messa in scena del prodotto come progetto). Esaminiamo il primo aspetto, cercando di rilevare i dati oggettivi, senza indulgere ad atteggiamenti basso-sociologici o alla mera cronaca mondana. Nel periodo del Salone del Mobile, la città che lo ospita appare, al visitatore, come per­ vasa da una funzionale temperie di eccitazione, festaiola, di­ sposta a celebrare per sei o sette giorni consecutivi i fasti di un rito: la glorificazione di quella specialissima quanto co­ mune e diffusa merce che è il mobile. La mobilitazione è totale, manifestazioni mondano-culturali d'ogni genere sono inaugurate in coincidenza dei giorni di apertura del Salone, gli alberghi sono stracolmi, le strade del centro che ospi­ tano gli show-rooms delle case produttrici sono affollate di striscioni, annunci, sciami di infaticabili visitatori (tutti in diversa misura addetti ai lavori) che si trascinano ap­ presso borse e sacchetti ricolmi di cataloghi e depliant. La città si configura come luogo del mercato e della festa: molti eventi letteralmente traboccano nelle strade o coin­ volgono spazi non destinati all'effimero, originariamente de­ putati a tutt'altre funzioni, come, ad esempio, il Palazzo della Società del Giardino di via S. Paolo, ospitante per la circostanza la collezione Frau, o il Museo di Milano, che quest'anno accoglieva la produzione Cappellini. Per inciso, varrebbe la pena di riconsiderare, in questa luce, la funzione e l'immagine della città post-industriale. Speciale cura viene data alle cartelle stampa: l'immagine



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messo a punto dagli dei-cx-machina delle pubbliche relazioni, non è immediatamente produttivo. Per quanto palesemente assai gradito dai convenuti, esso è preludio o suggello di patti di compravendita (lo scopo primario della manifesta­ zione) che sono consumati altrove, in confortevoli uffici o in un box appartato. La festa, tuttavia, costituisce una sorta di irripetibile sintesi dei quattro momenti costituenti l'indu­ stria[ design, se non altro per la contemporanea presenza dei soggetti protagonisti dei quattro, ormai noti, fattori del design: il progetto (i designers sono raramente assenti in queste circo­ stanze), la produzione (gli industriali sono gli anfitrioni), la vendita e il consumo (il pubblico degli acquirenti di prima istanza: i negozianti; e infine quelli che useranno in maniera mediata quei prodotti: gli architetti e gli arredatori). Veniamo ora al nucleo per noi più interessante del discor­ so sul design odierno: lo stato di salute, per così dire, della progettazione. Basta scorrere i molti articoli dedicati al Sa­ lone del Mobile 1985, ovvero sulle riviste specializzate le dili­ genti rassegne della produzione là presentata, per coglierne un carattere oramai da alcuni anni ricorrente, che sembra contrassegnare la critica militante nel suo rapporto con la produzione contemporanea: vale a dire la cautela, il giudizio anodino, il timore che trapela sempre tra le righe di cadere in atteggiamenti moralistici, e dunque, alla fine, la presa d'at­ to della fatticità 2• Se due anni fa si registrava, per lo più attraverso la mediazione dell'intervista, la poetica « sbalor­ ditiva » del gruppo Memphis, oggi è assodato che « Memphis non va più», superato dagli stessi propugnatori di quell'ag• gressivo nuovissimo stile. Pure, in entrambi i casi, i toni adot­ tati dai recensori rimane il medesimo: cauto nel segnalare le novità, cauto nel congedarle in quanto già consumate. Il tempo impaziente e plurale che è immanente alla pro­ duzione, questo multiversum dove convivono le istanze le più speciosamente differenti, sostanzialmente eguali, determina, si direbbe, il sommesso codice retorico del discorso sulla pro­ duzione. Questo, difatti, dall'avvento del post-modernismo in poi, tende a presentare, in positivo, la confusione come molteplicità, surplus di eventi e di forme e a dissolvere ogni


dicotomia - innanzitutto quella vecchio/nuovo, ma anche l'altra brutto/bello - nella riflessione sulla consistenza di proliferanti differenze. In realtà, l'attraversamento del Salone da parte di un fliìneur in cerca di Nouveautés e Specialités, testimonierebbe quest'anno con particolare evidenza quel nesso tra fine della storia e memoria, di recente messo in luce dai teorici del post-moderno 3• Una memoria che è l'esat­ to contrario della prospettiva storica, poiché funziona come « libera ripresa di stili, di forme del passato» 4, in virtù della quale tutta la storicità si appiattisce in un quadro sincronico, si trasforma in un inventario neutro di forme, in un reper­ torio vastissimo dal quale attingere. In questo senso, il Sa­ lone 1985 ha registrato all'estremo, crediamo, quel processo parallelo e speculare innescato da qualche anno e giunto, forse, qui alla sua consumazione: da una parte il design del passato, diciamo del ventennio 1910-1930, ora attraverso più o meno filologiche riedizioni, ora attraverso citazioni o « ready made modificati», sta a rappresentare se stesso, e risulta straordinariamente persuasivo e « fatto per noi», dall'altra il nuovo design appare talvolta, rispetto a quello, parados­ salmente più antico - grazie a materiali cari all'Ottocento, marmo, radica e legni pregiati, lacche eccetera -, meno rap­ presentativo del nostro tempo. Insomma, il contemporaneo si manifesta come maceria, nobilmente vestita magari dai lini e dai rasi matelassés di Ferré, e il passato, sottoposto alla de-storificazione, è il monumento del presente. Al di fuori della « prospettiva dei passati eventi», come è stato opportunamente notato, al di fuori del confronto con la tradizione, « non si dà valutazione (ovvero critica, scelta di campo, individuazione di bisogni, orientamenti per il futuro). Molti limiti teorici ed operativi della cultura del design, specie di quella razionalista, si direbbero generati dal suo congenito antistoricismo» 5• In tal senso bisognerà ormai far notare a designer e produttori che qualcosa sta mutando nella storia del rapporto fra oggetto e fruitore 6• Lo testimonia il nuovo interesse dedicato al valore e all'esperienza estetica da parte di filosofi prima attratti soprattutto dalla definizione dell'orizzonte d'attesa, del con- 25


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sumo, della ricezione estetica 7• Certo, nulla riesce meglio del successo, ha scritto Amiel; pure, a forza di presupporre, di enfatizzare, di feticizzare l'immagine del destinatario da con­ vincere con forme dichiaratamente nuove, in quanto diverse, obbedienti ad una retorica della perenne variatio, si perde di vista il centro del progetto; la parcellizzazione, che non è pluralismo, degli stili registrabile, a livello di design, negli ultimi anni - laddove a livello di massa vi sono resistenti koiné come il mobile di Cantù - rischia di trasformarsi così nel puro negativo. « A Firenze, verso il 1390 - notava già Simmel nelle presaghe pagine sulla moda del 1895 - non deve esserci stata nessuna moda dominante dell'abito ma­ schile perché ognuno cercava di vestirsi in modo particolare. In questo caso manca uno dei due momenti, il bisogno di coesione, senza il quale non si ha una moda» 8• Ogni opera, ci ha dimostrato un semiologo come Lotman 9, contiene in sé l'immagine del pubblico cui è diretta (anzi, le grandi opere, quelle da assegnare senz'altro ai territori della creatività autentica, sono capaci di inventare il proprio pubblico). Segnatamente, per quanto attiene al design, faccia­ mo nostra la tesi secondo la quale il consumo è un momento costitutivo del progetto. Il panorama offerto dal XXV Salone rivela proprio in questa luce il profondo squilibrio che si è ormai determinato nel rapporto fra i due termini, progetto e consumo. Difatti, nella frantumazione generalizzata dei grup­ pi sociali tradizionali che è tipica delle società post-industriali - fenomeno ampiamente illustrato dagli storici e sociologi contemporanei - alla non-identità, o quanto meno alla pre­ caria identificazione sociale del fruitore, corrisponde, oggi, lo statuto « debole ,. del progetto, che può convertirsi o in una neutra polivalenza (la vulgata razionalista, un classicismo moderato per tutte le borse), o, al contrario, in una esaspe­ rata carica soggettiva e individualizzante (si veda, ad esem­ pio, il neo-primitivismo di un Deganello - tavolo Artifici -:­ come tentativo di un progetto fuori-storia e fuori-serie). A questo punto al sistema critico di impronta struttura­ lista può tornare utile integrare un discorso, da accennare, in questa sede, solo per grandi linee - che riguardi una re-


torica del design. Infatti nel momento in cui mlZla l'iter progetto-produzione-consumo, il designer si trova innanzi, vo­ lente o nolente, un universo di forme e di codici retorici, anche di quelli trasgressivi - esiste, bisogna ricordarlo?, una storia e una retorica dell'anvaguardia: anche lo scarto dalla norma ha le sue leggi, dipendenti di volta in volta dallo statuto storico della tradizione. Ebbene in siffatta prospettiva - che, ovviamente, intera­ gisce con le esigenze della funzione - è possibile individuare, nella produzione corrente, alcune macro-tendenze riconduci­ bili alle tre fondamentali figure retoriche: metafora, meto­ nimia, ironia. Aggiungeremo che, a nostro avviso, i prodotti più persuasivi contemperano queste tre istanze semantiche. Indicheremo come metaforico l'oggetto che si inscrive in un paradigma, che cioè evoca un modello, sta-per esso (ad esem­ pio la poltrona Grand Confort di Le Corbusier, tra l'altro, si inscrive, innovandolo, nel paradigma «Chesterfield »). Me­ tonimico è, invece, l'oggetto il quale si presenta come in­ scritto in una serie in-praesentia, sintagmatica; una «catena,. che può indicare sia, nell'accezione più ovvia, le varie com­ ponenti dell'arredo - per cui una sedia rinvia ad un certo interno, ad un certo modo di abitare -, sia gli oggetti dise­ gnati da un medesimo autore: pensiamo ad una lampada come Shogun, di Mario Botta, dal tranquillo impianto natu­ ralistico - vuol ricordare l'armatura da samurai, immagine peraltro resa familiare da più di un serial televisivo - ma interessante nella misura in cui rientra nell'universo-Botta. Si può inoltre intendere come serie sintagmatica l'insieme dei prodotti di case produttrici particolarmente connotate e connotanti, come ad esempio Cassina, B&B, Flos, Arflex; in . tal caso, il compratore, poniamo, dell'interessante divano Domino di Morozzi, fruisce, in modo metonimico, appunto, di una totalità aziendale presupposta come qualitativamente 'alta' e durevole. È abbastanza agevole comprendere che nella produzione contemporanea - e non solo dell'85 che pure va definito, per molti versi, come una soglia significativa - la metonimia, figura della frantumazione e delle logiche particolari, costi- 27


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tuisca la strategia maggiormente esperita e rappresentata (pensiamo a certi oggetti di La Pietra per B&B o di Asti per Misure Emme o al tavolo Edison di Magistretti per Cassina). Sempre più rari sono infatti gli oggetti di design capaci di confrontarsi con le Grandi Forme che bene o male conti­ nuano a resistere nel nostro immaginario, anche al di fuori di un orizzonte passivamente classicistico. Non a caso il senso profondo, nonché l'urgenza, di una siffatta ricerca ci viene poi testimoniato, su versanti differenti, da tre protagonisti, a vario titolo, della cultura del design: uno storico e teorico come Renato De Fusco, un costruttore di macro-forme del calibro di Renzo Piano, e una 'vecchia' gloria del nostrano design come Enzo Mari. Ebbene, a noi sembrano molto signi­ ficative, in questo momento di « giochi già fatti», l'esigenza sperimentatrice e la tensione intellettuale che hanno ispirato sia il passaggio, sempre rischioso, dalla teoria alla pratica da parte di De Fusco, autore della sedia e del tavolo Arciere, sia la prova volutamente moderata, e quasi, si direbbe, auto­ censurata, fornita col tavolo Teso da Piano (uno 'struttura­ lista' dalla cui matita non sarebbe stato azzardato attendersi qualche escogitazione, diciamo, in Kevlar o in fibre di car­ bonio, che ha optato invece, nel disegnare il tavolo per Fon­ tana Arte, per la familiare semplicità del cristallo), sia infine, dallo scatto inventivo, forse sintomo di una storica insoffe­ renza, di un designer-artista come Enzo Mari, il quale, per la circostanza, ha come rimosso il suo passato di raffinato bricoleur per scegliere, per la sedia Tonietta, linee organiche e un materiale tutt'altro che 'trovato', ossia una lega di allu­ minio pressofuso. In quest'ultimo Salone, infine, la quota d'ironia - tanto dichiarata e, dunque, subito esorcizzata neppure troppo tem­ po fa da Memphis - appare in calo, com'era prevedibile, tranne che nelle forme ambigue dell'emblema dell'ironia, cioè l'ironia proposta e venduta in quanto tale. Un prodotto au­ tenticamente ironico - come, per intenderci, la produzione del miglior Sottsass - evoca, nel mentre dissacra, il modello dal quale si discosta; è, insomma, anche metaforico. E invece l'ironia, ad esempio, di certa eccessiva produzione Mor-



punto di saldatura con la Couture e col neo-design (un gruppo molto avanzato sul versante di codesta mésalliance è rappre­ sentato dai giovani designer della scuderia Zeus). Personaggi siffatti si confrontano con tecnologie in continua evoluzione, dai video-dischi alla televisione ad alta definizione, dai com­ puter al laser. Certo, il design deve essere attento a queste mutazioni, a questi aggiornamenti dell'immaginario, ma non può rinunciare, crediamo, ad un minimo di 'stabilità', non può disancorarsi dalla Storia o dall'antropologia. Quanto allo Zeitgeist, che dire? Esso non è il frutto della nevrosi della temporalità, l'ansia-di-essere-nel tempo, che ci affligge: come ha chiosato il grande filosofo della crisi, Nietzsche, « vi sono molte specie di aurore».

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1 Le quattro componenti del design, secondo quanto in più sedi ha teorizzato De Fusco, sono il progetto, la produzione, la vendita e il con­ sumo. Cfr. la serie di articoli di R. DE Fusco, 1. li progetto, «Ottagono» n. 76, marzo 1985; 2. La produzione, «Ottagono,. n. 77, giugno 1985; 3. La vendita, « Ottagono » n. 78, settembre 1985; 4. li consumo, • Ottagono» n. 79, dicembre 1985; e cfr., naturalmente, Io., Storia del design, Roma­ Bari 1985. 2 Si veda in proposito, ad esempio, l'intervista recentemente rila­ sciata a S. Berbenni da Franca Santi, direttore di «Abitare», per la rubrica « Il punto sul design,. del mensile di moda «Donna», n. 57, sett. 1985, p. 438. 3 Cfr. G. VATIIM0, La fine della modernità, Milano 1985 e Io., Identità, differenza, con-fusione, « Casabella» 519, dicembre 1985. • G. VATIIM0, Identità ...• cit., p. 42. 5 R. DE Fusco, Il consumo, cit., p. 107. 6 Cfr. idem. 7 Cfr. H. R. JAuss, Apologia dell'esperienza estetica [1972], Torino 1985 e G. VATIIMO, Identità ..., cit. a G. SIMMEL, La moda, Roma 1985, p. 24. 9 J. LoTMAN, Testo e contesto, Roma-Bari 1980. 10 G. DoRFLES, La salute del design è buona, la qualità meno, « Cor­ riere della sera» 23 settembre 1985. Il G. VATIIM0, Identità ...• cit., p. 43. u A. D'AURIA, Fashion & design: la cultura-del-successo, « Op. cit.» n. 62, gennaio 1985.




Se, come vuole la Logica di Port-Royal, la rappresentazione spaziale e grafica costituisce il caso in cui un segno raggiunge la trasparenza estrema della sua funzione; se il segno è coe­ stensivo alla rappresentazione e manifesta in sé anche il rap­ porto che lo lega a ciò che da essa viene significato; se in ciò che la caratterizza la rappresentazione è sempre perpen­ dicolare a sé stessa e cioè nello stesso tempo rapporto con un oggetto e manifestazione di sé, allora una riflessione teorica che, con mezzi puramente grafici, voglia asserire qualcosa su sé stessa non potrà che rovesciare il rapporto tra i termini prima descritto: dovrà rivelare l'esistenza di una zona d'om­ bra all'interno della trasparenza; dovrà con uno scarto elu­ dere la perpendicolarità e indagare se c'è e qual è lo spazio esiguo in cui ciò che appare oggetto è invece rappresentazione oppure in cui la rappresentazione non è rappresentabile. La nostra ipotesi è che questo scarto laterale, questo spa­ zio esiguo, questa zona d'ombra vada ricercata nella differen­ za di livello logico che, come separa ogni elemento dalla classe a cui appartiene, allo stesso modo separa ogni oggetto dalla propria rappresentazione. Pertanto i dipinti teorici di cui si è indicata l'esistenza sono quei dipinti che indagano la zona di confine del rapporto tra oggetto e rappresentazione del­ l'oggetto, presente in ogni opera grafica, e perciò forniscono informazioni non solo sulla differenza o sull'identità dei li­ velli logici, ma anche - e in questo consiste il loro valore teorico - sui possibili spostamenti, sul possibile mutarsi l'uno nell'altro, in una parola sulla instabilità di tali livelli. Passiamo ad esaminare le tre sottoclassi sopra menzionate. Il trompe-l'oeil. Il trompe-l'oeil costituisce una specie cli dimostrazione per assurdo che si ottiene accentuando così fortemente la so­ miglianza tra una rappresentazione e l'oggetto rappresentato, da costringere l'osservatore a prendere atto della loro diffe. renza; la forma di tale dimostrazione ha dei meccanismi in comune con la menzogna. Nel linguaggio, perché vi sia menzogna, è richiesta l'esi-

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stenza di due asserzioni contraddittorie delle quali l'una, falsa, vienè effettivamente pronunciata mentre la seconda, vera, solo pensata. Una situazione simile si presenta nel trompe-l'oeil: questo presenta due asserzioni delle quali la prima ad essere percepita (questo è un oggetto) è falsa; die­ tro questa prima asserzione, però, è celata una seconda as­ serzione (questa è una rappresentazione), che è vera. In tal modo l'osservatore viene indotto in errore e, per la preci­ sione, il tipo di errore qui implicato è un errore di livello logico: l'osservatore viene indotto ad attribuire al livello della realtà ciò che invece appartiene al livello, più astratto, della rappresentazione. Va detto di passaggio che ciò che in tali casi viene ingannato non è l'occhio quanto piuttosto la mente di chi guarda e dalla mente parte l'ordine, a cui difficilmente si resiste, di toccare l'oggetto ingannatore. Tuttavia la meta finale del trompe-l'oeil non è l'inganno, quanto piuttosto il superamento dell'inganno ed infatti esso raggiunge il suo scopo quando è riconosciuto come trompe-l'oeil. In pratica, esso provoca nella mente dell'osservatore un movimento in àue tempi così schematizzabile: trompe-l'oeil ➔ oggetto

➔ errore

j falso

vero trompe-l'oeil +-rappresen- +- superamento 1 tazione dell'errore

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In altre parole il trompe-l'oeil raggiunge il suo scopo quando l'osservatore è costretto a prendere atto che oggetto e rappresentazione, che gli sono stati presentati come sovrap­ posti, sono invece due cose distinte, che la somiglianza è in realtà una differenza e, propriamente, una differenza di livello logico: la mente è così obbligata a discriminare tra vero e falso e a riconoscere l'esistenza di due livelli logici. Il trompe-l'oeil, che in tempi recenti è stato considerato un genere minore di pittura e relegato ai margini della pittura maggiore è, a nostro parere, un modo di fare pittura teorica coestensivo al pensiero per somiglianza che dall'antichità ·classica va fino al Rinascimento e quindi, in un certo senso,





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Il punto di scarto e la zona d'ombra di cui si è fatto cenno nella introduzione è qui esemplificata al punto c) e con questo veniamo alle implicazioni di carattere teorico. Ciò che ap­ pare immediatamente evidente è il fatto che l'imago clypeata è contemporaneamente oggetto e rappresentazione, ma per la precisione, è l'insieme del rapporto - oggetto + rappresen­ tazione - che diviene oggetto esclusivo della rappresenta­ zione successiva. Se torniamo allo schema orizzontale, ve­ dremo che le varie parentesi contrassegnano diversi sottoin­ siemi ognuno dei quali è formato dai termini oggetto + rap­ presentazione; tuttavia ad ogni successiva inclusione noi ci troveremo di fronte ad un progressivo aumento dei termini implicati e l'elemento in più che ritroviamo ad ogni passaggio è l'oggettivazione del rapporto tra i termini precedenti. Così, sempre in riferimento allo schema, procedendo dall'interno verso l'esterno, noteremo un progressivo aumento dei termini implicati da 1 a 4 e ciò costituisce l'inizio di una progressione infinita e gerarchica in cui i termini oggetto e rappresentazione rimangono inalterati ed invece il loro rapporto viene proiet­ tato verso livelli crescenti di astrazione. Questa capacità dell'immagine di divenire, a certe condi­ zioni, una rappresentazione dell'infinito, apparve forse magica o divina. L'imago clypeata conobbe così una evoluzione in due direzioni: da un lato, divenne per alcune sette esoteriche un oggetto sacro da porre sugli altari e venerare, come testi­ monia il ritratto di Terenzio che abbiamo esaminato; d'altro lato divenne l'aureola di luce che circonda il capo del dio o dell'imperatore divinizzato e, come tale, entrerà a far parte anche dell'iconografia cristiana. Il capo circondato dall'au­ reola dunque altro non era in origine che un ritratto con la sua cornice, cioè l'insieme primario oggetto + rappresenta­ zione, generatore potenziale di una serie infinita di insiemi. Si sarebbe tentati di sostenere che ogni dipinto in cui com­ paia un'aureola sia un caso di quadro nel quadro, ma signi­ ficherebbe spingersi troppo in là, anche perché probabil­ mente le origini di questa usanza dovettero presto venir di­ menticate. Ci sembra tuttavia innegabile che l'aureola indichi, all'interno del dipinto, un'area di maggior astrazione, un pun-


to in cui un concetto astratto - la divinità - viene espresso mediante una rappresentazione della rappresentazione. 2) La rappresentazione dell'invisibile Un vero e proprio «trattato», una summa delle specula­ zioni teoriche dipinte è costituito da « Las Meninas » di Velasquez: in questa opera, infatti, sono presenti non solo tutti gli elementi che costituiscono l'attività del dipingere, ma anche tutte le implicazioni teoriche di tale attività, non­ ché i rapporti tra questi due poli. Perciò i percorsi interpre­ tativi che il dipinto offre all'analisi sono innumerevoli e, qua­ lunque sia quello scelto, resta un senso di inadeguatezza. Si cercherà perciò di individuare, in maniera certamente non. esaustiva, qualche nodo della complessa rete di rapporti pre­ sente nell'opera. Seguendo da vicino un passo del saggio che Foucault ha dedicato all'opera, diremo che Velasquez, in questo quadro, ha rappresentato sé stesso in atto di dipingere due personaggi in una sala dell'Escorial; che l'Infanta Margherita con il suo seguito di nani e damigelle si reca a contemplarli; che i due personaggi che fanno da modelli non sono direttamente visi­ bili, ma lo sono indirettamente in uno specchio e sono identi­ ficabili nel re Filippo IV e in sua moglie Marianna. Tutto questo lo cogliamo con un primo sguardo; guardando più attentamente noteremo poi che del quadro che Velasquez è in atto di dipingere noi vediamo il retro e il cavalletto che lo sostiene; che il pittore ha in mano la tavolozza e il pen­ nello; che tutt'intorno le pareti sono tappezzate di quadri di alcuni dei quali non è possibile riconoscere il soggetto, e che infine nello sfondo un gentiluomo è fermo sulla soglia di una porta e in posizione opposta alla nostra, a guardare tutta la scena. Ora, ciò che questo secondo sguardo ci rivela altro non è che la serie completa degli elementi che sono il presupposto materiale del dipingere: in primo luogo la tavolozza e il pennello, poi il quadro come tela non ancora dipinta e di cui vediamo il retro, infine i quadri finiti e appesi alle pareti, ma ancora considerati nella loro qualità di oggetti in quanto 39


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il loro contenuto non è identificabile. Questi elementi costi­ tuiscono, se è consentito il gioco di parole, le damigelle della pittura, una sorta di ancillae picturae che consentono mate­ rialmente l'attività del dipingere. D'altra parte, poiché gli oggetti da soli non sono sufficienti, ecco una seconda serie, ma di persone: l'Infanta e il suo seguito in qualità di spet­ tatori della scena da rappresentare; il gentiluomo sullo sfondo che, in più, è anche fruitore della scena rappresentata, ed in­ fine il pittore in atto di compiere la rappresentazione. Eppure manca ancora qualcosa, anzi a ben vedere l'indispensabile, perché la rappresentazione sia possibile; perciò le due serie, strumenti e persone, sono come subordinati e protesi verso i due elementi che mancano: l'oggetto e la sua rappresenta­ zione. Pertanto l'insieme di strumenti e persone, presenti nel dipinto, assolvono la funzione di collegare significato e signi­ ficante; questi, però, come si è detto, non sono visibili: l'og­ getto, costituito dalla coppia reale, è fuori del quadro, la rap­ presentazione è in una parte non visibile del quadro stesso. Dunque ciò che viene rappresentato in quest'opera è precisa­ mente il rapporto in atto di instaurarsi tra i due termini. Ci troviamo così di fronte ad una rappresentazione dell'invisi­ bile e ciò può intendersi in due sensi: quello che si è ap­ pena detto, per cui significato e significante sono entrambi invisibili, e quello per cui viene reso visibile ciò che nor­ malmente è invisibile e cioè il rapporto che lega significante e significato. Questo rapporto, secondo Foucault, ricade in­ teramente all'interno dell'elemento significante, gli è sovrap­ posto e appare simultaneamente a questo. Invece nel quadro di Velasquez, grazie a uno scarto laterale, l'elemento signi­ ficante viene reso invisibile e viene portato in primo piano solo ed esclusivamente il rapporto con l'oggetto. Si ha in­ dicazione ma non apparizione. Significato e significante sono assenti; in realtà l'oggetto significato è indirettamente pre­ sente e visibile perché riflesso in uno specchio che occupa all'incirca il centro. del quadro. Non possiamo perciò non interrogarci sul valore di questa presenza. Se l'immagine della copia reale, oggetto della rappresentazione, non ci fosse trasmessa dallo specchio, noi potremmo immaginare un qual-·



posti sono ancora distinti per il gentiluomo sullo sfondo che, in posizione opposta alla nostra, guarda la scena. Si narra che Filippo IV, nel vedere il quadro ultimato, preso da grande ammirazione e forse stregato da questo gioco di astrazioni, intinse un pennello nel rosso e tracciò sul dipinto, all'altezza del petto dell'artista, la croce dell'Or­ dine di Calatrava, compiendo un gesto più che da re, da se­ miologo: mostrava infatti di aver compreso che se la realtà · modifica i segni, questi possono a loro volta modificare la realtà. Infine, ne Las Meninas c'è un elemento che abbiamo chiamato in causa solo indirettamente, per i suoi rapporti con altri elementi, ma che non è ancora stato analizzato per sé stesso: è lo specchio in cui si riflette la coppia reale.

Lo specchio nel quadro.

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Lo sguardo, l'inquadratura, il limite tra esterno e interno, la bidimensionalità, la presenza di immagini sono fenomeni attinenti sia agli specchi sia alla pittura e queste analogie, se pur non annullano la differenza tra immagini riflesse e immagini dipinte, fanno dello specchio un fenomeno-soglia: soglia tra simbolico e immaginario per Lacan, tra percezione e significazione per Eco. Sarà dunque facile comprendere come l'esistenza di immagini speculari abbia sempre costi­ tuito una sfida per la pittura, tant'è che la rappresentazione di specchi è largamente testimoniata nei più diversi periodi. Ora, benché non ci sia nulla di più simile a un'immagine di­ pinta che un'immagine speculare, questa è l'unico oggetto che non può essere rappresentato. L'immagine speculare, come fa notare Eco 6, non può essere riprodotta da nessun altro mezzo, sia esso fotografia o inquadratura cinematogra­ fica o, appunto, pittura. Com'è ovvio, ciò accade perché la caratteristica costitutiva dell'immagine speculare consiste nell'essere causalmente prodotta dall'oggetto e nel non po­ tersi produrre in assenza di questo 7; invece nel momento in cui l'immagine speculare viene riprodotta in un quadro, tale legame causale viene spezzato, viene pertanto varcato il limite tra mondo della realtà e mondo dei segni e quello che



fotografia, al cinema e alla pittura stessa, si è realizzato anche in un diverso modo: è il caso di alcune opere di Michelan­ gelo Pistoletto che, come è noto, consistono in una lastra di acciaio lucidata a specchio sulla quale sono serigrafate im­ magini di cose o persone colte per lo più nella loro banalità quotidiana. Riservandoci di tornare sull'argomento in altra occasione, ci limiteremo in questa sede a qualche accenno al valore teorico di tali opere. In primo luogo diremo che, grazie al movimento che_ lo sfondo specchiante riflette, l'ef­ fetto immediato sull'osservatore è quello di un trompe-l'oeil accentuato. Ma l'aspetto forse più accattivante dell'opera di Pistoletto sta in ciò che, in modo apparentemente ingenuo, rendono vere « alla lettera» diverse caratteristiche della pit­ tura: il fatto che i contenuti di un'opera vengono modificati dal trascorrere del tempo, che ogni osservatore riflette nel­ l'opera parte di sé stesso e che, d'altra parte, ogni opera ci dice qualcosa su noi stessi; che, infine, ogni opera è, in· qual­ che misura, modificata dal contesto in cui si trova. Tutte queste verità generali trovano puntuale riscontro nei quadri di Pistoletto, ma ne escono reificate, retrocesse, per così dire, dal rango di concetti a quello di fenomeni ottici. In tal modo viene compiuto un cammino a ritroso: le teorie partono da un fenomeno ed astraggono un concetto; il quadro specchian­ te fa di un concetto un fenomeno visibile; l'osservatore vede per una volta con gli occhi ciò che di solito vede con gli occhi della mente.

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t M. FouCAULT, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 1967, pp. 79-80. 2 Purgatorio, X, vv. 5�3. XII, vv. 67-69. 3 M. FoUCAULT, op. cit., p. 66. 4 C. BERTELLI, Grammatica della cornice, in « Rassegna •• numero monografico dedicato ai Recinti, a. I, n. I, dicembre 1979. 5 M. FOUCAULT, op. cit., p. 77. 6 U. Eco, Sugli specchi, Bompiani, Milano, 1985, pp. 36-37. 7 Ivi, p. 24. a :e. il titolo di un'opera di Paolini consistente in una riproduzione fotografica su tela della coppia reale specchiata al centro de « Las Me­ ninas •· 9 U. Eco, op. cit., pp. 32-36.




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