Op. cit., 66, maggio 1986

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Livio Sacchi, Sergio Villari Segretaria di redai.ione: Roberta Amirante Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 7690783 Amministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Giordani, 32 - Te!. 684211 Un fascicolo separato L. 4.500 (compresa IVA) - Estero L. 5.000

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Edizioni e Il centro ,. di Arturo Carola


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R. DE Fusco

Tipologia e progettazione del mobile

B. GRAVAGNUOLO

Pianerprogetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma

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L. SACCHI

L'arte di abitare alla Triennale

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Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero llanno collaborato: Roberta Amirante, Alfredo Buccaro, Gabriella D'Amato, Cettina Lenza, Maria Luisa Scal­ vini, Sergio Villari.


La rivista si avvale del contributo economico dei seguenti Istituti ed Aziende: AgorĂ Alessi Banco di Napoli Camera di Commercio di Napoli Cassina Driade Informatica Campania Knoll Intemational Design Riam Zen Italiana


Tipologia e progettazione del mobile RENATO DE FUSCO

La nozione di « tipo ,. in quasi ogni campo progettuale presenta un notevole divario al passaggio dalla pratica alla teoria; appena si esce dall'uso operativo di essa e si affron­ tano i suoi fondamenti epistemologici generalmente si cade in aporie senza uscite. Benché siano stati proposti altri stru­ menti per rendere più razionale la progettazione - e penso in particolare a quelli semiotico-strutturali - lo studio dei tipi, cioè la tipologia, forse a causa dei limiti di preparazione degli operatori, resta l'approccio più scientifico ai vari set­ tori progettuali. Come tale, e considerati i positivi risultati che comunque essa comporta, bisogna continuamente ri­ prenderla nel tentativo di approfondirla ulteriormente al li­ vello teorico, così come mi propongo di fare in questa sede con alcune riflessioni incentrate sulla tipologia del mobile, donde ricavare criteri utili anche per altri campi. Ma perché muovere proprio dalla tipologia del mobile? Anzitutto perché è la meno studiata mentre presenta una fenomenologia e una problematica assai più ricca di quella architettonica; in secondo luogo perché non è stata scanda­ gliata nemmeno nel senso funzionalistico e distributivo cui si devono i positivi risultati pratici conseguiti in architettura; in terzo luogo perché la tipologia del mobile, almeno come dato potenziale, è forse più vicina alla progettazione di ogni altro settore. Com'è stato osservato, Il criterio tipologico, come criterio di classlficazlone, assume naturalmente tanta

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maggiore importanza quanto plù vasta e varia è la serie del fenomeni. Non appena sl entra nel campo dell'arte applicata, la dlstinzlone per classi tipologiche diventa lndlspensabl­ le /•.•/ Nel caso delle artl applicate, dove l'opera d'arte come unicum è un'ecceziolle, appare evidente che la classificazione tipologica è all'origine stessa della produzione e che, cioè, l'artigiano sl è proposto dl fabbricare proprio quel tipo d'oggetto /.../ Considerata al livello della produzione artigia­ nale, dunque, la tipologia appare come una condizione o una componente concreta della produzione stessa, e come una condizione o componente lnelimlnabile perché, palesemente, la scelta dl un tipo sostituisce la progettazione o, quanto meno, una notevole fase del relativo processo 1• Se questo può dirsi per la produzione artigiana, tanto più vale eviden• temente per il disegno industriale. Inoltre, se l'esperienza dei tipi non può che ricavarsi dalla storia e se la tipologia, nel settore di cui ci occupiamo, sostituisce almeno in parte la progettazione, abbiamo una conferma di uno dei punti pro­ positivi del presente articolo, qual è quello di legare la pro­ gettazione alla storia attraverso la tipologia. Passando allo statuto epistemologico della tipologia in ge­ nerale, esso ha una lunga tradizione; senza risalire ai tratta­ tisti, una chiara ed essenziale esposizione di questo problema viene effettuata da Henry Wotton nell'introduzione al suol « Elements of Archltecture », del 1624, dlstlnguendo fra modo di descrizione storica ( « Hlstoric:al •) e modo dl osservazione sistematica (« Logical •). Solo quest'ultima consentirebbe dl enucleare dal contesto storico delle regole, per trasformarle ln metodo (progettuale)... altrove, come attesta ancora Père André ln un trattato dl estetica fra l più noti del tempo (« Essai sur le Beau •, 1759), si cercava dl definire, con prec:i­ sione e attraverso un'esatta valutazione del ruolo della geo­

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metria, la dlstinzlone fra regole invarianti e regole storico­ contingentl, per chiarire il graduale adattarsi dell'arte alla storia e alla realtà 2• Come si vede, il nodo centrale della ti­ pologia - carattere storico o metastorico del tipo e conse­ guente metodo per studiarlo - si può dire nato con la tipologia stessa. Il celebre articolo di Quatremère de Quincy


sembra trascurare il binomio storico/sistematico per appro­ fondirne un altro, quello tipo/modello: La parola «tipo» non presenta tanto l'Immagine d'una cosa da copiarsi o da imitarsi perfettamente, quanto l'idea di un elemento che deve egli stesso servire di regola al modello /.../ Il modello, inteso secondo la esecuzione pratica dell'arte, è un oggetto che si deve ripeter tal qual'è; li e tipo» è, per lo contrarlo, un og­ getto, secondo il quale ognuno può concepire delle opere, che non si rassomiglieranno punto fra loro. Tutto è preciso e dato nel modello; tutto è più o meno vago nel e tipo • 3• Notando che tale vaghezza è rimasta poi costante anche nelle succes­ sive teorie, vediamo che cosa può dedursi dallo stesso autore sulla relazione fra tipo e storia. In ogni paese, scrive Quatre­ mère de Quincy, l'arte di fabbricare regolarmente è nata da un germe preesistente.� necessario in tutto un antecedente...; e ciò non può non applicarsi a tutte le Invenzioni degli uomini. Così noi vediamo che tutte, a dispetto del cambiamenti po­ steriori, hanno conservato sempre chiaro... II loro principio elementare.� come una specie di nucleo Intorno al quale so­ nosl agglomerati e coordinati In seguito gli sviluppamentl e le variazioni delle forme, di cui era suscettibile l'oggetto. Per­ ciò sono a noi pervenute mille cose in ogni genere: e una delle principali occupazioni della scienza e della filosofia, per affer­ rarne le ragioni, è di ricercarne la origine e la causa primi­ tiva. Ecco ciò che deve chiamarsi e tipo • in architettura, come in ogni altro ramo delle invenzioni e delle istituzioni umane 4• Questa teoria del tipo si appoggia sulla natura delle cose, sulle nozioni storiche, sulle più antiche opinioni, sul fatti più costanti, e sulle testimonianze evidenti di qualsiasi architettura 5• Come si vede, al virtuale interrogativo sulla natura concettuale oppure storica del tipo, l'autore francese risponde con una sorta di compromesso, peraltro motivato da una concezione della storia di marca evoluzionistica. Il problema si porrà in termini meno semplicistici allorquando con lo Storicismo tedesco contemporaneo il fattore indivi­ duale e la ricerca individuante diventeranno le dominanti rispettivamente della storia e della storiografia. Più decisa, ma al tempo stesso più riduttiva, è la relazione che l'A. isti-

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tuisce fra tipo e destinazione d'uso che viene esemplificata proprio con le arti applicate. Nessuno Ignora che una quan­ tità di moblll, di utenslll, di scranne, di vestimenti hanno li loro « tipo • necessario nell'Impiego che se ne fa, e negli usi naturali a cui vengono destinati. Ciascuna di queste cose ha veramente, non il suo modello, ma il suo « tipo », ne' bisogni e nella natura / ... / Chi è che non creda che la forma del dorso dell'uomo debba essere il « tipo » della spalllera di una sedia? 6 Ecco allora che il tanto ricercato principio o causa prima si riduce ad un deludente fattore empirico e addirit• tura meccanico. E veniamo ad un autore contemporaneo con un'idea di storia concepita modernamente. Nel processo di paragone e sovrapposizione delle forme indlvidue per la determinazione del tipo - scrive Argan - si eliminano i caratteri specifici dei singoli edifici e si conservano tutti e soli gli elementi che compaiono in tutte le unità della serie. Il tipo si configura cosi come uno schema dedotto attraverso un processo di riduzione di un insieme di varianti formali a una forma-base comune. Se il tipo è il risultato di questo processo regressivo, la forma-base che si trova non può intendersi come mero telaio strutturale, ma come struttura interna della forma o come principio che implica in sé la possibilità di infinite varianti formali e, perfino, della ulteriore modificazione strut­ turale del tipo stesso 7• Se queste considerazioni sulla « na­ tura » del tipo, sul processo riduttivo operato sulla individua­ lità delle opere storiche al fine di cogliere le invarianti, ecc., in una parola sulla « costruzione • di una tipologia, sono, a mio avviso, da sottoscrivere alla lettera, quasi altrettanto si­ gnificative sono le considerazioni di Argan che, sempre in tema di tipologia, trattano del rapporto dell'artista con la storia. Confermando che il tipo è sempre dedotto dall'espe­ rienza storica, egli scrive che la posizione dell'artista nei con­ fronti della storia ha due momenti: il momento della tipo­ logia e il momento della definizione formale; riconosce inoltre una fondamentale unità o continuità, nel processo ideativo dei due momenti, il secondo essendo soltanto il momento di risposta alle esigenze della situazione storica attuale, attra-


verso la critica e Il superamento delle soluzioni· passate, se­ dimentate e sintetizzate nella schematicità del tipo a. Nella nostra rassegna di definizioni tipologiche, evidente­ mente non esaustiva perché non mi propongo di redigere una storia della nozione di tipo, va ricordata la felice intuizione di Canella sul rapporto fra tipologia e morfologia, per cui la prima debba intendersi come la sistematica che cerca l'Inva­ riante della morfologia e la seconda come una successione di avvenimenti espressi In un concreto storico volta a volta definito 9•

Posti sul tappeto i principali termini della questione tipo­ logica generale o almeno di quella relativa all'architettura e alle arti visive, entriamo nel vivo di quella riguardante il mobile, a partire dalle sue espressioni semantico-lessicali. Notiamo anzitutto che, se non sempre, certamente per lunghi periodi della storia del mobile, questo formava sistema con gli altri che arredavano uno stesso ambiente. La camera da letto, quella da pranzo, la biblioteca, ecc. si componevano ciascuna di un certo numero di mobili che diventavano tipi, o meglio, tipici, proprio in quanto facenti parte di quel si­ stema. Allorquando veniva abbandonato l'ordine sistematico del mobilio di ciascun ambiente (un sistema per lo più stili­ stico, ma in quanto tale anche tipologico). i mobili singoli perdevano la loro originaria valenza tipica o almeno alcune invarianti che ne fissavano il tipo. Così, ad esempio, non esiste più una sedia concepita esclusivamente per la camera da pranzo (solitamente in passato un seggiolone dall'alta spal­ liera), ma una sedia utilizzabile in ogni· ambiente. Si può obiettare che, anche se progettati e utilizzati come mobili sin­ goli, essi non hanno perduto le loro caratteristiche tipolo­ giche: una sedia resta una sedia, un tavolo resta un tavolo e così via. Ma quando diciamo «sedia», «tavolo», «letto», ecc. senza ulteriori specificazioni indichiamo veramente dei tipi o non piuttosto dei «temi ,. d'arredo, qualcosa che sta a monte quasi di ogni tipo e di ogni forma, un « concetto » prima ancora che un oggetto? Risposta: le parole suddette denotano effettivamente qualcosa che distingue una categoria di oggetti rispetto alle altre, ma ci dicono poco sulle caratteristiche in-

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varianti - ed insistiamo che tutto il discorso sulla tipologia si sostiene sulle invarianti - dei mobili che abbiamo nomi­ nati. Pertanto i termini che li designano hanno sì un senso tipologico, ma esprimono soprattutto dei «temi» o «con­ cetti"· Un'analogia con quanto diciamo si trova in de Saus­ sure; per lui, com'è noto, il «significato», quale componente del segno linguistico, grosso modo la parola, è appunto un «concetto•, non una «cosa» o una «sostanza», per usare l'esatto termine del linguista ginevrino. Detto più semplice­ mente, nella parola «sedia» entra la nozione di sedia, ma non «questa » sedia storicamente individuata. L'analogia col nostro assunto è ancor più calzante con ciò che scrive Brandi: Il monema o, se si vuol essere meno esatti, la parola, non ha come significato la cosa, ma lo schema preconcettuale della cosa o al più il concetto empirico della cosa; questo schema o concetto tuttavia non è un surrogato o un simulacro della cosa, rappresenta bensl il riassunto gnoseologico della cosa secondo che una determinata società - quella che parla la lingua - l'ha prelevato e sintetizzato dall'esperienza •0• Si sarebbe tentati di ritenere che quanto dice acutamente Bran­ di sia mutatis mutandis una esatta definizione di tipo: infatti, c'è in esso l'idea di schema, di concetto, di riassunto gnoseo­ logico, quindi implicitamente la componente storica, socia­ le, ecc.; tuttavia un tipo non può identificarsi con la parola: occorrono altre specificazioni e «costruzioni» logiche. Che la nozione di tipo e quella di tipologia abbiano al tempo stesso un significato concettuale e uno storico è un dato di fatto confermato da molte precedenti citazioni, dal­ l'esperienza, dal senso comune, ecc.; ma proviamo, in attesa di confermarlo con altri argomenti utili sia in senso teorico che operativo, ad ipotizzare, ai fini didascalici ed espositivi, una classificazione tipologica ricavata solo per via logico­ sistematica ed un'altra ricavata solo per via storico-empirica. Quanto alla via logica, essa può suggerirci più di una clas­ sificazione. La prima può ottenersi in base alla triade vitru­ viana: così i «temi " o «concetti ,. di sedia, tavolo, letto, ecc. possono ognuno dar luogo a una tipologia di carattere funzionale, a una tipologia di carattere tecnico-costruttivo, a una



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cetti che servono a costruirla,· o almerio alcuni di essi, quali il principio di individualità, di selettività, di causalità e simili sono propri dell'esperienza e del metodo storico che in questa via sono ipotizzati come esclusi in partenza. Ove ciò non ba­ stasse, poiché i criteri dai quali ci si muove per costruire delle classificazioni sono a loro volta criteri tipici volti a fis­ sare aspetti di omogeneità, il risultato conseguente dell'ape• razione non sarebbe una tipologia ma, nel migliore dei casi, una tautologia; un gioco di fattori intercambiabili; un proce­ dimento di estrema arbitrarietà. Ma allora perché ipotizzare una via logica, sia pure ai fini didascalici, quando i suoi limiti risultano così evidenti? Intanto per sfatare le tentazioni me­ tastoriche che da sempre si accompagnano alla nozione di tipo. In secondo luogo, perché fra tante contraddizioni ed errori c'è pure qualcosa di vero o almeno di utile: la dutti­ lità, la«manipolazione», la progettualità che deriva da queste operazioni mentali; una mezza verità che troverà il suo com­ pletamento quando si integrerà agli esiti del metodo storico applicato alla ricerca tipologica. E veniamo all'altra ipotesi di operare quest'ultima per la via puramente storica. Il processo storico, riferito al nostro argomento e semplificato al massimo, può descriversi cosi: un modello primario o paradigma (vale a dire un mobile vero, progettato da X, prodotto nell'anno Y, nel paese Z) dà luogo ad una serie di quasi-repliche, ognuna delle quali riconosci­ bile per la sua individualità, ed emblematica del proprio mo­ mento storico, finché un nuovo paradigma non interviene a interrompere la serie precedente per generarne una nuova e così via. Ma, come ricavare da un simile processo una tipo­ logia senza che intervenga un «artificio», peraltro indispen­ sabile affinché la storia stessa diventi storiografia? Come rica­ vare dal processo storico quelle indispensabili invarianti sen­ za la riduzione dei modelli a tipi? E che cos'è una riduzione se non un'attività che traduce i fenomeni in concetti? Poiché questi sono esclusi per definizione dalla linea di ricerca tipo­ logica condotta solo per via storica, bisogna concludere che anche questo genere di classificazione è impossibile. Infatti, come è necessaria l'esperienza dei passati modelli per una


«costruzione» tipologica, cosi questa non si r-icava dalla pura processualità storica senza «artifici» o concetti, ovvero, nel nostro caso, senza uno dei tanti punti cli vista mediante i quali, sia pure provvisoriamente, abbiamo esemplificato al­ cuni generi di tipologie. Al fine dunque di considerare un processo storico, formato da modelli e da quasi-repliche, come un sistema, formato da tipi, è necessario, come s'è detto, una « riduzione» di quelli a questi. In definitiva, il «tipo» non è altro che il risultato di una riduzione di una serie di modelli operata da un'ottica che fissa una serie di invarianti e che accomuna le individualità storiche piuttosto che dividerle. E poiché siamo evidentemente pervenuti ad un ordine episte­ mologico in cui il metodo storico si fonde col metodo strut­ turale, ovvero in cui devono coesistere individualità e gene­ ralità, il punto risolutivo dell'intero nostro discorso può ri­ tenersi espresso dalla più corretta nozione di modello tipiz­

zato. Che tale nozione presenti non poche analogie con la più ampia ed inclusiva nozione di «stile» si manifesta chiara­ mente. Sia l'una che l'altra, infatti, presentano fattori, per così dire, reali - quelle costanti che consentono la riconosci­ bilità di una famiglia morfologica - e fattori concettuali, duttili a tutte le operazioni classificatorie, metodologiche, re­ ferenziali, progettuali. Del resto, già in altre occasioni ho proposto di accomunare le nozioni di «codice», «stile», «struttura», «tipo-ideale» e simili, tutte .considerate e utiliz­ zate come «artifici» storiografici e/o progettuali. Ma riman­ dando per questi aspetti ad . altri miei studi 11 l'acquisizione del modello-tipizzato, che esplicito per la prima· volta in questa sede, pur legandosi alle suddette riflessioni teoriche, presenta caratteristiche particolari alle quali vanno dedicate alcune altre considerazioni. A differenza del codice/parametro di «stile», che contras­ segna un'epoca, una scuola, una tendenza, qualcosa insomma di già dato o «costruito» per operare, diciamo così, a più ampio raggio, la nozione di modello-tipizzato implica so­ prattutto la scelta di un particolare fattore da cogliere in tutta l'esperienza del passato. Ma quale tipo del passato v11

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scelto oggi come punto di partenza per conformare mobili ed oggetti attuali? La questione rientra in quella più generale delle scelte storiografiche e trova la più convincente soluzione nel crociano principio della « contemporaneità della storia». Il bisogno pratico, scrive il filosofo, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia li carattere di 'storia contemporanea', perché, per remoti o remotissbni che sem­ brino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è in realtà storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni 12• Cosicché, se in particolare saranno gli specifici bisogni pra­ tici a suggerire di volta in volta quali tipi di mobili del passato andranno recuperati - penso specialmente a quelli non ancora entrati nella produzione industriale ma tuttavia in uso nella loro versione antiquaria e/o artigianale 13 -, in generale è ancora un bisogno nato dalla situazione presente a suggerire la nostra proposta tipologica. Infatti, nell'attuale momento di crisi del design, il fatto stesso di assumere la tipologia e non la morfologia come referente storico privile­ giato affranca la progettazione contemporanea dall'eclettismo storicistico, dalle insidie mimetiche, dal re-design, ecc. In­ fine, la tipologia dei modelli tipizzati, « manipolando » il processo storico con la sua riduzione a sistema, inventando e sperimentando criteri unificanti, in una parola predisponen­ do il materiale su cui opera, contiene in nuce l'attività pro­ gettuale. Così, se il modello tipizzato indica già qualcosa di « elaborato », si comprende come tra la « progettazione » di esso e la progettazione vera e propria di un nuovo « pro­ totipo », rispondente alle esigenze della più flagrante attualità, il passo sia, o dovrebbe essere, assai breve.

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1 G. C. ARGAN, voce Tipologia dell'E.U.A., Istituto per la collabora­ zione culturale, Venezia-Roma 1966, voi. XIV, col. 2. 2 W. OECHSUN, Per una ripresa della discussione tipologica, in « Casabella », n. 509-510, gennaio-febbraio 1985.



Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma ,,

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BENEDETTO GRAVAGNUOLO

Un recente intervento di Gianni Vattimo al seminario su « Il progetto e la legittimazione» - promosso dal Centro Culturale di Bra - ha riproposto da un'angolazione logico­ filosofica un tema nodale per la dialettica tra «architettura • e «urbanistica» 1• Tra le tante serrate argomentazioni formu­ late in questa occasione dall'autore de La fine della moder­ nità merita una particolare attenzione il punto inerente al co­ siddetto « circolo ermeneutico» 2• Ciò che infatti viene messo in discussione è il rapporto tra la « parte» e il « tutto» che - pur essendo a rigore una questione circoscritta alla teoria gnoseologica della « interpretazione» - offre utili spunti di riflessione sulla gerarchia relazionale tra «progetto» e «piano». Spunti peraltro suggeriti dallo stesso filosofo con un esplicito rinvio all'esperimento della lnternationale Bauau­ stellung di Berlino. Ad esemplificare la nozione di « circolo ermeneùtico» può valere un passo del saggio di Hans Georg Gadamer su Verità e Metodo riferito alla teoria luterana sull'interpretazione della Bibbia. Il punto di vista di Lutero è all'incirca questo: la Sacra Scrittura è « sui ipsius lnterpres ». Non c'è bisogno della Tradizione per arrivare alla retta comprensione di essa ... II senso letterale della Sacra Scrittura non è (tuttavia) com­ prensibile in modo univoco in ogni punto e in ogni momento. È la totalità della Sacra Scrittura che guida nella comprensione dei punti particolari; cosi come, d'altra parte, la tota-



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il progetto di una «parte», seguendo una consecutio logica lineare e deduttiva. Eppure non sarebbe difficile dimostrare, anche a prescindere dalla reiterata critica all'illusorietà ideo­ logica della pianificazione globale, che un programma di in­ terventi risulta tanto più credibile e attuabile quanto più dinamico e adattabile a continue verifiche per « parti», capaci di rettificare le perentorie ipotesi di partenza 8• Si può anzi affermare che, come già in campo economico, così in campo urbanistico, all'infatuazione per le strategie previsionali «a lungo termine » (improbabili per l'imprevedibilità dei molti fattori di mutamento dello status quo ante) sia subentrata la ragionevole modestia dei progetti a «medio » e «breve termine». E la stessa circolarità parte-tutto, lungi dal mo­ strarsi un corto-circuito logico, si è rivelata invece come un principio metodologicamente proficuo. Se non altro, è questo il dato emerso con più evidenza da quelle esperienze che sulla soglia degli anni Ottanta hanno indicato nuovi orizzonti teorici per il « progetto urbano». Mi riferisco non solo ai «disegni» in corso d'attuazione della Berlino di Kleihues e della Barcellona di Bohigas, ma anche ai programmi irrealizzati messi a punto da Aymonino per il Centro Storico di Roma e dai tredici architetti della «Mis­ sione di studi » per l'Esposizione di Parigi prevista per il 1989. Nell'enucleare i principi-guida del «programma per Bar­ cellona», Oriol Bohigas - nominato nel dicembre 1980 dele­ gato per la nuova «Commissione per l'urbanistica» - scrive a proposito della questione su esposta: Considerata la situa­ zione che ci trovavamo di fronte (vale a dire le indicazioni del Plan Generai Metropolitano) ci siamo proposti alcuni ob­ biettivi a breve scadenza, non solo valutando il tempo che avevamo a disposizione, ma anche perché eravamo convinti che la costruzione di una città non dipende tanto dai piani tradizionali di grande respiro, quanto dal progetti di imme­ diata reaJlzzazione sui quali poi si indirizzano anche l pro­ grammi a medio e a lungo termine... Si tratta cioè di inten­ dere la città non come una globalità teorica, ma come una giustapposizione di vari pezzi, ciascuno. del quali ha esigenze


sue proprie... Da tutto ciò è nato un certo ridimensionamento delle ambiziose scadenze che ci eravamo prefissati ... Nei tes­ suti urbani consolidati è controproducente qualsiasi inter­ vento di trasformazione edilizia a lunga scadenza, perché pro­ voca una sclerotizzazione del settore. 2 addirittura preferibile lasciare in un relativo stato di «depianificazione » quelle aree che, per il momento, non consentono un intervento imme­ diato, e contare piuttosto sulla possibilità che si verifichi una modificazione autonoma, anche se provvisoria 9• In coerenza a tali considerazioni il programma per Bar­ cellona ha individuato ventidue punti nevralgici di intervento sul tessuto urbano preesistente che si configurano come veri e propri « progetti architettonici specifici ». Emblematici in tal senso sono i progetti di Lluis Clotet e Oscar Tusquets per una dorsale di riqualificazione urbana che va dal Liceo al Seminario nella zona a nord del Raval (un quartiere storico di impianto medioevale sottoposto a restauro conservativo su progetto degli architetti Xavier Sust e Carlos M. Diaz). In tal caso infatti la nuova architettura si pone come elemento di ricucitura dei tessuti urbani lacerati. Senza rinunciare alla riconoscibilità del proprio linguaggio epocale e ad un'equili­ brata opera di modernizzazione delle attrezzature di quartiere, svolge tuttavia un inequivocabile ruolo di recupero critico delle tecniche di composizione urbana ereditate dalla città storica. Altrettanto significativo è il progetto di sistemazione del Moll de la Fusta di Manuel Solà Morales, che nasconde un parcheggio sotterraneo al di sotto di una banchina alberata che si affaccia sul mare come un'ampia terrazza-giardino di sapore ottocentesco. Ma, al di là di questi o di altri esempi, ciò che più conta nell'esperienza di Barcellona è il « senso storico della nuova architettura» e la straordinaria capacità di adozione simul­ tanea e calibrata di più strumenti e di più tecniche d'inter­ vento: che vanno dal restauro conservativo propriamente detto, al segno innovativo volutamente «moderno», fino al­ l'ambientalismo mimetico. Ed è soprattutto su questi principi di fondo che alla strategia di Bohigas si riallaccia il «progetto» proposto da Carlo Aymonino per Roma nella

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fase in cui - in qualità di assessore al Centro Storico - è stato coinvolto nel tentativo di una diretta gestione ammini­ strativa degli interventi pubblici 10. Certo, la natura storica delle diverse stratificazioni urbane impedisce una stretta omologazione tra i due esperimenti. E, per altri aspetti, il progetto per il Centro Storico di Roma si mostra come un'applicazione ancor più didascalica dell'idea della «città-puzzle•, vale a dire del riconoscimento in sede analitica di quella formazione della città per «parti» morfo­ logicamente distinte, già messa in luce da Aymonino negli studi teorici sulla fenomenologia urbana 11• Tant'è che in questo caso - più che di disegni puntuali - si deve a rigore parlare di « aree strategiche• di intervento prioritario. Ed in particolare si tratta delle tre «aree » dell'Esquilino, del Testaccio e dei Fori Imperiali assunte come laboratori speri­ mentali di un programma coordinato teso a far coesistere la città politica, la città culturale, la città residenziale... con la città dei servizi, la città del lavoro, la città dello spettacolo, accentuando di volta in volta la vocazione specifica di una data zona senza tuttavia dimenticare di colmare le carenze di attrezzature collettive a scala urbana 12• Nonostante le inevitabili differenze di merito, si riscontra tuttavia una sostanziale (e peraltro esplicita) analogia di me­ todo tra i programmi di Aymonino e Bohigas tale da far rite­ nere non azzardato il riscontro di nuovi principi nella pro­ gettazione urbana. Principi che - come si è accennato - sono stati (a loro modo) collaudati dall'esperimento dell'Interna• tionale Bauaustellung di Berlino e lasciati sulla carta dalla mancata Esposizione Universale di Parigi. L'aspetto più significativo dell'irrealizzato piano dell'Expo '89 sta nella volontà di rovesciare il carattere tendenzialmente effimero di una esposizione in una grande occasione di « mo­ dificazione » della città esistente, attraverso un programma coordinato di costruzioni durevoli incuneate dentro la città stessa. Basti pensare al « crescent » residenziale progettato da Vittorio Gregotti nei pressi della Plaine d'lssy o al « ponte­ abitato » concepito da Ione! Schein a ridosso del ponte Tolbiac u_


Nelle intenzioni dichiarate da Mitterand nel 1981, l'Expo '89 avrebbe dovuto fungere da motore trainante di un « treno di grandi progetti ,. (dal Parco della Villette, all'Opéra, al Museo delle Scienze... fino al Museo della Gare d'Orsay). E anche se le note vicende politiche hanno fatto saltare la locomotiva resta ancora in moto nel dibattito teorico l'intenzione proget­ tuale di tradurre i momenti espositivi in oggetti di riqualifi­ cazione urbana, incastrandoli nei tessuti preesistenti come cunei lapidei di lunga durata. Ma, nel bene e nel male, resta soprattutto l'Internationale Bauaustellung a rappresentare il paradigma del nuovo sce­ nario urbano, non foss'altro che per l'accentuato intento di­ mostrativo e la vasta risonanza dell'iniziativa. Concepita fin dal maggio 1976 da Josef Paul Kleihues come un programma di restauro della città distrutta da attuarsi attraverso pro­ getti esemplari da affidare ai nomi più in vista dello star­ system internazionale (e annunciata ufficialmente l'anno suc­ cessivo nella dichiarazione programmatica del sindaco di Berlino Ovest, Dietrich Strobbe), l'I.B.A. ha trovato nel set­ tembre 1984 una prima occasione di bilancio critico nell'am­ bito della grande mostra allestita presso il Martin-Gropius­ Bau ed attende un ulteriore momento di verifica dell'« idea­ processo-risultato ,. il prossimo anno 14• Anche in questo caso il programma di interventi-pilota è stato concentrato su tre aree-campione del centro storico: la Sildliche Friedrichstadt, il Prager Platz e il Sildliches Tiergartenviertel. Sono ormai noti alcuni limiti strutturali e concettuali del1'I.B.A., tra i quali la restrizione del campo operativo al solo settore dell'edilizia residenziale; l'irrisolta ambiguità del rap­ porto instaurato nei confronti della « città di pietra ,. gugliel­ mina (ed in particolare nei confronti dell'isolato-tipo della Mietkaserne); e il conseguente « eclettismo metodologico• dovuto alla delega dell'impostazione, affidata caso per caso al singolo progettista. Ne è derivata una prevedibile eteroge­ neità di atteggiamenti progettuali, che vanno: dalla sotto­ missione dell'architettura al valore urbano della trama lacerata da « ricucire ,. - estremizzata nel progetto di Aldo Rossi sulla Kochstrasse (perché i confini degli isolati e le linee delle

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strade sembrano più Importanti dell'architettura) -; alla si­ mulazione in vitro di una varietà tipologica all'interno di un unico intervento - emblematicamente mostrata da quelle schegge di una «collage-city» miniaturizzata che sono i pro­ getti di James Stirling per il Wissenschaft-Zentrum e di Osvald Mathias Ungers per gli edifici su Liitzowplatz -; fino ai tentativi di «instaurazione», vale a dire di «correzione» dei tracciati preesistenti, proposti da Rob Krier e da Maurice Culot nei progetti per la Siidliche Friedrichstadt 15• D'altronde il limite di fondo sta proprio nell'equivoco di aver voluto affidare il primato decisionale all'architettura, eliminando virtualmente ogni passaggio urbanistico prelimi­ nare; e, per di più, di aver tentato di convertire questo svan­ taggio in una «teoria». Il che, contraddicendo l'assunto di «ricucire» la città storica, ha condotto ad un paradosso già sottolineato da Aymonino: Cl troviamo nelle condizioni op­ poste - nel rapporto tra architettura, forma urbana, pro­ prietà - a quelle che segnarono la nascita della città mo­ derna. A Bath o a Rue de Rivoli è infatti l'architettura che « unifica» In funzione della 'riconoscibilità' di quella parte . di città; e su tale unità si attesta la divisione della proprietà privata. Nel caso di Berlino la committenza unifica e l'inter­ vento architettonico divide, simulando la proprietà frazio­ nata. Ed aggiunge: L'esperimento di Berlino è In pieno svol­ gimento; molti del progetti esecutivi si differenziano da quelli di concorso; gli entusiasmi vanno organizzati con le riflessioni critiche; ricostruire una città non è facile 16• Tant'è che non sono mancati, nella gamma dei molti linguaggi sperimentati in questa «avventura delle idee», anche gesti progettuali più inclini a mettere in scena l'epifania dell'impossibilità di «ri­ costruire» o, se si preferisce ad indulgere in quella «estasi delle rovine» che sembra contraddistinguere la Berlin Masque di John Hejduk e i sottili giochi sintattici poggiati da Eisen­ mann sul muro di Berlino. Eppure l'esperimento dell'lnternationale Bauaustellung - nonostante i limiti di impostazione e le difficoltà incon­ trate, o forse proprio in forza dei nodi che ha portato al 22 pettine - ha svolto un ruolo di catalizzazione nella rinnovata



Bauen und Wohnen al convegno di Darmstadt nel 1951, nel bel mezzo delle rovine provocate dalle distruzioni belliche 11•

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E forse non è casuale il fatto che Theodor W. Adorno abbia concentrato l'attenzione sui limiti del « funzionalismo » nel Congresso del Deutscher Werkbund del 1965, sullo sfondo di una Berlino disegnata dal trionfo dell'International Style (una ricostruzione - a dire di Colin Rowe - dagli esiti de­ vastanti assomigliando agli effetti delle bombe) 19• I filosofi, insomma, sono stati maestri e compagni nel cam­ mino verso una diversa maniera di pensare la città, indi­ cando gli equivoci del funzionalismo esaltato ed aprendo spi­ ragli verso una più poetica relazione tra costruire e abitare. Sarebbe tuttavia ingiusto negare che anche nella coscienza degli architetti, o almeno della parte migliore di essi, la ne­ cessità di una fuoriuscita dai centoundici dogmi della « Carta d'Atene» si sia affermata in quegli stessi anni. Anche se è solo sul finire dello scorso decennio - dopo la dissoluzione delle nuove mitologie megastrutturali - che il ripensamento sulla « lunga durata » del processo di costruzione storica del­ la città europea - un modus aedificandi evolutosi lentamente nel corso del tempo - è divenuto un tema centrale nel con­ fronto collettivo 20• Si è trattato comunque di una gestazione pluridecennale che sarebbe arduo tentare di riassumere in poche righe per la vastità e la complessità delle articolate posizioni. Ma tra gli embrioni più significativi dei nuovi orientamenti basterà, forse, ricordare il discorso di Siegfried Giedion del 1944 su The Need for a New Monumentality e la costruzione di Chandigar su progetto di Le Corbusier a partire dal 1950, che rappresenta nei fatti un superamento dell'astratta sterilità della città funzionale in una forma urbis densa di memorie, di simboli, di potenza figurativa e di lirici giochi d'ombra. Sono sintomi dell'affiorare di un desiderio di « risemantizza­ zione ,. della scena urbana; non trascurabili se si considera che provengono proprio da attori di primo piano della vi­ cenda dei C.I.A.M. Tuttavia, ripeto, solo negli ultimi anni è divenuta chiara nella coscienza teorica la necessità di una riflessione profonda sull'eredità del passato che - lasciando



!azioni teoriche più meditate - quali, ad esempio, il « regio­ nalismo critico» di Kenneth Frampton o il concetto di « poché» urbano di Colin Rowe - questo rischio viene fu. gato da un inequivocabile equilibrio logico 22• Ed ogni presa di posizione culturale merita di essere valutata per i suoi assunti espliciti, piuttosto che per le indirette e indesiderate degenerazioni.

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3. Il ritorno alla tridimensionalità del progetto urbano. È ormai un dato acquisito che la disciplina urbanistica ha subito nel nostro secolo un progressivo slittamento dalla sfera del visibile alla sfera dell'invisibile. Dove per invisibile - per rifarsi alla definizione di Bernardo Secchi - è da in­ tendersi « il progetto sociale»: il tentativo di affermare i principi nei quali l'urbanistica riconosceva il proprio fonda­ mento, principi che in una visione etica e politica finivano sempre più con il confluire nell'alveo dell'economia, della so­ ciologia e della giurisdizione 23• Così, gradualmente, le stesse tecniche di « rappresentazione » (sia grafiche che verbali) del « progetto urbano » si sono appiattite sul piano bidimensio­ nale dei retini dello zoning e sul gergo astratto degli indici e degli standards. Ciò che involontariamente è stato perso di vista in questo adeguamento dei sistemi rappresentativi del piano urbanistico ai dispositivi disciplinari dell'economia e della statistica è stato proprio il fine ultimo del disegno della forma urbana. A torto si è ritenuto di poter scindere nettamente la fase della pianificazione urbanistica - pre­ sunta scientifica - da quella del progetto architettonico, con­ siderato come una derivata seconda con ampi margini di em­ piria estetica. Come è stato osservato da Bernard Huet, gli attuali piani di occupazione del suolo, sotto la loro apparente innocuità tecnica, sono in realtà i veicoli di .un modello taci­ tamente anti-urbano. Un giorno, ci si dovrà pur rendere conto che questo apparato di regolamenti e queste procedure desti­ nate a risolvere astrattamente problemi di densità di popola­ zione e di diversa occupazione del suolo, hanno precise im­ plicazioni spaziali 24• Insomma, se è vero che il progetto urbanistico è innanzi-



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trodotto da due relazioni complementari di Gianni Vattimo e Pietro Derossi. 2 Cfr. G. VATTIM0, La fine della modernità. Nichilismo ed erme11eu• tica nella c11lt11ra post-moderna, Gar1.anti, Milano 1985. 3 H. G. GADAMER, WaJzrheit und Methode, Ti.ibingen 1960, trad. il., Verità e Metodo, Bompiani 19863, pp. 212-213. 4 Cito dalla relazione dattiloscritta di G. VATTil\10, a cura del Cen­ tro Culturale Polifunzionale di Bra, p. 9. s « Pro-durre e pro-getto - ha messo in luce Massimo Cacciari sono termini solidali, rappresentano nel nostro linguaggio un'unica fa. miglia... Il pro-durre è compreso nel pro-getto che ne illumina il senso e il fine. Nel progetto si tratta perciò della strategia in base a cui qual­ cosa deve essere prodotto, qualcosa va portato fuori, alla presenza. Il progetto pre-vede, per così dire, questa futura presenza, ne dispiega in anticipo i tratti». M. CACCIAR!, Progetto, in «Laboratorio Politico» n. 2, marzo-aprile 1981, p. 88. 6 Sul tema del «consenso» e della «estetica della ricezione• si veda anche l'articolo di G. VATTIM0, Identità, differenza, con-fusione, in «Ca­ sabella », n. 519, dicembre 1985. 7 Cfr. i due articoli dedicati da Renato De Fusco alle questioni del « circolo piano-progetto•, con un esplic:to riferimento alle tesi di Vat­ timo, in • Il Mattino•. 22.1.1986 e 7.3.1986. 8 « Le approssimazioni dell'urbanistica e le ideologie del Piano ap­ paiono, altre parole, come vecchi idola, da svendere a collezionisti ap­ passionati di armi antiche: l'ineffettualità dell'ideologia ne emerge chia. ramente •: si legge nel paragrafo conclusivo del saggio di M. TAFURI, Progetto e utopia, Laterza, Bari 1973. A questo saggio e all'ampia bi­ bliografia citata a sostegno delle tesi ivi espresse, rinvio il lettore in­ teressato all'approfondimento dd limiti ideologici intrinseci agli stru­ menti dell'urbanistica «vetero-razionalistica», 9 O. B0HIGAS, Un programma per Barcellona, in «Casabella• n. 483, settembre 1982. 10 Cfr. C. AYM0NINO, La strategia d'intervento per il centro storico di Roma, in U. Srou (a cura di), Architettura del presente e città del passato, Shakespeare and Company, Brescia 1984, pp. 28-46. Il Dei molti scritti dedicati da Carlo Aymonino a tale questione, mi limito a menzionare alcuni di quelli che mi sembrano più strettamente pertinenti: Architettura come fenomeno urbano, in AA.VV., Per una ri­ cerca di progettazione, I, Cluva, Venezia 1969; La città di Padova (a cura di), Officina, Roma 1970; La morfologia urbana come strumento per individuare l'insieme e le parti, in AA.VV., Per una ricerca di pro­ gettazione, VI, Venezia 1972; li significato delle città, Laterza, Bari-Roma 1975; Lo studio dei fenomeni ur!Ja11i, Officina, Roma 1977. 12 U. Srou (a cura di), op. cit., p. 32. 13 Cfr. Parigi 1989, in « Casabella », n. 490, aprile 1983. 14 Cfr. AA.W., La ricostruzione della città. Berlino-IBA 1987, Electa, Milano 1985. 1s A. Rossi, Relazione di progetto citata in P. L. NrcoLIN, Tracce e tracciati, in AA.VV., La ricostru,ione della città. Berlino-lBA 1987, cit. p. 29. 16 C. AYM0NINO, Berlino per esempio, in • Casabella • n. 480, mag­ gio 1982. 11 I centoundici « Punti dottrinali• - redatti nel 1933 - furono pubblicati per la prima volta a Parigi da Les Editions de Minuit nel 1942 e poi, con una prefazione di Le Corbusier, nel libro, Urbanisme des CIAM. La Charte d'Athènes, Paris 1943, trad. it., La Carta d'Atene, Comunità, Milano 1960. Tra le prime fonti documentarie sul IV CIAM


si vedano l'organo ufficiale della Clwmbre technique de Grèce • Texika­ Xronika - Annales Techniques •• anno IV, octobre-novembre 1933, nu­ mero triplo 44-45-46 e la rivista •Quadrante•• n. 5, settembre 1933. Per una ricognizione critica aggiornata, si confronti inoltre il fascicolo mo­ nografico di « Parametro •• n. 52, dicembre 1976. 18 H. G. GADAMER, Storie parallele (intervista a cura di V. Magnago Lampugnani e G. Zohlen), in • Domus •• n. 670, marzo 1986. La relazione tenuta da Martin Hcidegger su Baucm, Wo/111e11, Denken, il 5 agosto 1951 a Darmstadt, è stata tradotta in italiano nel volume M. HEIDEGGER, Sag­ gi e discorsi, Mursia, Milano 1976 e, in testo bilingue italiano-inglese, in • Lotus • n. 9, febbraio 1975. 19 T. W. AooRNO, Funktio11alism11s heute (relazione al congresso del Deutscher Werkbund, Berlino 23 ottobre 1965). in • Neue Rundschau• n. 4, 1966, trad. it. in Parva Aesthetica. Saggi 1958-1967, Feltrinelli, Mila­ no 1979, pp. 103-127. Il commento polemico sugli esiti della ricostruzione degli anni '50-'60 è in C. RowE, Passeggiate berlinesi, in • Casabella • n. 487/8 gennaio-febbraio 1983. � Come ha chiarito Fernand Braudel, accanto ad una storia événe­ mentielle (« dalle oscillazioni brevi, rapide, nervose•) esiste anche una « storia strutturale• (• lentamente ritmata») e « una storia quasi immobile, quella dell'uomo nei suoi rapporti con l'ambiente: una storia di lento svolgimento e di lente trasformazioni, fatta spesso di ritorni insistenti, di cicli incessantemente ricominciati•· F. BR,\UDEL, Prefazio­ ne a La Méditerra11ée à l'époque de Philippe Il, Colin, Paris 1949, trad. it., Civiltà e imperi del Mediterameo nell'età di Filippo Il, Einaudi, To­ rino 1976, p. XXXI. 21 V. GREGOTT I, Modificazione, in • Casabella• n. 498/9 gennaio-feb­ braio 1984. 22 Cfr. K. FRAMPTON, Anti-tabula rasa: verso u11 Regionalismo cri­ tico in « Casabella • n. 500, marzo 1984; C. RowE, F. KoETER, Collage City, Cambridge, Mass. 1979, trad. it., Collage City, Il Saggiatore, Milano 1981. 2J B. SECCHI, Progetto di suolo, in • Casabclla• n. 520-521, gennaio­ febbraio 1986. 24 B. HUET, La città come spa;:io abitabile. Altemative alla Carta d'Atene, in • Lotus•• n. 41, 1984.

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L'arte di abitare alla Triennale LIVIO SACCHI

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La recente mostra promossa dalla XVII Triennale di Mi­ lano, Il progetto domestico. La casa dell'uomo: archetipi e prototipi, fa parte di un ciclo di particolare interesse di cui abbiamo avuto significative anticipazioni con La ricostruzione della città: Berlino, /BA e L'avventura delle idee nel 1985, a cui faranno seguito Il luogo del lavoro e Le città immaginate. Un viaggio in Italia. Nove progetti per nove città in questo 1986. Un ambizioso programma in vista della vera e propria Esposizione Internazionale Triennale programmata, d'intesa con il Bureau lnternational des Expositions, per il 1987 sul tema Le città del mondo e il futuro delle metropoli. Negli ambiti di ricerca che le sono propri, l'architettura, il design, le arti visive, la Triennale torna a porsi come mo­ tore di un processo che vede oggi continuamente a confronto la ricerca storica con l'indagine progettuale. A distanza di alcuni mesi dall'ultima mostra milanese, è forse utile riper­ correre l'itinerario da essa proposto per elaborare una rifles­ sione critica sul momento culturale che stiamo vivendo. Ideata e diretta da Mario Bellini, con la collaborazione di Georges Teyssot, Marco De Michelis e Monique Mosser, la mostra raccoglie più di mille originali, oltre a ventisette gran­ di installazioni ambientali sulla cultura dell'abitare. Si confi­ gura come un ampio ed inclusivo momento di meditazione sulla casa dell'uomo. L'ambito temporale spazia dal XVII secolo ad oggi, il campo d'indagine è limitato all'Occidente, il



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sguardo particolare va ai disegni del Petitot per la Villa Du­ cale di Colorno. L'intimo e il privato indaga sulla nascita del concetto di privacy, sul consolidarsi dell'intimità domestica alla fine del XVIII secolo. Uno sguardo 'indiscreto' alle opere di Fragonard, agli interni Beaux Arts, ai disegni di Schinkel per la camera da letto della regina Luisa, agli acquerelli di Naudin raffigu­ ranti la camera di Maria Luigia duchessa di Parma, alcuni sofisticati conversation pieces, esempi preziosi, curiosità da collezionisti. Con la sezione successiva entriamo nel XIX secolo, il cuore ideale della mostra. De Michelis, curatore della parte storica, riporta: A noi Interessava concentrarci sull'Ottocento, spesso etichettato come li secolo dell'eclettismo e da noi rlabllltato come secolo delle grandi Invenzioni In cui le funzioni del­ l'abitare si formano e si arricchiscono In una serie di mecca• nlsml e dispositivi straordinari e curiosi 2• La finestra sul gia1·• dino è il pretesto per un excursus sul mito di Robinson, sulla definizione di un nuovo, informale modo di vivere. Il cottage, il villino suburbano, serre e giardini d'inverno sono i prodotti di tale temperie culturale. La rivoluzione domestica indaga la crescente specializza­ zione dell'abitazione ottocentesca. Notevoli alcuni disegni di Lenoir, i progetti degli appartamenti parigini del periodo haussmanniano, le case vittoriane di Pugin, la documentazio­ ne del Biedermeier, delle nurseries inglesi. Con Salute e igiene la diffusione di un'accresciuta consa­ pevolezza igienica viene esplorata attraverso una grande quan­ tità di opere accomunate dal tema del bagno, da Degàs a Tom Wesselmann. Gli interni americani fra XIX e XX secolo sono analizzati rileggendo una serie di lavori che vanno dai dipinti di Seymour J. Guy per i Vanderbilt ad alcuni storici pezzi di Man Ray e di Meret Oppenheim, dalla Poltrona im­ pacchettata di Christo al tavolo (Elemento piano) di Tony Cragg, ad alcuni lavori di Roy Lichtenstein e di Andy Warhol. Il modello artistico è l'ispiratore di Bohème e primitivi­ smo; quasi una reazione al determinismo delle due sezioni precedenti. Vengono riproposti alcuni insoliti dipinti di Fidus



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di Barcellona deformato (forse perché lo spazio destinato a questo allestimento fa parte del terminale semicircolare del Palazzo della Triennale). Dalle vetrate lo sguardo spazia sulla vista di una sconfinata città (Los Angeles), emblema metro­ politano di un certo narcisistico compiacimento fisico. Il pro­ getto ci sembra paradossalmente connotato da una dirom­ pente carica rivoluzionaria. Koolhaas sospetta che l'architet­ tura moderna sia in realtà un movimento edonistico e che la sua severità, la sua astrazione e il suo rigore siano solo la trama su cui vengono costruiti gli scenari più provocatori per quell'esperimento che è la vita moderna 5• Sottsass, cui è stato chiesto di riflettere su ciò che può diventare oggi la conformazione dell'attrezzatura per il sonno e delle attività connesse al luogo del riposo, allestisce una camera da letto dominata da gadgets emittenti informazioni: l'esistenza è comunque un semplice problema di informazioni perché più uno ne ha e più esiste 6• Sofisticati televisori ci inondano quotidianamente di notizie, presiedendo ai rituali del sonno come le antiche icone religiose. Sono i garanti della realtà, anzi la realtà coincide con ciò che vediamo nei tele­ schermi. Il mondo viene sempre più massicciamente esperito attraverso il filtro televisivo: Andy Warhol codifica l'inutilità di muoversi dalle proprie case, operazione a cui è da preferire la televisione. Il reale ci spaventa forse a tal punto da rendere necessario l'uso continuato di diaframmi, di schermi che de­ purino e chiarifichino la pregnanza dell'esserci? Branzi ritorna sul tema della casa telecomandata: quella abitazione nella quale si è capovolto il tradizionale rapporto tra l'uomo e gli oggetti: egli non si sposta più da uno all'altro per usarli, ma li comanda, li guida stando seduto al centro della casa 7• La riflessione si allarga ai noti temi della preva­ lenza dell'informazione telematica, dell'insorgere di un nuovo edonismo individuale, del prolungarsi dei tempi 'domestici' propri delle società post-industriali. Un'immobilità che non è solo fisica, ma cui corrisponde una specie di 'immobilità' di fondo del mondo tecnico, che gli scrittori di fantascienza hanno spesso rappresentato come la riduzione di ogni esperlenza della realtà a un'esperienza di immagini (nessuno in-



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l'architettura. Purini rilegge il mitico archetipo vitruviano, fondato sulla necessarietà dei rapporti (oggetti sostenuti e corpi sostenenti), 'germe fecondo', modello gerarchizzato per parti. Rossi propone un inquietante teatro domestico, spaccato di un'abitazione che mostra impudicamente povere stanze, pochi mobili, banali rivestimenti murali a fiori; la piccolezza delle proporzioni contrasta con la grandezza di alcuni oggetti (caffettiere) ambiguamente fuori scala. L'allestimento ricor­ da le case di bambole, ma ancor più alcuni dipinti di Mafai; riporta alle ricerche di alcuni artisti americani (gli interni di Edward Hopper, gli 'ambienti' di Kienholz), al catastro­ fismo di un architetto come Frank Gehry (la casa Norton a Venice, in California, esibisce una facciata interna sfronta­ tamente 'esternata') 10• Ma soprattutto Rossi materializza un'immagine che aveva scolpita in mente: ho parlato con apprensione, quasi con paura, delle rovine delle case distrutte dalla guerra. Ho visto pareti rosa, lavabi divelti, grovigli di tubi, intimità distrutte; ho immaginato con tale vividezza il sentimento ed il vago malessere di questi appartamenti di­ strutti che una certa idea di un 'progetto con interni' mi ha sempre seguito da allora 11• Bellini colloca nella grande scatola dell'anima seicento plastici di abitazioni unifamiliari prodotti a Firenze dagli studenti di Remo Buti. L'allestimento mette a fuoco alcune significative riflessioni sul problema della catalogazione e della sistematizzazione della conoscenza, ci riporta alle mnemoteche di Louise Nevelson, al 'solalo' della memoria, ali' 'armadio dell'inconscio' 12, in un'epoca in cui i videoter­ minali si pongono come nuove, potentissime 'scatole del­ l'anima'. Ci sembra che la descrizione sopra delineata induca alla discussione di una serie di questioni di fondamentale impor­ tanza e ricorrenti nel dibattito contemporaneo. Anzitutto c'è da chiedersi perché sia stata allestita una mostra che fa della cultura dell'abitare, dell'arredamento, il suo nucleo fondativo, sino al punto da rileggere l'architettura, il design, le arti visive, in questa chiave. Abbiamo già fatto



il rapporto con il passato, costruire una continuità dell'espe­ rienza che è la sola capace di darle senso 16• La cura 'religiosa' del passato, in una società sempre più portata al rinnova­ mento in maniera acritica, meccanica, diventa paradossal­ mente l'attività più impegnativa per l'uomo contemporaneo; è la stessa automatica accelerazione del rinnovamento a sva­ lutare ed a porre in crisi il concetto di nuovo in relazione ai valori progettuali: ciò che diventa veramente umano è la cura di ciò che è stato, del residui, delle tracce del vissuto 17• La scelta di ambito occidentale che connota questi alle­ stimenti, insieme ad un certo diffuso catastrofismo, giustifi­ cabile espressione di tanta cultura contemporanea, ci sembra indicare una chiave di lettura interna ad una ontologia del declino, in una visione, come s'è detto, di fine della storia. Secondo una nota tesi di Heidegger, il nome Occidente, « Abendland », non designa il luogo della nostra civiltà solo sul piano geografico, ma la denomina ontologicamente, in quanto l'« Abendland » è la terra dell'occaso, del tramonto dell'essere 15• E cosi, l'Occidente non è terra in cui l'essere tramonta, mentre altrove splende (splendeva, splenderà) alto nel cielo di mezzogiorno; l'Occidente è la terra dell'essere, l'unica, proprio in quanto è anche, inscindibilmente, la terra del tramonto dell'essere 19• Concetti profondamente legati a quelli che vedono la post-modernità come fine, dissoluzione della storia almeno di una storia vista come processo uni­ tario, teleologicamente orientato. Una storia in cui proprio le finalità di progresso, il continuo rinnovamento per cui sempre nuovo progresso sia possibi.le, hanno svuotato di ogni significato la ricerca del nuovo. Un'altra questione che ci sembra emergere con insistenza, anzi costituire una sorta di invariante di questi allestimenti, è la crescente importanza assunta dai media nelle società post-industriali, per cui si viene a stabilire una precisa rela­ zione fra la sfera dei mass-media e le arti visive. evidente il rapporto che intercorre fra potere da una parte e possesso/capacità di manipolazione delle informazioni dall'altra; ma non tanto è importante ciò che si sa, ma quanto si comunica. Le arti visive, nel loro complesso, difficilmente

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