Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea
Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Livio Sacchi, Sergio Villari Segretaria di redazione: Roberta Amirante
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Edizioni • Il centro • di Arturo Cai:ola
R. DE Fusco
Design: che cosa si venderĂ ?
F.
PURINI
Parere su un nuovo
$. GIAMEITA
Niet,sche e l'estetica
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A. TRIMARCO
Arte oggi: concettualismo e tenden,e costruttive
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Libri, riviste e mostre
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ismo " architettonico
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Alla reda,ione di questo numero hanno collaborato: Roberta Amirante, Laura Cherubini, Liliana Moscato Esposito, Livio Sacchi, Sergio Villari.
La rivista si avvale del contributo economico dei seguenti Istituti ed Aziende: Alessi Banco di Napoli Camera di Commercio di Napoli Cassina Driade Informatica Campania Riam Zen Italiana
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le sue caratteristiche tecniche sono ancora sufficienti ed effi cienti) per risultare nuovamente appetibile. � dunque, in definitiva, proprio li gusto dell'utente a costituire una del le molle più importanti nell'evoluzione del design (cfr. «Domus», n. 668, gennaio 1986). Per parte mia, senza igno rare il secondo significato, ho generalmente adottato il primo (del resto l'uno dall'altro distinguibili dal contesto) per de notare la fase ultima, quella che utilizza il prodotto, che ap paga la domanda del pubblico, che in definitiva sancisce il successo di un prodotto. Tuttavia la componente« consumo», al pari delle altre che costituiscono l'intera fenomenologia del design, è distinguibile ma non separabile da esse, presen tando evidenti legami col «progetto» e la relativa problema tica morfologica, con la «produzione » e i connessi aspetti tecnici, con la «vendita» e le corrispondenti azioni promo zionali. ecc. Cosicché, avendo proposto per il design la simi litudine di un quadrifoglio, ovvero qualcosa che è unico pur avendo quattro momenti distinguibili, si possono sempre ri portare le altre componenti a quella da cui si parte, scelta in sostanza per dare un accento particolare al discorso che di volta in volta s'intende fare. Chiariti questi punti, la domanda « che cosa si venderà?» può porsi in ognuna delle quattro componenti suddette, dal l'iniziale atto ideativo all'utilizzazione finale del prodotto; ma è chiaro che, nonostante l'osmosi di tali componenti, la possibilità di distinguerli e manipolarli porta inevitabilmente a diverse strategie di vendita e a diversi modi di previsione di ciò che si venderà. Nell'economia del presente articolo, trascurando quella giu stamente stigmatizzata di una vendita che si basa sulla crea zione di finti bisogni, sullo smercio di prodotti artatamente resi deperibili per accelerarne il consumo, sul rivestire vecchi meccanismi con nuove ed effimere forme, ecc., svolgerò alcune considerazioni su due tipi di strategie commerciali: la vendita orientata sul consumo e l'orientamento critico delle vendite. In particolare, richiamerò l'attenzione, non tanto sulla tecnica del vero e proprio scambio, quanto sulla politica commerciale adottata dalla maggioranza delle imprese e soprattutto sulle
modi e nei tempi: i principi che fissano la continuità o la fine di un determinato modello seguono per lo più la parti colare politica aziendale e non dei criteri oggettivi validi per tutta la produzione. Cosicché la politica del « nuovo » a tutti i costi presenta in definitiva le stesse aporie dell'altra. Infatti, al campionario delle deduzioni tratte dalle ten denze in atto, orientative per quello che si venderà in futuro, sembra mancare, evidentemente offuscato dal consumismo più deteriore, un altro criterio: quello della persistenza dei modelli. Quanti prodotti devono il loro successo al fatto che per decenni vengono riproposti? Quale migliore garanzia può darsi al consumatore di un manufatto cui l'azienda stessa dimostra di credere? E chi ci dice che quella maggioranza di pubblico non ancora conquistata sia tale perché non al «nuovo» attribuisce valore ma al «vecchio»? La tendenza neomodellistica, subito dopo l'industria della moda che costituzionalmente è costretta a rinnovare il cam pionario ad ogni stagione, trova forse il suo campo più fertile nel settore del mobile e dell'arredo. Qui, tranne alcune ecce zioni (Azucena, Poggi, Cassina, « sperimentale» quanto « con servatrice», ecc.) non è esagerato sostenere che il meglio della produzione si trovi nei vecchi cataloghi piuttosto che negli attuali modelli in vendita. Veramente si crede che il gusto del pubblico, così difficile da riconoscere e da soddisfare, abbia la stessa instabilità dei progettisti? Che la gente sia disposta a relegare in cantina costosi elementi di arredo per seguire le cervellotiche sperimentazioni di . designer più o meno radicali? Chi non s'è accorto che la casa è il luogo delle stratificazioni, in cui possono coesistere mobili costruiti addirittura in secoli diversi? Figuriamoci se altrettanto non sono in grado di fare sedie, tavoli e poltrone vecchie solo di qualche anno! Benché non esista la parola in italiano, quale utente confonderebbe il consumo come utilizzo con il consumo come usura, sia pure sul piano del semplice gusto?
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Insomma dalle poche considerazioni che precedono si evin ce chiaramente che le indicazioni su che cosa si venderà non possono ottenersi come estrapolazione delle tendenze in atto, a causa dei seguenti motivi: a) non è facile, anzi quasi im-
eccezioni, si può dire che a tutt'oggi il critico del design si sia limitato ad intervenire solo a «cose fatte», a descrivere, illustrare, propagandare i prodotti, a giudicarli sempre posi tivamente perché in fondo è sempre stato, a vario titolo, un dipendente dell'azienda produttrice. Non ancora formatasi come positiva e pratica istituzione, la critica del design è passata dalla pura teoria, talvolta dall'ideologia, alla mera scrittura delle didascalie che accompagnano l'illustrazione grafica dei prodotti. E veniamo invece alle sue potenzialità. Al pari della critica d'arte, essa ha legami con la storia, con la filosofia, con la sociologia, ecc. In più essa dovrebbe avere maggiori espe rienze tecnologiche, perché l'oggetto del suo esame è forte mente condizionato dalla tecnica; maggiori conoscenze di economia, perché la produzione industriale rientrante nella cultura del design è anche e soprattutto un fenomeno eco nomico; maggiore dimestichezza con l'ergonomia in quanto disciplina che regola i processi di lavorazione; maggiore fa. miliarità con la semiologia, perché il prodotto industriale è un segno o un sistema di segni che comunica «messaggi» nel quadro della vita sociale, ecc. In sintesi, la critica dell'arte applicata o del design si differenzia dall'altra perché non do vrebbe intervenire, come s'è detto a «cose fatte»; non esau rirsi nel giudizio valutativo di un prodotto ma, fondandosi principalmente su quei fattori e criteri che nell'altro caso abbiamo visto come ausiliari, intervenire in tutt'e quattro le componenti del design. Non è casuale infatti che di questo genere di critica si parli qui proprio a proposito della compo nente «vendita», di un momento cioè, che almeno sulla carta, dovrebbe essere estraneo alla critica d'arte tout court. In somma, mentre quest'ultima ha per oggetto il prodotto, la critica del design ha per oggetto il processo, l'intero processo che va dall'ideazione al consumo dei manufatti. Se questa è la sua materia, se deve agire in un ambito processuale, la critica del design può muoversi liberamente nelle due direzioni di tale processo: partire dal consumo e attraverso le esperienze che trae dalla fase della vendita influenzare (oltre i limiti del consulente aziendale) la
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produzione, fino a suggerire tipi e forme di progetto, oppu. re muovere da questo e in vista delle possibilità produttive e commerciali giungere a cogliere le istanze del consumo fino a modificarle. In altre parole, la critica del design - al di là della visione specialistica del designer, del produttore, del l'esperto in marketing, del commerciante, del consumatore è in grado di ridurre (nel senso di ricondurre, di trasmettere) alla produzione i valori-interessi del consumo e a questo i valori-interessi di quella. Solo operando questa sorta di tra vaso, solo agendo da cinghia di trasmissione, essa ha la possi bilità, da un lato, di vincere le resistenze anticulturali di un pubblico conservatore e, dall'altro, di vincere le insistenze che spesso la produzione, in nome del mero profitto e del consumismo nell'accezione deteriore, esercita sul pubblico. Logicamente, assegnando alla critica questa funzione di mediazione e di positivo compromesso, saremmo portati a concludere che essa costituisca certamente il risolutivo punto d'incontro fra produzione e consumo, ovvero· tutto quanto concerne la « vendita » - forma, gusto, qualità, quantità, prezzo dei prodotti - che incarna tale punto d'incontro. Ma l'uso del condizionale è imposto da un'obiezione che può muoversi a quanto precede e dalla crisi stessa che oggi attra versa il design. Quanto all'obiezione, essa riguarda la questione, in parte fondata, in parte demagogica, per cui l'accordo auspicato sopra toccherebbe senza risolverlo il problema dei manipo latori e dei manipolati. Si può replicare che il sociologismo ispiratore anni fa di tale binomio è stato smentito dalla realtà dei fatti, che in generale si è dimostrata assai più grave e complessa di quanto avessero· previsto detti schemi. Ne è prova l'attuale crisi caratterizzata da una grande confu sione che investe ogni campo e ogni fase del design.
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Nella presente condizione lo stesso fenomeno della mani polazione, posto che sia ancora attuabile, appare il minore dei mali, mentre si pone e nel modo più pressante la questione di un orientamento, atteso da tutti; la critica - se riuscirà a risolvere le sue aporie - sembra· essere l'azione meglio deputata ad indicarlo.
Parere su un nuovo "ismo " architettonico FRANCO PURINI
Una sorta di « memoria operativa» della modernità, ma anche della storia per come questa è stata ricordata proprio dalla modernità, costituisce il nucleo di una proposta disci plinare avanzata da Renato De Fusco nel saggio d'apertura, dal titolo Verso un nuovo « ismo» architettonico, del numero 65 di questa rivista. Si tratta di una memoria che intende riproporre elementi fisici e non luoghi tematici, che si pre figge di mettere in scena frammenti di composizioni dai quali sia impossibile però risalire ai sistemi unitari iniziali, che si rappresenta nello stesso tempo come un insieme di « trame accennate » per racconti da completare e come un complesso di snodi o terminali derivanti dalla demolizione di « scritture finite». Come parziali intrecci enigmatici per quanto riguarda il loro completamento e la loro collocazione questi frammenti descrivono un paesaggio linguistico intermittente, punteg giato da nuclei grammaticali e sintattici interrotti e insidiati da un loro possibile « grado zero». Essi sembrano collocarsi tra una temuta impossibilità di pensare e pronunciare « parole», soprattutto parole nuove, e un'ancor più forte avver sione per la ridondanza di un discorso costruito su integrali e iterate citazioni. Tra gli estremi dell'afasia e della retorica è possibile individuare un'area di concreta operabilità: garantiti dalla loro convenzionalità ma destabilizzati dal loro déplacement e dalla loro incompletezza, questi « echi » della modernità sembrano in grado di conferire alla scrittura ar-
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chitettonica una ritrovata legittimità. L'invenzione deve allora spostarsi in avanti, laddove il problema della riconoscibilità pubblica delle parole è stato già risolto ma rimane ancora parzialmente inesplorato non solo il loro uso più appropriato ma soprattutto il modo di legarle del quale si propone sem plicemente un modello primario, un'articolazione di base, una ripartizione di aree di riverberazione. La consapevolezza che forse non è possibile inventare parole nuove in architet tura ma solo scriverle e pronunciarle in un altro modo per fonderle infine in inedite scritture attraversa come un allarme tutto lo scritto la cui preoccupante premessa, «l'architet tura sta chiudendosi in un proprio recinto», si insedia pro gressivamente in tutti i suoi passaggi, La « profezia poetica» di De Fusco, perché di questo si tratta e non tanto della proposta di un metodo o di un nuovo movimento, nonostante l'autore la presenti come un ennesimo «ismo», suggerisce immediatamente due imma gini, l'una «meccanica», l'altra «chimica». La definizione di «pezzi» relativa ai frammenti linguistici rimanda ad una idea quasi visiva di smontaggio se non addirittura di distru zione del «corpo meccanico» dell'architettura moderna il quale aveva sostituito ed esiliato quel «corpo organico» ere ditato dal classicismo. L'idea di architettura moderna sugge rita, e che è talmente forte da retroagire su tutta l'architet tura «storica», è quella di una sorta di magazzino o di maceria di blocchi figurativi, di semilavorati formali, di spez zoni «prefabbricati» di frasi architettoniche, incompleti «prefabbricati" per un comporre che si presume concitato e discontinuo. L'assemblaggio di cui l'autore parla e che ri corda più i bricolages di un Paolozzi che le «ricomposizioni » di una Nevelson dovrebbe conseguire l'effetto di «tranquilliz zare», con la prevista e apparente casualità del montaggio e con i conseguenti esiti di relativa «informalità», di « nor malità » e di sdrammatizzata « imprevedibilità» delle pro poste, il pubblico dell'architettura. Solo riconducendo questa entro dimensioni non più eroi che bensì detotalizzate e centrate su di una controllata seb14 bene «nervosa» quotidianità,· sembra suggerirci l'articolo,
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inoltre positivamente la volontà di « accademizzare» il mo derno formalizzando un sistema competitivo trasmissibile nel momento in cui, contraddittoriamente, nessuna nuova « regola» viene proposta che non sia « memoria» di un lin guaggio o di una sua parziale articolazione. Se la proposta poetica di De Fusco è ampiamente condi visibile, anche perché rigorosamente contenuta nell'ambito del linguaggio architettonico, non altrettanto indiscutibile ap pare la sua constatazione iniziale sulla « perdita di contatto» tra architettura e pubblico fatta risalire ad un progressivo autoisolamento che gli architetti hanno realizzato attraverso l'espulsione dal loro orizzonte dei « temi pratici contempora nei » e delle «istanze più elementari della gente». Ma se questo distacco è indubbio la ragione può essere in realtà opposta e le conseguenze forse ancor più preoccupanti. L'assenza di interlocutori capaci di dettare le regole del gioco, di farle rispettare, di sostituirle o modificarle sembra contrassegnare negativamente gran parte dell'attuale ricerca progettuale in architettura. Privato di un dialogo con un'auto rità concorde o comunque partecipe, ma anche sottratto allo scontro con wi potere ostile o se non altro fortemente condi zionante, l'architetto si misura oggi non solo con l'indifferenza con la quale la società accoglie il suo lavoro ma soprattutto con la scomparsa di quei limiti attraverso i quali le era con sentito di identificare la propria disciplina. Ridotta a pura richiesta quantitativa, la domand·a rivolta agli architetti ha perduto quel carattere complesso e problematico capace di trasformarla in quello che De Fusco chiama« dato di fatto», vale a dire qualcosa di incontrovertibile in grado di configu rarsi nello stesso tempo come vincolo e come stimolo. In altre parole, sembra essere venuto meno proprio «quell'in sieme di fattori invarianti esterni all'architettura» la cui funzione consiste nel produrre, orientare, controllare la ri sposta «esterna» dell'architettura. Ma un «dato di fatto» che sia contemporaneamente vincolo e stimolo, condiziona mento e spinta alla ricerca di nuove soluzioni non è altro che un «principio tipologico ». � proprio questo invece che è sottratto oggi all'architetto. Dalla società in genere e in
particolare dai partiti politici così come dai centri del potere economico non perviene agli architetti alcuna vera richiesta. L'indifferenza della società nei confronti dell'architettura si rappresenta nell'eclisse progressiva della riflessione pubblica sulla città, nel suo divenire un luogo sempre più astratto, la cui residua fisicità tende a trasformarsi in semplice paradigma di relazioni funzionali. Ma se l'indifferenza finisce col produrre l'equivalenza delle soluzioni presso il pubblico al quale sono destinate, la man canza di una vera contrattazione determina la genericità delle soluzioni in quante nate al di fuori della logica della domanda e della risposta. La risposta previene la domanda che allora si configura come un dispositivo selettivo « a posteriori»: in questo rovesciamento radicale apparentemente irreversibile si manifesta una delle più insidiose difficoltà del progetto con temporaneo. La vicenda dell'architettura italiana dall'inizio degli anni Settanta ad oggi può essere interpretata come una descrizione della progressiva latitanza del potere dal « progetto architet tonico» e nello stesso tempo come una relazione critica fin troppo sofferta e fin troppo ben scritta sui modi con i quali l'architettura stessa ha tentato di ricostruire un dialogo con ' il proprio interlocutore assente. Se è vero infatti che la « battaglia» per « l'autonomia disciplinare» è stata vinta perché i poteri dai quali si v.oleva affrancare l'architettura non erano in realtà interessati al suo destino, è anche vero che l'« architettura disegnata», logico sviluppo di quella bat taglia, non è stata altro che la presa d'atto di questa lonta nanza. Da questo punto di vista l'« uso e l'abuso della storia» di cui parla De Fusco può essere considerato come il tenta tivo più radicale di riallacciare un rapporto con la « necessità dell'architettura» a partire dalla riassunzione nel progetto della sua intera profondità temporale. Identificandosi con la storia dell'architettura il progetto non ha cercato altro che un'alternativa ad una legittimazione perduta quasi volesse nascere già garantito da una precedente « lunga durata». Il disinteresse del potere per l'architettura è in qualche modo effetto della ricchezza del fare, una ricchezza relativa
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ma non per questo meno reale. Esaurita l'emergenza delle tre « ricostruzioni», quella post-bellica, quella dei sistemi metropolitani e delle grandi infrastrutture, quella del sistema produttivo, questa ancora in realtà in atto, i problemi dell'ar chitettura sono stati riconsegnati all'architetto. Privato di quel controllo sociale che in fondo lo gratificava ma soprat tutto non più incalzato da scadenze «esterne», l'architetto ha scoperto traumaticamente un'inaspettata libertà che si è rappresentata di fatto come molteplicità di prospettive, com presenza di alternative equivalenti, labilità dei programmi. Lo smarrimento che ne è derivato, esorcizzato sia attraverso il rassicurante «rientro» nell'alveo della storia che all'in terno di una nevrotica ricerca di un nuovo consenso presso il pubblico, appare in realtà la più importante risorsa dispo nibile oggi per una consapevole strategia disciplinare capace di riconoscere nel linguaggio il luogo esclusivo della verità dell'architettura. Schematizzando una situazione in realtà molto variegata e costantemente in evoluzione, sembra possibile individuare rispetto a questa condizione ormai generalizzata, anche se spesso inconsapevolmente vissuta dagli architetti, tre com portamenti principali. Il primo consiste nel tentativo, messo in atto soprattutto da coloro che si occupano principalmente di questioni urbanistiche o che identificano nell'urbanistica il «luogo» privilegiato delle trasformazioni dell'abitare, di ricondurre questo disinteresse alle sue origini politiche. At traverso l'impropria assunzione della disciplina architettonica come una delle forme della politica, vale a dire come la derivazione immediata di un esplicito programma sociale ma anche di un semplice, implicito orientamento ancora non quantificato e descritto, si tende a concepire il progetto come il momento funzionale di una strategia in cui la « risposta» architettonica è ridotta a prestazione utilitaria. Il problema del linguaggio è ovviamente del tutto accantonato mentre la ricerca consiste sostanzialmente nel muoversi tra la corice zione di una costituzionale «inadeguatezza» se.non «irrile vanza» dell'architettura e il recupero di una sua residua positività all'interno della scelta di un «iperrealismo» più che
un «realismo» che fa proprie le « critiche storiche» al «for malismo» ma dall'«esterno» del problema della forma e in definitiva del linguaggio. Per gli architetti che si identificano in questo comportamento l'indifferenza del potere nei con fronti dell'architettura non può darsi se non come «incapa cità » della disciplina di interpretare e illustrare un progetto generale, il Piano o più semplicemente i piani, progetto nel quale si rappresenta l'intera idea della «razionalità». Per gli architetti «iperrealisti » infine la tipologia si riduce ad un insieme di dispositivi normativi mentre la storia dell'archi tettura si appiattisce a cronaca della congenita «spropor zione» tra la disciplina e le sue finalità. Trasformata la tipologia in rilevamento statistico, la storia si configura conseguentemente come un sistema di prove della sovrastrutturalità della disciplina. Questa deformazione finisce non solo con il vanificare qualsiasi paradigma quali tativo ma soprattutto con il negare radicalmente un auten tico legame di causa ed effetto tra trasformazione del reale ed evoluzione della ricerca architettonica: anche la storia è ridotta allora a ricognizione statistica del gratuito e del ca suale, a classificazione pessimistica delle difficoltà e delle inutilità, a dimostrazione della sua presunta subalternità. Rispetto a questa negazione radicale delle risorse cono scitive, «autonome», dell'architettura e alla parallela identi ficazione di questa come «incidente» o «difetto» se non come «errore» del Piano, questo a sua volta inteso come « manifestazione » diretta della politica, appare senz'altro più importante ma anche in fondo più «rischioso» il comporta mento di quegli architetti per i quali un dialogo tra archi tettura e potere esiste per davvero ed è in grado di assegnare alla disciplina quei limiti che le sono essenziali. Questi architetti finiscono col mettere in scena una «finzione» attraverso la quale «rappresentano», come fossero altrettante realtà, condizionamenti, obbiettivi qualitativi, strategie realizzative ·che non sono altro che proiezioni, auspici, progetti di nuove relazioni tra architettura e potere, architettura e pubblico. Pur se effetto di un'intenzione che ha indubbiamente la sua nobiltà, questo atteggiamento attraverso la «simulazione»· 19
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di una domanda e della sua concretezza contribuisce di fatto al mantenimento ed anzi al rafforzamento di una condizione «equivoca» del progetto- d'architettura che continua così ad alimentarsi dell'illusione di uno scambio strutturale con l'esterno che è invece un volontaristico ed ottimistico sce nario posto davanti ad un vuoto effettivo. :e una finzione, questa, che se muove dall'assunzione della categoria moderna dell'«emergenza» come necessità di fronteggiare un immi nente collasso del territorio e della città si rappresenta come una forma di «narcisismo imperfetto » all'interno del quale l'architetto trasforma l'isolamento nel quale si riflette in una totale disponibilità che riveste le prestigiose ma apparenti, in fondo, in questo contesto, forme dell'engagement. Emer genza e narcisismo congiurano allora perché l'architetto con solidi quel regime di «rinvio costituzionale » che avvilisce qualsiasi prospettiva di autentica riforma del territorio e della città. Ecco il progetto d'architettura farsi «dispositivo di attesa» delle decisioni politiche, sistema di intratteni mento, anche se di alta qualità, alibi inconsapevolmente of ferto ai politici i quali possono farsi schermo proprio della complessità delle analisi e delle proposte per legittimare il differimento delle scelte e la loro strutturale e premeditata irrilevanza. Se all'interno di questo comportamento la rifles sione sul tipo diventando «totale» finisce col disperdere la sua natura «creativa» in una sorta di «saggistica» che in terpreta con le stesse categorie repertori scalari inconcilia bili, la storia dell'architettura si presenta come luogo di «interdizioni» progressive. Trasformata sostanzialmente nel la forma più sofisticata e specifica della «consapevolezza» dei problemi architettonici, la storia così intesa si rappre senta in definitiva come un sistema di divieti. La conoscenza e l'interpretazione degli eventi, formalizzate in strutture ge neralizzanti, si sovrappongono opacizzandola alla fisicità delle cose e soprattutto alla loro unicità. Se la storia è consapevo lezza e «risoluzione» di enigmi, gli oggetti che essa elenca debbono «appartenersi» l'un l'altro costituendosi in sequen za, presentandosi attraverso dissolvenze, proponendosi in modo sottilmente deterministico come esiti in fondo inciden-
tali di wia più importante «avventura delle idee». Elevata inoltre a «interpretazione» degli insediamenti la storia del l'architettura è condannata a perdere solidità, ad occultare le diversità, a negare in fondo quella possibilità di riassun zione del tutto nell'unità che costituisce una delle categorie che identificano l'opera di architettura. Non c'è dubbio che il punto più alto ma anche più denso di rischi futuri raggiunto all'interno di questo atteggiamento sia rappresentato oggi dalla ben nota riflessione teorica e progettuale sul tema della « modificazione» proposto qualche• tempo fa dalla gregottiana Casabella. L'esito non ancora forse deludente ma certo discutibile di alcwie prove architettoni che ispirate a questa ipotesi disciplinare sembra rivelare un suo limite notevole consistente nella tendenza a non far prevalere gli esiti dell'interpretazione sull'interpretazione stessa. In questo senso la strategia della modificazione rivela la sua natura eminentemente programmatica e procedurale che legittima la « presa d'atto» del testo solo a patto che questo sia preventivamente investito da wi'«aura» che possa attribuirgli una sorta di « plusvalore»: le modalità dell'inter pretazione trasformano ciò che è interpretato in qualcosa dotato « comunque » di un significato. Se all'origine in qual che modo. troppo «centralistica » ed equilibrata di questa strategia riassumibile nella necessità di « costruire nel co struito » si era configurato il pericolo di una sostanziale « remissività » della disciplina, il suo decorso ha successiva mente evidenziato la tendenza a rappresentare nel progetto gli effetti della modificazione del progettista rispetto al testo più che le interne e autonome risorse di questo. Anche la capacità dell'edificio di «autodeterminarsi» viene messa in ombra nel senso che l'analisi del contesto tende a risolvere e a totalizzare l'intera estensione del linguaggio architettonico: la «scrittura» scivola allora verso la « riscrit• tura» mentre la singolarità dei luoghi è sopraffatta da una formalizzazione radicale delle modalità di lettura. Simulando un interesse da parte del potere politico, di quello economico e del pubblico in genere per l'architettura, interesse che non è altro che un semplice «desiderio rappresentato», gli archi- 21
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tetti impegnati in questa linea costruiscono un interlocutore «virtuale» e una finta processualità che declina artificiosa mente tutti i passaggi di un vero confronto. Questa com plessa «messa in scena» che non riesce a nascondere fino in fondo una sottostante coloritura drammatica e una punta di nevrosi si iscrive all'interno di una compiaciuta attitudine ad una «nuova sensibilità» troppo meccanicamente contrap posta alla vecchia durezza attribuita e rimproverata ai no stalgici della cultura del «nuovo». L'invocato understatement del linguaggio, confinante spes so con il poeticismo e con il mimetismo, si inverte nella ri trovata totalità dell'autoverifica, nella presunta circolarità di un processo in realtà concluso solo nella generosa illusione di una finzione, nell'ottimismo di un'autarchia. A fronte dell'esplicito riduzionismo tipico del primo com portamento e del più accorto «ecumenismo interpretativo» del secondo sembra senz'altro ·più apprezzabile l'accettazione, da parte di alcuni architetti, di quella «solitudine» che deriva dal disinteresse dei poteri e del pubblico nei confronti della disciplina. Scelta coraggiosa, questa, tanto più che si tratta di una condizione che non presenta neanche quei risvolti dram matici capaci di indurre la consolazione dell'autocommisera zione o il piacere perverso della marginalità. Accettare l'indif ferenza e la conseguente assenza dei limiti riporta il lavoro dell'architetto all'interno della verità del linguaggio. Il limite viene ricercato entro un altro limite e l'architettura non esprime altro che i contorni nei quali è stata costruita. Da questo punto di vista la scelta di un «formalismo ascetico » appare in fondo la più realistica, nonché la più radicale so prattutto se orientata alla rescissione di quei residui e non più funzionanti legami tra architettura e potere che impedi scono alla disciplina di esprimere la sua rinnovata solitudine che è qualcosa di superiore alla sua stessa autonomia. Scaturita da una colpevolizzazione senz'altro eccessiva an che se in fondo ottimistica dell'architettura attuale, accusata di abbandonarsi ad un gratificante autoisolamento dalla realtà, la proposta di De Fusco acquista tanto più senso quanto più la si proietta sullo sfondo del comportamento
appena descritto. I limiti che si sono verificati all'interno di questa linea, ad esempio una preoccupante insistenza su moduli figurativi simmetrici e su combinazioni spesso mec caniche di elementi « nuovi » e frammenti stilistici tratti dal l'antico, potrebbero essere in gran parte superati tramite il ricorso a quelle dissonanze, a quelle contrapposizioni e a quelle disgiunzioni che un procedere « per pezzi» potrebbe stimolare orientando il comporre verso tonalità « neoprimi tive», imprevedibili, compromesse con i contesti ma capaci di esprimere la grande città come forma riconoscibile. Nello scontro tra questi « echi» di scritture dissolte, tra queste memorie di parziali assemblaggi, tra questi frammenti incompleti e l'unicità dei luoghi sarà possibile inoltre contra stare quel residuo di astrattezza teorematica che contraddi stingue questo come del resto qualsiasi altro « progetto di poetica». C'è da rilevare, infine, che questa ipotesi non contrasta ma al contrario asseconda quel carattere permanente del l'architettura italiana, che può essere identificato in un'aspi razione alla classicità ovvero a quella dimensione di solitu dine e di esattezza che individua e conferma nel linguaggio il luogo della disillusione e della speranza, il luogo del si lenzio, il luogo della responsabilità, il luogo esclusivo della verità e della necessità.
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Nietzsche e l'estetica SOSSIO GIAMETTA
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· Nel 1872 Nietzsche aprì la serie rivoluzionaria delle sue opere con una trattazione sull'arte: La nascita della tragedia ovvero Grecità e pessimismo. In essa egli introduceva per la prima volta, dopo la prova generale fatta un paio d'anni prima con La visione dionisiaca del mondo, quella coppia di concetti che tanta fortuna doveva avere: l'apollineo e il dio nisiaco. Rileggiamone l'inizio: Avremo acquistato molto per la scienza estetica, quando saremo giunti non soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza immediata del l'intuizione che Io sviluppo dell'arte è legato alla duplicità del1'«apollineo» e del «dionisiaco», similmente a come la genera zione dipende dalla dualità dei sessi, attraverso una continua lotta e una riconciliazione che interviene solo periodicamente. A più di un secolo di distanza, dobbiamo domandarci: ab biamo veramente, con tali concetti, acquistato molto per la scienza estetica? Certo l'elaborazione che Nietzsche ne dà è di per sé geniale, fin dal primo paragone con le lotte e ricon ciliazioni dei sessi, e soprattutto essa è legata a quelli che possono dirsi i due elementi di base di ogni esperienza arti stica e forse di ogni esperienza in genere (per esempio anche del nutrirsi): l'elemento della novità e l'elemento della ripeti zione, il nuovo o ignoto che si acquista e il vecchio o noto che lo assimila o con cui lo si assimila. Essi possono stare tra loro nella proporzione più diversa. A seconda che il primo prevalga sul secondo o il secondo sul primo, abbiamo un'arte
più aperta alla sostanza, ai contenuti vitali, fino all'informe, o più chiusa, più ritmata, più strutturata, fino al formalismo. Dunque, nel forgiare i suoi strumenti, Nietzsche lavorava nel pieno e non nel vuoto, sicché ben dice Benedetto Croce, a proposito di detta opera, che Nietzsche in mezzo a moltl errori, espone intorno all'arte concetti nei quali vive l'elevata filosofia estetica che rifulse già nel periodo 'romantico' ( o piuttosto 'classico') del pensiero tedesco (« Le origini della tragedia» di F. Nietzsche, in Saggio sullo Hegel, Bari, 1967, p. 410). Questa elevata filosofia estetica era però derivata da Nietzsche in particolare dal suo maestro Schopenhauer. E per la verità non solo la filosofia estetica, ma la filosofia tout court. Nel terzo libro del Mondo come volontà e rappresenta zione, voi. I, Schopenhauer aveva infatti dato la sua estetica in stretto collegamento con la sua teoria fondamentale della distinzione tra fenomeno e noumeno, a sua volta di deriva zione kantiana. Allo stesso modo, Nietzsche mirava soprattutto, indagando la genesi della tragedia, a dare la sua filosofia, una sua pro pria filosofia della vita. La quale era però, in questo caso e per allora, niente altro che una grandiosa applicazione al mondo greco della stessa filosofia di Schopenhauer. A que st'applicazione era certo impressa già quella rotazione mora listica che si sarebbe sempre più accentuata col tempo, in corrispondenza del crescere e maturare della personalità originale di Nietzsche e che lo avrebbe alla fine nettamente distinto e in buona parte contrapposto al maestro. Ma, per intanto, nient'altro era il dionisiaco o « dolore originario del mondo» se non la Volontà di Schopenhauer che si oggettiva e si individua con lotta perenne, che contrappone gli esseri, non solo umani, e i loro egoismi; e nient'altro era, d'altro canto, l'apollineo, quella Ubertà dalle emozioni più violente, quella calma piena di saggezza, quell'occhio solare, se non lo schopenhaueriano sottrarsi del soggetto alla Volontà e alle sue lotte per rifugiarsi nella contemplazione dell'idea plato nica o essenza universale, che lo libera dal principium indivi duationis e lo trasforma in soggetto puro del conoscere. Anche per quanto riguarda più strettamente l'estetica, la
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senso. La musica è diversa dalle altre arti non solo perché anche le altre sono... diverse da essa (e non mancano a loro volta di estimatori esclusivi), ma anche perché ha, su molti, effetti particolarmente profondi o trascinanti. Lo confermano molte testimonianze, tra cui quella di Tolstoj è solo una delle più autorevoli. A che cosa sia dovuta questa forza particolare della mu sica e lo speciale fascino che essa esercita, merita bene di essere studiato, nell'ambito dell'analisi dei modi e mezzi delle singoli arti, sempre diversi e sempre, anche, di diversa effi cacia; ma non è di per sé una questione rilevante in sede di definizione dello status delle arti, nel senso di affermarne la parità o disparità. Ad effettuare il suddetto studio, si troverà forse che tale forza e fascino sono dovuti al fatto che la musica si svolge nel tempo come la vita stessa del sentimento, ossia come la vita che più immediatamente percepiamo, sic ché per noi l'una si confonde facilmente con l'altra. Ma seb bene tutt'e due si colgano nello stesso modo puro, essendo la musica, come la vita del sentimento, ohne Stoff, forma pura senza materia, come dice Goethe della musica, non è affatto indifferente che l'una sia percepita col solo senso in terno (il sentimento) e l'altra invece (prima) con l'orecchio, ossia nel tempo. Il tempo è difatti, con lo spazio, l'altra forma costitutiva dell'a priori della nostra intuizione, .ossia della rappresentazione. Era poi unilaterale, in Schopenhauer, la visione della vo lontà come contraddizione, lacerazione e dolore intervallate, tutt'al più, da istanti o periodi di soddisfazione. Già: che cosa significa istanti o periodi, giorni mesi o anni? che cosa significa la durata, la quantità in fatto di sentimento? dove vige solo la qualità? dove l'intensità è tanto più breve quanto più è forte, se l'individuo non deve scoppiare? e dove peraltro non si tratta tanto o solo di soddisfazione, appagamento, requie, sosta, tregua, ma, o ma anche, al caso, di gioia e felicità, magari intensissime, inenarrabili e sublimi, con tutto il resto della gamma positiva che neanche il più incallito pessimista (come Schopenhauer appunto) può rendere meno estesa o ricca di quella negativa, di quella del dolore?
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Ma proprio questo è uno dei punti che bisogna chiarire per Schopenhauer e certo altri filosofi, tra cui Nietzsche. Il filosofo, cioè l'uomo che s'imbarca nell'impresa « impossibile» di « spiegare il mondo», secondo la definizione che della filo sofia dà Schopenhauer stesso, cade quasi sempre nel tita nismo, senza accorgersene e senza volerlo. Ma una volta che l'uomo abbia abbandonato la sua posizione di cittadino del l'universo, cittadino di pieno diritto ma di limitato potere, con un obbligo di coesistenza e di rispetto per gli altri esseri, non solo umani, e per l'altro in genere, ossia la natura in quanto ci tocchi e ci riguardi, esce dalla legittimità e quasi dalla sua pelle e dunque non può aspettarsi né gioia né sere nità. Anzi è fatalmente commesso a un perpetuo orrore. Ora, dall'orrore scorto nel titanico isolamento della sua filosofia, Schopenhauer era incantato, affascinato non meno dello scoiattolo dal serpente di cui così terribilmente narra, per bocca di uno scienziato francese, nella sua opera principale. Quest'orrore esprimono sempre le sue parole quando par la del male del mondo, del « dolore senza nome», dello « strazio dell'umanità», del « trionfo della cattiveria», della « schernevole signoria del caso» e della « caduta senza scam po dei giusti e degli innocenti» che costituiscono, secondo lui, l'oggetto della tragedia. :È nota la sua potenza artistica nel raffigurare gli strazi del mondo, forse uguagliata solo da quella del suo discepolo, che non per niente si rammariche rà, in seguito, di non aver poetato, cantato, al posto di filo sofare, nella Nascita della tragedia. Ma, pur intaccato o rovi nato nell'intimo dalla morbosità del maestro, come bisogna chiamarla, Nietzsche farà, escogiterà poi l'impossibile per offrire a sé e agli uomini un qualunque appiglio di salvezza, con quanta efficacia non è qui il caso di esaminare. Già all'inizio, comunque, il suo dionisiaco non è soltanto il dolore originario ma anche l'ebbrezza, la gioia e la voluttà originarie. Ciò gli offre le più ricche possibilità di intessere qùella trama di dolore e piacere, arte e filosofia, epica e lirica e tragedia, sogno e arte plastica, che resta un inaudito pezzo di. virtuosismo, tanto più apprezzabile come tale, come 28 elaborazione-creazione, quanto meno fondato su giuste rela-
zioni tra le cose di cui si parla. Ma per citare almeno un paio di errori fondamentali commessi nella Nascita della tragedia: 1) Dioniso e Apollo sono personificazioni e mitizza zioni di due momenti essenziali dell'arte, di ogni arte: l'ele mento passionale e l'elemento fantastico-trasfigurativo. Non c'è un'arte o delle arti di Apollo e un'arte o delle arti di Dioniso, ma c'è l'arte in cui partecipano sempre, in modo essenziale e costitutivo, anche se magari in misura diversa, Dioniso e Apollo insieme. In realtà la sbalorditiva rete di mitizzazioni è dettata in quest'opera da un innamoramento, da filologo e filosofo nascente tedesco, della Grecia e del l'arte greca; 2) Omero, poeta epico, come tipicamente apol lineo. Ma non è, invece, l'Iliade il più tragico dei poemi? E, volendo appoggiarsi all'autorità, non chiama Platone, nel Teeteto e nella Repubblica, tragedia l'Iliade e « duce della tragedia » Omero? E non dice il filosofo Polemone « Omero un Sofocle epico e Sofocle un Omero tragico»? Il fatto che altri antichi menzionino invece l'Omero epico-apollineo a contrasto con la tragedia, non vuol dire se non appunto che in tutti gli artisti e le arti, e non solo nella tragedia, c'è una conciliazione, un incontro e una riconciliazione di Apollo e Dioniso. Nel Tentativo di autocritica aggiunto sedici anni dopo come « epilogo o prefazione» alla Nascita della tragedia, Nietzsche stesso fa ammenda dei propri errori giovanili. Ammenda pubblica ma non puntuale, perché autorizza sì a chiamare « arbitraria, oziosa, fantastica» la sua « metafisica da artisti», ma non scende nei particolari. Proprio quest'ul tima espressione, tuttavia, « metafisica da artisti», fornisce il mezzo e lo spunto per dire ciò che, riguardo a Nietzsche e all'estetica, occorre soprattutto far chiaro, come non è stato ancora fatto. Nonostante il gran tuffo nell'estetica fatto da Nietzsche in gioventù e nonostante che egli abbia poi anche continuato per tutta la vita a parlare di arte e di artisti, in particolare della lingua e degli scrittori, che era il suo Fach o specialità, ma trattando anche ampiamente di musica a proposito del suo Erzfreund-Erzfeind, amico-nemico capitale Wagner: sarebbe vano cercare nel mare magno dei suoi scritti 29
menzogna in senso extramorale 1• Questo saggio fu infatti scritto non certo per scrutare o affermare la natura del lin guaggio o dell'arte in genere (che a rigore coincide con quello), ma per negare la possibilità della conoscenza e per mostrare di che cosa sia fatta quella che per solito è ritenuta tale. E quella che per solito è ritenuta tale vi è mostrata come fatta non di « rappresentazioni» corrispondenti all'es senza delle cose, ma di immagini tendenti a metamorfosare il mondo nell'uomo. La verità è pertanto definita come un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi che non corrispondono affatto alle essenze originarie. Tra il sog getto e l'oggetto, si dice, non c'è passaggio o comunicazione, non c'è «causalità», «esattezza», «espressione», ma tutt'al più un rapporto «estetico», [ ...] una trasposizione allusiva, una traduzione balbettata in una lingua del tutto straniera. Ma la metafora, anche se non rispecchia affatto la cosa in sé, che è per l'uomo inafferrabile e che egli comunque non ritiene neanche degna di essere ricercata, è però - come non era il fenomeno in Schopenhauer - l'intuizione, il linguaggio, la poesia, che non sono certo la copia del vissuto e neanche la pedissequa interpretazione di esso, bensì la continuazione dell'esperienza con altri mezzi, il frutto dell'attività del «sog getto artisticamente creativo», se si vuole di un'attività ri creativa, che placa ed appaga. In ogni caso il sorgere della lingua non segue un procedimento logico, dice Nietzsche, e l'intero materiale su cui e con cui più tardi lavorerà e co struirà l'uomo della verità, l'indagatore, il filosofo, proviene, se non da una Nefelococcigia, certo però non dall'essenza delle cose. Del pari, è certamente un errore considerare il mondo intero come connesso con l'uomo, come l'eco infinitamente ripercossa di un suono originario, cioè dell'uomo, come il riflesso moltiplicato di un'immagine primordiale, cioè del l'uomo. Ma, a parte che si può dire che il mondo è anche fatto, in parte (piccolissima, ma proprio quella che quasi esclusivamente ci interessa), per l'uomo, essendo egli a sua volta fatto per esso: detto antropomorfismo o simbolismo antrop,omorfico è proprio quello che si fa in arte, è proprio
(filosofici) dagli pseudoconcetti classificatori (della scienza). Tutto ciò sarebbe venuto in seguito, non si sa quanto anche grazie ai contributi di Nietzsche, i cui spunti e argomenti potrebbero aver agito come pulviscolo culturale che penetra dappertutto senza essere visto o notato. Nietzsche per la verità avrebbe potuto prendere a sua volta questa concezione - o prendere spunto per essa - da J. G. Hamann. Il suo « mobile esercito di metafore ,. ricorda in fatti un po' troppo da vicino una simile espressione del Mago del Nord, il quale voleva far vedere al lettore eserciti di in• tuizioni salire alla rocca dell'intelletto puro ed eserciti di concetti discendere nell'abisso fondo della sensibilità più tangibile. Hamann, che Nietzsche potrebbe aver conosciuto
sia direttamente sia attraverso suoi discepoli o commentatori (Jacobi, Herder, Goethe, Hegel), fu in realtà il primo a con cepire la logica come linguaggio, cioè, come oggi bisogna dire secondo noi, a scoprire l'essenzialità del linguaggio per la formulazione del pensiero (ne fece un'obiezione capitale alla Critica della ragion pura del suo amico e concittadino Kant). Ma comunque siano andate le cose in questa faccenda, la concezione di Nietzsche gli è ben propria e va considerata come tale. Egli vi porta una forza di convinzione e sviluppi che non appartengono a nessun altro. Per esempio. là dove parla - presagendo quasi la vicenda del suo Zarathustra dell'impossibilità della parola di adeguarsi alle intuizioni, quando queste sono troppo forti: la parola non è fatta per le intuizioni, e l'uomo ammutolisce quando si trova dinanzi a esse, oppure parla unicamente con metafore proibite e con inauditi accozzamenti di concetti, per adeguarsi creativamente - almeno con la distruzione e la derisione delle vecchie bar riere concettuali - all'impressione della possente intuizione attuale.
In ciò certamente Nietzsche (come lo stesso Goethe, il quale lamentava: Che cosa non avrei scritto, se non cl fosse stata di mezzo la lingua a ostacolarmi!) era diverso da quanti negano oggi che ci siano intuizioni prima e fuori del linguaggio e anzi che ci sia una qualunque cosa prima e fuori del
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linguaggio, ipostatizzando quest'ultimo a unica realtà o addi rittura, come dicono, a Dio. Ma, così come in Nietzsche è ben presente la lotta, per lui disperata (e questo.dà un parti colare pathos al suo scritto), che l'uomo combatte con le intuizioni che sgorgano incessantemente dall'«enigmatico fondo delle cose», neanche gli sfugge, d'altra parte, la gran de efficacia liberatoria dell'arte, la sua unica capacità di « difesa dal male», di «illuminazione», «rasserenamento» e «redenzione».
1 Tutti i passi di questo saggio riportati nel presente articolo sono citati da F. Nietzsche: La filosofia nell'epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873, Milano, 1973, pp. 355 segg.
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perciò, possibilità di lavorare a una tradizione e a una durata, possibilità di costruire questa durata e questa memoria al di fuori della quale non si danno né arte né esperienza este tica. Ora la storia - sottolinea Thomas Lawson - non è stata semplicemente negata, è stata ridotta allo stato di un film replicato dopo mezzanotte in televisione 3• Certo, è abbastanza sorprendente questa difesa (talvolta strenua, eccessiva) della storia, della memoria, della tradi zione. Dell'arte stessa, a pensarci un momento. Dell'artista rispetto all'impersonalità dell'opera. Dell'arte rispetto ai media, ai linguaggi della comunicazione di massa, alla tele visione in particolare. David Robbins si esprime senza pru denza. Mentre la prima ondata di arte nella società dell'in formazione (concettualismo) era segnata dalla purità del di· scorso (l'arte confinata alla scienza), i praticanti del nuovo concettuallsmo... devono fare interminabilmente i conti con la realtà del media (l'arte confinata all'intrattenimento). Il lavoro dell'artista, adesso, consiste nell'articolare come l'arte « non • sia intrattenimento. Dalla critica ai media si affac ciano, perciò, una nuova immagine e una diversa funzione dell'artista, il nuovo tipo di aristocratico dell'informazione. Mentre, al tempo stesso, l'arte si pone come l'unica pratica culturale che riesce a costruire UD significato senza spergiu rarsi leale ad UD particolare medium 4• L'artista, dunque, ado pera con spregiudicata destrezza qualunque media nel segno della Strategia dell'Inutilità, che è proprio la costellazione e il segno dell'esperienza estetica. Adorno e Benjamin, del resto largamente citati, sono i protagonisti di questi discorsi. E con loro c'è Habermas, al me�o per quel che riguarda Kosuth, teso, dalla metà degli anni Settanta, à discutere nozioni così conflittuali come Modem e Postmodern. Poi attraverso Benjamin (lungo la nozione di non-organico) viene riproposta anche l'opera aper ta di Eco, naturalmente riletta a partire dall'esigenza di sottolineare nel testo la pluralità dei materiali, delle tecni che e delle procedure, del contesto soprattutto, dell'imposi zione non-repressiva della partecipazione. Una partecipazione che segnala uno spostamento radicale, uno slittamento dalla
centralità della produzione all'asse della ricezione: ricezione che non va vista solo come limitata agli specialisti d'arte, al critici, agli storici... Qualsiasi persona è potenziai.mente ca pace di esperienza estetica 5• Può sembrare sorprendente come gli artisti e i teorici della memoria dell'arte americana ricorrano a filosofi e studiosi europei, in particolare ad Adorno e a Benjamin si è ricordato, per fondare e legittimare un discorso che, in questi ultimi anni, proprio in Europa è stato duramente criticato e tal volta liquidato con piglio crudele. Parlare di storia, di tradi zione, di memoria è come evocare fantasmi e dare corpo ai sogni qui da noi, si sa. Pensare all'arte, poi, come a un'espe rienza che rompe l'omogeneità dei linguaggi di massa e al l'artista come a un aristocratico dell'informazione è pensare a un'ipotesi che si è vissuta e consumata negli anni Sessanta e nei primi del decennio successivo. Ecco profilarsi, così, un rovesciamento profondo e insieme un paradosso. L'Europa dell'ideologia e delle forti tensioni politiche, delle utopie rivoluzionarie e palingenetiche, della speranza, abbandona via via i fondamenti che da sempre l'hanno sorretta per affidarsi alle derive del desiderio e alle vertigini della différence, al fascino lyotardiano del différent, mentre l'America, cinica e indifferente, superficiale e scintil lante, lentamente recupera proprio i motivi essenziali della nostra cultura, le trame critiche più acute. Di quest'attenzione Joseph Kosuth è stato certamente uno dei pionieri, già alla metà del decennio passato. Quando, lasciatosi alle spalle il progetto tipicamente americano della filosofia analitica, per corre con sempre maggiore consapevolezza e lucidità i terri tori segnati dall'antropologia piena di tensioni marxiane di Stanley Diamond e Bob Scholte, il pensiero di· Habermas e ultimamente il continente-Freud. Dunque, alla disseminazione e alla deriva del desiderio Gregg Bordowitz, Jenny Holzer, Barbara Kruger, Richard Prince (per citarne qualcuno), opponendo un rigoroso viaggio intorno al significato, ripensano kosuthianamente l'arte come farsi del significato. Un significato che, però, si costituisce nel fitto intreccio che passa fra l'artista; l'opera e il pubblico.
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Infatti il pubblico, il contesto, la concreta dimensione in cui l'opera si colloca, vive e si alimenta decidono alla fine del significato. Il significato non dipende così, soltanto dal gioco lingui stico, dagli scorrimenti interni delle proposizioni, dalle re lazioni sintattiche, come al tempo delle prime Investiga zioni e del lavoro dei concettuali storici, ma è strettamente collegato alle strutture che organizzano il contesto culturale e storico al quale si riferiscono. Si legge, infatti, nelle Note a Cathexis che il lavoro veramente 'creativo' dipende dalla sua capacità di mutare il « significato » di ciò che vediamo - un processo impossibile senza la comprensione di quelle strutture che lo costituiscono 6• Strutture che, negli ultimi la vori di Kosuth non sono soltanto quelle visibili e immedia tamente leggibili, ma anche quelle altre meno evidenti e manifeste. Di qui, credo, l'attenzione per Freud e per la psicoanalisi: un interesse, certo, non esaltante ma cauto e ragionato. La decisa virata verso il significato e il contesto, verso il pubblico e le strutture (visibili e invisibili), l'idea dell'opera d'arte come esercizio del significato e come valore, come ri qualificazione dei media, come medium privilegiato, l'inne gabile tensione politica e ideologica che è sottesa a questa proposta, l'attenzione ad alcuni protagonisti della Scuola di Francoforte, lo sguardo teso verso la psicanalisi e Freud sembra che, in quest'area della ricerca artistica americana, rilancino in grande stile il Teorico. Proprio quell'esperienza di cui in Europa abbiamo vissuto (e viviamo) il declino e lo sfiorire. Ma le cose stanno poi veramente così? Questa famiglia di artisti (Clegg & Guttmann, Mark Dian, Peter Halley, Thomas Lawson, per ricordarne qualche altro), allora, dieci anni più tardi, nel segno di Kosuth e di Haacke non fa altro che ripro porre antichi riti e miti oramai consumati? Gabriele Guercio è convinto di no, e a ragione. Non si tratta tanto di una ripresa del teorico, di una « rifioritura del teorico», come lui suggerisce, quanto semmai ( di) una... spinta verso una sempre maggiore proliferazione - la possibilità di una« me-
attrezzi indispensabili per costruire l'opera, il meno. Alla ricchezza del mondo adesso subentrano il vuoto e l'assenza, la sensazione concava di cui parla Musil. E. per questo che Menna dice che la scelta della geometria povera, dell'astra zione e della costruzione, non è solo esercizio estetico ma implica soprattutto un atteggiamento etico 11• · · Ma com'è possibile, alla fine del secolo, continuare a par lare di astrazione, di opera come evento costruttivo, di inten zionalità e di progetto? Questo è il punto. Un nodo che gli artisti e i loro interpreti cercano di decifrare, consapevoli che la partita è in questo intrico. Insomma, se si scarta l'idea della ripetizione differente e se (com'è opportuno) si tiene conto della distanza che separa queste esperienze dalle forme storiche, l'astrattismo e il costruttivismo, si abbandona anche la via segnata dal postmodern? Si ritorna a fare l'elogio del Moderno e delle sue mitologie? La posizione di Menna è sempre stata critica e accorta verso il postmodern, in particolare verso uno dei suoi profeti più ispirati, Lyotard. Convinto che il progetto moderno, alleg gerito da prese totalizzanti e da fascinazioni utopiche, sia ancora ricco di nutrimenti e d'insegnamenti. Perciò per Menna l'importanza di questo lavoro è nella sua riduzione, che è insieme delimitazione di campo e riduzione linguistica. Allo slogan di Lyotard (« si può leggere tutto e in tutte le maniere») viene opposto il detto di Hofmannsthal: Entro li limite più angusto, il compito più particolare, v'è maggior Ubertà che non nel regno sconfinato d'Utopia. Dunque, né ·il lassismo lyotardiano né l'Utopia ma un limite più angusto e un compito particolare si offrono: e limite e compito parti colare sono appunto lo spazio dell'opera, l'articolazione dei segni che la costituiscono, la sua costruzione. L'arte ridiventa, allora, costruzione, « costruzione dell'opera ,. e nello stesso tempo « costruzione del nuovo ,. che l'opera ( l'opera come arte) non può non rappresentare rispetto ai territori già esplo rati e conosciuti. Una costruzione, però, sempre imprevedibile e in bilico per via dell'accidentalità della ft1.ttura, e dei pro cessi che l'investono. Ma è possibile una costruzione senza soggetto? E il sog- 41
getto è ancora pensabile e come? Carboni e. Menna non ·pen sano né al soggetto fondante della tradizione moderna né al soggetto desiderante, ma piuttosto si riferiscono· a nuclei di" soggettività, a luoghi provvisori di condensazione, a per manenti squilibri. Dice Menna: Il soggetto nasce e matura dentro la pratica pittorica sentita come passaggio non " dallo stesso allo stes so », ma come tramite al diverso della propria elaborazione creativa affidata ai procedhnenti di costruzione dell'opera 11• Questa vocazione riduttiva che Menna coglie nella geome tria povera, nell'astrazione-costruzione, è certamente condi visa da Carboni, che, però, compie per proprio conto · una virata interessante. Carboni fa reagire il discorso di Filiberto Menna con l'ebraismo di Cacciari e di Jean-Joseph Goux. Così, l'astrazione diviene spazio dell'infigurabile e interdizione della rappresentazione. Perciò. l'astrazione, liberata dal mon do, si pone come« puro desiderio messo a nudo», « desiderio del desiderio stesso», « investimento propriamente mistico». L'astrazione, dunque, per la via dell'ebraismo, lavora per il superamento della metafisica u. Menna, più laico (come lui dice), avendo in sospetto il mistico e la speculazione ·sull'ebraismo, si tiene fermo al l'angusto dell'opera e alla. sua costruzione. Carboni, più di sponibile a seguire il destino della metafisica, si avventura ad analizzare l'arte in funzione del mistico. Ancora una volta il Semiotico e il Mistico si ·contendono il campo della costru
zione del nuovo.
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Non c'è. dubbio che in America come in Italia, al di là di possibili, innegabili, convergenze e vicinanza d'interessi, si provano e si sperimentano vie diverse rispetto al tornare a dipingere,· si formano nuclei differenti di ricerca ·andando incontro alla fine ·del secolo. Si· danno letture· e. versioni di, versissime del dibattito Moderno/Postmoderno. Il laboratorio americano certamente muove dalle critiche dure di Kosuth al Moderno: il Moderno è scientismo e spet tacolo. Fedeltà al dato, all'oggettività ottusa dell'empirico, ed esasperante messinscena, teatralità grottesca. Il Postmoderno è l'approfondimento dell'ar�e come pratica sociale, come eser-
di fondo. Dalla polemica di Filiberto Menna verso il Post. modem e dalla sua convinzione, habermasiana, che il progetto moderno non deve essere del-tutto abbandonato. Dalla cer tezza di Massimo Carboni che l'astrazione-costruzione, in quanto critica della rappresentazione, sia una via da percor rere per viaggiare oltre · la metafisica. · Così, l'arte di fine secolo, in America come in Europa, presenta nuove complicazioni, declinazioni diverse, forse me glio: offre con Kosuth e il suo laboratorio una versione uma nistica (di umanesimo linguistico) del Postmodern, esibisce con Carboni una versione più radicale e, comunque, assoluta mente non limanistica di questo fenomeno. E, tuttavia, in un versante come nell'altro l'arte continua a conservare un ruolo privilegiato e cosl anche l'artista. L'arte è il farsi del signifi cato, della comunità della comunicazione secondo Rooted Rhetoric, l'arte è una via per il superamento della metafisica. Diversa la posizione di Menna, si è detto, tutt'intèrna com'è a ripensare il progetto moderno, il Moderno e le sue figure. A tenersi a distanza dall'umanesimo linguistico come dalle tentazioni mistiche, dal superamento della metafisica attra verso il Mistico e l'angelismo, lungo i labirinti dell'Angelo
necessario. Può sembrare ridotto il compito che Menna assegna al l'arte, in particolare alla sua astrazione povera: un compito né di fondamento e neppure di superamento. Ma soltanto un compito particolare: la costruzione dell'opera. Solamente un limite angusto: il difficile equilibrio fra ideazione e fattura, fra processi mentali e manualità, fra la durezza dei materiali e fa leggera, inquietante, velocità dei fantasmi privati. L'arte di fine secolo si complica, così, per questi nuovi fili, si avvolge intorno a nuovi problemi e a nuove questioni: questioni e problemi che dimostrano, ancora una·volta, come sia arbitrario raccontare i fatti e le situazioni come se fossero una narrazione unica, rettilinea, dominata da marcate linee di tendenza.
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I A cura di G. GUERCIO, Rooted Rethoric. Una tradizione nell'arte americana, Napoli 1986. Gli artisti presentati si chiamano Gregg Bor•
dowitz, Clegg & Guttman, Mark Dion, Hans Haacke, Peter Halley, Jenny Holzer, Joseph Kosuth, Barbara Kruger, Louise Lawler, Thomas Lawson, Allan McCcillum, Peter Nagy, Stephen Prina, Richard Prince, David Robbins, Haim. Steinbach, Meyer Vaisman, Christopher Williams. Il ca talogo è arricchito anche dai contributi di Benjamin H. D. Buchloh, Joseph Kosuth, Thomas Lawson, Charles Le Vine, David Robbins, An• gelo Trimarco. 2 J. KosuTH, Necrophilia mon amour, trad. it., in Rooted Rhetoric, cit., p. 119. 3 T. LAWSON, Interferenza sulla linea, trad. it., in Rooted Rhetoric, cit., p. 123. 4 D. RoBBINS, Intelligenza artificiale, trad. it. in Rooted Rhetoric, cit., pp. 135-137. s C. LE VINE, Aprire l'opera "aperta», trad. it. in Rooted Rhetoric, cit., p. 131. 6 J. KosUTH, Notes on "Cathexis », in J. K., The Making of Meaning/ Bedeutung von Bedeutung, Stuttgart 1981, p. 31. 7 G. GUERCIO, La retorica radicata: imperfezioni dell'umanesimo, in• troduzione a Rooted Rethoric, cit., pp. 15-17. a M. CARBONI, Aria. Per una astrazione-costruzione, Firenze. 1986; F. MENNA, Il meno è il più. Per un'astrazione povera, Milano 1986. 9 Sul lavoro di Menna si veda l'analisi puntuale di C. LENZA in e Op. Cit. », n. 66, pp. 61-64. 10 F. MENNA, op. cit., p. 13. li F. MENNA, ibidem. ll F. MENNA, ivi, p. 14. 13 M. CARBONI, Un colloquio, in Aria, cit. p. 8. • Bisognerebbe fare affluire nell'area dell'astrazione pittorica - quantomeno come ramme• morazione - il motivo dell'interdizione islamica e giudaica alla rap presentazione. Ma anche la mistica cristiana... è pervasa da questo ne gativismo. Dio si unisce all'anima senza immagine e senza simbolo. Perfezione è proprio non transitare attraverso alcuna immagine ed � contro la natura divina operare per figure, similitudine, metafore » (p. 8). Naturalmente Carboni svolge temi cari a J..J. Goux, Gli icono clasti. Marx, Freud e il monoteismo, trad. it., Venezia 1979; M. CACCIAJU, Icone della legge, Milano 1986.
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