settembre 1987
selezione
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numero 70
della critica. d'arte contemporanea
Il design e la critica di sinistra Architettura senza topos - La "militanza,, futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre edizioni
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il centro
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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea
Direttore: Renato Dc Fusco Redattori: Roberta Amirante, Livio Sacchi, Sergio Villari Segretaria di redazione: Roberta Amirantc Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Te!. 7690783 Amministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Giordani, 32 - Tel. 684211 Un fascicolo separato L. 4.500 (compresa IVA) - Estero L. 5.000
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Architettura senza topos LIVIO SACCHI
Che l'architettura sia e debba essere legata ad un luogo è cosa indubitabile; resta tuttavia da definire come effet tuare tale legame e che importanza abbia il luogo per l'ar chitettura. La questione si pone oggi più che mai, quando la gran parte della ricerca architettonica è rivolta a costruire nel costruito, al cosiddetto ritorno alla città, al linguaggio della modificazione. Dette esigenze sono nate in gran parte dai deludenti risultati degli ambienti più recentemente co struiti, che non hanno prodotto quell'effetto città proprio dell'architettura del passato, dalla valorizzazione e tutela dei centri storici e, in genere, dall'interesse per la storia come guida per la progettazione contemporanea. Non ultimo dal l'elevato livello di omologazione raggiunto dall'architettura tardo-moderna. Ma non c'è il rischio di ricadere in una nuova omologa zione, dato peraltro che proprio il preesistente contesto as sume il ruolo di una guida obbligante per i nuovi interventi? Che ne sarà allora delle costruzioni da edificarsi ex novo, fuori dai centri storici? Quali indicazioni potranno venire da aree, per così dire, senza storia? E, in assenza di indicazioni, le conformazioni architettoniche - che ovviamente determi nano esse stesse un ambiente - non dovranno derivarsi dalla propria intrinseca struttura? Tutte queste domande sembra no legittimare l'ipotesi di un'architettura senza· topos. Questo tema - già avanzato da De Fusco in una serie di 5
interventi occasionali I riguardanti la problematica dell'indif ferenza di abitare in un luogo piuttosto che in un altro ai fini di eliminare la rendita di posizione, di perequare il valore degli immobili, di incentivare l'industrializzazione edilizia, di colmare il divario, tipico dell'attuale crisi degli alloggi, tra luoghi sui quali grava una forte domanda ed altri ove invece prevale l'offerta - viene affrontato nella presente nota in un'ottica più ampia e metodologicamente più siste matica. A tal fine distinguiamo un ordine tettonico (o di edi lizia corrente) ed un ordine architettonico, riportando a ciascuno di essi le considerazioni derivanti dall'incidenza o meno del fattore luogo.
Ordine tettonico
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U costruire, nell'accezione più tecnica e materiale, risulta a prima vista legato alle condizioni topografiche, climati che, di orientamento, ecc., tanto che, sin dai più antichi trattati, la scelta del sito figura come la prima raccomanda zione. Tuttavia anche questa certezza può esser facilmente revocata in dubbio. Anzitutto quando una tecnologia dei materiali assume un uso così universale perde il suo legame con le tecniche costruttive locali. E non ci riferiamo sol tanto all'uso dell'accifliO o del cemento armato, ma allo stesso legno (così caratterizzante le varie etnie costruttive, dalle capanne africane alle baite nordiche) che, usato mo dernamente, risponde alle stesse leggi della scienza delle costruzioni. Né le nuove tecnologie si limitano a fatti strut turali-costruttivi, ma offrono tutta una vasta gamma di so luzioni che rendono ugualmente abitabili e confortevoli edi fici ubicati in luoghi e climi diversissimi. L'avanzamento tecnologico rende possibile adesso ciò che sembrava impen sabile fino a pochi decenni fa: oggi costruiamo edifici (e città) praticamente dovunque, in condizioni geografiche e clima tiche estreme, senza che la loro qualità abitativa abbia a soffrirne più di tanto. Siamo in grado di controllare il fred do, il caldo, il livello di umidità dell'aria, di isolarci dai venti; ma anche di costruire in zone sismiche, nei deserti, sui ghiac-
lintesi, che impediscono la risoluzione di problemi altrimenti semplici, ci sia consentito citare un polemico brano di Peter Blake, peraltro già apparso in questa rivista: Conosciamo tutti i progetti 'visionari' proposti in varie occasioni da gente come Cedric Price e altri Archigrammlstl. Ora tutti sanno che le loro idee sono completamente assurde. Come può un individuo sensato proporre edifici o città moblll? Tutti sanno che proposte simili rasentano la follia; ma qualcuno ha di menticato di dirlo a quel pazzi patentati di Capo Kennedy, e così quelli sono andati dritti per la loro strada e hanno costruito enormi strutture mobili, senza sapere che quello che facevano non si poteva fare 2• Tralasciando i casi estremi e mantenendoci all'interno di ambiti più frequentati, accenneremo agli altri limiti che com porta l'idea dell'indissolubilità del legame tra edilizia e topos. Anzitutto tale idea produce il risultato, per molti versi as surdo, che una casa, un edificio, un manufatto architettonico non vale per i suoi intrinseci pregi, strutturali, distributivi, funzionali, estetici, quanto per il luogo in cui è ubicato. E ciò comporta che, investendo un alto capitale nell'acquisto di un suolo privilegiato, anche la realizzazione costruttiva del relativo manufatto debba essere di elevata qualità, mentre su di un suolo di valore commerciale modesto si costruisce un altrettanto modesto prodotto edilizio. Il che aumenta il divario fra aree doppiamente privilegiate ed altre doppia mente svantaggiate. Viceversa, rendendo ogni costruzione 'indifferente' alla sua ubicazione, si restituirebbe ad essa il suo intrinseco valore, contribuendo peraltro alla distinzione dell'industria edilizia dalla speculazione sui suoli, che è alla base di quasi tutti i guasti prodotti dal dopoguerra ad oggi. Inoltre sarebbe possibile stabilire dei parametri obiettivi per il mercato edilizio e la rendita immobiliare. Sulla tendenza a parificare l'architettura e il design si è già accennato. Altri vantaggi sarebbero una maggiore mobilità degli abitanti, una loro migliore distribuzione nei vari quartieri; la fine di de centrate zone residenziali prive di molti servizi urbani e, al tempo stesso, quella di quartieri interamente destinati al 8 lavoro e ai servizi terziari, tanto da essere inabitabili. Le
strategie per ottenere questi vantaggi derivanti dall'indiffe renza delle costruzioni al topos possono essere di vario or dine e grado: dagli sgravi fiscali agli incentivi economici, da una più razionale distribuzione di servizi fino alla dota zione di infrastrutture valorizzanti le aree meno ambite. Sembra che ad una fase storica di elevata sensibilità alla specificità dei luoghi stia subentrando una fase di relativa indifferenza agli stessi. Si tratta di una considerazione ab bastanza facilmente verificabile. Si provi a confrontare quanto la scelta dei luoghi fosse importante per le civiltà anti che e quanto stia diventando secondaria per noi. Si pensi anche all'eccezionalità dei luoghi in cui venivano fondate le città del passato e al tipo di motivazioni che determinano oggi i nuovi insediamenti (economiche, politiche, demogra fiche, ecc). Si aggiunga che ad un'età di forte caratterizza zione locale, anche dal punto di vista culturale, sta suben trando un'età segnata da un crescente livello di omologazione, che tende a fornire uno standard uniforme a scala pla netaria. Le cause di un tale processo sono tutte chiaramente identificabili. La scena della vita dell'uomo è passata da una molteplicità di caratterizzati ambiti locali all'intero pianeta. La stessa mobilità richiesta all'uomo contemporaneo pro voca un'accelerazione del sopra citato processo: gli ambiti più indifferenti al topos originario sono infatti proprio quelli destinati ad ospitare i nomadi del XX secolo, desiderosi di ritrovare dovunque il tranquillizzante standard cui sono abi tuati: alberghi, aeroporti, stazioni, ma anche le sedi del terziario avanzato, gli impianti sportivi, le autostrade, ecc. tendono ad essere il più possibile uguali a se stessi, astraendo comunque da ogni forma di caratterizzazione locale. L'indif ferenza al luogo costituisce un tema ricorrente di tanta mo derna sociologia, fino a far pensare che si t_ratti di un aspetto caratterizzante dell'esistenza contemporanea. L'ipotesi di un campo d'azione a scala planetaria è in realtà sempre più concretamente a portata di mano. Nel passato, anche recente, l'uomo tendeva a vivere per lo più nel luogo dov'era nato. Oggi la mobilità sembra essere invece un dato ineliminabile. Peggio per le società che oppongono resistenza. Il problema
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è sicuramente legato alla cultura comportamentale, ma an che, guardando le cose da un diverso e forse più modesto punto di vista, di politica degli alloggi. Soprattutto nel no stro paese le crescenti difficoltà cui si va incontro per cambiar casa (operazione peraltro piuttosto facile nel resto del mondo occidentale) rendono complicata se non impossibile tale au spicata mobilità, determinando poi una serie di effetti ne gativi di ordine economico, culturale, sociale, ecc. E. interessante notare come proprio l'indifferenza al luogo sembra accompagnare le culture più avanzate. Negli Stati Uniti, paese ove la mobilità dei nuclei familiari ha raggiunto livelli impensabili per le società europee, tale fenomeno pro cede in stretta connessione con l'esigenza di omologazione a scala continentale (e, se possibile, mondiale). L'americano si sposta facilmente, ma tende a ricreare (e in realtà nella maggior parte dei casi ritrova) esattamente lo stesso tipo di ambiente dovunque vada. Un esempio ci viene offerto dal livello di avanzata standardizzazione delle grandi catene di alberghi (la cui codificata tipologia è esattamente replicata, le camere sono tutte uguali, arredate in maniera identica), che diventa un dato richiesto, essenziale per la precaria sta bilità emotiva di una sradicata clientela. In maniera un po' paradossale rispetto a quanto s'è detto finora, va ancora rilevato che la contemporanea indifferenza ai luoghi deriva dal fatto che sta diventando sempre meno necessario spostarsi fisicamente nello spazio. La capillare informatizzazione telematica di tutte le attività umane con tribuisce a diffondere uniformemente servizi, facendo di ogni luogo un posto adatto per viverci, lavorare, ecc., accentuan done le caratteristiche di supporto neutro dell'esistenza.
Ordine architettonico
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Se nelle conclusioni sull'ordine tettonico abbiamo notato una maggiore attenzione rivolta in passato al topos e il gra duale distacco da esso verificatosi nei tempi più recenti, in relazione agli sviluppi della tecnologia, e quindi causato da motivi contingenti, per ciò che attiene l'ordine architettonico
va rilevato che sin dall'antichità l'architettura ha concen trato gran parte del suo interesse sulla propria interna strut tura, penalizzando l'interesse per il luogo. Riprendendo il nostro schema, così come abbiamo fatto per l'ordine tetto nico, riportiamo anche in quello architettonico le considera zioni derivanti dall'incidenza o meno del fattore luogo. A voler essere provvisoriamente imparziali, va ricono sciuto che la questione topica attraversa tutta la storia del l'architettura; potremmo anzi dire che le due opposte mo dalità dell'indifferenza al luogo da una parte e dell'attenzione ad esso dall'altra costituiscono un parametro esegetico in base al quale è possibile classificare gli edifici, ascrivendoli all'una o all'altra categoria. Intimamente legata al concetto di luogo è certo tutta l'architettura spontanea, con la sua aderenza ai caratteri regionali, alle tecniche costruttive, ai materiali locali: l'effetto che ne deriva, come s'è detto per la tettonica, è spesso mimetico, l'architettura nega se stessa, si sottomette alle superiori ragioni del genius foci. Un'archi tettura dal codice più forte, da ritenersi l'iniziatrice di un consolidato rapporto con il topos, è quella del Manierismo, con la sua articolata dialettica fra artificio e natura, fra norma e deroga, fra autonomia ed eteronomia. Lo stesso può dirsi per ogni altra forma di romanticismo architetto nico, con la sua esasperata sensibilità naturalistica, dal Ba rocco fino all'architettura organica. Il gusto per le forme derivate dalla natura, per l'ambiente, per il contesto urbano e paesistico, per la "natura" dei materiali, sono tutti modi per accogliere all'interno del progetto quanto ci comunica la peculiarità del topos. Del resto la stessa rappresentazione grafica dei progetti organici (dove l'aggettivo include opere che vanno dalla cultura dell'Einfuhlung a Mackintosh, da Wright ad Alvar Aalto) lascia sempre ampio spazio al luogo, alle preesistenze materiche e vegetali, alla caratterizzazione geografica del contesto, ecc. Ma, abbandonando la provvisoria obiettività di cui sopra, ci sentiamo di sostenere che ogni grande architettura del passato - dai templi greci alle cattedrali gotiche, dai con clusi sistemi brunelleschiani alla Rotonda di Palladio, da al-
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cune opere di Ledoux alla villa Savoye di Le Corbusier (un oggetto poggiato sul prato per dichiarazione esplicita del suo stesso autore), ecc. - è, o sembra essere, del tutto indifferente al luogo in cui sorge, ai problemi dell'ambienta mento, al genius loci. Sostanzialmente indifferente al luogo è infatti tutta la tradizione dell'architettura "costruita", quella cioè in cui i caratteri astrattamente progettuali sono preva lenti su quelli empiricamente costruttivi. Si tratta di tutte le fabbriche fortemente contrassegnate, rette dalla propria interna struttura, dal proprio microcosmo semantico. L'ar chitettura senza topos trova in se stessa il suo "nocciolo duro", non si guarda intorno ma dentro, indaga le sue leggi autonomamente e non si aggrappa a considerazioni eterono me. Come si è già detto all'inizio, essa stessa crea un lopos artificiale. Anzi, mentre essa può modificare un topos ina datto intervenendo con un'opportuna serie di provvedimenti correttivi a migliorare un luogo ritenuto insoddisfacente, non è vero il contrario: un bel luogo non modifica una cat tiva architettura. Indifferente al luogo è tutta l'architettura del mondo clas sico: il tempio greco ne costituisce l'emblematica testimo nianza. Modello "esportabile" per eccellenza, in cui le pur molteplici e differenziate caratterizzazioni locali sono subor dinate ad un'idea lucidamente concepita. Tutto il classici smo, nelle sue tante riprese, resta invariabilmente indiffe rente al topos: la sistematica riproposizione degli ordini è avvenuta in contesti geografici diversissimi senza che questi avessero la minima incidenza sulle scelte formali dell'archi tetto. Se ciò vale per l'architettura, ancor più verificabile è l'indifferenza al topos per l'urbanistica di ascendenza classi ca e/o razionale. E ciò non solo è confermato dagli schemi chiusi di Sforzinda o di Palmanova, ma anche dai tracciati aperti di origine ippodamea che si sono sovrapposti in innu merevoli colonizzazioni urbane indifferenti alla natura oro grafica delle aree. Accantonando queste considerazioni derivate dall'espe rienza storica, tanto evidenti da non richiedere ulteriori commenti e richiami; proviamo ora a svolgere alcune riflessioni
sulla concezione stessa di un'architettura senza topos. Come non c'è nulla di storico o non storico in sé, è storico ciò che è pensato storicamente attraverso un processo di critica o di giudizio 3 - ovvero anche l'esperienza empirica dei fatti, per diventare storica, va trasferita su un piano concettuale così anche per ciò che attiene un'operazione in fieri, qual è quella progettuale, diventa legittimo ed indispensabile tra sferire anche la nostra questione su un piano altrettanto con cettuale. Alcune recenti teorizzazioni di Franco Rella, sviluppate prevalentemente in ambito filosofico-letterario, insieme alle elaborazioni svolte da altri sul suo pensiero, portano al centro del dibattito un diverso possibile rapporto con il topos, dal quale possiamo ricavare interessanti indicazioni di nuovi percorsi esegetici all'interno dell'orizzonte critico dell'architettura: ci riferiamo alla nozione di atopia. Atopia, in prima approssimazione, significa assenza di luogo fisicamente inteso, da distinguersi da utopia, luogo che non esiste, se non in senso ideale. L'utopia ante litteram (l'espressione viene coniata infatti da Tommaso Moro nel 1516) è vagheg giata da Platone nella Repubblica. L'imponente struttura della Repubblica non è che una costruzione artificiale, il ten• tativo di andare oltre la sublimazione delle differenze, e di trasformare la città stessa in luogo di ordine, di gerarchie, di identità, recidendo con un atto sacrificale non solo le dif ferenze ma anche il discorso che si struttura a partire da queste: il discorso tragico, che si esprime attraverso la grande poesia e la grande arte 4• Anche la nozione di atopia è di derivazione platonica. Atopica è infatti l'ironica, spiazzante, desituante natura del Socrate di Platone, che si autodefinisce atopos: vale a dire « deroutante •, dislocante 5• La forza atopica di Socrate è fecondatrice:· il luogo non subisce quel processo di sublimazione che lo porta alla trascendenza del l'utopia, ma viene piuttosto attraversato da forze sottili che illuminano le differenze che lo abitano, trasforma le cose che vi giacciono inerti in elementi di una nuova tensione conoscitiva. Come tradurre questa tensione in esperienza architettonica? Come trovare un aggancio con la realtà in
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una situazione atopica qui letteralmente intesa nel senso di mancanza di luogo? Una prima risposta ci viene indicata da Rella quando cita Dilrrenmatt: conosciamo la realtà ( ... ) ma ciò che è possibile lo conosciamo appena. L'ambito del pos• sibile è quasi Illimitato, quello del reale è molto limitato perché di tutte le possibilità è sempre una soltanto quella che si può trasformare in realtà. Il reale è un caso partico lare del possibile ( ... ). Ne consegue che, per poterci adden trare nel possibile dobbiamo trasformare il concetto del reale 6• Ma qual è questo caso particolare del possibile per tinente al fare architettonico? Privilegiare un aspetto speci fico della nostra disciplina (le valenze costruttive, quelle ti pologiche, quelle formali)? Limitarsi ad una parzialità in opposizione a progetti più globali e totalizzanti? Oppure, in definitiva, concentrare tutta la nostra attenzione nel risol vere ogni specifico caso, facendolo coincidere appunto con il caso particolare del possibile? Attenendoci alle indicazioni di Rella, tali interrogativi sembrano trovare una risposta nella dimensione dell'artistico: il pensiero del possibile, la pratica del possibile attraverso le nuove costellazioni di senso che possiamo costruire a partire dal frammenti e dal tempi 'reali', trasforma atoplcamente la realtà stessa: la sua im magine, il suo concetto, in definitiva, Il nostro rapporto con essa 7• E ciò si attuerebbe attraverso la percezione di un 'oltre' invisibile che può essere colto attraverso il visibile 1· • Altrove egli è più esplicito: Il sapere artistico, « complexlo » e composizione dell'eterogeneo ( per esempio del reale e del l'immaginario), è un sapere che ama il dissidio ma che non cerca mai di risolvere questo dissidio in termini di potere su altre configurazioni possibili. Novalis ha espresso questo paradosso in modo mirabile in un frammento in cui afferma che ogni produzione è e polemica » e perciò stesso « erotica ». Eros e polemos: l'amore è tale solo se è amore della diffe renza, se rifiuta la logica del dominio poiché è solo nel dis sidio - nella differenza - che l'altro esprime se stesso, esprime compiutamente il suo essere altro; la sua Irriduci bilità e dunque la sua Identità. L'arte è dunque atoplca, desituante dei codici filosofici e scientifici. :I::. una 'cosa', vale
a dire... il luogo di un'esperienza paradossale erotica e co noscitiva al tempo stesso 9• Ma, a questo punto, è necessario prendere le distanze dalle posizioni di Rella e degli altri autori da lui citati. Egli scrive: L'atopia è desituante. In questo senso Novalis ha detto che la vera filosofia è « li desiderio di essere dappertutto a casa propria». Ma se la nostra casa è ovunque, significa che essa è fuori da ogni« luogo». Per questo Simone Weil, con una folgorante intuizione, ha scritto nei suoi «Cahiers» « che per afferrare ciò che è la lunghezza, la larghezza, l'altezza, la profondità ,. è paradossalmente necessario « essere radicati nell'assenza di luogo », vale a dire nell'atopia 10• Ora, pur con dividendo la gran parte di questi enunciati, pur cogliendo il senso spiazzante ed ambiguo di una tale teoria, pur avendo letto il tendenziale romanticismo dell'intera concezione, tutto ciò si arresta, a nostro avviso, ad un livello metaforico. Li vello che viene confermato laddove Rella, sia pure assecon dando le ricerche di Eisenman, sembra consentire alla fine del classico. L'architettura, egli scrive, come ogni altro di scorso significativo, non si fonda, in questo caso, su un'unica narrazione (né è fondata da questa), ma piuttosto, nel suo gioco di simulazione e dissimulazione riunisce In una costellazione, in una grande figura, le immagini che comun que hanno sempre lasciato Intravvedere, al di là del reale dato, il possibile. La finzione atopica nega dunque Inizio e fine - origine e conclusione - i presupposti su cui si fon davano e si reggevano la finzione classica e la realtà di cui questa finzione disegnava i confini. Il progetto dunque non può essere 'finale', non può avere termine. Oltre questa fi gura c'è sempre un'altra figura, un'altra storia possibile. Il progetto si misura quindi solo con i suoi presupposti, ma diventa la condizione dell'esplorazione della sua propria ri sonanza all'Interno delle concezioni sempre mutevoli della natura e della storia e del tentativi umani di rapportarsi ad esse. La decomposizione, o meglio decostruzione, che è sem pre stata pensata come -l'atto Iniziale del progetto architet tonico è, In questa prospettiva, Invece l'esito parziale del progetto stesso 11•
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Posto che queste più specifiche riflessioni sull'architettura abbiano un valore esegetico per le ricerche di Eisenman, tut tavia non possiamo concordare con l'assunto di un progetto che non abbia termine, che cade nella serie dei consueti topoi sull'opera aperta (in verità più verso la sua fruizione che non verso la sua concezione). sui progetti aperti, sui fami gerati piani aperti; posizioni tutte tendenti a rimandare, se non ad eludere, la soluzione dei problemi. Perché programmi, progetti e piani siano attendibili. è condizione indispensabile, a nostro avviso, che essi siano chiusi. Ed inoltre molte indi cazioni dello stesso Rella e quelle di altri autori citati - se gnatamente le ultime proposizioni di Novalis e della Weil, come lo stesso accenno alla decostruzione e costruzione appartengono ad una logica che non consente slittamenti ed ambiguità, questa volta nell'accezione negativa dei termini. Insomma, volendo uscire di metafora, ed è qui il caso di insistervi, un'architettura atopica - almeno così come noi l'intendiamo nel senso di indifferente al luogo - trova tutta la sua forza, il suo senso, la sua stessa ragion d'essere, pun tando sulla definizione della propria struttura, sulla sua lo gica razionale e sulla sua "logica poetica". In una parola nella linea del classico, nella accezione più ampia ed inclusiva.
1 Cfr. R. DE Fusco, Abitare i11 città, ma dove?, ne .« Il Mattino• dell'l l.8.1986. 2 P. BLAKE, Le nuove forze, in J. M. RtCHARDS, ·p_ BLAKE, G. DE C,\R• LD, L'architettura degli anni Settanta, Il Saggiatore, Milano 1973, p. 71. J G. C. ARGAN, Mo11strum in fronte monstrum i11 animo, in AA.VV., A11astilosi. L'antico, il restauro, la città, Laterza, Roma-Bari 1986 , p. 18. ◄ F. RELu, Figure nel labirinto. La metamorfosi di 1111a metafora, in P. EISENMAN, La fi11e del classico, CLUVA, Venezia 1987, p. 9. s Ivi, p. 19. 6 F. DiJRRENMArr, Giustizia, cit. in F. RELU, op. cit., p. 20.
1 F. RELU, op. cit., p. 20. s Cit. in M. VESCOVO, Luoghi dell'atopia. Dei paralleli invisibili, in Luoghi dell'Atopia, a cura di M. VESCOVO, Mazzotta, Milano 1987, p. 10. 9 F. RELU, Atopia. Il pensiero e le immagini, in Luoghi dell'Atopia,
cii., p. 43.
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10 lvi, p. 40.
11 F. RELU, Fi gure nel labirinto, cit., p. 20.
Il design e la critica di sinistra GABRIELLA D'AMATO
Molti al giorno d'oggi vanno revocando in dubbio, almeno nello schieramento politico, una netta distinzione fra destra e sinistra; per la maggioranza quest'ultima va perlomeno ri definita. Come scrive infatti Alberto Cavallari, l'anarcosinda calismo, il sansimonismo, Prudhon, Marx, Lassalle, Kautsky, ...hanno prodotto una visione del mondo che i 'fatti' hanno rivelato errata... La riflessione riguarda tutti i socialismi, in veste l'Intero percorso di un'Idea e di un movimento, appro dati ad una tappa cruciale poiché il capitalismo stesso non è più quello che si voleva combattere o si credeva finito. Non si può ignorare che la rinascita capitalista ha creato in occidente società diverse, frantumato vecchie classi, operato nuove redistribuzioni di ricchezza, mutamenti profondi di culture e mentalità. Che socialismo è possibile mentre finisce il secolo e finisce il millennio? Come adattare una critica alla prima rlvoluzlone industriale e una proposta di rifon dazione della società basata sull'antl-individuallsmo alla ter za rivoluzione industriale e alle società post-industriali sem pre più individualiste? 1• Ora, se questa è la situazione politica, ancora più pro blematica e in qualche modo anacronistica appare la qualifica di sinistra riferita a settori specialistici, soprattutto a quelli con implicazioni economiche e produttive. Siamo perciò convinti che ad un tema come quello che intitola le pre senti note, nessuno dedicherà prossimamente un convegno o
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un dibattito. Che senso dare allora alle riflessioni che se guono, incentrate su detto tema? Porsi la questione del rap porto fra il design e la critica di sinistra risponde, a nostro avviso, a una duplice esigenza. · La prima è di carattere storico, ovvero è il tentativo - vuoi per colmare una lacuna critica, vuoi per non lasciare la questione comodamente archiviata - di ripercorrere un processo di pensiero sulla cultura del design svolto dalla cul tura di sinistra. E tra i tanti spunti che l'argomento sugge riva, abbiamo perciò scelto tre temi privilegiati dalla critica in esame: la committenza, l'alienazione e l'eterodirezione. La seconda esigenza è quella di avanzare, sia pur in ter mini problematici, un'ipotesi e cioè che, fra tutti i campi d'applicazione in cui si sono scontrati la destra e la sinistra, il padronato e il proletariato, la « creatività individualista » e la« dequalificazione meccanica», la produzione elitaria e quel la di massa, ecc., quello del design sia - e non per caso un settore adatto ad indicare una via di soluzione a tanti antagonismi, o quanto meno un modello per il loro supe ramento. Iniziamo pertanto a discutere i tre temi.
La committenza
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Secondo Marx, La ricchezza delle società nelle quali pre domina il modo di produzione capitalistico si presenta come una 'immane raccolta di merci', le quali si offrono nel duplice valore di uso e di scambio. In quest'ultimo si è perso il significato del ruolo sociale che implica il lavoro e la produzione poiché non si parte dal lavoro degli individui in quanto lavoro comune ma da lavori particolari di indi vidui privati, valori che soltanto nel processo di scambio, con l'abolizione del loro carattere originale si affermano 2• Non poteva mancare, quindi, tra i temi sviluppati dalla critica di sinistra quello della responsabilità del design nella società delle merci; il che significa anche stabilire il ruolo che deve assumere il designer nel rapporto tra produzione e consumo. È un tema strettamente legato all'utilità sociale del pro-
dotto, già peculiare del Bauhaus e del Vchutemas, che trova, però, la sua più precisa formulazione in una terza scuola, la Hochschule fiir Gestaltung (HfG) di Ulm fondata da Max Bill. Come scriveva infatti Maldonado entrando a farvi parte nel '55, � opinione diffusa, per lo meno in alcuni settori, che il disegnatore industriale, il progettista che lavora per la produzione in serie, abbia una sola funzione da svolgere: quella di servire il programma di vendite della grande indu stria e di stimolare il meccanismo della concorrenza com merciale. In contrasto con questa opinione, la HfG fa sua la tesi, secondo la quale il progettista, pur lavorando per l'industria deve continuare ad assolvere le sue responsabilità nei confronti della società. In nessuna occasione l'impegno preso con l'industria deve trovarsi in conflitto con l'impegno preso con la società 3• La HfG, come risaputo, anche se sul piano didattico organizzativo conobbe dissapori e capovolgimenti, almeno su quello formale conservò coerenza con l'impronta estetico metodologica (la gute Form) impressavi da Max Bill in con tinuità con il Bauhaus e in opposizione con lo styling. L'istituto collaborò con molte industrie, specialmente con la Braun di Francoforte ma, come commenta lo stesso Maldonado, la « gute Fonn », atto di dissenso, secondo Bill, nei confronti di una certa industria, si fa atto di consenso, tramutandosi in 'stile Braun'. Il neocapitalismo tedesco ha eseguito in questo caso un'operazione di raffinata astuzia: ha cooptato la « gute Form » 4• Pensando perciò a quell'impegno e alle sorti della scuola, lo stesso autore avanza queste spiegazioni: Quel pe riodo coincide, in Germania, con la fase più aggressiva della cosiddetta 'era Adenauer': gli anni in cui, con l'appoggio degli Stati Uniti, la Germania si avviava al neocapitalismo. Ciò che l'industria tedesca voleva allora dal nostro istituto non era molto diverso da quanto aveva preteso, quattro decenni prima, dal Bauhaus: contribuire a creare un alibi vagamente culturale al programma produttivistico. Noi ne eravamo consapevoli, ma ci illudevamo ... che fosse possibile far convergere gli interessi produttivistici del neocapitalismo nascente con gli interessi degli utenti. Ciò che si rivelerà più tardi un grave er-
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rore di valutazione. Dal momento che ce ne rendemmo conto, e adottammo un atteggiamento di denuncia e persino di ri volta... il destino del nostro istituto era segnato. Da qui allo scandalo della sua chiusura, nel 1968, non c'è che un passo 5• Senza entrare nel merito della complessa vicenda della HfG - alla cui chiusura, errate valutazioni politiche a parte, concorse più di una causa - si può sostenere che il forte impegno culturale, sociale e politico di alcuni docenti quali Maldonado, Bonsiepe e Schnaidt, ne fu uno dei fattori trai nanti. Tale atteggiamento - commentato con efficacia da Argan: il design è un servWo, si può essere servizievoli senza essere servili 6 - nella prassi puntava sul tentativo di accedere ai centri direzionali del mondo produttivo e di eleggere un tipo di consumatori di prodotti di uso pubblico piuttosto che privato. E saranno soprattutto questi i temi che da Ulm pas seranno in Italia grazie anche all'osmosi di insegnanti ed allievi creata tra il nostro paese e la scuola tedesca. La nostra rivista nel '71 pubblicava un articolo di Gui Bonsiepe estratto dalla prolusione tenuta al corso di disegno industriale svolto l'anno precedente a Santiago del Cile. L'ar gomento verteva sul confronto fra il ruolo del disegno indu striale nei paesi opulenti e in quelli in via di sviluppo. Questi ultimi nella loro qualità di terreno vergine di qualsivoglia produttivismo, in un certo senso, sembravano rappresentare una sorta di committenza ideale per un disegno industriale orientato sulla razionalizzazione deUe risorse e sulla conside razione delle necessità totali della società. Da ciò sarebbe derivato, a detta di Bonsiepe, che il lavoro del disegnatori industriali deve realizzarsi in istituzioni per lo sviluppo so clale, economico e tecnologico, ossia in quelle istituzioni nelle quali si prendono Importanti decisioni per la qualità del l'habitat di una società. Cosicché i disegnatori industriali de vono lavorare in commissioni per la standardizzazione, in commissioni di esportazione, nel dipartimenti di acquisto ed approvvigionamento, nel ministeri dell'educazione e negli or ganismi comunali, che sono peraltro responsabili dell'arredo urbano... Inoltre affinché il dJ. non rimanga condannato ad essere una utopia fallita, alimentata solo dalla buona volontà
di idealisti frustrati, dovrebbe avere quel potere che oggi è diviso da circoli di scienziati, ingegneri, amministratori e politici 7• Se questo era un obiettivo da raggiungere nelle società in via di sviluppo, ben diversa, invece, appariva la situazione nelle società opulente e consumistiche dove il settore del prodotti per uso privato è supersviluppato, mentre U settore dei prodotti per uso pubblico o comune è sottosviluppato, la qual cosa è in relazione diretta con le leggi del mercato. Salute, insegnamento e benessere pubblico non si lasciano trasformare in merce donde trarre grandi guadagni 8• Prende così sempre più corpo l'aspirazione a quella che verrà definita la « committenza alternativa» 9, grande spe ranza ed illusione praticata negli anni Settanta dai designers fortemente politicizzati formatisi nel clima delle lotte studen tesche del '68. Tale speranza parte da posizioni fortemente critiche; per Enzo Mari, Il committente si identifica con quella parte della società che ha U potere economico-polltico culturale e il destinatario con quella che non ha questo po tere. L'oggetto della committenza è quanto viene comunicato, con diversi mezzi, secondo le necessità del rapporto intercor rente fra committente e destinatario. Tale rapporto, nella realtà storica, è sempre di tipo paternalistico e mira a preser vare i privilegi della committenza 10• Dal canto suo, Paolo Deganello in un'acuta analisi del Lavoro di progettazione nel settore dell'arredamento, storicizzando l'ordito sociale, poli tico, sindacale ed economico degli anni '50-70, tocca anche il ruolo del tecnico-progettista rispetto alla committenza. Que st'ultima, a suo parere, si manifesta sempre in un'imposizione sulla qualità del lavoro e sulle condizioni di lavoro. Il rifiuto di questa imposizione, il diritto del tecnico di imporre la committenza, che poi altro non è che riappropriarsi del con trollo sul proprio lavoro, non è praticabile a livello indivi duale, presuppone un'organizzazione politica 11• Tale organizzazione avrebbe dovuto mirare, in sostanza, a capovolgere il rapporto che assegna ad una committenza tradizionale la funzione di innovare in positivo il ciclo e il prodotto, evolvere, trasformare dentro un sistema dato, I
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valori d'uso e di scambio di una data merce, subire o rifiutare la soddisfazione della domanda di una data merce o servizio che nasce dalla base cioè dall'utenza e al progettista sempre più solo e soltanto il compito di accettare e rendere operative le scelte della committenza 12• A tale situazione il tecnico progettista di sinistra oppone la sua aspirazione: avere il potere di scegliere un'utenza quale suo committente, -un'uten za che abbia però il potere di essere committenza reale e non ideale, e sia utenza da interpretare, contribuire a definire, fino a farla diventare oggetto fruibile attraverso anche il la voro di progettazione 13• In questa sede non abbiamo l'oppor tunità di rendere conto del perché l'obiettivo di una commit tenza alternativa e l'ipotesi di una cogestione dei servizi siano rimaste anche nel nostro paese un'istanza inevasa; vi concor sero, infatti, crisi sindacali, irrigidimenti padronali, ristruttu razioni aziendali troppo complesse, per la cui valutazione non possiamo che rimandare allo scritto di Deganello. Dalle parole di quest'ultimo, tuttavia, vogliamo citare ancora un brano che sembra riassumere la sostanza di una tale disillu sione: Anche quando esiste una nuova definizione della qua lità del servizio, sia scuola o ospedale, non esiste ... un potere di gestione capace di garantire la realizzazione di quella nuova definizione di servizio. E anche quando, in particolari e for tunate occasioni di lavoro si riuscisse a progettare e realizzare quella nuova definizione del servizio, dentro quella scatola nuova e diversa continuerebbero a svolgersi attività e fun. zioni tipiche di quella vecchia definizione del servizio. In altri termini finché non viene a costituirsi consolidata una struttura di potere capace di commissionare un dato pro dotto e garantire il corretto e conseguente uso, non ha senso parlare di progettazione per nuovi valori d'uso. Parlarne si gnifica coltivare appunto speranze progettuali, autoemargi narsi in una progettazione utopica, produrre ricerca in attesa di una congiuntura che anche quando si realizzasse sarà ne cessariamente sempre relativamente diversa ed estranea, se non si accetterà un coinvolgimento totale nel processo poli tico che di fatto porterà alla costruzione di quella congiuntura i•.
L'eterodirezione
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La produzione crea il consumatore... La produzione pro duce non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l'oggetto 16• Intorno a quest'assunto marxiano ruota, sia pur con varie accentuazioni, la critica riconducibile all'idea di eterodirezione, alla possibilità, cioè, da parte di chi produce le merci di manipolare i moventi e i desideri umani per creare la necessità di prodotti che il pubblico non ha preso in considerazione o che non desidera affatto acquistare. Per David Riesman che coniò il termine e il concetto, ciò che è comune a tutte le persone eterodirette è che i contemporanei sono la fonte di direzione per l'individuo, quelli che conosce o quelli con cui ha relazioni indirette attraverso gli amici e i mezzi di comunicazione di massa... I fini verso i quali tende la persona eterodiretta si spostano con lo spostarsi della guida: è solo il processo di tendere a una meta e il processo di fare stretta attenzione ai segnali degli altri che rimangono inalterati tutta la vita 17 • Su questa condizione antropologica - dove gli altri saranno di volta in volta i genitori, gli insegnanti, i colleghi di lavoro, il pro prio gruppo sociale, ecc. - gran parte della sociologia so prattutto statunitense degli anni '50-60 ha costruito l'imma gine negativa di un consumatore in balia di agenti pubbli citari travestiti da psichiatri, di spacciatori di desideri incon fessabili, di registi del consenso e così via. La pubblicità, nella veste assunta con l'avvento della cultura di massa, è perciò analizzata nel suo passaggio dall'informazione alla persuasione e poi alla « persuasione occulta», intesa come facoltà di pre condizionare attraverso parole-chiave o immagini-chiave il con senso sociale che il messaggio suggerisce. Una volta scoperte le prospettive che offriva questa nuova dimensione - scrive Packard - gli agenti pubblicitari cominciarono a familiariz zarsi con i diversi 'livelli di coscienza' che coesistono nell'uomo e giunsero alla conclusione che tre di questi livelli riguarda vano, in particolare, la loro professione. Al primo livello , consapevole, razionale, il pubblico si rende conto di ciò che avviene e ne conosce le ragioni. Il secondo, detto ora sub-
conscio, ora preconscio, indica quella zona della coscienza in cui una persona si rende confusamente conto del propri segreti pensieri, delle proprie sensazioni e dei propri atteg giamenti, ma non desidera spiegarseli. :tl: il livello dei pregiudizi, delle credenze, dei terrori, degli impulsi emotivi, e cosl via. Al terzo livello, infine, noi non soltanto slamo ignari del nostri sentimenti e atteggiamenti reali ma cl rifiuteremmo di discuterli anche se cl fosse dato di farlo. L'esame del nostro comportamento verso i beni di consumo a questi due ultimi livelli di coscienza costituisce il nerbo della nuova scienza che va sotto il nome di analisi o ricerca motivazionale 11• Cosicché su tali premesse si sarebbe costruita non solo l'arte di capire gli uomini, ma di controllarne il comportamento nel mondo delle merci; in altri termini, di influenzare la scelta di un'auto sfruttando i dati caratteriologici di alcuni individui, quella di un detersivo attraverso l'impressione data dal colore della confezione, quella di un'elettrodomestico dalla promessa di prestazioni non sempre indispensabili e così via. Nella critica a questa situazione e, in senso più generale, alla società di massa, non è difficile riconoscere l'influenza dell'Institut fiir Sozialforschung legato all'Università di Francoforte fino al l'avvento del nazismo e, successivamente, alla Columbia Uni versity. Di esso facevano parte Fromm, Neumann, Marcuse, Horkheimer e Adorno. Proprio questi ultimi, nel celebre saggio L'industria culturale, avevano lamentato con estremo pessimismo la passività intellettuale a cui veniva condannato il lavoratore durante il suo tempo libero. Il compito che lo schematismo kantiano aveva ancora assegnato ai soggetti, quello di riferire in anticipo la molteplicità sensibile ai concetti fondamentali, è levato al soggetto dall'industria. Essa att-ua lo schematismo come primo servizio del cliente. Nel l'anima era all'opera, secondo Kant, un meccanismo segreto che preparava già l dati immediati in modo che si adattassero al sistema della pura ragione. Oggi l'enigma è svelato. Anche se la pianificazione del meccanismo da parte di coloro che allestiscono l dati, l'industria cultura, è Imposta a questa dal peso stesso di una società - nonostante ogni razionaliz zazione - Irrazionale, questa fatale tendenza si trasforma,
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passando attraverso le agenzie dell'industria nell'intenziona lità scaltrita che è propria· di quest'ultima. Per il consuma tore non c'è più nulla da classificare che non sia già stato anticipato nello schematismo della produzione 19• Inoltre, quello che Riesman, Packard e altri teorici della società dei consumi hanno messo in evidenza è anche come nella pub blicità il prodotto sia giudicato non tanto per il suo valore intrinseco, quanto per l'atteggiamento subdolamente protet tivo che la produzione ostenta verso il consumatore. Baudril lard, partendo da queste riflessioni, nel considerare il mes saggio pubblicitario «consumabile» al pari degli altri «og getti » di un «sistema», ne fa risaltare la funzione «futile», «regressiva»,« inessenziale», ma profondamente«richiesta». In una società industriale - egli scrive - la divisione del lavoro dissocia il lavoro dal suo prodotto. La pubblicità co rona questa scissione dissociando radicalmente, nell'atto del l'acquisto, il «prodotto» dal «bene» di consumo: interpo nendo una potente immagine materna tra il lavoro e il pro dotto, fa sì che il prodotto non sia più considerato come tale (con la sua storia, ecc.), ma semplicemente come «oggetto». Dissociando produttore e consumatore nello stesso individuo, nell'astrazione materiale di un sistema molto differenziato d'oggetti, la pubblicità si impegna a ricreare una confusione infantile tra oggetto e desiderio dell'oggetto, a portare il con sumatore allo stadio in cui il bambino confonde la madre con ciò che ella gli dà 20• C'è, tuttavia, anche una pars construens. Gli stessi critici della società eterodiretta, infatti, non hanno mancato di no tare come la forza persuasiva della pubblicità sia meno po tente di quanto si pensi, come le varie propagande si neutra lizzino reciprocamente, come il comando o la persuasione provochino resistenze, contromotivazioni e reazioni alla ridon danza dei messaggi. Scrive infatti Berelson: Una cosa deve finalmente apparire chiara nella discussione sugli effetti dei « mass-media ,. sull'opinione pubblica. Gli effetti sul pubblico non sono in conseguenza e in relazione diretta con le inten zioni di colui che comunica, né col contenuto della comunicazione. Le predisposizioni . del lettore o dell'ascoltatore sono
profondamente impegnate nella situazione e possono modi ficare o bloccare l'effetto atteso, e persino provocare un ef fetto boomerang 21. E Morin, dal suo canto, con un'immagine molto efficace assimila il dialogo fra produzione e consumo a quello tra un « logorroico » e un « muto »: la produzione elargisce racconti, storie, si esprime attraverso un linguaggio. Il consumatore - lo spettatore - non risponde che con reazioni pavloviane, col si o il no, che decretano il successo o l'insuccesso. Il consumatore «non parla». Ascolta, vede, o rifiuta di ascol tare o di vedere 22• Per Morin,. in definitiva, esiste una dialet tica sui generis tra produzione e consumo per cui è impossi bile porre l'alternativa semplicistica: è la stampa (o il cinema, o la radio, ecc.) che «fa» il pubblico, o è il pubblico che fa la stampa? È la cultura di massa che si impone dall'esterno al pubblico (e gli fabbrica pseudo-bisogni, pseudo-interessi) o riflette i bisogni del pubblico? È evidente che il vero pro blema è quello della «dialettica » tra il sistema di produzione culturale e i bisogni culturali dei consumatori ... La cultura di massa è dunque il prodotto di una dialettica produzione consumo, nell'ambito di una dialettica globale che è quella della società nella sua globalità 23• Uno spiraglio per ridimensionare gli effetti negativi del l'eterodirezione, del resto, lo aveva aperto già lo stesso Ries man quando aveva descritto quel processo positivo che con• sentiva lo scambio di gusti, dall'alto verso il basso, fra gruppi sociali eterogenei. Il gusto delle parti più avanzate della popo lazione - egli notava - è sempre più rapidamente esteso... agli strati un tempo esclusi da ogni · esercizio del gusto, che non fosse dei più elementari, e ai quali ora si insegna ad ap prezzare e discernere fra le varietà di architettura moderna, di arredamento e di arte moderna - per non parlare delle conquiste artistiche dei tempi passati 24• · Per quanto controversa e problematica, tuttavia, l'idea di eterodirezione ancora oggi è molto tenace nel nostro modo di concepire la pubblicità benché essa abbia raggiunto livelli di diffusione tali da non consentire di immaginare una regres sione del fenomeno. E questo espandersi delle tecniche pub-
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blicltarie - nota recentemente Alberto Abruzzese - non poteva non provocare fenomeni di rigetto e meccanismi di difesa da parte delle culture, delle tecniche, del valori e dei poteri preesistenti. Cosl, questo impatto violento tra tradi zione e pubblicità, esploso In modo definitivo a Madison Avenue trent'anni fa, torna ora con la stessa sostanza nel nostri anni ottanta. Ancora oggi molti 'uomini di cultura' po trebbero affermare, come fece Galbralth, che la funzione della pubblicità è quella di « creare l desideri, di generare nelle persone quelle necessità che prima non esistevano •· Ed i pubblicitari a loro volta potrebbero controbattere nello stesso modo in cui aveva risposto Reeves. Prima con una 'legge': « Se li prodotto non soddisfa un desiderio o una necessità esistenti nel consumatore, la pubblicità alla fine fallirà il suo scopo •· Poi con una tesi opposta alle teorie della persua sione occulta: « Non è vero che la pubblicità fa nascere i desideri. Sono i desideri che fanno nascere la pubblicità,. 25• Sia come sia, il problema centrale ci sembra essere quello deI.Ia difesa del consumatore dall'eterodirezione. Questa in fatti appare un dato ineliminabile, per la semplice ragione che essendo strutturata la società, e non solo i processi lavo rativi, secondo il principio della divisione del lavoro, il con sumatore ha dovuto per forza delegare qualcuno all'informa zione per essere orientato nel mondo delle merci. Anche se con differenti sfumature, Anty Pansera nota qualcosa di ana logo parlando specificamente del ruolo della pubblicità nel design: la pubblicità, cl si rende conto, - innestando un dua lismo e una poetica non ancora superata né forse supera bile - opera per interventi separati; la 'tecnica persuasiva' si avvale di una netta divisione del lavoro, dove il grafico/ visualizzatore viene a rappresentare il punto d'arrivo di un processo che affonda le sue radici molto lontano e che co munque non ha modo di controllare. Al contrarlo, diventa sempre più chiaro come nel pianeta design non esistano ruoli subalterni e la metodologia d'Intervento che lo caratterizza agisca non per divisioni e somme ma per Integrazioni 26. Ora, ammesso che tali integrazioni siano vere nella logica interna del design, non altrettanto ci sembra accadere nel
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appartiene alla sua personalità, quindi nel suo lavoro egli non si afferma ma si nega, si sente non soddisfatto ma infe lice ... E solo fuori del lavoro si sente presso di sé, si sente fuori di sé nel lavoro. Ma, come continua lo stesso Abbagnano, l'uso del termine è diventato corrente nella cultura contem poranea anche a proposito del rapporto tra l'uomo e le cose nell'età della tecnica: giacché sembra che il predominio della tecnica 'alieni l'uomo da se stesso' nel senso che tende a fame l'ingranaggio di una macchina 30• L'alienazione, quindi, produce un doppio ordine di pro blemi: da una parte quello del lavoro come proprietà del l'operaio o, meglio, quello della qualità e della professionalità del lavoro intese come bene sommo dell'operaio e, dall'altra, l'incalzare dello sviluppo del macchinario esaminato come mezzo di sfruttamento della forza lavoro. In altri termini, essa suscita due immagini: la perdita della morrisiana joy in labour e la folle .frenesia dell'omino di Tempi moderni. Sono due temi che spesso si intrecciano come accade nella critica all'approccio scientifico del lavoro produttivo, il taylo rismo, o in quella alla diffusione della linea di montaggio emblematizzata dal fordismo. Come nota infatti Bianchini: il taylorismo è riducibile alla scoperta che, all'interno dei processi lavorativi, un'operazione complessa poteva essere suddivisa in più operazioni semplici il cui tempo totale (tempi morti + tempi attivi) fosse minore del tempo neces sario a compiere l'operazione complessa. Una conseguenza hnportante, anche se non dichiarata, della segmentazione delle operazioni complesse fu la distruzione della professionalità del lavoro, del mestiere e la sua sostituzione con la man sione. Un lavoro ha un maggiore o minore contenuto pro fessionale in relazione al fatto che esso comporti un maggiore o minore flusso d'informazioni atte a produrre un determi nato bene a utilità finale. Quando il numero delle informa zioni necessarie è semplificato di molto perché una parte della professionalità preesistente è stata trasferita al macchi narlo, si ha in realtà quello che tutti definiscono come 'pro cesso di dequalificazione del lavoro' 31• A sua volta il fordismo appare allo stesso autore, un'applicazione su grande scala
talismo. Bisogna introdurre ln Russia lo studio e l'insegna mento del sistema Taylor, sperimentarlo e adattarlo sistema tlcamente l4. Veniamo ora al punto centrale. Cosa rimane del problema dell'alienazione? I tempi tecnologici« essenzialmente diversi» di cui parlava Marx sono certo in fase avanzata e non in virtù di una società senza classi. Anzi, con questi nuovi tempi do vranno fare i conti tutti i tipi di società industrializzate, in quanto essi forse saranno capaci di sconfiggere l'alienazione della catena di montaggio ma anche di generare mostri più temibili. La follia dell'omino di Tempi moderni di fronte all'in calzare dell'automazione e della computerizzazione, rischia in fatti di diventare un incubo sbiadito e tutto sommato inof fensivo. Marcello Lando, a tal proposito, nota come al co spetto di quelle immagini a molti sia sfuggita una ben diversa . ipotesi e cioè che l'avvento in fabbrica dl macchine cosi abili potesse produrre, ln fase ultima, un'aggressività addirittura opposta nel confronti dl quell'omino, fino a procurargli pause dl lavoro tanto prolungate quanto da lui non richieste e non gradite 35• I nuovi mostri, quindi, sono tutti quei processi la vorativi con capacità di controllo e di adattamento senza intervento dell'uomo. La nuova alienazione non è più quella di compiere sempre lo stesso gesto per otto ore lavorative, quanto lo spettro di perdere del tutto la possibilità di spen dere quelle otto ore lavorando, in quanto sostituiti nelle proprie mansioni da un processo completamente robotizzato e computerizzato. Paradossalmente l'assunto marxiano per cui, a causa dell'alienazione, l'uomo « solo fuori del lavoro si sente presso di sé » mentre « si sente fuori di sé nel lavoro», potrebbe essere completamente annullato. Inoltre il predo minio della tecnica non alienerebbe più l'uomo da se stesso tendendo a farne l'ingranaggio di una macchina, poiché in molti casi quella macchina oramai può fare a meno di un ingranaggio tanto ingombrante preferendogli microprocessi sempre più raffinati. Anzi, a quelle macchine si richiederà di divenire sempre più intelligenti e 'flessibili cioè adattabili ad un processo di lavorazione che assecondi un mercato dalla 32 domanda estremamente diversificata. Dopo la fabbrica dlsu-
tabllmente, compito dei progettisti sarà di concorrere a deter minare i fini di tutta la società 37• Allora, tutto andrà bene nel migliore dei mondi possibili? La professione del designer sarà fra le poche a non correre il pericolo dell'alienazione da inattività? Riuscirà ad essere tanto flessibile da inventare sempre nuovi campi di applica zione sì da determinare i fini di tutta la società? Intanto Lyo tard, al cospetto della marea montante della computerizza zione, pessimisticamente insinua qualche dubbio e lancia una provocazione col dire che di fronte al tentativo di ridurre il linguaggio all'unità mercantile dell'informazione esiste una sola possibilità: lottare per questo lavoro di incomunicabi lità, cioè di articolazione della possibilità di frasi nuove. Questa lotta è condotta principalmente dagli artisti. Ciò che è importante nell'arte è precisamente la produzione di opere nelle quali le regole che costituiscono un'opera in quanto tale siano interrogate all'interno dell'opera stessa 38• E evidente, dunque, come anche in questo caso, dove lo spettro dell'alienazione riappare come nemico da sconfiggere, il design caschi in piedi. Grazie alla sua componente meta operativa, che va oltre il puro dato funzionalistico, esso è infatti assimilabile ai procedimenti artistici i quali, con le loro riserve di creatività, fantasia e inventiva, hanno da sempre costituito un antidoto all'alienazione, tanto all'interno quanto all'esterno dello specifico disciplinare.
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A.
CAVAUARI,
Ma il Pci deve dire dove vuole andare ... , ne
pubblica», 2 luglio 1987.
«
la Re
2 K. MARx, Per la critica dell'economia politica, cit., in C. GUENZI, Le politiche, in AA.VV., Industriai design, teoria e pratica nella pro spettiva degli anni 70, in « Casabella • n. 372, 1972. J T. Mw>oNADO, Ulm 1955, in « Nueva Vision », 7, 1955, ora in ID., Avanguardia e razionalitd, Einaudi, Torino 1974, pp. 53-54. • T. MAUlONADO, Disegno industriale: un riesame, Feltrinelli, Milano
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1986, p. 80. 5 T. MAUlONADO, Disegno e le nuove prospettive industriali, confe-
35 M. LANoo, Uomini flessibili per fabbriche flessibili, in u Automa zione integrata• n. 2, marzo 1986. .l6 Ibidem. J7 V. PAPANEK, Progettare per il mondo reale, Mondadori, Milano 1975, p. 304. li G. F. LYorARD, Regole e paradossi, in « Alfabcta • n. 24, maggio 1981.
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La "militanza,, futurista di Roberto Longhi GIULIANA TOMASBLLA
Nell'ambito della vasta ed eterogenea produzione lon• ghiana di argomento contemporaneo, i due saggi giovanili dedicati ai Pittori futuristi (« La Voce•, 10 aprile 1913) e alla Scultura futurista di Boccioni (Firenze, Libreria della «Voce•, 1914) costituiscono un episodio isolato e per molti versi contraddittorio. Si tratta dell'unico caso in cui il critico si mostra disposto ad appoggiare, e con entusiasmo di neofita, un movimento d'avanguardia novecentesco. La lettura degli scritti di Roberto Longhi sull'Otto e No vecento, pubblicati attraverso tutto l'arco della sua lunga carriera, mostra come la quasi totalità dei suoi giudizi sia improntata ad un tradizionalismo, talora assai rigido, che gli impedisce sempre di aderire alle più significative ricerche artistiche del Novecento, legate alle Avanguardie. Esse sono giudicate colpevoli di aver tagliato i ponti non solo con la grande tradizione della pittura italiana, ma addirittura con l'Impressionismo, esaltato da Longhi proprio in quanto erede di quella tradizione. L'itinerario del critico, dalle pagine polemiche dedicate a Renoir nel 1914 alla celebrazione morandiana del 1966, non manca di una sostanziale coerenza in questo senso. Con l'uni ca eccezione, come già anticipato, dei due saggi del '13-'14, le cui accidentate pagine ci offrono l'immagine opposta di un Longhi musa critica I dell'antitradizione futurista.
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dunque che abbiano proclamato il soggetto puramente pla stico ma, aggiunge, l'errore è di averlo voluto fissare a priori come soggetto moderno, in quanto, si dice, nella vita d'oggi v'è più che una volta impulso al dinamismo. Si tratta di una grave forzatura perché il dinamismo della vita moderna non può a priori determinare un dinanùsmo nell'arte, e nessuno pensa che non possa giungere un artista supremo che sappia condensare in una sintesi più statica che gli Egiziani, Il caos irreparabile della modernità 2• Il che equivale a negare la giustificazione «storica» data dai futuristi alle loro ricerche dinamiche, che si basava proprio sulla connessione «neces saria » velocità-mondo moderno. :È. inoltre una prova di dif fidenza nei confronti di analogie ravvicinate vita-arte, quindi dei manifesti, e pone l'ipotesi, sempre più perentoria, di un universale artistico che «trasforma », «sublima » il movi mento in qualcosa di più meditato, liricamente trasfigurato, immobile quindi dell'eterna immobilità dell'arte (e questo è abbastanza crociano). L'adesione di Longhi al Futurismo, lungi dall'essere passiva accettazione dei suoi presupposti, presenta delle caratteri stiche particolari, dal momento che egli accoglie o rifiuta singole parti dell'estetica futurista adattandole all'interno di un quadro tutto personale. Certamente l'influsso crociano è fortissimo sul pensiero del giovane critico, tanto da costituirne una sorta di substrato, ed è a quello che viene spontaneo di rifarsi per spiegare l'avversione nei confronti dei futuristi in quanto «movimen to», «gruppo,. e la tendenza, evidente nei due saggi, a con centrare l'attenzione sulle singole individualità artistiche. Ma questa considerazione non basta. Intorno al 1912-'13, infatti, si colloca un altro incontro fondamentale: quello con il purovisibilismo e in particolare con il Problema della Forma di Adolf von Hildebrand, che Longhi lesse e fittamente postillò nell'edizione del 1913. Non mancarono letture di altri autori del medesimo ambito, quali Riegl, Wickhoff, Wolfflin, ma pure che, per quanto riguarda il nostro ristretto campo d'indagine, il primo testo abbia influito più degli altri forse per quello che è stato definito il senso strutturale 3 di Hildebrand, il suo
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il valore estetico immanente della linea essenziale nella resa del moto, ma si affretta ad aggiungere che spesso l'hanno arbitrariamente congiunto con un valore espressivo di stati d'animo particolari cadendo in un simbolismo analogo a quel lo operato dai francesi del '90 sul colore 14 • Il criterio d'analisi
delle opere futuriste, inoltre, è rigidamente subordinato ad un'impostazione metodologica di stampo inequivocabilmente purovisibilista. Ne è una prova il fatto che, a proposito della rappresentazione del moto (filo conduttore del saggio e terna squisitamente. futurista), l'attenzione del critico s'incentra non sul soggetto « moderno », tanto caro agli artisti, ma sullo strumento base puramente pittorico delegato a quel compito: la linea. Essa, dice Longhi, deve diventare ellisse, curva viva, e trasformare l'effetto di massa in effetto lineare dinamico. Il criterio di valutazione dei quattro pittori esaminati (Boc cioni, Carrà, Soffici e Severini) verte sulla riuscita o meno di questo tentativo. Ma le « infiltrazioni » purovisibiliste, e in particolare hilde brandiane, non si limitano a questo. Vi sono dei richiami specifici, delle vere e proprie « citazioni » dal Problema della Forma. Si pensi alla pagina in cui Longhi, dopo aver parlato della evoluzione dell'architettura rinascimentale verso le for me barocche, scrive: Non inutile quest'ultimo raffronto, quan do si pensi che la « Pittura moderna, è essenzialmente archi tettonica,. e quando l'architettura sia intesa per quello che è, .un'armonica composizione di spazio negli interni e, al di fuori, una pura creazione di piani e di volumi, di linee e anche
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1=: chiaris sima qui l'influenza della « visione architettonica » di Hilde brand. Secondo lo scultore tedesco, infatti, dal momento che il vero compito dell'arte è quello di darci una chiara rappresentazione spaziale e non quello di ritrarre figure, pae saggi, azioni, per dilettare o istruire, ogni prassi artistica, evoluta e perfezionata quanto si vuole, è figlia dell'arclùtet tura, prima « creatrice » di corpi geometrici semplici. La scultura ha avuto origine proprio da quelle forme elementari ed è stata per lungo tempo subordinata all'architettura, così come dimostrano i dadi di pietra egiziani che ci appaiono, di chiaroscuro, di peso gravitante e di supporto
allo stesso tempo, cubi e uomini· accovacciatL Successiva mente la plastica si è evoluta e resa indipendente, ma la ri cerca della purezza formale e dell'unità spaziale tende a ri condurla a quelle medesime figure geometriche elementari da cui era partita. In questo senso, affermare l'« architettonicità» della pit tura moderna ( cioè futurista) significa riconoscerle un ruolo fondamentale nella storia dell'arte, in quanto ricostitutrice di quella visione spaziale unitaria che si era smarrita nei secoli. Altro punto importante del saggio per valutare l'influenza di Hildebrand è quello in cui, descrivendo uno studio di Soffici, Longhi afferma: I piani verticali che risecano la spessezza di un bicchiere, di un fiasco o di un globo di lucerna [ ... ] facen doci cozzare contro piani intermedi ci obbligano a carpire grado a grado il volume delle cose e ci permettono di realiz zare le superfici, che pure esistono, nell'Intensità di quel vo lume, ma che noi non realizzeremmo plasticamente finché non tradotte in realtà pittoriche di linea e di tono 16• Il realizzare le superfici nell'intensità del volume corrisponde a quanto avviene nella « veduta lontana» di Hildebrand, in quella immagine unitaria di superficie 17 che deve darsi sia in pit tura che in scultura e dove la complessità dei volumi è risolta con una indicazione di profondità 18• L'unità spaziale, su cui Hildebrand ossessivamente insiste, si ottiene soltanto a patto di superare la frammentarietà delle tante « visioni motorie» che la veduta vicina consente, in una rappresentazione puramente visiva che non offre direttamente l'immagine tridimensionale, ma soltanto vi «allude». Quanto al carpire grado a grado il volume delle cose, l'os servazione rimanda al capitoletto dedicato da Hildebrand alla scultura in pietra, che è poi quello dove, utilizzando la sua esperienza di scultore, egli dà precisi consigli sul modo in cui gli artisti devono procedere. Suo modello è Michelangelo, di cui ripropone la celebre descrizione vasariana della statua coricata nella vasca e fatta via via (grado a grado) riemergere. Nell'opera d'arte, pittura o scultura che sia, la prima immagine da lontano bidimensionale deve, mediante quelle indi cazioni di profondità di cui si è detto, dar conto del lavoro 43
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dell'artista. Questi procede, come Michelangelo, togliendo ma teria piano dopo piano e libera la figura seguendo le indica zioni dell'originaria immagine tracciata sulla faccia principale della pietra, che gli serve da « guida». Cosl, conclude Hilde brand la liberazione dell'immagine avviene in modo continuo, in proporzione al bisogno dell'occhio di veder più chiara mente; e la fantasia, nel suo travaglio, opera sempre come se si trovasse da un punto di vista lontano 19• Il.saggio sulla Scultura futurista di Boccioni consente ana loghi richiami. Per quanto riguarda gli « imprcstiti » da Boccioni, occorre sottolineare che Longhi si serve ampiamente nelle sue argo mentazioni di termini coniati dall'artista. Basti pensare alla frequenza con cui ricorrono espressioni come « dinamismo organico», « forma organica», « corpo sovranamente viven te »; oppure altre che insistono sull'effetto rotante impresso alle forme: « piccolo torneo elegante di forme ritonde», « freddo torneo spiralico dello sviluppo di bottiglia», « qui il torso s'inelica scagliando all'indietro un pettorale ». Oltre a ciò, a dimostrare (se ancora ve ne fosse bisogno) la familiarità di Longhi con i testi di Boccioni, c'è un esplicito riferimento a Dinamismo Plastico, pubblicato dall'artista nel 1914. In questo libro trovarono sistemazione ed approfondi mento idee già espresse nei numerosi articoli su « Lacerba» o nei manifesti e i cataloghi delle Esposizioni futuriste. Con una lucidezza che pare quasi un portato miracoloso delle necessità intime di chiarificare la storia per poterne riprendere il filone migliore, egli, in un libro recentissimo ha saputo, senza sfreddar l'entusiasmo verso l'avvenire, metter giù alcuni punti per la storia dell'arte moderna e non solo moderna, che potrebbero far la fortuna di molti storici d'arte antica e recente in Italia 20: questo è l'entusiastico commento longhiano alle pagine di Dinamismo Plastico dedicate all'in terpretazione della pittura moderna, dall'Impressionismo in avanti. In apertura di saggio, inoltre, Longhi espone una breve sintesi di storia della scultura, di piglio antiaccademico, in tutto uguale a quella contenuta nel Manifesto della scultura futurista stilato da Boccioni 1'11 aprile 1912, in cui era detto:
Nei paesi latini abbiamo il peso obbrobrioso della Grecia e di Michelangiolo, che è sopportato con qualche serietà d'ln• gegno in Francia e nel Belgio, con grottesca imbeclllagine In Italia 21• Analoga, da parte dei due autori, è anche la presa di posi zione nei confronti di Medardo Rosso. Nonostante egli fosse tra gli artisti più apprezzati dai futuristi, l'opinione di Boc cioni, come quella di Longhi, suona piuttosto limitante. En trambi, favorevoli come sono ad un ritorno della scultura ad intenti costruttivi, si mostrano diffidenti di fronte ai tentativi «impressionisti » di Rosso. Accanto a questi echi boccioniani non mancano comunque spunti di derivazione hildebrandiana, esattamente come nel saggio precedente. Un richiamo al Problema della Forma, per esempio, è riscontrabile nell'insistenza con cui Longhi ritorna sul valore «architettonico» dell'opera di Boccioni. Anche l'idea di Hildebrand ( già ricordata) dell'origine della scultura dall'architettura, viene ripresa in modo chiarissimo dal critico quando afferma: Fantasia deliziosa questa: dimostrare con calma come l'architettura non sia finalmente che una scul tura vieppiù spianata, corrosa, limata da un chiaroscuro re golare fino all'astrazione 22• Non manca nemmeno un riferi mento all'Egitto: Quanto più il luminismo è statico, tanto più la scultura procede e passa in architettura, naturalmente, egiziana 23• Accanto ai termini futuristi di cui è punteggiato l'articolo sono presenti anche espressioni di derivazione hilde brandiana: si pensi a « veduta frontale », «assoluta unità vi siva», «senso architettonico», ·«senso funzionale». In entrambi i saggi, come si è visto, spunti di matrice futurista convivono e si integrano con altri di ambito puro visibilista. Non si deve credere però che tra le due «fonti • (chiamiamole così) di Longhi vi sia un'assoluta concordanza. Il critico, in questo suo tentativo di conciliazione, va incontro a parecchie difficoltà e cade talora in contraddizioni insa nabili. :t:. ciò che accade quando parla del movimento: pur usando, infatti, per interpretare la pittura futurista, degli schemi tratti dal purovisibilismo, cozza contro le ben chiare convinzioni di Hildebrand al riguardo. 45
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Secondo l'artista tedesco, lungi dall'esserci la necessità di esprimere il movimento, in arte non abbiamo bisogno di ve dere lo svolgersi di un moto come avviene in natura. Questo perché la forma in riposo consente già il riconoscimento della sua capacità funzionale 24• E per dimostrare la sua tesi porta l'esempio, guarda caso, proprio di un cane che corre: immagine che ci richiama subito alla mente gli esperimenti futuristi e in particolare quelli di Balla. Di questo cane, dice Hildebrand vediamo le zampe in moto solo come strisce od ombre e mentre testa e tronco conservano un chiaro aspetto, non è possibile ottenere dalle prime nessuna forma chiara mente distinta. Se la resa artistica si basasse sulla riprodu zione di uno o più momenti del movimento, noi metteremmo sempre delle linee confuse al posto delle zampe 25• Allo stesso modo, se la ruota che gira (altro soggetto ricorrente nei quadri futuristi), mostrerà i suoi raggi come un balenare confuso, l'arte la riprodurrà nella chiarezza della quiete 26• È· indubbio, dopo quanto si è detto, che, almeno a propo sito del movimento, ci troviamo di fronte ad una assoluta inconciliabilità tra i futuristi e Hildebrand, che sembra pro porre, in questo caso, una sorta di « manifesto alla rovescia » delle Avanguardie. E la distanza si fa davvero incolmabile quando Longhi affronta il problema della deformazione e del grottesco, strettamente connessi al tema del lirismo. Non si tratta certamente di un argomento nuovo; sap piamo bene che la deformazione costituisce il fondamento stesso della pittura cubista. C'è tuttavia una differenza fon damentale: la deformazione futurista è intesa come impronta dell'io sull'oggetto rappresentato; quella cubista, al contrario, pretende di poggiare su basi oggettive e si arresta al piano formale non consentendo all'artista alcun arbitrio. Anche Hildebrand, nel Problema della Forma, si era sca gliato contro il gretto realismo e aveva affermato la necessità di attenersi alle sole leggi interne all'opera d'arte, del tutto indipendenti dalla realtà oggettiva. Dice testualmente: L'ar tista non s'impegnerà a seguire supinamente ogni fenomeno naturale come è in realtà, ma cercherà di svilupparne il lln· g1Iaggio secondo le sue capacità subiettive, e nel realizzare
« farà valere l'esigenza generale,. anche nel caso singolo ri. Confrontiamo quanto scrive Longhi sullo stesso argomento: Poiché « l'artista ha sempre un suo temperamento », che lo rende impressionabile di fronte ad alcuni piuttosto che ad altri elementi di realtà visiva, sarà sacrosanto ch'egli, per la costruzione organica dell'opera sua, colga elementi dovunque scopre nella realtà simpatie o affinità plastiche vieppiù lontane di tempo e di spazio 28• Come si vede, vi sono alcuni punti in comune ma l'impo stazione del discorso è diversa. Longhi, in linea con l'estetica futurista, insiste, tirando in ballo il temperamento, sull'im portanza dell'artista in quanto individuo dotato di propri gusti e di una propria personalità. In Hildebrand, al contrario, l'eventuale deformazione, cioè il rifiuto della verosimiglianza, si fonda su di una esigenza generale fissata sinteticamente neJ concetto di spazio unitario. Coerentemente con la sua volontà di definire una volta per tutte l'ambito dell'arte e il suo vero fine che è conoscenza spaziale, Hildebrand si guarda bene dal fare concessioni alla fantasia e all'istinto individuali. Al di là dei suoi gusti personali, che lo fanno propendere per il classicismo e lo inducono a decretare la superiorità degli antichi sui moderni, egli pone i fondamenti di un'arte libera da ogni condizionamento esterno, tesa ad affermare il proprio valore autonomo di conoscenza (sia pur nel limitato ambito del rapporto tra forma e immagine). Essa ebbe come eredi e realizzatori coerenti certamente più il Cubismo e l'Astrat tismo che non il Futurismo.
1 C. L. RAGGHIANTI, Profilo della critica d'arte in Italia, Vallecchi, Fi renze 1973, p. 76. 2 R. LoNGHI, La scultura futurista di Boccioni, in Opere complete, voi. I, Sansoni, Firenze 1961, p. 147. J F. BEUINI, Una passione giovanile di Roberto Longhi: Demard Berenson, in AA.VV., L'arte di scrivere sull'arte, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 23. 4 A. PUERARI, Le origini della critica d'arte contemporanea e gli « Scritti Giovanili,. di Roberto Longhi, in • Arte antica e moderna"• n. 18, aprile-giugno 1962, p. 212.
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5 R. Lo:-.cm, I pittori futuristi, in Opere complete, voi. I, cit., p. 47. 6 A. VON Hu.DEBRAND, li Problema della Forma, D'Anna, Messina-Firenze 1949, p. 53. 7 R. l..oNGllI, I pittori futuristi, cit., p. 47. a Ibidem. 9 lvi, p. 49. 10 lvi, p. 48. Il lvi, p. 49. 12 U. Bocc10NI, Gli scritti editi e inediti (a cura di Z. Birolli), Feltrinelli, Milano 1971, p. 47. 13 U. BOCCI0NI, Sillabario Pittorico, in « Lacerba », 15 agosto 1913. 1• R. LoNGHI, I pittori futuristi, cit., pp. 50-51. 1s lvi, p. 48. 16 lvi, p. 49. 17 A. VON HII.DEBRAND, op. cit., p. 41. I& Ibidem. 19 lvi, p. 104. 20 R. LoNGHI, La scultura futurista di Boccioni, cit., p. 135. 21 u. BOCCIONI, Gli scritti editi e inediti, cit., p. 23. 22 R. LoNGHI, op. cit., p. 138. 23 Ibidem. 24 A. VON HII.DEBRAND, op. cit., p. 91. 25 lvi, pp. 91-92. u, Ivi, p. 92. 21 Ivi, p. 89. 21 R. LoNGHI, op. cit., p. 137.
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