Op.cii. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea
Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Livio Sacchi, Sergio Villari Segretaria di redazione: Roberta Amirante Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 7690783 Amministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Giordani, 32 - Tel. 684211
Un fascicolo separato L. 4.500 (compresa IVA) - Estero L. 5.000
Abbonamento annuale:
Italia L. 12.000 - Estero L. 14.000 Un fascicolo arretrato L. 5.000 - Estero L. 5.500 Spedizione in abbonamento postale - Gruppo IV/70% C/C/P n. 23997802 intestato a:
Edizioni ÂŤ Il centro ,. di Arturo Carola
P. DEROSSI Verso un'ermeneutica dell'architettura R.
5
lA nozione di informe
19
G. Curo1.0 Design: dall'ingegnere all'edonista
29
Libri, riviste e mostre
41
PASINI
Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Roberta Amirante, Laura Cherubini, Gianni Laroni, Marina Montuori, Liliana Moscato Espo sito, Livio Sacchi, Maria Luisa Scalvini, Sergio Villari.
La rivista si avvale del contributo economico dei seguenti Istituti ed Aziende: Alessi Alias Banco cli Napoli Camera cli Commercio di Napoli Cassina Driade
2CM
Informatica Campania Riam Sabattini Zen Italiana
Verso un'ermeneutica dell'architettura PIETRO DEROSSI
La proposta (o forse il desiderio) di fondare un nuovo « ismo » architettonico, enunciata da De Fusco in questa stessa rivista 1, può essere letta come un'adesione (o un cedimento) verso uno dei caratteri più significativi della condizione post moderna: la nostalgia. Un carattere significativo, perché produce apertura critica dell'attua�tà e si costituisce come tramite sentimentale, come aggancio teorico tra un mondo contemporaneo privato di certezza e di fondamento ed il passato prossimo sostenuto dall'ottimismo o dal pessimismo metafisico del Moderno. Credo sia legittimo, sulla spinta della nostalgia, proporre un ripensamento intorno ad alcuni miti tramontati, se non altro per capire le condizioni del loro tramontare e per renderci conto del peso che ancora hanno sul nostro pensiero quando, da bravi ermeneuti disincantati, andiamo con il ricordo verso alcune credenze e speranze dentro cui ci siamo formati. Certo un atteggiamento più onesto di chi maschera, con riferimenti equivoci alla cultura « post-metafisica », un'intenzione di ap piattimento dei nuovi fermenti di pensiero, forse per ripro porre, surrettiziamente, la continuità di un progetto culturale che da tempo ha perso pertinenza e legittimità. De Fusco propone di discutere sulla possibilità di proget tare un nuovo orientamento dell'architettura per i prossimi anni. La prima riflessione che mi suscita questo invito è che il progetto proposto richiede essenzialmente di individuare le « premesse » per operare una semplificazione, nel senso di
5
6
estrarre e privilegiare alcuni aspetti del problema dell'archi tettura e attribuire a questi carattere di priorità e di fonda mento. E. stato da sempre, d'altra parte, la forza del « me todo» moderno l'attribuirsi il diritto di gerarchizzare, orga nizzare, contabilizzare i temi dell'architettura, sia per ricom porre le condizioni di un controllo esteso sul territorio (un potere pubblico nella maggior parte dei casi ed in questo senso auspicabile e benefico) sia per mettere ordine nel bosco selvaggio della storia e individuare strade maestre per la nascita del «nuovo». Dobbiamo precisare che intendiamo per« semplificazione» una generalizzazione nella direzione di un'astrazione che con duce all'essenza della verità. Credo sia opportuno chiederci se esiste un'analogia diretta tra il termine semplificazione così inteso e il termine « ri duzione» usato da De Fusco nella proposta di riduzione cul turale avanzata nel suo scritto La riduzione culturale 2• Credo si possa mettere in rilievo una differenza. Nel testo del '76 come nell'articolo Verso un nuovo« ismo », mi è parso di rilevare in De Fusco più che un desiderio di astrazione, un intendimento pragmatico di semplificare per ricondurre il mondo della cultura (e in particolare dell'architettura) ad una funzione concreta nello sviluppo civile della società. La riduzione per De Fusco sembra essere una tattica di avvici namento al mondo reale dei fatti liberandoci dalle illusioni idealistiche di assoluto e di compiutezza. La riduzione, se come De Fusco afferma è sempre trasformativa, non asso miglia ad un metodo (definitivo, unitario) ma ad una indica zione procedurale per un processo. L'obiettivo è quello di fare spazio ad un'enciclopedia (racconti di avvenimenti) piut tosto che ad un vocabolario (definizione di significati). La riduzione così intesa, in quanto si preoccupa di diminuire il campo di osservazione e di avvicinarsi alle cose nel loro con testo, può essere intesa come lo spazio di azione di un'inter pretazione? Ciò che fa dubitare della possibilità di dare a questa do manda una risposta affermativa è l'insistenza di De Fusco sulla connessione tra riduzione e struttura, connessione che
sembrerebbe confermare l'intenzione di ricondurre la cultura ad un sistema strutturato; a meno di intendere, come forse De Fusco fa, anche le intenzioni strutturanti finalizzate più ad una tattica pragmatica di lettura, descrizione, azione, piut tosto che ad un'intenzione definitoria. Il destino del metodo strutturalista di dividere, ordinare, gerarchizzare può diventare in questa accezione una tattica che opera nel micro e che ci concede una definizione provvi soria; un destino, tra l'altro che sembra confermato nelle attuali correnti post-strutturaliste americane che si muovono intorno alla scuola di Rorty 3• D'altra parte, al di là delle intenzioni di De Fusco, che mi sembrano più tese al futuro che a descrivere il passato, ritengo che le «riduzioni,. o le «semplificazioni,. non ab biano avuto nello sviluppo del moderno un ruolo differen ziale e pragmatico ma piuttosto abbiano costituito il sostegno metodologico per la ricerca di un'essenza unitaria e perma nente: un'essenza mai raggiunta, ma che lumeggiata come possibile e necessaria ha prodotto l'allontanamento del mo derno dalla realtà dello sviluppo urbano. Cosi le proposte di semplificazione dentro canoni rigorosi e prestabiliti sono rimaste sulla carta mentre la città vera, abbandonata dal l'attenzione del pensiero della specificità, si è modificata sotto le spinte incontrollate e volgari del sopruso e del profitto. Lo scenario che possiamo oggi osservare è disperante e ci provoca irritazione e rabbia: i processi sono sfuggiti ad ogni strumento previsionale e ci sembra di dover ammettere· la sconfitta di un programma senza neanche essere riusciti a sperimentarlo. Una considerazione può forse aiutarci a capire le ragioni di questo insuccesso (ragioni troppo spesso attribuite solo ad un cattivo funzionamento della politica o delle proce dure): si tratta di considerare la compatibilità tra la volontà di semplificazione e la possibilità stessa della sperimenta zione. Cioè, più esplicitamente, si tratta di chiedersi se non siano state proprio le imposizioni forzate · di una struttura di gerarchie razionali volute dal moderno a sottrarre alla sperimentazione gli elementi di raccordo con la realtà della
7
:e
8
città. noto che il «moderno» si è costituito e sviluppato sorretto dalla pretesa di salvare l'architettura dalle incerte fluttuazioni eclettiche ottocentesche e di fondare dei nuovi paradigmi scientifici e specifici per la disciplina. Questo passo ha spinto l'architettura a confrontarsi con i caratteri pecu liari del metodo scientifico, cioè a presupporre una linearità del processo conoscitivo dentro cui si produce un'accumula zione. In questo quadro il dialogo sperimentale è stato, in un certo senso, vincolato dentro la concatenazione delle acqui sizioni precedenti, spesso già trasformate in una descrizione teorica, e la sperimentazione è stata intesa come strumento per preparare il fenomeno studiato, purificarlo, isolarlo sino a che esso somigli a una situazione teorica che è possibile con nettere e confrontare con il processo scientifico già costituito. I limiti di questo «metodo» scientifico sono già stati messi in luce in relazione ad un rinnovamento degli atteg giamenti sperimentali nella fisica 4 a partire da due conside razioni principali: a) l'incapacità di questo metodo di rendere conto della complessità e .della varietà delle scoperte scientifiche (in un certo senso le scoperte sfuggono al vincolo teorico precosti tuito); b) il sospetto che dietro l'oggettività del metodo si possa facilmente nascondere un proposito surrettizio di manipola zione della società. L'analogia con quanto è successo alle «scienze » del terri torio è evidente. Il territorio si è trasformato sotto la furia di azioni reali, che si sono sviluppate altrove rispetto al quadro definitivo delle ipotesi teoriche, mentre le scienze del territorio erano sospinte in campi marginali di discussione: o nel campo della recriminazione, del sospetto, della nega zione, o in quello della futurologia tecnologica che prefigu rava mondi unificati sotto la bandiera del progresso tecnico. Il « moderno» ha perso i suoi propositi originari ed è stato sospinto nell'area fumosa dell'ideologia. Tafuri potrebbe tacciare queste critiche al « moderno» di superficialità per il loro carattere sintetico, e richiamare i processi di revisione storiografica che da tempo hanno
messo In luce l'irriducibile pluralismo dell'esperienza esplosa dalla fine del XIX secolo in poi s. Certo sarebbe un discorso rozzo ed ottuso giudicare « in blocco ,. le esperienze del moderno, classificarle in poche definizioni e proclamare la fine di un'epoca e l'inizio del l'epoca nuova del post. Ma, d'altra parte, può essere ancora una adesione ad un concetto di storia come telos, come Grund, pur accettando il fermento pluralista, insistere troppo sulla continuità delle esperienze, definite e raccolte e garan tite dalla serietà dell'analisi. L'ossessione del rinnovamento e l'ossessione della verità storica hanno in comune l'osses sione del fondamento. Per uscire da questa morsa dobbiamo permetterci di ri leggere continuamente la storia come argomento interno al nostro attuale dialogare; un dialogare che nel caso dell'archi tettura si manifesta (o meglio si dà in forma) nel processo del progettare. Se il primo passo della comprensione è venire Interpellati da qualche cosa 6, è l'evento dialogico che ci rimette in gioco con la tradizione, che ci attrae dentro un percorso di ricerca, che modifica, nella ricerca, il ricercatore e la storia. I possi bili riferimenti che devono essere attenti e approfonditi, non possono mettere in luce la verità del loro dirci, ma soltanto la « nuova verità,. delle nostre interpretazioni. Solo dentro questo accadere, che ha i caratteri della fluttuazione e del l'erranza, è possibile affrontare con «serietà,. la tradizione. Sembra non interessante chiedersi «quale è il vero Mies? quale è il vero Le Corbusier? ». e senza timore di essere tacciati di superficialità che possiamo cercare di mettere in luce alcuni caratteri del «moderno ,. che più si evidenziano come differenza da quanto oggi, ora, possiamo o tentiamo di fare. Non solo come diffe renza concettuale ma come differenza concreta nel modo di operare: perché la resistenza del moderno (il moderno che più o meno surrettiziamente si appoggia ad un telos struttu ralista, magari aggiornato con il pluralismo), costituisce una rigidità, un attrito rispetto alla domanda che ci viene dalla tradizione e rispetto alla nostra «necessità,. di sperimenta-
9
10
zione. Solo la speranza mai abbandonata di una nuova fon dazione disciplinare può legittimare una continua e insi stente riproposta di una metodicità delle procedure come garanzia della conoscenza, della verità o dell'efficienza. Ma questa speranza nella metodicità allontana lo storico (o l'ar chitetto) dalla conoscenza storica, lo ripropone come soggetto giudicante esterno, che insegue l'obiettivo storico come esito di una ricerca progressiva. Un pensiero storico compreso sino in fondo deve com prendere la propria storicità, il che vuol dire che deve met tersi in gioco come partner di un dialogo dagli esiti incerti. Il dialogo, nel suo ritmare appelli e risposte, dispiega una pluralità di possibilità ma non ogni possibilità. :e. il limite o il carattere mediatore del dialogo che non permette di far assurgere a metodo neanche il pluralismo. Il pluralismo, tanto citato, non può essere inteso com una categoria che salva il metodo, ma piuttosto come spaccatura del metodo, e un'apertura verso un nuovo modo di conoscere che è costi tuito da un incontro (da molti incontri) tra una domanda (che spesso ha i caratteri di una necessità) che ci viene dal nostro mondo (tradizione, attualità) ed un soggetto privato dell'aura del soggetto, potremmo dire depotenziato, integrato a cui spetta l'onere .di una mediazione per dare risposte di progetto in una circostanza. Queste riflessioni possono rendere più evidente la nostra lontananza dal moderno e lenire almeno in parte il mal sot tile della nostalgia per dare l'avvio ad una ricerca costruttiva che non si esaurisca nella riproposta di un telos chiarifica tore e rassicurante. La partenza che noi proponiamo consiste nel liberare delle vie per la sperimentazione verso uno spazio di ricerca extra-metodico. Questa via comporta una revisione del processo conoscitivo spostando l'attenzione da una no zione di verità come evidenza, stabilità, oggettività leggibile in una struttura, ad una nozione di verità come accadimento, accettando quanto ci suggeriscono le indicazioni della filo sofia ermeneutica contemporanea. La e regola » ermeneutica ci dice che bisogna comprendere la totalità sulla base del particolare e viceversa dove tra
i due approcci vi è un rapporto circolare. Il processo della comprensione può partire dalla totalità con un'anticipazione di senso e andare verso la parte (cioè verso la. cosa stessa) per cercare dei completamenti o revisioni di questo stesso senso; per poi ritornare, arricchito dalla voce della parte, verso una revisione del senso della totalità. Il movimento circolare è senza fine, ed indifferente dove pone la sua partenza, ed in qualunque punto si arresti il risultato « acqui sito» non potrà che avere un valore mediano, in quanto il fermarsi non è determinato dal raggiungimento di un fine, ma dalla pressione di una circostanza. Se accettiamo di muoverci in questa koinè ermeneutica 7 la conoscenza si apre all'ascolto e alla sperimentazione perché ogni sforzo conoscitivo si presenta come un cominciamento. Si può anche dire che l'azione del comprendere comporta un progetto, un evento rischioso che non può trovare fonda mento altrove, ma gioca le sue chances nel suo stesso acc.a dere. Per conoscere bisogna osare, inoltrarsi oltre le « inav vertite abitudini del pensiero ,. accettando di vagliare ogni pregiudizio, sapendo d'altra parte che la propria ricerca può solo partire da (e approdare a) un pregiudizio. Questo atteggiamento pare lontano dal clima in cui sono stati costruiti gli ismi del ·movimento moderno. Gli « ismi,. si sono sviluppati sul modello dell'ampliamento mediante la scoperta di nuovi domini o di nuovi materiali spinti dalla ricerca di un rinnovato senso teleologico. Il rapporto tra gli « ismi,. (espressionismo, razionalismo, organicismo, etc.) è sempre un rapporto di' sostituzione tra verità, dove l'ultima verità vuole costituire un nuovo raggiungimento definitivo e proporre la sua legittimazione attraverso la proposta di una nuova normativa generale, applicabile universalmente. Gli « ismi,. ci dicevano che il procedimento per individuare, per rendere chiara una normativa, consisteva nell'uscire fuori, allontanarsi dall'occasione in cui il nuovo fenomeno si è ma nifestato, ha preso forma, per cercare, attraverso purificazioni e semplificazioni, di individuare le regole invarianti che garan tiscono la solidità temporale e concettuale della scopérta. Nel processo di semplificazione dall'esperienza alla norma
11
12
solitamente prevalgono gli elementi. sociologici, econom1c1, tecnici, mentre appassiscono i temi più propriamente con nessi al costituirsi reale della proposta attraverso il formarsi specifico del linguaggio. L'« ismo», cresce, si rafforza nella misura in cui si allontana dalla specificità delle occasioni che l'hanno generato e si va a collocare nel regno rassicurante della « conoscenza scientifica». D'altra parte l'opera specifica viene isolata dal suo conte sto vitale e diventa visibile come « pura opera d'arte » che poco ha a che fare con lo scopo, funzioni, significati e con tenuti dell'« ismo» in cui può essere classificata. Questo duplice movimento (individuazione di norme ge nerali dei movimenti e descrizione del loro susseguirsi ed isolamento dell'esperienza artistica - e degli autori e degli interpreti - nello spazio differente dell'estetica) ha caratte rizzato la storiografia del movimento moderno ed è ancora presente in molte elaborazioni critiche contemporanee. Portiamo due esempi. Proprio in opposizione alla sopraf• fazione dei rumori del mondo sui temi originali del movimento moderno è nato in Italia, nei primi anni '70, il gruppo della « tendenza» che con forza rivendicava l'autonomia del fare disciplinare dell'architettura e l'importanza primaria del lin• guaggio. Com'è noto, alla fine degli anni '60, il movimento nelle facoltà di architettura con forte connotazione marxista (di un marxismo non sempre letto correttamente). nei suoi aspetti più radicali aveva riproposto la priorità dei contenuti eco nomici e sociali, detti strutturali, sugli aspetti formali, rele gati questi nell'area secondaria e subordinata della sovra• struttura. Questa condizione che aveva allora assunto uno stato, si può dire, di necessità, può essere oggi giustificata come un'esigenza strategica per opporsi all'arroganza e al• l'arretratezza della cultura capitalistica. Tutti abbiamo vis• suto in quegli anni una specie di sospensione critica, convinti che fosse necessario adottare strumenti riduttivi ma capaci di sostenere la durezza di uno scontro radicale. D'altra parte questo stato di cose è stato di breve durata in quanto, ben presto, dentro i movimenti più accorti della sinistra, già agli
inizi degli anni '70, si fa strada una revisione delle posizioni più intransigenti e si inizia a cogliere l'importanza delle «con dizioni di vita» nella loro formalizzazione quotidiana. L'at tenzione del «movimento» va verso la specificità locale del territorio, inteso questo non più come categoria astratta ma come campo delle relazioni e delle mediazioni, e sempre con più attenzione si parla delle valenze politiche della qualità della vita, cioè dei processi reali di formalizzazione. Credo sia oggi chiaro che è stato proprio in opposizione ai coinvolgimenti politici dell'architettura degli anni '60, e alle susseguenti ricerche intorno alla pregnanza sociale della forma (che hanno caratterizzato, ad esempio, i movimenti radicali italiani ed europei) che la «tendenza» ha avanzato la sua proposta rivendicando un ritorno ai temi disciplinari, ad uno spazio autonomo e protetto per la pratica dell'archi tettura, proposta che ha trovato terreno fertile ben oltre il territorio nazionale, in Europa e negli Stati Uniti. Dentro questo spazio rassicurato che si è allargato con temi diversi ficati e disinvolti oltre le prime posizioni, ma aderendo al «metodo», si sono attestate con forza le linee vincenti del l'architettura contemporanea e si sono costituite, pur con diverse sfumature, le nuove regole dell'offerta culturale al potere politico. Un'offerta di qualità che, in forza del carattere autonomo della sua genesi e del suo sviluppo, può porsi a fianco del variopinto panorama politico garantendo a chiun que l'effusione di un sufficiente prestigio. D'altra parte non può essere sottovalutata la grande im portanza che ha avuto la proposta della tendenza di rimettere in discussione il problema del linguaggio, discussione che ha costituito una critica ai paradigmi dell'avanguardia dei vari «ismi» e alle ideologie dei grandi sistemi innovativi che si ponevano come corpo di contenuti a monte del costituirsi del linguaggio. Il dubbio è che questo ritorno al linguaggio non sia stato capace di effettuare un vero ripensamento del senso stesso del linguaggio. Collocando questo in .una sfera particolare della conoscenza estetica da riattivare e promuovere all'in terno di una sua autonomia, si rischia di riproporre surretti-
13
14
ziamente una nuova separazione tra forma e contenuto, privi legiando e separando questa volta, la forma. II ritorno al linguaggio cosl inteso può essere letto come una riproposta della «bellezza libera» (contro la «bellezza aderente») di kantiana memoria, una dottrina che può essere fatale per la comprensione dell'arte. Può sembrare che sia riapparsa sul fondo la dottrina della «differenziazione estetica» che ha la sua base, come ricorda Gadamer, su un'operazione di astrazione in quanto si prescinde da tutto ciò in cui un'opera si radica come suo contesto originarlo e vitale, da ogni fun zione religiosa e profana in cui essa era posta ed in cui aveva il suo significato per liberare la conoscenza estetica che fa apparire nella sua sussistenza autonoma ciò che la pura opera d'arte è. In questa accezione il valore dell'opera d'arte (di architettura nel nostro caso) è connesso alla sua capacità di astrarsi dai momenti extra-estetici che all'opera sono attac cati semplicemente in modo esteriore, scopo, funzioni, signi ficati e contenuti. Può darsi che tali momenti siano in realtà abbastanza importanti e significativi in quanto inseriscono l'opera nel suo mondo e perciò contribuiscono in modo deter minante a definire la pienezza del suo significato più pro prio. Ma l'essenza artistica deve potersi distinguere da tutto ciò 8• La «tendenza» ci suggerisce che è proprio questa forza di separazione che attribuisce all'opera la sua autenticità, che blocca il significato in una unità significante conchiusa, che si può cogliere come indicazione di permanenza e di totalità, proprio oltre i rumori del mondo. Questo scenario, in cui si può riconoscere alcuni dei per sonaggi più noti dell'architettura contemporanea (ad esempio Rossi), ci invita ad una riflessione del significato vero del « ritorno al linguaggio». Di fatto se l'esteticità è un tipo di conoscenza (o sensibilità) sui generis che si muove in un modo separato che tende all'astrazione, altrettanto separata e astratta sarà la casa del linguaggio in cui l'architetto si rifugia. La strada scelta va verso l'individuazione di regole ripe tibili di segni rivelatori, di tipologie esemplari che restitui scano al linguaggio una struttura essenziale sincronica, immune dal quotidiano e dalla storia. La « differenziazione este-
tica» realizza nella «tendenza» il suo grande ritorno; e poco importa se nella sua origine kantiana l'obiettivo fosse lo splendore gratificante della purezza, mentre oggi vengono di scena anche l'alienazione o il nichilismo. Il linguaggio esone rato da ogni inquinamento nell'esserci qui e ora, si propone come veicolo per aderire senza riserve alla verità metafisica del mondo. Per questo, forse, i messaggi estetici che le opere di Rossi ci inviano, pur pervasi di un'atmosfera surreale, possono es sere letti come uno sforzo di rifondare una verità eterna e permanente nella tradizione. L'intento sembra quello di fer mare il correre inquietante del tempo, per celebrare l'unità e la permanenza contro le apparizioni imprevedibili degli eventi. In Rossi non c'è nostalgia per la metafisica perché nelle sue opere la metafisica è presente, riproposta come panacea per ridurre ogni tentazione di mediazione mondana. Se il razionalismo (certo l'«ismo» più importante almeno per la disciplina architettonica) collocava il fare artistico dentro una proposta complessiva di società, le proposte di architettura attuali più seguite e celebrate dalla critica uf ficiale si muovono nello spazio separato della «coscienza este tica»: uno spazio ben difeso dalle fluttuazioni effimere del mondo. Questa collocazione legittimata da supposte regole interne alla poesia (razionalismo poetico?) concede il privi legio di accostarsi con indifferenza ai più disparati contesti sociali ed urbani, dando per scontato che questi contesti si sviluppano seguendo regole diverse ed esterne al fare artistico. . Le architetture che simulano un'adesione alla esigenza della tecnica, per intenderci l'architettura cosi detta del l'High-Tech, possono essere un altro esempio chiarificatore. In questo caso è la tecnica che indica la via per uscire dall'incertezza e dall'aleatorietà dei processi circolari della conoscenza. Si tratta, ancora una volta, di produrre una sem plificazione estraendo dallo scenario dei processi di forma zione della città una componente, ed attribuire a questa il compito di rappresentare il tutto. Il carattere riduttivo e conservatore di queste proposte appare evidente se ci accorgiamo che la «tecnica» a cui si
15
16
fa riferimento è una tecnica obsoleta, meccanica, ottocen tesca, rispolverata proprio perché richiama alla ribalta un modello rassicurante facile da manipolare e controllare. Ri proponendo una « tecnica» vecchia (quella nata con l'otti mismo del positivismo ottocentesco) si può rilanciare un'idea di progresso, evitando di confrontarsi con il reale sviluppo delle tecniche attuali, sviluppo ormai eroso dalla relativizza zione dei suoi fondamenti e sempre più compromesso dalle verifiche continue dei suoi esiti sociali. Si può leggere l'intenzione dei grandi edifici High-Tech costruiti nel mondo (il Beaubourg o la Shanghai Bank di Hong-Kong, etc.) di riproporre la possibilità di concentrare categorie di attività (arte. cultura, finanza) estraendole dalla dispersione sociale, per restituirle come immagine sintetica di una qualità garantita. Utilizzando un aspetto obsoleto della tecnica a simbolo di progresso, le opere High-Tech costituiscono di fatto un occultamento dei complessi aspetti della « tecnica» contem poranea, aspetti che sempre di più suggeriscono un mondo in cui prevalgono la mobilità, le relazioni, le differenze ri spetto alla stabilità, all'omogeneità e alla centralità. Si potrebbe parlare in questo caso, in analogia a quanto detto intorno all'estetica, dell'intento di costruire una « dif ferenziazione della tecnica»: di un intento cioè di estrarre una categoria dal fare umano e di attribuire a questa il com pito di sostegno di una strategia di salvezza. Un separare che è anche un banalizzare. Come parlando di arte si tratta di rifiutare la separazione della conoscenza estetica rivendicando alla forma (dell'arte) un compito essenziale nella ricerca di accadimenti di verità dentro lo spessore complesso del mondo, così parlando di tecnica è necessario interrogarsi intorno al senso che le si può attribuire nell'attualità. Possiamo riferirci al concetto heideggeriano di Ge-Stell 9 che ci parla dell'im-posizione e della pro-vocazione della tecnica con cui l'uomo deve continuamente confrontarsi, non per scoprire finalmente il Grund, ·ma spinto dalle circostanze che si presentano come un'urgente necessità a cui
bisogna continuamente dare risposte. La tecnica, non come fondamento o come soluzione ma come « fondo», richiama dentro di sé l'aleatorietà della fatica umana, il perpetuarsi dei tentativi, una continua « caccia alle cose». In conclusione il drammatico sforzo di « porre insieme», di produrre, di rappresentare, di comunicare. L'avvicinamento alla tecnica così inteso non è l'avvicina mento ad una categoria o ad una abilità o una norma ma piuttosto ad uno coacervo misterioso di messaggi che pre mono, che si impongono, che possono essere decifrati solo nella contingenza (di luogo e di tempo), in cui il mondo si dà, si mette in vista, si disvela in un suo peculiare aspetto. Contro lo spazio di questo darsi si erge come impedi mento, come barriera, l'assunzione acritica di un simulacro di tecnica che pretende di essere « l'equipaggiamento» dello sviluppo e del progresso. Per queste ragioni, le opere High Tech sono così irritanti: esse proteggono sotto l'aspetto della complicazione del pensiero calcolante (e non della comples sità del pensiero meditante) la banalizzazione e la parodia della idea di futuro e del nostro destino, cercando di preclu dere le vie della riflessione e della sperimentazione. Abbiamo riportato due esempi per dare un riferimento pragmatico alla proposta di aprire uno spazio di ricerca extra metodico (forse un nuovo « ismo»?). Altri esempi sarebbero possibili. Ripercorrere la storia, anche attuale, delle tendenze in architettura con l'intento di mettere in luce il perpetuarsi del dominio di categorie metafisiche sarebbe un lavoro di grande interesse. Ovviamente l'intento non sarebbe quello di « superare ogni riferimento metafisico » ma di avviarsi sul cammino che, dal dissolvimento di questi riferimenti, o appoggi, ci fornisca la chiave per una rilettura della storia, liberata dall'idea di telos, ed utilizzabile· come parte viva (appunto liberata) nel dialogo progettuale contemporaneo. La storia potrebbe escludere ogni pretesa di descrizione « neutrale », effettuale, prodotta da un soggetto esterno giu dicante, e accettare in modo radicale il ruolo di interpreta zione, dove per interpretazione intendiamo un evento dialo-
17
gico in cui sia la storia, che il suo interprete, sono messi in gioco e dal quale escono reciprocamente modificati. In questo senso anche il progettare è fare storia, superando ogni attitudine contemplativa, verso un ruolo direttamente impegnato.
1 R. DE Fusco, Verso un nuovo« ismo » architettonico, in « Op. cit. », n. 65, gennaio 1986. z R. DE Fusco, La riduzione culturale, Dedalo, Bari 1976. J Cfr. R. RoRTY, Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano
1986.
4 Cfr. I. PRIGOGINE, I. STENGERS, La nuova Alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino 1981. s M. TAFURI, Storia dell'architettura italiana, Einaudi, Torino 1986. 6 H. G. G,\DAl\iER, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983. 7 G. VATTIMO, L'ermeneutica come «koinè», in « Aut Aut», n. 217. s H. G. GADAMER, op. cit. 9 M. HEIDEGGER, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mur•
sia, Milano 1980.
18
. La nozione di informe ROBERTO PASINI
Le metafore del metodo Il termine metodo, dal greco meta odon, significa « lungo la strada». Strada è dunque vocabolo utile a imbastire quello che, se non rischiassimo la tautologia, potremmo chiamare « percorso metodologico». In che cosa consiste l'apporto, per così dire, geografico di un etimo che corrobora la ri cerca? In astratto, « vederci chiaro», non sbagliare« strada», appunto, prendere una via sicura, che conduca allo scopo. Nello specifico dell'arte, individuare la o le strade maestre, se esistono, alle quali un « cammino» storico ha affidato le proprie prerogative. In particolare, è opportuno riflettere sulla legittimità della metafora viaria, perché non sempre essa viene accettata, soprattutto da chi ritiene che in materia d'arte valgano di più i singoli avvenimenti creativi e i conse guenti prodotti, che non le relazioni che li accorpano 1• Se la problematica non fosse ormai consunta da una fat tiva acquisizione dei concetti di« movimento», « stile», « spi rito del tempo» e così via, si potrebbe riconsiderare il rap porto che unisce i due corni della questione: da un lato infatti abbiamo l'opera individua, nella specificità del pro dotto e in quella dell'intero arco produttivo; dall'altro, una serie di coordinate interpretative atte a stabilire i valori in base a più o meno espliciti disegni storiografici 2• La sintesi che ne emerge ha il compito di costruire tracciati, che non
19
siano possibilmente sentieri interrotti 3, con la caratteristica di non possedere se non una relativistica rispondenza al mo mento culturale che li ha individuati, e dunque suscettibili di variazioni, riletture e capovolgimenti. Non ci interessa, in questa sede, proporre una fenome nologia dei tracciati, quanto piuttosto saggiare la possibi lità di inserire in una linea già assodata, quale quella che porta dal romanticismo all'informale 4, alcune situazioni che sino ad oggi ne erano rimaste escluse. Tale linea, che ha come contraltare, se vogliamo, quella analitica, da Seurat all'astrattismo 5, non ha mai avuto una trattazione uniforme, sistematica, anche perché il collante che la unificava consi steva nel « tramando », vale a dire una « tradizione apparen temente non costituita » 6• Il progetto di ArcangeH, nella sua accesa e profonda lucidità, contemplava un iter Caravaggio Rembrandt-Turner-lnformale come vasta e sempre più feb bricitante sintomatologia della coscienza post-copernicana: una crescita di palpitazioni erosive al cui centro restava però, sotto certi aspetti un po' imbarazzante, l'idea di Natura, di una polpa vitale inesauribile per l'ispirazione artistica, fau trice di un rapporto uomo-mondo definito intelligentemente ed esistenzialisticamente « senso del due » 7• La via seguita da Arcangeli poneva in risalto il concetto e la pratica dell'esistenza sull'eterna rivale, l'essenza, vale a dire physis contro nomos, eros contro logos. E se è vero come è vero che un artista quale Cézanne viene unanimemente ri conosciuto alle· origini del Cubismo, il movimento che per eccellenza ha rappresentato le essenze agli inizi del secolo, giustamente all'interno della linea arcangeliana non poteva trovare ricetto. Del resto, non si può negare che un inseri mento può avvenire solo sulla base dell'ultima produzione, in particolare quella relativa alla Sainte-Victoire, per la quale un interprete come Schapiro, che peraltro non sempre può essere condiviso, usava espressioni quali stormy rapsody e
turbulence of brushwork 8•
20
Eppure, ci sembra incontrovertibile che sia Cézannè sia il Cubismo possano essere liberati da una. visione eccessiva.mente ligia ai canoni «forti» dell'essenzialità, della geome-
tria, della costruttività, di cui certo non son privi, ma che andrebbero collocati al loro giusto posto, onde concedere spazio anche alle manifestazioni contrarie, che pur emergono senza troppe remore. Non si può certo dire che l'artista di Aix sia soft, che le giunture della sua visione del mondo si addolciscano al calore del fenomeno, ché anzi proprio sotto il suo controllo estremo fa ingresso nella vicenda artistica la struttura noumenica 9, con la quale si chiamano a raccolta, per acquisita insufficienza dell'occhio, le ragioni che trasfor mano la percezione in appercezione. Il periodo sferoidale 10 nella produzione cézanniana contiene una matrice degenera tiva della forma moderna, introducendo, fra l'altro, una mor fologia del flesso che sarà spia di situazioni a venire nel tempo; poi, però, gli anni della maturità sembrano nascon dere le intemperanze giovanili sotto una corazza di solido impianto, alla quale c'è chi riconosce validità anche nella fase estrema, quando le tele lasciano trapelare zone di bianco inquietanti: ciò succederebbe perché la materialità del colore della tela, lasciata nella sua intatta presenza e contrastando con la stesura elaborata delle altre zone, viene a rafforzare la struttura della pennellata e, di conseguenza, quella del l'immagine 11• In realtà, occorre focalizzare il cromosoma di struttivo presente nel corredo genetico cézanniano, mentre il nostro secolo si è maggiormente interessato alla parte razionai-costruttiva, coltivando, in certi momenti, il mito di un Cézanne neo-quattrocentista, Grande Architetto del l'universo artistico u. Se infatti si presta attenzione alla voca zione della Sainte-Victoire, emerge una condizione di disagio non lontana da quella coeva vissuta dal Monet delle Ninfee, estremo naufragio nella destabilizzazione dell'elemento idrico;. l'impuissance cézanniana arriva a costruire una image in complète 13, non perché manchi la forza di penetrare il mi stero della realtà, ma in quanto proprio tale mistero comincia a mostrarsi insufficiente, e la pittura si distrae con sé stessa, sJ chiude nel circuito delle sue manifestazioni. L'emergenza di questi fattori è di non secondaria impor tanza per imbastire un itinerario aperto a confrontarsi con le µnee apparentemente opposte: la scansione Cézanne-Cubismo 21
vava, pur nelle rispettive specificità, Cubismo e Futurismo in stretta collimanza con James, Bergson e Joyce.
La nozione di informe Le morfologie cézanniana e picassiana appena tematizzate rientrano in un vasto progetto dell'arte contemporanea che prende le mosse da lontano, in particolare nell'universo scon volto e turbinoso di Turner. Il merito principale di aver stabilito un nesso storico fra l'artista inglese e certi esiti della ricerca del nostro secolo va certamente ad Arcangeli 17, anche se è possibile e doveroso rimpolpare la sua fertile in tuizione seguendo un piano sistematico che non porti ogni esito a risolversi in un'anticipazione sulla grande e gloriosa stagione dell'Informale, ma tenti di costruire una rete di rapporti salvando le varie singolarità situazionali, pur assor bendole in una traiettoria. Ciò si rende fattibile sulla base di una nozione che emerge dal campo d'indagine e sistema le ricerche artistiche garantendone la collocazione entro coor dinate diacroniche· ben consapevoli delle prerogative sincro niche: la nozione di informe 18• Ci si può chiedere se esista una cultura, o tina casistica pura e semplice, legata a tale nozione, ovvero istituzione, come direbbe Anceschi 19• Una prolungata analisi di questi argomenti porta a scegliere la via intermedia, riassumibile col termine fenomenologia, per cui nel variegato caleidoscopio della cultura contemporanea e delle sue infinite sfaccettature si incontra una tendenza, che potremmo anche definire stile diacronico, intesa a sgombrare il terreno dell'arte non solo dai criteri formali moderno-prospettici, ma anche da tutto ciò che è linea, contorno, forma chiusa, distanza dall'oggetto. Si tratta di una problematica già ampiamente attraversata dall'estetica romantica, e che trova ad esempio una sorta di nuovo vangelo, un piccolo ma prezioso breviario nel racconto di Balzac Le Chef-d'oeuvre inconnu �. Diventa allora interes sante verificare la pittura di Tumer alla luce di quelle indi cazioni, scorgervi le profonde analogie, che si mantengono 23
sentendo ancora all'informe di fare il salto di qualità e tra sformarsi in informale. L'universo mediale, corroborato dalla rivoluzione elettro nica, sviluppa una condizione esistenziale ubiquitaria, in virtù della quale il mondo si rimpicciolisce, tutto quanto si fa più vicino al soggetto, che si vede sempre più preda di una liaison di carattere antropologico. In arte, questo avvicinamento, quest'unione son già identificati nel Romanticismo, e per il pittore balzacchiano Frenhofer il capolavoro al quale sta la vorando da un decennio si è trasformato in una sorta di infinito intrattenimento: non si approda, non vi è una forma al termine del gesto creativo, l'unica condizione è quella del durante, del pascaliano divertissement. Oppure, se proprio si vuole trovare un esito, esso è il suicidio: si uccide Frenho fer, come si uccide Claude Lantier 24, e sono morti sintoma tiche, che troveranno con lucida coerenza altrettanti prose liti in Gorky, Pollock e Rothko. Pur evitando di scendere a determinismi o sociologismi facilmente biografici, occorre prender atto della insolubilità della forma aperta al nulla, nel suo arco temporale contemporaneo, impegnata a conso lidare il proprio statuto d'incertezza, di perdita del centro 25, che diviene, col passare delle stagioni artistiche sino all'In formale, centro della perdita. Ma con l'estremo sussulto del l'informe sui meridiani degli anni Quaranta e Cinquanta il problema cambia fisionomia, perché la sua tematizzazione esplicita mette fuori gioco l'ambiguità: lacerti di forma, ten tazioni referenziali, civetterie oggettuali non erano assenti dal tracciato dell'informe, che al passaggio nel grande mare del l'Informale si vede invece privato di questa difesa, sguar nito, messo a nudo. Con la morfologia autre si realizza l'em pito d'avvicinamento, il mondo si sbarra davanti agli occhi, che non possono più focalizzarlo perché ne fanno parte se condo il progetto di una orizzontalità integrativa, e quindi · sembra che siano portate a compimento proprio le aspira zioni dell'informe, il suo desiderio di connubio tra eros e thanatos; eppure, l'Informale viene a rappresentare la parte dell'orgasmo nel tracciato sussultorio precedente, e assume perciò una connotazione definitiva e demotivante. 25
scalfiscono che la pelle dell'involucro formale. Il messaggio trasmesso invece da Turner prevede la trasformazione radi cale, anche se non definitiva, della sostanza formale in nebu lizzazione, in haziness: occorre portarsi al centro della forma e modificarne il metabolismo, aprendola sull'indefinibile. Su questa base anche l'ultimo Cézanne e il Cubismo analitico concorrono a smontare pezzo per pezzo la costruzione vir tuale della grammatica visiva, secondo una caratterizzazione dura che si allea all'affiato morbido della morfologia curvi linea presente sull'asse Turner-Monet-Boccioni. Ecco così che le linee si confondono, rischiando di far diventare l'excursus dell'informe il più autorevole fra i molti progetti dell'arte con temporanea. Il sisma che sgretola la Sainte-Victoire si tra sforma in elettroshock per i soggetti cubisti e partecipa della stessa volontà che presiede ai cocktails kandinskyani, por tando le strutture pittoriche verso una sempre più auspicata Terra promessa. Ma così come non vi poté entrare il vecchio Cézanne, anche le forze novecentesche debbono rassegnarsi a coltivare un campo che non darà mai frutto, perché retto dal l'indeterminismo. Scendere dentro la forma, come dentro l'atomo, non significa giungere ad una risposta, ma reiterare all'infinito la domanda: da Turner all'Informale la forma viaggia, e questa è la sua unica essenza. Il suo destino è quello del Cacciatore Gracco di Kafka 28, che è morto eppure rimane, e continua ad essere trasportato da un luogo all'altro della terra, cosciente della propria impossibile e irrisolvibile esperienza d'intercapedine fra l'essere e il nulla.
1 Le posizioni idealistiche hanno trovato di recente in JEAN CLAIR,
Critica della modernità, tr. it. Torino 1984, un nuovo fervido esponente.
2 Per un'analisi teorica di questa problematica rinviamo al nostro La mossa del cavallo, in • Questartc •. n. 47, gen.-mar. 1985. J Ogni Holzweg dovrebbe portare al cuore del bosco: sta allo stu dioso farcelo arrivare. ?er il concetto di Holzweg cfr. M. HEIDEGGER, Sen tieri interrotti (1950), tr. it. Firenze 1968. 4 Cfr. F. ARCANGELI, Dal romanticismo all'informale, Torino 19n. 5 Cfr. F. MENNA, La linea analitica dell'arte moderna, Torino 19ì5. 6 F. ARCANGELI, op. cii., p. 16. 1 Ivi, p. 314. I M. SCHAPIRO, Paul Cézanne, New York 1952, p. 22.
27
Design: dall'ingegnere all'edonista GIOVANNI CUTOLO
L'obiettivo di una fabbrica è quello di produrre al meglio delle proprié possibilità, utilizzando le risorse tecniche e umane disponibili in maniera ottimale. Il risultato di questo impegno è il «prodotto», così come esso arriva nei magazzini dell'azienda. La qualità di questo prodotto può essere espressa da un giudizio che si fonda sul processo di produzione, sicché si definisce di qualità quel prodotto che vede utilizzate al meglio le risorse tecniche e umane ed i materiali impiegati; oppure da un giudizio com parativo che giudica il prodotto. dato in rapporto a tutti gli altri prodotti simili che sono reperibili sul mercato. Insomma si può ritenere di qualità un prodotto perché rappresenta il miglior risultato possibile utilizzando quei dati materiali e quelle date macchine; oppure si dice che il tal prodotto è di buona qualità perché migliore degli altri esistenti sul mercato anche se esso non rappresenta ciò che di meglio si potrebbe produrre nella fabbrica da cui esso proviene. � evidente quindi che il giudizio di qualità è influenzato da fatti interni ed esterni al processo produttivo vero e proprio. Concorrono a definire il giudizio circa la qualità di un prodotto sia considerazioni di cultura industriale che altre di mercato o, potremmo dire, di cultura commerciale. Esiste pertanto una qualità industriale ma anche una qualità com merciale. La loro combinazione determina il successo di un prodotto, la sua durata, arrivando talvolta a modificare le
29
caratteristiche del mercato. Che è mercato di prodotti ma anche mercato di rapporti (mercato = merci + persone). II successo, ma soprattutto la durata del successo, sono in fluenzati tanto dalla qualità del prodotto quanto dalla qua lità del rapporto che accompagna il prodotto dal magazzino della fabbrica, attraverso il mercato, sino alla sua destina zione finale d'uso, presso il suo consumatore finale. È un fatto che la qualità produttiva tende oramai, almeno nei paesi più progrediti, a venir considerata un qualcosa di scontato. Si dà per implicito che, per esempio, il prodotto orologio segni il tempo e dia l'ora esatta. II giudizio sulla qualità di tale orologio, quel giudizio che il consumatore esprime muovendosi e cercando all'interno · del mercato che Io circonda, non è oramai più soprattutto rivolto a verificare la qualità produttiva. Come racconta nelle sue brillanti conferenze il sociologo Domenico De Masi, i · nostri nonni, al momento di acquistare un orologio, si preoc cupavano soprattutto di assicurarsi della sua precisione. Pro durre un orologio preciso non era facile e pertanto l'orologio più preciso era anche quello più caro. Oggi invece si stima che anche gli orologi più a buon mercato siano oltre cento volte più precisi di quanto l'acquirente medio necessiti o si attenda. Ed allora la motivazione all'acquisto non nasce più da una scelta che giudica la qualità sostanziale (la precisione) ma piuttosto la qualità formale ed estetica (il design) e la qualità distributiva (il marketing) o di immagine (la firma). Durante un lungo periodo storico, che va dalla nascita in Inghilterra delle prime manifatture di tessili e di ceramiche (J. Wedgwood fondò nel 1769 la «Etruria», manifattura mo dello di poteries) sino ai nostri giorni, è avvenuta una pro fonda trasformazione economica, sociale e politica. L'aspetto che ci preme evidenziare di questo grandioso cambiamento storico, è quello insito nella dilatazione seman tica della parola « mercato». Nella città medievale e fino alla fine del '700 il mercato era un luogo ben preciso, una piazza, una loggia, una corte dove i mercanti esponevano ai loro potenziali acquirenti 30 i loro prodotti secondo un calendario consueto e conosciuto.
Questa consuetudine permane ed in molte nostre città si in contrano luoghi e architetture che si chiamano appunto « Loggia dei Mercanti » o « Piazza del Mercato » anche quando oramai la loro destinazione d'uso, all'interno del contesto urbano, è divenuta tutt'altra. Oggi, la parola « mercato» è usata come sinonimo di « nazione» o « paese». � sì, ancora · chiamato mercato {o, più propriamente, mercatino) quello rionale, che si tiene settimanalmente su uno spiazzo, che negli altri giorni è magari adibito a parcheggio delle autovetture, ma è divenuto frattanto di uso comune discutere di scambi e di merci facendo riferimento al « mercato» italiano o eu ropeo o americano o cinese, perché la grande trasformazione iniziata alla fine del 1700 con la Rivoluzione industriale ha oramai raggiunto, tra i tanti risultati, quello di far coinci dere il mercato con la totalità di un paese o di una nazione o di un continente. L'Italia, l'Europa, l'America, la Cina, sono divenuti mercati in virtù della diffusione della produzione industriale e della conseguente esplosione degli scambi com merciali e quindi dei consumi. Se le idee fiorite con la Rivo luzione Francese hanno ridisegnato politicamente il mondo geografico suddividendolo in nazioni, le idee che hanno ani mato la nascita e lo sviluppo della Rivoluzione industriale hanno determinato una nuova ripartizione delle tradizionali unità geografiche, storiche e politiche in unità omogenee in quanto identificano un mercato. Alle preesistenti omogeneità geografiche ereditate da milioni di anni di movimenti di terra e di acqua; alle susseguenti omogeneità e affinità costruite da secoli di storia di guerre e di paci, di incontri e di scontri, di invasioni e di emigrazioni di interi popoli; alle ultime de finizioni che, spesso in barba alla geografia (si pensi alle Antille francesi) o alla storia (si pensi alla separazione delle due Coree o delle due Germanie), hanno ripartito politica mente il globo in nazioni; ecco infine sostituirsi una ultima ripartizione in « mercati» che, scavalcando e mischiando fra loro le carte precedenti, ha creato le premesse e le omoge neità per sviluppi futuri tanto profondi quanto quelli deter minati in passato dalle differenze geografiche, storiche e po31 litiche.
32
L'artefice primo di questa trasformazione è stato il pro dotto industriale. � a lui che si deve l'evoluzione del mondo da entità geografica a «mercato», sopravanzando le più con suete partizioni etniche e storiche e ponendo le premesse per i futuri scenari politici. Dall'inizio della Rivoluzione industriale, sino alla Prima Guerra Mondiale, per più di un secolo, il problema fondamen tale è stato quello di produrre in maniera sempre più auto matica e sempre più organizzata. Produrre industrialmente ha significato, fra le altre cose, riuscire a rendere sempre meno dipendente la quantità di prodotti dal numero degli addetti alla produzione. Nella prima fase della Rivoluzione industriale nasce la Manifattura come luogo dove concentrare ed organizzare il lavoro di trasforma zione delle materie prime in prodotti finiti. L'unione di fun zioni e di operazioni fino ad allora fatte in posti diversi e lon tani fra di loro, crea le premesse per i primi aumenti di produttività ottenuti attraverso la divisione del lavoro. Successivamente l'arrivo delle macchine fa evolvere la pro duzione sostituendo ai gesti manuali quelli automatici e tra sformando così l'antica Manifattura nella moderna Fabbrica. La Fabbrica divenne allora il tempio all'interno del quale prese forma la moderna liturgia del produrre, alla cui defi nizione ed al cui perfezionamento diedero il loro contributo determinante più generazioni di tecnici e di ingegneri. L'ingegnere divenne il Gran Sacerdote di questo luogo di nuova socialità, di questo Tempio del produrre; fu l'ingegnere l'artefice primo e il protagonista della messa a punto della pratica e della teoria della produzione industriale. Fu l'inge gnere il guerriero-sacerdote della nuova religione fondata sul rapido accumulo di plusvalore in Capitale, che avrebbe poi conosciuto in tempi molto accelerati i suoi scismi, le sue riforme e controriforme promosse da barbuti economisti (Gran Sacerdote-Ingegnere-Tipo: Michael von Dolivo - Dobro wolski della AEG). Ma dopo aver imparato a produrre, dove, come, in quali tempi, con quali strumenti, si pose con crescente importanza il problema di farlo a costi sempre più bassi. Divenne prio-
E siamo arrivati alla fine degli anni sessanta, quando av viene l'ulteriore conversione, il nuovo cambio d'abito del Gran Sacerdote che cominciò allora ad indossare gli abiti che ancora oggi indossa, quelli dell'Esteta. È lui che oggi tira i fili ed influenza e orienta le scelte nella direzione del Bello. È il suo intervento che ci induce a scegliere fra diversi oro logi, tutti ugualmente precisi. È lui che officia, come Designer o Stilista, all'interno delle grandi Agenzie di Corporate Image e di Pubblicità o all'interno di una delle tante isole di crea tività dell'arcipelago in cui si è frammentato il mercato più maturo (Gran Sacerdote-Designer-Tipo: Raymond Loewy). Questa frammentazione sta provocando un diverso atteggia mento dell'uomo della strada - consumatore nei confronti dei prodotti che lo circondano, con i quali convive e dei quali è costretto dai Media a seguire l'evoluzione che avviene in tempi che si fanno sempre più accelerati, anche quelli del successo. Il ritmo «naturale » delle stagioni: quattro al l'anno, dovrebbe forse indurci a riflettere con meno suffi cienza sui tempi della Moda, per esempio. Che sono tempi molto «naturali»: in primavera fioriscono gli abiti; in estate maturano i consumi; in autunno cadono le gonne ed in in verno rispuntano i cappotti. Il tempo così scandito passa vor ticosamente e con lui sta passando, consumandosi, sotto i nostri occhi, il tempo degli Esteti. L'universo dei prodotti industriali sta concludendo la sua quarta parabola, avendo portato a compimento quello che per anni era stato il frustrato obiettivo del dibattito delle idee intorno all'industriai design. Oggi l'introduzione intenzionale di ingredienti creativi nella messa a punto dei prodotti indu striali è cosa oramai acquisita. Fatto salvo il diverso gradiente creativo è quasi sempre presente nelle intenzioni della più parte dei produttori un qualcosa che somiglia a quel kunst wollen di cui Alois Riegl scriveva agli inizi di questo secolo: assai più elementare del bisogno di proteggere il corpo con prodotti tessili quello di adornarlo 1• Attraverso l'alluvionale profusione di merci si va diffon dendo un crescente apprezzamento per i valori misteriosi del Bello e per quelli ciclicamente variabili del Buon Gusto, tra- 35
sferendo quello che è stato per millenni l'aristocratico privi legio di pochi a quasi tutti e quasi dappertutto. Con la conse guenza di spostare altrove e in avanti i limiti ed i parametri delle nuove aristocrazie. Si intravede adesso un nuovo periodo, che forse durerà ancora meno dei precedenti. Beninteso, pur perdendo il pri vilegio di dar carattere al loro tempo, gli Esteti restano al loro posto a celebrare i loro riti, così come vi sono rimasti gli esperti di Marketing, gli Scienziati e gli Ingegneri prima di loro. Oggi il Gran Sacerdote si prepara a vestire i panni del l'Edonista. Secondo l'Enciclopedia Europea Garzanti, Edonismo ( dal greco « hèdone », piacere) è termine designante una conce zione morale che identifica il bene con il piacere. L'edonismo fu teorizzato da Arlstippo di Cirene, epigono di Socrate e caposcuola dei cirenaici, sviluppando il tema socratico del carattere dilettevole del bene. L'edonismo è stato criticato lungo tutto l'arco della storia della filosofia, e In particolare da Kant, secondo il quale la moralità non può accompagnarsi al piacere. Più recentemente si è riconosciuto all'edonismo il merito di aver sottolineato gli aspetti per cui il piacere può rappresentare un valore In funzione dello sviluppo armonico dell'individuo. Ecco che, se finalmente si pone come problema centrale proprio « lo sviluppo armonico dell'individuo », diviene allora fondamentale il ruolo del nuovo Gran Sacerdote-Edonista, come colui che può contribuire a riequilibrare il rapporto fra individuo-consumatore e mercato-manipolatore. L'edonista richiama a sé e quindi al mercato il ruolo di Gran Sacerdote al·quale si sono sin qui succeduti protagonisti diversi, ma tutti operanti dal versante della produzione. Un sano edonismo può essere la chiave di volta per con sentire a ciascuno la ricerca delle singole recondite armonie, individuabili in se stessi solo se si impara ad interpretare la enorme quantità di messaggi e di sollecitazioni che il mer cato, propaga. E controllando inoltre ciascuno i suoi propri 36 problemi di Edipo e Narciso, di macchina che produce bi-
sogni e/o desideri veri e/o falsi. Edonismo allora come cul tura d'uso, come sistema di regole, di conoscenze e di infor mazioni per imparare cosa cercare e dove trovarlo. L'edonista non si interessa di quei prodotti che rispon dono ai bisogni, è invece più attento a quei prodotti che rispondono ai desideri ed è attratto in maniera irresistibile da quei prodotti che non rispondono a niente, né a bisogni né a desideri, da quei prodotti che stimolano domande anziché fornire risposte. L'edonista fa del suo consumo la sua cultura, costruendosi quindi, con qualificati gesti di acquirente e me ditate scelte di consumatore, una vera e propria Umwelt individuale in armonia con se stesso e con il suo sviluppo personale che non può prescindere da massicce dosi di auto analisi. Dal « Che fare?» marxista-leninista al « Che farne?» di ciascuno, perché lo spazio per anni e anni occupato da militanza e impegno ideologico è ormai vuoto. Ed è in questo vuoto, è nello spazio lasciato dal disim pegno seguito alla « Grande Delusione» causata dal fallimento del « Grande Progetto Ideologico», che oggi trova proseliti il nuovo « Rito del Consumo Colto» officiato per se stesso, dall'« Individuo-Edonista-Sacerdote-di-Se-Stesso». Dopo gene razioni ed anni di lavoro per imparare a produrre prima ed a guadagnare poi, è arrivato il momento di andare a scuola di consumatori. Bisogna imparare a spendere, imparare a comprare, che è cosa molto più difficile che non saper ven dere ed anche più difficile che guadagnare. L'Edonista vero, quello che ha condotto a compimento il suo « sviluppo armonico», non ama gli assembramenti e la folla, proletaria, borghese o di élite che sia. L'Edonismo non è un esercizio collettivo ma piuttosto individuale. L'Edonista maturo sa cosa vuole, perché ha im parato a organizzare i propri desideri; sa dove e cosa cercare; e con chi dividere il suo piacere. Sceglie il partner o i partners come sceglie il vino o i vini, i cibi, gli abiti, la strada dove abitare e la spiaggia dove fare le sue vacanze. Sa ovviamente come produrre reddito, ma ha imparato anche a tenere il denaro alla giusta distanza, come si deve con uno strumento necessario ma non sufficiente. 37
38
La grande quantità di merci caratterizza e modifica di continuo l'ambiente in cui viviamo; ma il nostro ambiente non è altro che la nostra propria cultura, che è fatta di studio, di riflessione, ma anche di conoscenza del mondo circostante, dei suoi processi e delle sue trasformazioni. L'uomo è l'unico animale «non specializzato», mentre ogni altra specie ani male ha il suo proprio « ambiente specifico», per padro neggiare ed esperire il quale possiede un sistema di organi «specializzati». Una scimmia su di un albero nella foresta o un pinguino su di un pack al Polo si muovono con la stessa sicurezza con la quale un uomo si muove all'interno della sua abitazione, del suo ambiente che non gli è predeterminato ma che è lui a formare e determinare nella foresta o sul pack glaciale, in montagna o nella valle, al caldo o al freddo, lungo un fiume o in riva al mare. E che cosa è allora l'am biente dell'uomo se non la sua «cultura», vera e propria «seconda natura» degli umani? ·come ha splendidamente spiegato Arnold Gehlen 2 la cul tura è dunque il vero ambiente naturale dell'uomo, del gruppo come del singolo. Grazie alla sua capacità di vivere secondo progetto e non già secondo istinto, l'uomo prevede, organizza e trasforma continuamente la sua sfera culturale, il suo ambiente. L'Edonista è l'uomo capace non solo di contribuire a questo continuo processo di trasformazione, ma anche di interpretarlo utilizzandone con competenza i prodotti, frutto del lavoro dei suoi simili e del miracolo della vita sulla terra. L'Edonista riscatta l'uomo dal ruolo di produttore-consu matore, inserendo nel processo evolutivo la conoscenza di chi sa trasformare l'ambiente circostante con il ·continuo ap porto di prodotti di cui conosce l'origine e l'uso. Prodotti che quindi vengono non soltanto «consumati » ma anche com-presi, assunti cioè a strumento di una trasformazione intesa a culturalizzare ogni scelta e ogni gesto al servizio di una idea di sviluppo come « civiltà» (Kultur) e non « ci vilizzazione» (Zivilisation), secondo la classica distinzione di Oswald Spengler, il quale introdusse tale sottile contrapposizione, studiando lo sviluppo ciclico delle singole civiltà.
Secondo Spengler, in ogni fenomeno di evoluzione storica si individuano due fasi; nella prima fase prevale la Kultur, si vive cioè il momento alto che esalta il gusto per la qualità e presuppone la valutazione e l'accettazione delle differenze fra le cose e fra le persone. I simboli di questa fase sono il Castello nel quale vivono i nobili e i cavalieri ed il Tempio nel quale vivono i Sacerdoti e i Maestri del Sapere. Nella seconda fase, questi valori vengono meno, e dalla Kultur si passa alla Zivilisation, inevitabile fase terminale e crepuscolare di ogni ciclo. In essa prevale la macchina, il denaro, la finanza, il regime della massa omogenea contrap posto alla differenziazione in caste e classi sociali. Il suo sim bolo ultimo è la metropoli cosmopolita e tentacolare nella quale l'uomo è vissuto all'interno di meccanismi che lo pri vano dell'originale impulso vitale che spinge ogni essere ad interpretare se stesso nel suo vissuto storico, quale che sia il luogo geografico, temporale o sociale che gli è toccato in sorte 3• Quindi, riassumendo quanto sin qui esposto, poniamo in successione i periodi esaminati.
Periodo
Gran sacerdote
Tempio
1770-1920
Ingegnere
Fabbrica
1890-1940
Scienziato
Centro Studi
1930-1970
Marketingman
Mercato
1950-1980
Esteta (Designer, Stilista, etc.)
Agenzia Corporate Image
1980- ?
Edonista
L'Ego
:I:: però sempre doveroso avvertire che la realtà non si può misurare al centimetro né è immaginabile come una serie di scatole cinesi; essa non ha confini netti e non conosce separazioni assolute. Pertanto, quando ipotizziamo per nostra
39
convenienza 'fasi' o 'periodi' nella vita o nella storia, e quando indichiamo certi fenomeni come punto d'inizio o di fine dl queste fasi, non va dimenticato che questi fenomeni che noi utillzzlamo come riferimenti, non sono istantanei ma pro lungati; per cui vi è sempre un largo spazio nel quale due 'epoche' successive si mischiano e si confondano, al punto che non si può ben dire se il tale anno o il tale caso ricade in una o nell'altra o non piuttosto in entrambe allo stesso tempo. Le classlficazloni che si fanno nella vita e, soprattutto, nella storia, vanno sempre intese e interpretate con questa fondamentale riserva. In materia di storie va aggiunta poi una ulteriore riserva, non meno importante. 'Civiltà' è ter mine astratto: la realtà concreta risiede nelle nazioni, o nelle regioni e negli strati sociali che la compongono. Ma le varie nazioni e, al loro interno, queste diverse parti, non cammi nano insieme né allo stesso ritmo. Nello stesso secolo vi sono paesi che stanno vivendo in 'secoli' differenti; nello stesso paese vi sono regioni e strati sociali che stanno vivendo si multaneamente 'epoche' diverse 4• Questa lunga citazione ci è parsa perfettamente calzante alla tabella che riassume questo scritto; essa inoltre è dovuta ad un grande scrittore dimenticato anche a causa della peri fericità del paese in cui è nato e vissuto e della conseguente marginalità della lingua in cui ha scritto la sua opera. Pessoa ci ricorda con la sua grande figura, enorme se vista sullo sfondo della modesta dimensione del piccolo Por togallo, che parallelamente alla storia evolutiva dell'umanità (diacronica) esiste una storia del pensiero dell'uomo (sin cronica) che impegna ciascuno a essere Gran Sacerdote di se stesso nel suo proprio Tempio, nello Spazio e nel Tempo che gli è dato.
40
I A. RIEGL, Problemi di stile, Milano 1963; p. 4. 2 Cfr. A. GEHLEN, L'uomo, Milano 1983. J Cfr. O. SPENGI.B!, Il tramonto dell'Occidente, Milano 1970. 4 F. PESSOA, Obra Poetica e em Prosa, Porto 1986, p. 1176.