Op. cit., 74, gennaio 1989

Page 1

gennaio 1989

selezione

numero 74

della critica d'arte contemporanea

Architettura, città e telematica - Ahi tare tra gli oggetti - Paradigma della critica d'arte - Libri, riviste e mostre edizioni

«

il centro »


op.cii. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Livio Sacchi, Sergio Villari Segretaria di redazione: Roberta Amirante Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Te!. 7690783 Amministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Giordani, 32 - Tel. 684211

Un fascicolo separato L. 4.500 (compresa IVA) - Estero L. 5.000

Abbonamento annuale:

Italia L. 12.000 - Estero L. 14.000 Un fascicolo arretrato L. 5.000 - Estero L. 5.500 Spedizione in abbonamento postale - Gruppo IV/70% C/C/P n. 23997802 intestato a:

Edizioni e Il centro • di Arturo Carola


5

E. GUIDA

Architettura, cittĂ e telematica

G. D'AMATO

Abitare tra gli oggetti

16

R.

Paradigma della critica d'arte

26

Libri, riviste e mostre

38

PASINI

Alla redazione di questo n11mero hanno collaborato: Giuseppe Cantillo, Giancarlo Carnevale, Giovanni Corbellini, Giuseppina Dal Canton, Ga­ briella D'Amato, Ada D'Avine.i, Gianni Laroni, Marina Montuori, Maria Luisa Scalvini.


La rivista s¡i avvale del contributo economico dei seguenti Istituti ed Aziende: Alessi Alias Banco di Napoli Bulthaup Camera di Commercio di Napoli Cassina Driade Falconio Informatica Campania Sabattini Zen Italiana


Architettura, città e telematica ERMANNO GUIDA

Com'è noto il termine « telematica ,. indica l'unione della tecnologia delle telecomunicazioni e dell'informatica, e poi­ ché le telecomunicazioni avvengono via cavo ( dal verbo in­ glese to cable, ossia trasmettere un cablogramma), si dice « cablata » un'area o una città collegata in modo interattivo, segnatamente per quanto concerne le informazioni in senso lato. Anche per questa nuovissima tecnologia sono stati ri­ chiamati alcuni precedenti: Ogni città è cablata per defini­ zione. Quando i romani insediati sui sette colli a cavallo del Tevere cominciarono a costruire i ponti necessari per scavalcarlo, passando dalla passerella di legno di Orazio Co­ clite al ponte Milvio - tanto robusto da reggere ancora oggi - fu il primo passo per collegare rapidamente chi abi­ tava sulle due rive diverse. Non era ancora un vero e proprio cablaggio, ma quando si cominciarono a costruire gli acque­ dotti e le cloache, per portare ovunque l'acqua potabile e smaltire i rifiuti, il primo cablaggio degli abitanti, collegati a queste due reti, era già avvenuto [, .. ] Provveduto a questi due servizi essenziali per l'igiene e quindi per la salute del cittadini [ ... ] ci sono voluti diciotto secoli per arrivare al primo cablaggio energetico: il gas illuminante, che permise di rendere meno buie le case e le strade, e di utilizzare il calore nelle cucine mediante 1 fornelli a gas [ ... ] Mezzo se­ colo dopo il gas, nelle città arrivò anche l'elettricità con la lampadina elettrica; e si trattò di veri e propri cavi e non

5


più di tubi, come per l'acqua, il gas e le fogne [ ... ]. Con l'uso crescente degli ascensori, degli elettrodomestici, degli im• pianti di condizionamento, della radiotelevisione e di tutte le elettrodiavolerle che abbiamo in casa, questo cablaggio cl ha reso schiavi dell'elettricità [ ...] A queste forme di ca­ blaggio energetico si sono da tempo affiancate altre forme di collegamento destinate allo scambio delle informazioni, sostituendo il collegamento fisico fra le persone con qualcosa che lo potesse surrogare 1• Collegata, grazie a questa nota non priva dì ironia, la questione del cablaggio ai suoi precedenti, nel presente ar­ ticolo tenteremo di esporla per alcuni temi e problemi che essa comporta in uno spirito prevalentemente referenziale ed antologico, ovvero senza la pretesa di offrire personali soluzioni ma evidenziando gli aspetti ambigui e imprevedibili insiti nella sua stessa fenomenologia. In generale gli studiosi che associano l'architettura e la città alla telematica focalizzano il loro interesse intorno ai seguenti punti: il decongestionamento urbano, la delocaliz­ zazione dì alcune attività, la tipologia edilizia, il recupero della città storica. Quanto al primo punto, quello della decongestione, esso ricorre fedelmente in tutti gli scritti che collegano le previ­ sioni architettonico-urbanistiche alla telematica. Ed invero risulta un aspetto decisamente positivo del problema, condi­ visibile anche da chi non ipostatizza gli apporti della ciber­ netica, della telematica e tanto meno della città cablata. Non saranno nuove super autostrade o super silos di par­ cheggio o nuovi tipi di veicolo a sconfiggere l'attuale con­ gestione del traffico, ma lo sviluppo di questa tecnologia che permetterà la circolazione delle immagini e renderà anti­ quata ed inutile quella del corpi 2• Così scrive Manfredi Ni­ coletti in un testo celebrativo dell'anno orwelliano, un saggio semiserio donde riportiamo tuttavia alcuni enunciati propo­ sitivi. La gente, restando nella propria stanza, non importa me, discu­ se in diverse parti del mondo, potrà riunirsi assie [... ]. Le feste re tere, consultare mappe, e persino organizza a attraverso una sort di neo6 merci arriveranno a domicilio


posta pneumatica ... Ovviamente anche ogni altro tipo di atti­ vità attuale, il lavoro, Io svago o i sistemi educativi, saranno travolti da questa rivoluzione. Nelle fabbriche, dove già oggi la presenza umana diminuisce vertiginosamente, il lavoro sarà svolto da sistemi automatici verificati a distanza, es­ sendo i controlli affidati a centrali-computer, a cui sarà de­ voluto anche l'insegnamento in ogni scuola, persino a livello universitario. Nulla dunque cambierà; sarà possibile il col­ loquio diretto con il professore, il capo-fabbrica o I colleghi di lavoro senza abbandonare la propria casa 3• Quest'ultimo periodo non è chiaro. Infatti, mentre quello che lo precede - lo svuotamento delle fabbriche - è drammaticamente vero, pone e porrà problemi socioeconomici sempre più gravi da· risolvere, non ci sembra verosimile che nulla cam­ bierà allorquando quel colloquio « diretto » interumano sarà comunque mediato da una macchina e non contestualizzato da un ambiente comune, ma frammentato dai vari contesti di emittenza. Ritornando al tema del telelavoro, del teleinsegnamento, del teleshopping, etc. che decongestionerebbe lo spazio ur­ bano, citiamo un autore che muove dall'idea dell'informa­ zione come valore: Se l'informazione è (come si è detto) un « valore », va anche detto che essa non può compiutamente attuarsi in quanto tale senza una sua adeguata capacità di movimento in termini di comunicabilità e trasferibilità; e se è vero che gli strumenti del suo trattamento (meccanici prima e poi elettromeccanici e finalmente elettronici) hanno radicalmente trasfonnato tra gli inizi del nostro secolo e gli anni '60 la concezione e l'organlzzaztone del lavoro negli uf. fici [... ] affermare oggi... che l'informazione sarà telema­ tica o non sarà... significa pertanto riconoscere una nuova realtà di fatto per cui, almeno su un certo plano di transa­ zioni formali e rapporti, l'informazione assunta come « de­ scrizione della cosa ,. diventa la « cosa » stessa e il suo movi­ mento tende a sostituirsi, per quanto possibile e preferibile, al movimento delle persone 4• Abbiamo quanto basta per una prima riflessione sul­ l'equazione: più informazioni a distanza = meno presenze 7


8

umane negli spazi pubblici, donde il loro decongestiona­ mento. L'ipotesi è credibile, come s'è detto, ma come di­ mostrare che il traffico urbano si riduce, riducendo il lavoro in luoghi collettivi e in pari tempo come dimostrare che il tempo libero viene speso completamente a domicilio e non riversandosi in massa per le strade? Lavoro e tempo libero sono strutturalmente antitetici, tal che ciò che vale per il primo non vale per l'altro. Com'è stato osservato la cultura telematica tende a ridurre il movimento delle persone e i notevoli costi che esso comporta, possibilmente offrendo maggiori margini agli spostamenti ricreativi e culturali, per cui il viaggio di vacanza dovrà tendere ( almeno in teoria) a prevalere su quello di lavoro. Autorevoli studiosi hanno già pronosticato per il prossimo decennio una sensibile riduzione degli introiti delle compagnie aeree per viaggi d'affari e di rappresentanza 5• Come che sia, spinti dalla necessità di rag­ giungere un comune posto di lavoro oppure di spostarsi per ragioni ludiche, sta di fatto che resta oggettiva la necessità di cambiare quotidianamente almeno il proprio luogo con la conseguenza di occupare quegli spazi urbani che i teorici della città cablata assicurano liberi e sgombri. Un fenomeno parallelo al decongestionamento o addirit­ tura la sua causa può considerarsi quello che Bernardo Sec­ chi chiama la « dispersione » sia degli impianti produttivi, sia dei luoghi di scambio, sia della stessa residenza: Molte grandi sedi aziendali, una volta simboli edillzl della concen­ trazione del potere, si disperdono nel mare anonimo degli appartamenti delle zone residenziali urbane e suburbane. I differenti uffici divengono terminali di una vasta rete di co­ municazione, di decisioni e di potere 6• Tale fenomeno, con­ traddicente ogni sorta di zonizzazione, secondo l'A., si veri­ fica per motivi propri non necessariamente dovuti alla tele­ matica: La dispersione non è stata mossa solo dalle nuove tecnologie anche se è stata associata ad una radicale ristrut­ turazione del modi di produrre e di riferirsi al territorio ed all'urbano. Alla radice c'è piuttosto un generale movimento redlstrlbutivo: l'utillzzazlone di mercati del lavoro e del prodotti più dispersi; l'utlllzzazlone di una più dispersa capa-


cità imprenditoriale, di tecniche più disperse, di più disperse volontà di partecipazione ad un benessere diffuso. Può darsi che tutto ciò stia dando luogo alla formazione di un am­ biente, anche in senso fisico, assai favorevole alle nuove tecnologie ed alla loro continua mobilità 7• In ogni caso, vuoi che la « dispersione » sia causa oppure effetto del ri­ corso alle nuove tecnologie, si può dire che tanto l'una quanto le altre ci impongano nuovi schemi mentali, ci co­ stringano a pensare le nuove forme insediative, la nuova città, non più in termini di interno-esterno, chiuso-aperto, oscuro-visibile e di frontiere come pareti che separano, ma piuttosto come insieme eterogeneo di terminali connessi da tubi, da reti di tubi: il telefono, il frigorifero, la televisione, la consolle del personal computer, il posto del telelavoro, lo sportello bancario e il punto di vendita automatizzato ed il cavo elettrico, li cavo del telefono, la pista autostradale; che tutto ciò implichi rotture tipologiche rispetto al passato, un diverso riferirsi alle preesistenze, come un indebolimento della memoria e della sua capacità di dare senso al futuro mettendo ordine nel passato 8• Il brano citato dà conto, attraverso la nozione di « disper• sione » che altri autori definiscono multipolarità, del secondo punto invariante posto nell'elenco iniziale della nostra ras­ segna. Lo stesso brano altresì apre il discorso sulle nuove ipotesi tipologiche, sia alla scala urbana che a quella archi­ tettonica. Quanto alla prima è prevedibile uno scenario urbano ca­ ratterizzato da strutture atte a una distribuzione capillare di beni di consumo, da canali di traffico per le persone, es­ senzialmente disegnato per gli spostamenti su grandi e medie distanze e da un mescolamento pressoché uniforme di abl• tazioni e di nuclei di produzione e consumo e di attività sociali e ludiche. Probabilmente, anzi, sperabilmente, si ten­ derà a dare continuità alle funzioni omogenee, non come un mosaico di mlcro-zone ma come un Intreccio di ramifi­ cazioni specializzate e sovrapposte che in un certo senso riflettono la complessità dell'intreccio sistemico. Si ripro­ durranno, forse, delle organizzazioni analoghe a quelle strade

9.


artigianali, di tipo corporativo, caratteristiche della città me­ dioevale cioè delle fasce ideali in cui si allineano attività affini, le quali risulteranno adiacenti o intersecate da altre fasce, diverse, tra cui quelle del • verde urbano », composte di elementi soft e hard, di elementi vegetali e manufatti, destinate al tempo libero, all'interscambio sociale, alla cul­ tura 9. Di tutt'altro tenore, non più sul modello antico, ma questa volta di marca autenticamente avveniristica, è la previsione delle nuove tipologie architettoniche. La loro concezione si basa sul grado di modificazione nel tempo fino alla program­ mazione della loro obsolescenza. Infatti, i ritmi dell'obsole­ scenza, ln alcuni settori, saranno assai più stringenti dl quelll attuali. Ne conseguirà la necessità di una progettazione che traduca la previsione di tali ritmi ln manufatti opportuni, nel quali la durata fisica delle varie parti sia commisurata alla loro durata d'impiego. Tanto più specializzato e di alto contenuto tecnologico sarà un manufatto tanto più, nella sua interezza o nelle sue parti, sarà soggetto a rapido invec­ chiamento 10• Ma se ciò vale per gli edifici altamente specia­ lizzati, come ospedali, stazioni radiotelevisive, banche, ecc. - e già ne abbiamo esempio nei complessi organismi ar­ chitettonici realizzati nella linea della tendenza High-Tech meno prevedibile sarà la conformazione di quei contenitori ora destinati a funzioni tendenti a scomparire o quanto meno a ridursi. La televisione ha già decretato il declino di tutte le sale di spettacolo, un declino che le teletrasmis­ sioni tridimensionali renderanno più accentuato. Tra le fun­ zioni di tipo assembleare resteranno in vita essenzialmente quelle che fondano il loro interesse nel contatto fisico tra i partecipanti, o su eventi inattesi innescati nella loro parte­ cipazione diretta. Un crescente individualismo caratterizzerà le varie funzioni urbane nel campi del lavoro, dello studio e dello svago [ .•. ] In ogni caso nella città vi saranno da riem­ pire molti contenitori vuoti, perché svuotati delle loro fun· zioni originarie [ •.. ] Le tecnologie telematiche... renderanno meno specializzati di quanto non siano adesso molti invol u1O

cri edilizi, come quelli destinati a musei, all'amministra•


zione, al management, alla selezione dei dati o all'appren­ dimento. Ciò consentirà di salvare molti edifici oggi consi­ derati come obsoleti sempre che la loro struttura organizza­ tiva spaziale sia abbastanza semplice. Condannerà invece l'edilizia spazialmente troppo specializzata e le cui caratte­ ristiche siano state modellate con eccessiva precisione su funzioni specificamente legate ad usi, o tecnologie o proce­ dure eccessivamente caratterizzate n.

Molti autori interessati al tema in esame giungono ad immaginare la conformazione architettonica dei futuri edifici fino nei suoi dettagli. Quest'ultimi, considerato l'indivi­ dualismo che caratterizzerebbe la mentalità telematica, sa­ rebbero opera dei singoli utenti: ad una struttura o ma­ crostruttura di base ogni gruppo di fruitori fino al singolo abitante aggiungerebbe, così come si fa con un microprocessore, il manufatto architettonico di cui necessita, sia esso casa, ufficio, bottega, ecc. Il riferimento alla poetica macro­ strutturale degli anni '60 e '70 è fin troppo evidente: ana­ loghe, individualistiche « aggiunte » si trovano nelle utopie progettate dai vari Friedman, Lubicz-Nycz, Archigram so­ prattutto. Ma, a parte alcune analogie, la città cablata e l'architettura telematica si discostano molto dalle macr.:>­ strutture citate. Queste, com'è noto, nascevano dall'esigenza (visto anche il fallimento di molta pianificazione) di con­ formare un impianto a grande scala che superasse la tra­ dizionale dimensione architettonica e fosse più percepibile di quella urbanistica; il tutto, mosso sì da un carica utopica, ma soprattutto dall'esigenza di visualizzare in un nuovo immaginario le vere o presunte istanze della società di massa, donde il loro continuo riferimento ai mass media. Anche nella poetica macrostrutturale c'era il programma della comunicazione, ma si trattava di una comunicazione prettamente immaginario-visiva, di cui l'apporto neotecnologico costituiva soprattutto una accentuazione ed una sotto­ lineatura. Di tutt'altro orientamento ci pare la linea archi­ tettonico-urbanistica cui abbiamo dedicato la presente nota. Essa mira essenzialmente al reale utilizzo dell'informatica, delle telecomunicazioni, dell'automazione e della robotica e

11


-scopre via via le conseguenze delle relative applicazioni non tanto nel campo delle costruzioni in senso lato, e meno che mai sulla conformazione linguistica di esse, bensl sui com­ portamenti degli abitanti la città del prossimo futuro; tant'è che la maggioranza degli autori parlano di una mentalità telematica. L'oggett�uasl-soggetto si qualifica più che per la sua forma fisica, per la « forma delle relazioni» che sta­ bilisce nel tempo. Nella sua progettazione quindi li tempo entra come un parametro fondamentale (attorno al quale si organizzano le performances di cui è capace) e la proget­ tazione stessa si avvicina alla scrittura di un pezzo teatrale (in cui si definisce la trama e li carattere del personaggi) 12• E veniamo al quarto punto del nostro elenco: il rapporto della nuova tecnologia col problema dei centri storici. La città, con le sue architetture, è la nostra « seconda pelle»; è tra le espressioni più antiche, primitive e imme­ diate della nostra esteriorizzazione. E come l'uomo fisica­ mente e in gran parte psicologicamente non è mutato da mi• gliaia di anni, cosl la città tende a non mutare, anzi a pre­ servare se stessa, mantenendo vive alcune fondamentall e arcaiche tipologie.[ ... ]. Recentemente questa sindrome d'iner­ zia si è accentuata a causa di molti fattori, quasi tutti indub­ biamente positivi: la concomitanza - nel paesi di alto svi­ luppo - dell'arresto dell'inurbamento e della crescita demo­ grafica e li simultaneo apparire di una maggiore attenzione verso l valori della storia e del concetti di risparmio ener­ getico; · anche tradotti nel riuso del patrimonio edilizio esi­ stente 13• Dopo aver constatato che la cosiddetta città tele­ matica può incarnarsi indifferentemente tanto in modelli di tipo diffuso, a «costellazione», quanto in altri integrati agli organismi preesistenti, Nicoletti si sofferma particolarmente su questa seconda ipotesi: i centri antichi, oggi soffocati e stravolti dal traffico automobilistico, potrebbero ritrovare una nuova vitalità, attraverso un uso confacente non soltanto del loro tessuto viario, ma anche delle loro tipologie edi­ lizie, dove prevalgono dei « contenitori » con spazi non molto ampi, ciò corrispondendo sia alla massiccia diminuzione del 12 trasporto meccanico sia a forme di lavoro di carattere più


intellettuale e individualizzato, che non necessitano di forti raggruppamenti di addetti. [ ... ]. Si potrebbe dunque conclu­ dere che, per molti anni, la rivoluzione telematica, proprio per le sue peculiari connotazioni di pervasività e flessibilità, potrebbe lasciare le cose esattamente come sono, senza inci­ dere sulle forme aggregative attuali o tradizionali dei terri­ tori, delle città e forse anche delle architetture 14•

Anche ammettendo che l'A. ponga la questione ad un di� verso livello logico rispetto a quelli cui ricorre in altri scritti e parti dello stesso saggio donde abbiamo tratto la citazione, questa conclusione ci lascia perplessi. Infatti, se da un lato non possiamo restare indifferenti al fatto che la nuova tecno­ logia, rimanendo «nascosta,. (Forse è possibile affermare che le città dell'Occidente neoinformatlco nell'anno 2000 non saranno differenti da quelle attuali nella loro apparenza vi· siva. Le loro viscere alloggeranno congegni mirabili, cablaggi a fibre ottiche e nuove reti tecnologiche, ma la vera rivolu­ zione sarà invisibile, sarà nelle menti, e la forma della città ne avrà pochi riverberi) 15, ha tutto il fascino di una struttura

soggiacente a qualsiasi esteriore conformazione, d'altro lato, tutto ciò ci sembra impossibile. Nascosto o meno che sia l'intero apparato neotecnologico, se gli influssi della telema-. tica, quanto meno sulle destinazioni d'uso dell'architettura e della città, saranno tali da determinare addirittura un di­ verso atteggiamento mentale, non vediamo come sia credi­ bile che tutto ciò, tutto questo « contenuto », non si debba inevitabilmente tradurre in una «forma ». Se pensiamo ad alcune ricerche della neoavanguardia artistica, tra le più sofisticate e « rarefatte », in particolare all'«Arte concettua­ le », che privilegia appunto il concetto rispetto all'oggetto, addirittura fino ad eclissarlo, esiste pur sempre un segno. fisico che ci consente questo gioco, questo rinvio dal per­ cettivo al mentale o quanto meno che ci avverte di un codice specifico e riconoscibile come caratterizzante quella ten­ denza. A conferma che il rapporto della telematica con la città storica non è poi così indifferente alle preesistenze urbane in cui si applica, un altro autore indica precisamente nella

13.·


città ottocentesca l'ambiente più idoneo a raccogliere gli ap­ porti della nuova tecnologia. A nostro avviso la città otto­ centesca è quella che più si è avvicinata all'obiettivo di tradurre in tennlnl spaziali una possibilità di opzioni diffe­ renziate, attraverso la sua strutturazione in una gerarchia di percorsi e di piazze che scandivano una maglia di isolati in cui, le dimensioni degli stessi, le distanze e la distribuzione delle funzioni polarizzanti, erano studiati in modo tale da rendere possibile una reale integrazione tra le varie parti. La maglia ottocentesca, a tutt'oggi, cl offre possibilità di la­ voro nel senso della sua razionalizzazione, che non troviamo in gran parte delle aree di recente edificazione dove prevale una logica di settorializzazione piuttosto che d'integrazione della città. In quest'ottica, la città cablata è un'occasione per raggiungere un nuovo equilibrio nell'integrazione delle diverse dimensioni del vivere la città, se cl aiuta a perseguire non un obiettivo di tipo totalizzante ..• ma piuttosto a creare i presupposti spaziali e funzionali per una città organica alle molteplici esigenze dell'individuo 16• E concludiamo la nostra breve antologia con un passo di Beguinot che, oltre tutto, vale a ricapitolare almeno quanto si è detto sulla città storica. La sfida del prosslml dieci anni è quella del recupero e del ridisegno dell'esistente, riusato all'insegna dell'innovazione tecnologica. Occorre però abitua­ re noi tutti ad impadronirci delle nuove tecnologie e tentare di spezzare la solitudine delle metropoli che sono passate attraverso varie fasi: quella delle infrastrutture, quella del funzionamento del sistema, quella attuale della gestione e della riorganizzazione dell'esistente. Bisogna uscire dalla sin­ drome del grande cantiere e tentare di migliorare il sistema di gestione delle funzioni esistenti, per adeguarle al segni del mutamento 17•

G. K. KOENIG, Contro la dttà cablata, in e Ottagono"• n. 38, 1986. 2 M. NICOIEl'TI, La città futura, in AA.VV., Verso il duemila, Later­ za, Bari 1984, p. 199. J Ivi, pp. 199, 200. Per un sintetico panorama delle contrastanti po­ sizioni sulla interpretazione di e città cablata" si rimanda al saggio: . I

14


Modernità e orizzonte tecnico scientifico del volume di T. MAUlONADO, Il futuro della modernità, Feltrinelli, Milano 1987, p. 128 e sgg. 4 G. GIUDICI, Coesistere col telematico, in I luoghi del lavoro, ca­ talogo della XVII Triennale di Milano, Electa, Milano 1986, p. 259. Cfr. anche B. SECCHI, Nuove tecnologie e territorio, in Tecnologia do­ mani, a cura di A. RUBERTI, Laterza, Bari 1987, pp. 305, 312. S G. GIUDICI, op. cit., p. 260. 6 B. SECCHI, Nuove tecnologie, in e Casabella », n. 501, 1984. 7 Ibidem. a Ibidem. Sul medesimo tema del rapporto decongestione funzio­ nale, assetto territoriale e impatto comportamentale, vedi dello stesso A., Nuove tecnologie e territorio, cit., p. 295 e sgg.; G. R0NZANI, Prospet­ tive di pianificazione per la città telematica, in Un futuro per il presen­ te, Atti del convegno di studi promosso dall'IPIGET/CNR, Napoli 20 giugno 1985, p. 201 e sgg. e dello stesso A., Città e innovazione telema­ tica, in AA.VV., Scienza, tecnica e dimensione urbana, Edizione Ente Fiera di Bologna, 1985. Inoltre: B. I...EFEBRE, Immaginare l'awenire: verso la società dell'informazione, Marsilio, Venezia 1983; M. SERNINI, Alcune note sugli effetti territoriali delle applicazioni telematiche, in e Archivio di Studi Urbani e Regionali», n. 19, 1984. Per una proiezione reale nel campo delle logiche comportamentali, sugli effetti del decentramento industriale, degli uffici e sulle tecnologie attuative vedasi: F. CARASSA, Un futuro per il presente: telecomunicazioni e territorio, in Un futuro per il presente, cit., p. 31 e sgg. Infine per quanto afferisce gli esiti delle prime sperimentazioni, almeno in Italia, G. FABRI, Teleinformazioni e telelavoro: esempi e prospettive, in Un futuro per il presente, cit., p. 51 e sgg. 9 M. NICOI.EITI, Architettura e città dell'era telematica, in La città cablata, Atti del convegno promosso dall'IPIGET/CNR, Napoli 7 luglio 1986, p. 62. IO Ivi, pp. 62, 63. 11 lvi, pp. 63, 64. U E. MANZINI, Interattività: considerazioni sull'oggetto intelligente, sensibile, comunicativo: da forma materiale nello spazio a forma di relazione nel tempo, in e Ottagono», n. 88, 1988. Il M. NICOIEITI, L'architettura della rivoluzione telematica, in Un futuro per il presente, cit., pp. 96, 97. 14 lvi, pp. 97, 98. 1s M. N1coLE1TI, La città futura, cit., pp. 231, 232. 16 P. GIOVANNINI, La città cablata e trasformazioni urbane, in La città cablata, cit., p. 229. 17 C. BEGUINOT, La città cablata. Un futuro per il presente, in La città cablata, cit., pp. 32, 33.

15


Abitare tra gli oggetti GABRIELLA D'AMATO

Oggetto e interpretazione Per Heidegger, all'abitare perveniamo solo attraverso il costniire. Quest'ultimo, il costniire, ha quello cioè l'abitare, come suo fine. Tuttavia non tutte le costruzioni sono delle abitazioni. Un ponte e un aeroporto, uno stadio e una cen­ trale elettrica sono costruzioni, ma non abitazioni; cosl una stazione, un'autostrada, una diga, un mercato coperto sono costruzioni, ma non abitazioni. Eppure, anche questi tipi di costruzioni rientrano nella sfera del nostro abitare. Questa sfera oltrepassa l'ambito di queste costruzioni, e d'altro lato non è llmltata alle abitazioni. Il camionista è a casa propria sull'autostrada, e tuttavia questa non è il luogo dove alloggia; l'operala è a casa propria nella filanda, ma non ha Il la sua abitazione; l'ingegnere che dirige la centrale elettrica vi si trova come a casa propria però non vi abita. Queste costru­ zioni albergano l'uomo. Egli le abita, e tuttavia non abita 'in' esse, se per abitare In un posto si Intende solo l'avervi ll proprio alloggio 1. Non ci avventureremo certo nei significati filosofici del brano testé citato, né tenteremo di tradurlo in termini di critica architettonica poiché probabilmente impossibile. Del

16

resto, lo stesso Heidegger ci avverte che Questo pensare a proposito del costruire non pretende di scoprire delle Idee che possano servire di modello o di regola per effettive costruzioni. Questo tentativo del pensiero non presenta In al·



partecipiamo attivamente al sussistere e allo svolgersi della tradizione e in tal modo la portiamo noi stessi avanti 3•

18

Se anche l'abitare, dunque, può essere oggetto d'interpre­ tazione, deve supporre una precomprensione e implicare un'appartenenza. Il problema, però, è stabilire a quale li­ vello l'abitante acquisisca la precomprensione dell'abitare. Certo, essa si può raggiungere a livello di città, di quartiere, di cellula abitativa e sempre con un grado di approssima­ zione più preciso. Tuttavia sono scale sempre troppo vaste. L'abitante appartiene sl alla tradizione urbanistica, ma per l'incommensurabilità di questo orizzonte non può abbrac­ ciarlo tutto. Forse la dimensione del quartiere potrebbe es­ sergli più familiare, ma solo se si tratta di un quartiere nel quale si sia ambientato senza traumi nascendovi o insedian­ dovisi volontariamente. Probabilmente le quattro mura do­ mestiche sono il riferimento giusto ma anche esse non sono un abito tagliato su misura: troppo spesso infatti la loro scelta nasce dal caso, dalle opportunità di mercato, dalla convenienza dei fitti, dalla vicinanza al luogo di la­ voro, da circostanze, cioè, dettate dalla necessità e non dal­ la preferenza. Inoltre, sovente la casa è un miraggio ne­ gato dalla sorte e surrogato da mille compromessi. E poi, il linguaggio degli spazi vuoti è troppo ermetico, troppo avaro di parole, e abbisogna di giochi intellettualistici alla portata di pochi. Vi è un livello, tuttavia, che non può essere assolutamente sottratto alla conoscenza dell'abitare ed è quello che pertiene al mondo degli oggetti. Essi costituiscono l'autentica memoria del proprio passato e l'immediata e diretta progettualità del proprio presente. Gli oggetti della casa vengono infatti ricevuti in dono, ereditati, acquistati, collezionati. Possono essere maneggiati, disposti, riposti, nascosti. Insomma su di essi interveniamo, senza interferenze e imposizioni, col tatto, con la vista, col gusto estetico. Molti di essi ci hanno preceduto costituendo, così, parte integrante della nostra storia sia culturale che familiare, la comunanza che ci unisce a loro anticipa la nostra comprensione dell'abitare e ci lega alle tradizioni, ma,


al contempo, agendo avanti alle tradizioni tra poco, gli oggetti capacità di stabilire con il topos.

su di essi facciamo compiere dei passi stesse. Così come andremo ad esporre rispetto al senso dell'abitare hanno la rapporti con lo spazio, col tempo e

Oggetto e spazio Stando alle parole di Herbert Read, il successo degli oggetti ceramici fabbricati da Josiah Wedgwood alla fine del Settecento fu tanto diffuso da giustificare l'affermazione che si dovette inventare uno stile architettonico e un arredamento che si adattasse agli invadenti prodotti di Wedgwood 4• La proposizione la dice certamente lunga sulla capacità degli oggetti d'arredo, per quanto piccoli essi siano, di penetrare nel gusto di chi abita più di uno stile, di una tendenza, di un programma architettonici. Non è, però, solo questione di gusto. L'oggetto infatti collabora anche a determinare la conoscenza della spazialità dell'abitazione. E qui non inten­ diamo solo lo spazio fisicamente fruibile, che appare più o meno vuoto o pieno a seconda del diradarsi o dell'affollarsi degli oggetti. Parliamo invece dello « spazio privato •, ben più complesso di quello fisico, a volte persino virtuale, ma comunque carico dell'aura simbolica dell'abitare. A nessuno sfugge infatti che da quando la casa è diventata un abito sempre più stretto, è toccato agli oggetti sopperire alla concreta carenza di spazio. Essi hanno perciò moltiplicato le proprie funzioni - i divani-letto, le librerie-divisorio, gli armadi-cucina -; hanno miniaturizzato il proprio formato - le radio tascabili, le microcalcolatrici, le cassette per re­ gistrazioni -; hanno condensato utilità ed artisticità per essere fruiti anche quotidianamente e non lasciati solo all'in­ gombrante esposizione del collezionismo - le caffettiere d'autore, gli elettrodomestici firmati, il tappeto d'artista - e così via. Scattano molle, ruotano cerniere, si ripiegano o si ribaltano ante e ripiani e laddove poco prima si soggiornava, ora si lavora o si riposa: che lo si voglia considerare un geniale rimedio alla mancanza di metri quadri o una triste,

19


seppur necessaria, illusione, è comunque innegabile che le suppellettili abbiano la capacità di operare sensibilmente sull'esperienza spaziale. Un'ulteriore conoscenza dello « spazio privato » ci per­ viene da quegli oggetti che vengono denominati « i termi­ nali» dei servizi tecnologici. Com'è noto, negli ultimi cento anni le innovazioni della tecnica hanno profondamente modi­ ficato il nostro modo d'abitare. Il condizionamento d'aria rende indifferente il vivere in un clima umido o secco; l'ascensore al primo o al trentesimo piano; i mezzi di tele­ comunicazione in una metropoli o in un luogo isolato. Questi ed altri servizi non solo hanno permesso nuove tipologie architettoniche ma, dato il loro rilevante ingombro, colla­ borano essi stessi ad indurre spunti formali per l'architet• tura conseguendo una dignità pari a quella delle strutture. Almeno questa è l'opinione di Banham quando, a proposito dei Richards Memorial Laboratories di Louis Kahn a Fi­ ladelfia scrive: Fornendo alla sistemazione del servlzl mec­ canici un volume esterno monumentale, Kahn ha costretto gli storici di architettura a prestare attenzione al suo tema più di quanto aveva fatto qualsiasi altra recente innovazione nel settore degli impianti 5• Si tratta, tuttavia, ancora una volta, di riflessioni da addetti ai lavori, che poco o nulla toccano l'esperienza dell'abitante. Quest'ultimo, infatti, diffi­ cilmente coglie il nesso fra membrature che involucrano il suo spazio privato e servizi che consentono la qualità del comfort, il quale viene percepito da chi abita essenzialmente sotto forma di oggetti: la lampadina, il termosifone, il tele­ fono, il condizionatore. Essi sono maneggiabili, montabili e smontabili a piacere, addirittura selezionabili per la loro qualità estetica e poco o nulla sembrano avere a che fare con i misteriosi fili e tubi allogati chi sa dove e collegati a centrali fantomatiche e distanti. In un articolo degli al­ bori dell'elettrificazione domestica si legge: Noi attraver­ siamo le diverse stanze di un appartamento assai ben or­ ganizzato, anticamera, salone, sala da pranzo, cucina, stanza da bagno ln cui sono In funzione accenditori elettrici, suo20 nerie, quadri dl chiamata, luci, segnapunti automatici per


il biliardo e tutto ciò che l'elettricità può fornire per U comfort della vita moderna 6• Non si potrebbe certo avere una più chiara dimostrazione di come la nuova disinvoltura con cui si potevano fruire gli spazi dell'abitazione, venisse associata, fin dall'inizio, non all'« astratta,. elettricità, ben­ sì ai suoi « concreti » e « tangibili ,. apparecchi che ne ren­ devano possibile la conduzione. Percepiti come oggetti, i servizi tecnologici perdono an­ che la loro asettica impersonalità e interferiscono coi nostri dati caratteriali, tanto da provocare in noi incondizionati consensi o irriducibili avversioni. E questo, per inciso, ben lo sa chi visceralmente si ostina a rinnegare l'uso del computer o della macchina da scrivere elettrica malgrado gli innegabili vantaggi che potrebbe ricavarne. Di questa ir­ razionale empatia era ben conscio Marcel Proust nel ricor­ darci che la sua governante, Françoise, rifiutava d'appren­ dere l'uso del telefono. I progressi della civiltà - egli scri­ veva - permettono a ognuno di manifestare qualità inso­ spettate o nuovi vizi, che cl rendono più cari o insoppor­ tabili agli amici. Così la scoperta di Edison aveva permesso a Françoise di acquistare un difetto in più: quello di rifiu­ tarsi, quale ne fosse l'utilità o l'urgenza, di usare li 'telefono'. Trovava modo di fuggire quando glielo volevano 'insegnare' come altri al momento d'essere vaccinati. Perciò U telefono stava nella mia stanza, e, per non disturbare l miei genitori, il suo campanello era stato sostituito col suono di una pic­ cola raganella 7• Si può pertanto concludere che ogni « terminale ,. non solo condensa le energie che gli consentono di portare la luce, il calore, la voce nell'abitazione, ma sprigiona dentro lo spazio privato di quest'ultima anche delle potenzialità non misurabili con alcuno strumento che non sia l'esperienza di chi la abita.

Oggetto e tempo Gli oggetti, al pari degli eventi,· possono essere considerati le entità concrete che affollano la storia, ciò che libera

21


22

il tempo dalla sua astratta dimensione per fissarne la traccia e percepirne i ritmi. Così la moltitudine dei vuoti a perdere che entra nella nostra casa sottolinea le sequenze convulse della civiltà dei consumi in cui ogni cosa, una volta usata, non merita più di essere recuperata o conservata. All'in­ verso, i pochi oggetti destinati alla museificazione domestica o al collezionismo segnano le pause più lunghe e significative con le quali cerchiamo di collegare le dimensioni del pas­ sato, del presente e del futuro. Come scrive Baudrillard, il profondo potere degli oggetti collezionati non deriva dalla singolarità né dalla storicità specifica: non per questa ra­ gione il tempo della collezione non è tempo reale, ma 'per il fatto che l'organfzzazfllne della collezione si sostituisce al tempo'. La funzione fondamentale della collezione è senza dubbio questa: risolvere il tempo reale In una dimensione sistematica 1• Gli oggetti tessono trame invisibili con le persone. Chi possiede solo alcuni esemplari di un servizio da tavola, sempre più assottigliatosi nel numero durante i tanti pas­ saggi di mano della vita familiare, sa di non potersene di­ sfare. E questo perché, pur ostentando essi l'arroganza con­ cessa loro dalla sorte di essere più durevoli degli individui che li hanno maneggiati, conservano anche la dolce memoria delle nostre radici. Gli oggetti, in definitiva, contribuiscono a farci sentire meno soli al mondo e suggeriscono quell'an­ ·ticipazione di senso che guida la nostra comprensione del­ l'abitare. Ma non solo con le persone. Anche con i compor­ tamenti essi intrecciano legami invisibili. Sappiamo, ancora, che il nostro modo di apparecchiare la tavola con tipi di stoviglie, posizioni, numero degli elementi e delle portate, nasce da una configurazione codificata da Escoffier alla fine dell'Ottocento e nota come diner à la russe. Nel presente, potremo scegliere stoviglie attualissime, ma basterà disporle nel modo abituale, basterà aggiungervi qualche interferenza importata da altre culture della tavola, perché le distanze di tempi e di luoghi si accorcino e perché si faccia un passo avanti nella tradizione comportamentale alla quale apparteniamo.


La conoscenza del tempo che si accompagna al mondo degli oggetti l'aveva compresa perfettamente George Kubler quando, nel coniare l'espressione « storia delle cose », av­ vertiva: Non abbiamo semplicemente inteso adottare l'eu­ femismo che sostituisce l'insipida bruttezza di « cultura ma­ teriale ». Gli antropologi usano questa espressione per di­ stinguere le idee o « cultura mentale », dai prodotti lavorati ( o manufatti). La « storia delle cose » intende invece riunire idee e cose sotto la rubrica di « forme visive », includendosi in questo termine sia 1 manufatti che le opere d'arte, le repliche e gli esemplari unici, gli arnesi e le espressioni: in breve tutte le materie lavorate dalla mano dell'uomo sotto la guida di idee collegate e sviluppate in sequenza temporale. Da tutte queste cose emerge una forma del tempo, si delinea un ritratto visibile dell'identità collettiva, sia essa tribù, classe o nazione. Questo autoritratto riflesso delle cose serve al gruppo come guida e punto di riferimento per il futuro e diviene finalmente il ritratto tramandato ai posteri 9•

Oggetto e topos L'oggetto inteso come guida e punto di riferimento del gruppo fa venire in mente la sezione dedicata al nomadismo nella mostra organizzata dalla Triennale di Milano nel 1986. Nel catalogo, Reyner Banham discuteva il tema consideran­ dolo sotto il profilo degli oggetti di industria! design proget­ tati per i viaggiatori. Egli introduceva il discorso commen­ tando una scena del film di John Ford tratto dal romanzo di -Steinbeck, Furore: la famiglia Joad che, trasferendosi nella Terra promessa californiana, arranca faticosamente su un autocarro carico all'inverosimile di masserizie. Sono 1 primi contadini nomadi - scrive Banham - che non hanno al loro seguito mandrie di bestiame e animali da lavoro, ma che si sono portati appresso una montagna di patetici utensili domestici 10• Su quegli utensili vale la pena di spendere qualche parola. Altro che patetici. In essi ci sembra sia racchiuso tutto il

23


segreto dell'esperienza dell'abitare. Traslocati in un luogo sconosciuto, al di là della loro pratica utilizzazione, essi avranno il potere di far sentire dei déracinés subito a « casa propria • e in sintonia col proprio passato. Forse il noma­ dismo, come si ventila da più parti, diventerà un nuovo imperativo dettato dai tempi anzi, in paesi ad avanzato stato di benessere, ciò già si verifica. Il fenomeno, tuttavia, è di­ rettamente proporzionale al desiderio di uniformità dei mo­ delli abitativi. In altri termini, ci si sposta tanto più volen­ tieri quanto maggiore è la possibilità di ricreare gli ambienti lasciati. Fatto, questo, del resto dimostrato dalle sale d'aspet­ to degli aeroporti o dalle camere di alcune catene di alberghi in cui si tende alla replica puntigliosa degli arredi e delle conformazioni ambientali per sopperire al senso di spiazza­ mento causato dai continui spostamenti. Il nomadismo può pertanto portare a due conseguenze: o concludere che quan­ do è Imminente il trasloco, il mobilio diviene ridicolo 11, quindi uniformare la propria esistenza su uno standard di oggetti universali e ritrovabili dappertutto, oppure tendere a una personalizzazione estrema delle proprie suppellettili per rendere « unica » la propria abitazione ovunque essa sia. Nell'un caso o nell'altro rimane comunque dimostrata l'im­ portanza degli oggetti nella vivibilità dell'ambiente dome­ stico. Quindi, è probabile che ci si possa disaffezionare ai luoghi ed alle abitazioni, ma è difficile pensare che ci si possa disaffezionare agli oggetti. Anzi, c'è da avanzare l'ipo­ tesi che la loro simbolicità e personalizzazione sarà diret­ tamente proporzionale all'indifferenza e all'anonimato degli apparecchi telematici che renderanno possibile il nuovo no­ madismo. Certo, non commettiamo l'ingenuità di negare che il topos abbia un peso determinante nella nozione di abitare. Come è stato notato, mentre una buona architettura può modifica re un 'topos' inadatto intervenendo con un'opportuna serie di provvedimenti correttivi a migliorare un luogo ritenuto in• soddisfacente, non è vero li contrarlo: un bel luogo non modifica una cattiva architettura 12• Ma è anche vero, a 24 nostro avviso, che gli oggetti possono rendere perlomeno


«abitabile» una cattiva architettura e «sopportabile,. un topos estraneo. Il che non è certamente poco. Calvino dice che dal momento in cui un oggetto compare in una narrazione, si carica dl una forza speciale, diventa come il polo d'un campo magnetico, il nodo d',una rete dl rapporti invisibili. Il simbolismo d'un oggetto può essere più o meno esplicito, ma esiste sempre. Potremmo dire che in una narrazione un oggetto è sempre un oggetto magico u. E noi potremmo concludere che sostituendo la parola « nar­ razione » con « abitazione » il senso del brano di Calvino non cambia.

si,

1 M. HEIDEGCER, Vortriige wzd Mursia, Milano 1985, p. 96.

Aufsiitze

(1954), trad. it.

Saggi e discor­

2 Ibidem.

J H. G. GADAMER, Wahreit 1111d Metltode (1960), trad. il. Varietà e metodo, Bompiani, Milano 1983, p. 343. ◄ H. REAo, Art and Industry, trad. it. Arte e Industria, Lerici, Mi­ lano 1962, p. 38. s R. BANHAM, The Architecture of the Well-Tempered Enviro11ment (1969). trad. it. Ambiente e tecnica nell'architettura moderna, Laterza, Bari 1978, p. 2. 6 II brano è -tratto da un articolo di G. TrSSANDIER, comparso ne e L'Illustration • del 20 agosto 1881 e cit. da P. A. CARRÉ, in Luce elet­ trica e telefo110 (1880-1914), ovvero l'inizio dei nuovi termi11ali, in AA. VV., Il progetto domestico, Saggi a cura di G. Teyssot, Electa, Milano 1986, p. 194. 7 Citazione ricavata ancora dal saggio succitato di P. A. C�. p. 193. II brano di M. PROUST è tratto da Alla ricerca del tempo per­ duto, Sodoma e Gomorra, nell'edizione italiana di Einaudi, Torino 1978, voi. IV, pp. 143-44. • J. BAUDRILURD, Le système des objets (1968), trad. it. Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 1972, p. 124. 9 G. KUBLER, The Shape of Time (1972), trad. it. La forma del tem­ po, Einaudi, Torino 1976, p. 17. 10 R. BANHAM, Neo-nomadismo e nomadismo chic, in AA.VV., Il progetto domestico cit., p. 240. 11 G. TEYSSOT, Figure d'interni, in AA.VV., Il progel/o domestico cit., p. 25. L'autore cita una frase di E. M. Forster. 12 L. SACCHI, Architellura senza topos, in « Op. cit. •, n. 70, settem­ bre 1987. Il I. CALVINO, Lezioni americane, Garzanti, Milano 1988, p. 35.

25


Paradigma della critica d'arte ROBERTO PtSINI

26

Si potrebbe iniziare da una nota asserzione di Barthes: La critica non è la scienza. Quest'ultima tratta del sensi, mentre la critica li produce 1• Ed è già detto quasi tutto per ciò che attiene alla posizione epistemica della critica: i sensi, i significati emergono all'unisono coll'atto interpre­ tativo, non gli giacciono davanti per essere svelati, ma gli aderiscono intimamente. Il primo corollario è che la critica non può pretendere all'oggettività: non esiste infatti un ob, un davanti a cui essa si pone, e _quanto di iectum le si offre è essa stessa a ca-produrlo. Barthes usa l'immagine del­ l'anamorfosi: in fondo, la critica deforma, non essendo né mimesi, né traduzione e il suo scopo principale, ha scritto con grande anticipo Oscar Wilde, consiste nel vedere l'og­ getto come esso in realtà non è 2• Resta, come una leggera e ronzante spina, quell'« in realtà». Esiste dunque una vita autonoma dell'oggetto, un suo imperscrutabile, irraggiun­ gibile fondo, l'inseità gelosa che non si concede al signifi­ cante, mantenendosi almeno in parte nascosta nei meandri del significato? E questo significato, tornando a Barthes, non è la critica stessa a inverarlo, non è una sua emanazione? Essa è in grado di capire l'oggetto, o solo di esprimere se stessa, e le due cose sono diverse o son la medesima me­ daglia? Arte e critica, in definitiva, sono irrelate, adiabatiche e il canale discorsivo che le accomuna è mera illusione, oppure, anche se estremamente filtrata e traslata, per ragioni


che s'incarnano nel medium linguistico, avviene l'osmosi er­ meneutica?

Critica e oggettività La critica, s'è detto, non è oggettiva. Il tema è abba­ stanza scontato, in quanto rientra nella dimensione relati­ vistica che sta alla base dell'iter storico-culturale della con­ temporaneità. Relativismo, però, non significa destabilizzante impressionismo, polverizzazione atomistica, follia ariostesca; se l'idea di Sistema s'è incrinata e la condizione intellettuale dell'interprete assomiglia a quella del fisico subatomico che non può stabilire la posizione e insieme la velocità dell'elet­ trone; ciò non significa che nel naufragio sia andata defini­ tivamente dispersa la possibilità di far riferimento ad un Soggetto che, per non esser più né al « centro •• né « forte », assottiglia e raffina le sue ipotesi gnoseologiche al trascen­ dentale. Il pensiero critico s'è smaliziato al punto da non accettare alcuna pretesa totalizzante, nessuna arcaica confessione di potenza: è sceso in situazione, s'è imparentato strettamente con l'orizzontalità degli avvenimenti, vi aderisce, secondo l'aprogettualità dell'immanenza. Ma questa condizione, in­ nervata nei gangli più ramificati della cultura contemporanea, dopo Heidegger e Heisenberg, può portare ad alcune distor­ sioni, pronunciate nel nome di una legittima sensibilità e in apparente consequenzialità. La soggettività dell'atto critico offre un campo d'indagine affascinante in cui cercare il senso stesso dell'agire e del pensare ai fini di una ricognizione ermeneutica che possa fornire un identikit probabile: di che cosa? Di sé o dell'oggetto, sempre che esso esista? Gli equivoci fertilissimi della critica creativa e del pensiero debole costituiscono attualmente i maggiori ostacoli ad un approfondimento dell'operazione esegetica e ad una sua rifondazione, o per lo meno al bisogno preliminare di una statuità, che si esprima in una funzione. Dedicarsi alla ri­ cerca di una funzione non vuol dire ipso facto aspirare a codici ostruzionistici che per vanità di logica intrinseca per-

27


dano d'occhio il senso duale della loro altrimenti inutile esistenza; non è la creazione di un codice quello di cui si avverte necessità, ma la richiesta di senso per un gesto che tende a vanificarsi nella gratuità del suo boudoir. Bisogna quindi tornare daccapo, all'attimo cosciente in cui la critica incontra l'opera. Già Barthes riconosce la « crisi generale del Commento» 3, ma la sua mira, cioè il colpire un certo modo di fare critica, legato a stereotipi come l'oggettività, la chiarezza, il gusto e soprattutto la lettera, si colloca in un contesto epistemologico che ha ancora a ridosso il fiato del logocentrismo ossificato su matrici pseudoidealistiche: tenta quindi un'opera distruttiva, sorretto da ragioni strategiche contingenti. Quelle ragioni si sono poi estese fino a divenire permanenti, e la legalità della critica si è a poco a poco spostata verso l'abdicazione di quanto intrinsecamente idio­ tico le pertiene, cioè la capacità critica stricto sensu. Lo stesso Barthes invita a far della critica una continuazione della catena di simboli e metafore iniziata dall'opera, supe­ rando la dicotomia e parificando i rispettivi ambiti. Opera e critica s'identificano nel linguaggio: la sanzione del critico non è U senso dell'opera, ma U senso di ciò che egli ne dice 4• Il nesso referenziale si mantiene, in limine mortis, in quel « ne ». Perché di referenzialità si continua pur sempre a par­ lare, ma come di un'occasione offerta da un primum sempre più misterioso, logorato dal divario, dall'intercapedine: per uno strano paradosso, mentre tende a identificarsi col pro­ prio oggetto, la critica se ne allontana definitivamente. Un serio contributo alla reificazione del linguaggio cri­ tico, nell'orizzonte più vasto di una illusoria promozione epistemica, viene dato anche da Benjamin e Foucault. Per non essere tramite immediato fra i due partners, in quanto ogni immediatezza è sintomo di ingenuità mimetica, il lin­ guaggio critico si inter-pone, trasformandosi da conduttore in isolante. Alla domanda: « Che cosa comunica la lingua?», Benjamin si risponde: Essa comunica l'essenza spirituale che le corrisponde. � fondamentale sapere che questa essen­ za spirituale si comunica « nella ,. lingua, e non e attraverso • 28 la lingua, concludendo che Ogni lingua comunica se stessa 5-


L'oggetto è muto, l'opera d'arte non parla. La sua essenza spirituale appartiene al logos: solo l'aggancio con il linguag­ gio le permette di ex-sistere, di uscire dalla discrezione infi­ nita che l'avvolge. Ma questo contatto le è fatale: essa si trasforma nel veicolo che dovrebbe farla trasparire. Benja­ min infatti è chiaro: non «attraverso» la lingua, ma «nella» lingua, cioè consustanzialmente ad essa. Non esistono un trasportato e un trasportatore, ma un'entità trasportata­ trasportante. Il gesto critico riguarda quindi innanzitutto sé, perché dal suo essere inizia il rapporto con l'opera: non gli si chiede di scoprirne la verità celata, di portare alla luce la stigmate arcana che la pervade, di decrittarla; ad esso spetta unicamente il compito di proporsi, perché nel suo svolgimento, nel suo sgomitolarsi appariranno i fili dell'in­ treccio con l'opera. Dell'intreccio, non dell'opera. Va da sé che la critica, esprimendosi per scrittura, è parola, e quindi frequenta un campo d'esperienza costitu­ tivamente estraneo a quello della visività; che i ruoli re­ stano distinti pur nella necessaria convivenza; che le realtà dell'arte e della critica hanno differenti posizioni, all'in­ terno delle complesse sfaccettature dell'universo linguistico, essendo la prima appannaggio di un fare tattico, che se ne sta dentro, gode dello starting point e aspira a un'individua­ lità che la critica sempre le nega, mentre la seconda vive una condizione strategica, che se. ne sta fuori, gioca di ri­ messa e filtra, astraendo e generalizzando. Questa distinzione fisio-logica, facendo leva sulla non trasparenza del linguaggio critico, che replica la non trasparenza di quello artistico, rischia però di cortocircuitare, portando a coincidere mas­ sima divisione con massima unione, eterogeneità costitutiva con identità genetica: c'è un punto in cui l'acqua è talmente calda da suggerire la sensazione del freddo in chi vi si immerge. Ma Il rapporto da linguaggio a pittura è un rapporto Infinito. Non che la parola sia imperfetta e, di fronte al visibile, in una carenza che si sforzerebbe Invano di colmare. Essi sono lrrlduclblll l'uno all'altra: vanamente si cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si vede non sta mal in ciò 29


che si dice; altrettanto vanamente si cercherà di far vedere, a mezzo di immagini, metafore, paragoni, ciò che si sta di­ cendo: Il luogo in cui queste figure splendono non è quello dispiegato dagli occhi, ma è quello definito dalle successioni della sintassi 6• Con questa sentenza di reciproca irriduci­ bilità, Foucault mette lapidariamente il dito nella piaga: l'arte è irraggiungibile, non perché la parola critica non sia in grado di arrivare ad essa, di espugnare il suo castello, ma proprio perché le due realtà sono incommensurabili, eteromorfe. Facile conclusione sarebbe quella di tacere, di lasciare che l'aura artistica si sprigioni per virtù propria, ovvero che non superi la soglia dell'assenza in cui è avvolta dal suo stesso silenzio: è, grosso modo, la posizione di un certo, mai demordente, c6té idealistico che nutrendo, nelle varie metamorfosi in cui s'esprime, grande rispetto per l'ope­ ra, finisce per restare imbrigliato nel solo rispetto e non disporre dei necessari strumenti per la comprensione: le nozioni di relazione, contesto, generazione, stile, ecc. gli ri­ mangono estranee. Allo stesso modo, per un capriccio ossi­ morico, anche la cosiddetta critica creativa cade in simili ambage: facendo leva solo sul linguaggio, sulla brillantezza del significante, mirando alla godibilità degli effetti invece di sondare la pertinenza delle cause, allineandosi all'arte in una incomprensiva parità, e utilizzando furbescamente a fini di indebito protagonismo la problematica dell'irreciprocità, essa fa dello strumento il fine, scivolando sull'opera, magari evi­ denziandone i tratti per via analogica, riproducendone l'eco nella parola, senza dire l'opera, né dell'opera, ma solo sé stessa. Capita così di leggere testi intercambiabili: li si po­ trebbe tranquillamente adattare ad altre opere, circostanze e artisti che non cambierebbe nulla.

Critica e storia

30

Che cosa salva l'atto critico dal vuoto infinito della schisi? Se il fra che lo separa dall'opera è un dato incon­ trovertibile, e se il piano linguistico in cui prende corpo il pensiero critico s'interpone, non allaccia ma sancisce defì-


nitivamente l'esclusione, è possibile l'interpretazione? E an­ cora, se la critica non è la scienza, le si può comunque at­ tribuire un nocciolo di scientificità, una legittimazione che ne garantisca il diritto di cittadinanza nell'universo del sapere? L'inconciliabilità primigenia fra vedere e scrivere non ri­ guarda solo la critica d'arte, ma il funzionamento stesso del rapporto fra parole e cose. Il nesso critico-opera non diffe­ risce cioè da quello autore-mondo, una volta superata l'im­ passe del referenzialismo mimetico, del traduzionismo. L'apo­ ria non ha soluzione: le intercapedini si fanno abissi, logi­ camente parlando fra un numero intero e il seguente si apre l'infinito, e così fra le entità della problematica critica. Non esiste guado. Tutto questo è vero, e condiziona ogni sviluppo d'inda­ gine, se si rimane· in una dimensione prevalementemente orizzontale, di sfida faccia-a-faccia con l'opera e facendo leva soprattutto sulla sua datità immediata e sull'immediatezza, solo ipotizzabile, della proposta critica. 1=. il vademecum uti­ lizzato in genere dalle analisi semiotiche, imperniate sulla disamina dei testi e delle loro implicazioni interne. Un esem­ pio probante viene offerto da Massimo Carboni, che compie una raffinata, lucida e approfondita ricognizione del rapporto arte-critica, partendo da Foucault, giustificando l'azione cri­ tica propria in virtù di ciò che la separa dall'arte, additando le aporie della critica analogica e di quella creativa ed elu­ dendo sostanzialmente, in coerenza con gli assunti teorici da cui parte, la problematica storica. Resta fermo in ogni caso, scrive, che, in ottemperanza più o meno stretta al tipo d'impostazione teorica che cl siamo dati, non si può esau­ rire storiclsticamente-diacronicamente la semplice realtà tutta sincronica del dislivelli tra le modalità fenomeniche e l'intrinseca potenza articolatoria del differenti sistemi se­ miotici 7• In realtà, la sincronia vede l'opera, ma solo la diacronia la pensa. La lingua che ne scaturisce media i due aspetti. Rapportarsi all'oggetto artistico, preliminarmente a qualsiasi irruzione linguistica, significa sporgersi su un'entità possibile, che diverrà reale soltanto in base alla collaborazione 31


della tranclte sincronica con quella diacronica. Compiere un'operazione di epoché è senz'altro utile e vitale, perché preserva da indebite ingerenze nel filo diretto che deve unire l'opera al suo interprete, ma poi le parentesi vanno aperte perché l'opera è fisiologicamente inserita in un contesto, in una successione storica: essa vive di una sostanziale plura­ lità, che la fa complice di relazioni come un nodo, un cro­ cicchio, tutt'altro che asettico e impermeabile. L'aggancio storico, l'indice diacronico, costituisce una simbiosi col ter­ mometro sincronico, un'unità inscindibile. t:. lecito quindi rintracciare un Soggetto trascendentale che si pone di fronte all'oggetto d'analisi tendendosi in un arco di funzioni: la funzione storica, quella teorica, quella critica. Le riflessioni di Filiberto Menna, che a tutt'oggi for­ niscono la più ampia disamina del problema, danno ragione di un simile specirnine •. Per corroborare l'analisi si può riscontrare un'utile omologia con altri schemi triadici: se­ mantica, sintassi, pragmatica; perfetto, aoristo, presente. Fermiamoci su questo punto. La datità dell'opera viene esperita dall'interprete come momento di presentificazione, di colluttazione anche fisica, di agibilità di uno spazio: l'opera c'è, si offre, è ambientata, gode di una condizione immanente e imminente. Quale che sia l'esito discorsivo, l'opera si pone come l'ineluttabile. E. il momento del rapporto diretto, dell'impatto, del respiro, in cui si formulano i primi sintomi, le prime ferite e lace­ razioni: per non capire l'opera basta fermarsi qui, nella zona del presente, al livello pragmatico. L'opera licenzia il suo canto delle sirene: l'interprete non può restarne abba­ gliato, tradendosi nel linguaggio e credendo di aver goduto di un bene intraducibile e intrasferibile; la congiura del· . l'immediatezza propone solo uno dei possibili volti dell'ope­ ra: il presente pragmatico è il momento del trucco, della seduzione, della pelle. Ci vuole uno stacco, un between. Un necessario momento di rifiuto, in cui l'opera va laicizzata, distillata ad un grado di astrazione che consenta di scoprirla 32

nella sua fisionomia segnico-formale, come insieme di elementi, come presenza che si allontana e allontanandosi viene


espunta, acronicizzata: siamo nella zona aoristica, in cui l'oggetto si fa punto, non ha limiti e orizzonti, crede alla sua inseità, senza sapere che è una inseità data, regolata da rapporti interni, dall'equilibrio-squilibrio di parti, unite in un sintagma: mettendone a nudo la sintassi, l'interprete perde l'opera mentre la spoglia. Per recuperarla ha bisogno di sentirsi con lei in un contesto, di viverla insieme alla testimonianza e alla rappresentanza insite nell'opera: essa infatti s'incarica di parlare anche per altre opere, si fa por­ tatrice del loro esser state. L'opera asserisce e nega automa­ ticamente i suoi fili: nasce come atto assoluto, per vocazione negatore e usurpatore, in quanto intollerante nei confronti sia di ciò che l'ha preceduto, sia di ciò che l'attornia. Prima ancora di essere relativizzata nell'interpretazione, essa però si offre, si denuncia per quello che è: un affascinante preci­ pitato di lessemi che dichiarano di appartenere o di rifiu­ tare, di essere coinvolti in un metabolismo complesso e beffardo, perché proprio nel momento in cui nasce, col de­ siderio di essere esclusiva, ess� s'impone d'essere inclusiva; il fiat dell'opera è il suo passo falso, la patenza il suo er­ rore imperdonabile: la contraddizione è insanabile, in quanto l'opera si accorge ben presto di non essere apparizione, bensì apparenza, di portar con sé delle radici professando inconsapevolmente-consapevolmente un'anamnesi. Ciò che la tradisce, però, la salva. L'esegesi infatti prende la rincorsa da quello che è esterno all'opera, e che in essa traluce per via di negazione o di affermazione: appresta cioè la sua spazio-temporalizzazione (che differisce dalla omonima con­ dizione del livello pragmatico, dove il rapporto è diretto, fisico-ambientale), mettendo in funzione i meccanismi del­ l'aisthesis trascendentale. Siamo al livello perfettivo, del completamento, insito nel per, e l'opera non è più né troppo vicina (stadio del presente pragmatico), né troppo lontana (stadio dell'aoristo sintattico), ma posta in un orizzonte, in­ carnata nella storia che l'esprime. Il livello semantico rivela quindi il significato dell'opera, il suo essere un tutto pieno intrinsecamente storico, far parte dello stream in cui si cor­ poralizza e si fenomenizza.


Critica e scrittura

34

Il significato dell'opera non sta in ciò che essa dice im­ mediatamente e neppure in quello che rivela in apnea: bi­ sogna che l'interprete si · allarghi in una circumnavigazione, che chiuda il cerchio delle ipotesi nella concatenazione dei livelli, in fondo ai quali si ripresenta il momento pragma­ tico, non più in condizioni visive, bensì scritturali. Ora si affrontano gli incerti della lingua, l'impresa della conquista ermeneutica cerca il veicolo, ben sapendo che non si tratta di tradurre acquisizioni fermate per sempre in un'immagi­ naria pellicola esegetica, e che il viaggio nella scrittura è rischioso, quanto fonte di illuminazioni, di chiarificazioni. Scrivendo, l'interprete si giustifica, e giustificandosi giustifica l'opera. In fondo, come s'è già detto, l'opera è muta. L'ar­ tista ha un bel dire che c'è lui a parlare: ciò che dice l'opera non è ciò che dice l'artista, poiché essa non gli appartiene. Senza nulla togliere all'importanza delle testimonianze di poetica, spie dell'officina in cui si muove la creazione, un sereno esame delle opere non ne può restare condizionato esclusivamente, altrimenti si rischia di vanificare l'identità plurale dell'opera, la sua intrinseca polisemia. Ogni epoca vede nell'opera ciò che sente in sé: la lettura è sempre un fatto parziale, che apparenta l'intervento propriamente cri­ tico a quello latamente storiografico, in quanto ambedue si effettuano in diretta; che poi tale diretta colleghi all'imme­ diato presente o al più lontano passato poco importa: la storiografia rilegge con le stesse mozioni in dotazione della critica per leggere. La prima è, in fondo, la critica del pas­ sato, come la seconda la storia del presente. Sempre che non si vog�a continuare a distinguere fra storia e cronaca. Con­ siderata come mera cronaca, adesione epidermica all' oro­ grafia dell'attualità, la critica corre l'alea di limitarsi ad esprimere il momento storico in cui s'inserisce; per certi versi, ciò non può essere evitato: arte e critica sono infatti entrambe testimonianze del contesto culturale che le ac co­ muna�. respirano il medesimo Zeitgeist. Esiste, non a caso, una storia della critica, oltre ad una storia dell'arte, e il


giudizio che giudica viene a sua volta giudicato. Poi il cer­ chio si riapre, all'infinito. Ma non è questo il punto, perché pur nella pariteticità le due «cugine,. hanno usi e costumi diversi, non sono intercambiabili: le opere d'arte «parlano», per dirla con Adorno 9, «come le fate nelle favole», mentre le opere critiche, pena il ricalco mancato, debbono parlare come chi tenti di risolvere gli enigmi di quelle fate. :e. op­ portuno quindi focalizzare il medium che dà al gesto critico l'esistenza, cioè il linguaggio, la scrittura. L'opera perde la sua flagranza visiva ed il suo darsi sin­ tetico, In cui essa presenta simultaneamente ogni sua parte, diventa materia di protocolli analitici. Essa dunque si tra­ sforma In enunciato, riprodotta In proposlzlone. Nel testo - che funziona In questo caso da struttura di alterazione è Il fantasma di se stessa: Intellettualizzata, dlscorslvlzzata al livello di un qualsiasi altro costrutto concettuale. D'al· tronde, soltanto In tal modo essa è e posta », liberata dalla sua semplice Immediatezza per assumersi ed essere assunta In quanto oggetto di ln�aglne riflessiva. :Il: Infatti - come sappiamo - il lavoro conoscitivo del testo, la pratica Inter­ pretativa a produrre, costituire l'oggetto d'analisi, che dunque non è più l'oggetto reale-Immediato della percezione feno­ menica, ma l'oggetto teorico-testuale, e scritto• del discorso critico-scienti.fico, da questo distanziato e messo e In po­ slzlone ,. 10• In questi termini esemplari, Massimo Carboni pone i li­ miti del campo: il passaggio dal visivo allo scritturale. Per l'opera si tratta di una perdita e di un acquisto: un cambiar di pelle, che la trasforma da « oggetto reale-immediato • in « oggetto teorico-testuale». E questo è inconfutabile, anzi proprio su tale «riformulazione», come la chiama Garroni 11 si fonda la discrasia e insieme l'interrelazione arte-critica: la critica prende un oggetto e lo trasforma in linguaggio, dato che in quest'ultimo, e non semplicemente attraverso di esso può esprimersi l'essenza spirituale dell'opera, secondo quanto ammesso da Benjamin. - Ma il problema può essere visto anche da un'altra ango­ lazione. L'opera non si trasforma completamente in lin- 35


guaggio: non lo fa sia perché è postulabile un residuo gnoseologico (come viene generalmente ammesso), sia per­ ché la sua natura storica le consente altre potenziali tra­ sformazioni e riformulazioni. I piani sono due: il primo ri­ conduce allo statuto stesso della critica, nata dall'eteromor­ fismo rispetto all'arte, che proprio grazie a tale diversità cromosomica opera, superando le false prospettive dell'inef­ fabilità e della traducibilità totale, in quanto, come scrive Menna, l'« altro» non rappresenta un'eterogeneità assoluta, ma non è nemmeno completamente riformulabile in termini linguistici u; il secondo legato alla vita dell'opera, che non si conclude nel precipitato testuale, avendo a disposizione la potenzialità di esser nuovamente scritta, di passare attra­ verso infinite esplorazioni critiche, le quali ogni volta si ri­ fanno certamente sulle precedenti, però anche e soprattutto sull'opera stessa. I « protocolli analitici » non la esautorano, ma nel corso della sua esistenza si soprappongono, chiaman­ dola ad esprimersi secondo i dettami della facies storico­ critica di cui sono latori. L'opera è essenzialmente un fenomeno culturale, una serie teoricamente interminabile di fenomeni culturali. Alla do­ manda: l'opera è un dato artistico e basta, oppure un dato sia artistico sia storico, oppure un dato solamente storico? si può. rispondere che. essa non è né isolabile in un quid puro e disincarnato dalla storia, fatuo nella sua improbabile indocilità, né degradabile a mero portato storico, snervato e privato del gradiente irriducibile che ne costituisce il noccio­ lo idiotico. L'opera esprime una trascendentalità orizzontale, ossia storica, costituita dal mutare delle sue fisionomie inter-· pretative: il che significa che essa è formata da una com­ ponente noumenica, che costituisce il residuo, la diversità, l'idios e contemporaneamente l'eidos, e ne garantisce l'ar­ tisticità; da porre sul piano della sincronia; altresì .è evi� dente la filigrana delle trasformazioni esegetiche, che ogni volta fenomenizzano l'opera, la rendono cioè fenomeno, at­ traverso il mutare dei climi culturali, ed è proprio in questa successione diacronica che si manifesta la natura profonda 36 dell'opera, la sua embrionale pluralità e culturalità. Che c osa


sia infatti il noumeno dell'opera non è poss�bilè indovinarlo: ma questa non è una mancanza, l'abisso dell'inconoscibile, lo scacco matto dell'interpretazione. AI contrario, grazie alla sua indecifrabilità l'opera vive e si trasforma nei vari feno­ meni storico-culturali, espressi in differenti oggetti teorico­ testuali, secondo un iter trasformativo-performativo che ne fonda il vero statuto, sottraendolo alle secche dei nuovi e vecchi travisamenti empirico-idealistici, e restituendolo alla dimensione trascendentale (né immanente, né trascendente) che corrisponde alla dimensione trascendentale dell'interpre­ tazione.

1 R. BARTHES, Critica e verità (1966), lr. it., Torino 1969, p. 53. O. Wn.nE, /I critico come artista (1891), tr. it., Milano 1980, p. 59. 3 Cfr. R. BARTHES, op. cit., p. 43. 4 lvi, p. 54. s W. BENJAMIN, Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomi­ ni, in Angelus Novus (1955), tr. it., Torino 1962, pp. 52-53. 6 M. FoucAULT, Le parole e le cose (1966), tr. it., Milano 1967, p. 23. 7 M. CARBONI, L'Impossibile Critico. Paradosso della critica d'arte, Roma 1985, p. 19. s Cfr. F. MENNA, Critica della critica, Milano 1980. Il libro costitui• sce l'ampliamento e approfondimento del testo presentato al Convegn? _ di Montecatini nel '78. Per quest'ultimo si veda AA.VV., Teoria e pral!• che della critica d'arte, Milano 1979, che ne raccoglie gli Atti, e una sintesi in R. PASINI, Riflessioni sulla critica della critica, in e Rivista di estetica», 7, primavera 1981, pp. 117-124. 9 T. W. AooRNo, Teoria estetica (1970), tr. it., Torino 1975, p. 181. IO M. CARBONI, op. cit., p. 19. 11 Cfr. E. GARR0NI, Ricognizione della semiotica, Roma 19TT. 12 F. MENNA, op. cit., p. 39. 2

37


L.

415()()


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.