Op. cit., 75, maggio 1989

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maggio 1989

selezione

numero 75

della critica. d'arte contemporanea

Architettura e decostruzione - Il «piacere» del design - Realismo e post-realismo nella pittura ame ricana - Libri, riviste e mostre edizioni

«

il centro•


!!

op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

Direttore: Renato Dc Fusco Redattori: Roberta Amirante, Livio Sacchi, Sergio Villari Segretaria di redai.ione: Roberta Amirante Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Te!. 7690783 Amministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Giordani, 32 - Te!. 684211 Un fascicolo separato L. 4.500 (compresa IVA) - Estero L. 5.000

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Edizioni e Il centro Âť di Arturo Carola


L.

SACCHI

Architettura e decostruzione

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R. DE Fusco

Il

G.

Realismo e post-realismo nella pittura americana

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Libri, riviste e mostre

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l.AROJl.'I

e piacere

" del design

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Alla redazione di questo numero l1anno collaborato: Roberta Amirante, Maria Virginia Cardi, Giovanni Corbellini, Gabriella D'Amato, Ada D'Avino, Marina Montuori, Sergio Stenti.


La rivista si avvale del contributo economico dei seguenti Istituti ed Aziende: Alessi Alias Banco di Napoli Bulthaup Camera di Commercio di Napoli Cassina Driade Falconio IC soft Promemoria Sabattini Zen Italiana


Architettura e decostruzione LIVIO SACCHI

Nell'estate del 1988 Philip Johnson e Mark Wigley allesti­ scono una piccola mostra al Museum of Modem Art di New York intitolata « Deconstructivism ». Viene messo a confronto il lavoro di sette architetti: Frank Gehry, Daniel Libeskind, Rem Koolhaas, Peter Eisenman, Zaha Hadid, Coop Himmelblau e Bernard Tschumi. Si tratta in realtà di non molto di più della curiosa intersezione di esperienze diverse, tutte però fortemente legate ad un comune referente linguistico, il Costruttivismo russo, all'idea di dislocazione, deviazione, distorsione, alla tensione verso l'inesplorato po­ tenziale della modernità. A quasi sessant'anni di distanza dalla storica « Modem Architecture » del '32, curata dallo stesso Johnson assieme a Henry-Russell Hitchcock e ad Alfred Barr - che celebrava gli eroi degli anni venti, Mies, Le Corbusier, Gropius, Oud - il Decostruttivismo non si pone come un nuovo stile. Piuttosto è la confluenza del la­ voro di alcuni importanti architetti che dal 1980 ad oggi hanno adottato approcci simili che hanno avuto come ri­ sultato forme molto simili 1• Ma già qualche mese prima la Tate Gallery, assieme al­ l'Academy Group, aveva organizzato il primo « International Symposium on Deconstruction », con una parte dedicata al­ l'architettura ed una che ne copriva le questioni più stret­ tamente filosofiche, oltre a quelle connesse alle arti visive. Con i. contributi del convegno è nato un numero .speciale

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di « Architectural Design• intitolato Deconstruction in Ar­ cltitecture e curato da Charles Jencks, che raccoglie pro­ getti di Tschumi, Hadid, Coop Himmelblau, Zenghelis, OMA, Gehry e Morphosis, oltre che di Ambasz e di SITE. Osserviamo tra parentesi che di decostruzione si è co­ minciato a parlare anche in riferimento alle arti visive, specialmente a proposito di una serie di artisti che, più o meno consapevolmente, si collocano all'interno di tale linea. Fra i decostruttivisti neomodemi spiccano Julian Schnabel, Sigmar Polke, David Salle, Malcolm Morley, Georg Baselitz, Philip Guston, lo stesso Anselm Kiefer; fra i decostruttivisti minimalisti Valerio Adami, Arakawa e Daniel Buren; fra i decostruttivisti neo-geo o neo-dada i newyorkesi della re­ cente mostra alla Saatchi Collection, gli ambigui Jeff Koons, Ashley Bickerton, Allan McCollum, Star Twins, ecc. L'attenzione del dibattito architettonico si è così rapida­ mente spostata sul decostruttivismo. Al di là, come abbiamo detto, del diffuso interesse per il Costruttivismo russo, della riscoperta di personaggi quali Leonidov, Suetin, Rodchenko, El Lissitzky, Chemikov, Burov, Malevic, Tatlin, Krinskii, i fratelli Vesnin; al di là del non unanime richiamo alla decostruzione, così come è stata codificata da Derrida; al di là del discusso legame con la modernità (la nozione di Decostruzione di Derrlda trascende categorie come il Moder­ no, non è una garanzia contro lo storicismo, è astorica, po­ trebbe essere moderna, potrebbe anche non esserlo 2); va detto che l'architettura del decostruttivismo costituisce il fatto nuovo in un momento in cui s'andava riproponendo un dibattito ormai stagnante. Negli USA è stato in realtà codifi­ cato e rilanciato sul piano internazionale quanto in Europa era nell'aria da anni, e non solo all'interno della cultura filo­ sofica, ma anche e specificamente in ambito architettonico, si pensi al trasgressivo lavoro portato avanti negli ultimi dieci anni nei circoli legati alla londinese Architectural Association di Alvin Boyarsky e a personaggi quali i già citati Bernard Tschumi, Rem Koolhaas, Elias Zenghelis, Zaha Hadid. 6

Per alcuni il decostruttivismo sembra cercare « identità • nel lavoro di architetti apparentemente interessati alla ce-



un fenomeno che è stato definito di livellamento della diffe­ renza tra letteratura, filosofia e critica letteraria 6• Sulle ra­ gioni di ciò sono state date alcune convincenti spiegazioni 7; basti qui ricordare che la mediazione letteraria ha consen­ tito un'enorme e rapida diffusione degli studi decostruttivi in campi diversi, dalla psicoanalisi al femminismo, alla giuri­ sprudenza. Il merito va ascritto principalmente ai cosiddetti ·« Yale Critics », Paul de Man, Geoffrey Hartman, Harold Bloom e altri, un gruppo che ha lavorato a stretto contatto con Derrida e che è oggi sostanzialmente disperso dopo la scomparsa di Paul de Man. La centralità di Jacques Derrida in America è assoluta: insospettata dagli europei e dagli stessi francesi. Lo testi­ monia Tom Wolfe in un'intervista alla rivista « Apostro­ phes », in cui si meraviglia di quanto poco sia conosciuto Derrida in Francia e di quanto sia invece idolatrato ne­ gli USA 8• Riportiamo in proposito anche la curiosa testimonianza di Frank Lentricchia, un attento storico della scena critica statunitense: Un giorno del primi anni Settanta cl siamo svegliati dal sopore dogmatico del nostro sonno fenomeno­ logico per scoprire che una nuova presenza si era impadro­ nita In modo assoluto dell'immaginazione critica della nostra avanguardia: Jasques Derrlda. In modo alquanto sorpren­ dente abbiamo appreso che, nonostante un certo numero di indicazioni imprecise facesse pensare il contrario, egli non era un fautore dello strutturalismo ma di qualcosa che po­ trebbe essere chlamato 'poststrutturalismo'. Il cambiamento di rotta verso un orientamento e una discussione post­ strutturalista, verificatosi nelle carriere Intellettuali di Paul de Man, J. Hillis Miller, Geoffrey Hartman, Edward Said e Joseph Riddel - tutti affascinati negli anni Sessanta dal­ l'eredità della fenomenologia - racconta la storia per in­ tero 9• Derrida è il primo ad usare il termine « decostruzione ». Egli stesso riporta: Quando ho scelto quella parola, o quando mi si è imposta, mi pare che fosse in « De la grammatologie », non pensavo che avrebbe assunto un ruolo tanto centrale nel 8


discorso che allora mi interessava. Cercavo, tra · l'altro, di tradurre e adattare ai miei scopi il termine heideggerlano « Destruktion • o « Abbau •· In quel contesto, significavano entrambi una operazione vertente sulla « struttura • o sulla « architettura • tradizionale dei concetti istitutori della onto­ logia, o della metafisica occidentale. Ma in francese 'distru­ zione' implicava in modo troppo palese una riduzione nega­ tiva, forse più vicina alla 'demolizione' nietzscheana che non alla interpretazione heideggeriana o al tipo di lettura che proponevo io. Perciò l'ho scartata. Ricordo di aver control­ lato se la parola 'decostruzione' ( che mi veniva in modo apparentemente molto spontaneo) fosse proprio francese. L'ho trovata nel « Littré •· L'uso grammaticale, quello lingui­ stico e quello retorico si associavano a un uso 'macchinico'. Questa associazione mi sembrò felicissima, molto adatta a ciò che tentavo di suggerire. Mi permetta di citare qualche passo del « Littré •· 'Decostruzione'. L'atto del decostruire. Termine grammaticale. Scomporre il costrutto delle parole in una frase. 'Della decostruzione, volgarmente detta costru­ zione, Lemere, « De la manière d'apprendre les langues •, cap. 17, nel « Corso di lingua latina. Decostruzione », 1. Smon­ tace le parti di un tutto. Decostruire una macchina per portarla altrove. 2. Termine grammaticale ( ...) Decostruire dei versi, renderli, con la soppressione del metro, simili alla prosa'. Ass. 'Nel metodo dell'insegnamento per frasi fatte, si comincia anche con la traduzione, che fra i suoi vantaggi ha anche quello di non richiedere la decostruzione', Lemere, ibid., 3. Decostruirsi, ( ... ) perdere la propria costruzione 10• E, più oltre, A quei tempi lo 'strutturalismo' era dominante. 'Decostruzione' sembrava andare in quel senso perché indi­ cava una certa attenzione alle « strutture • ( che a loro volta non sono semplicemente idee, o forme, o sintesi, o sistemi). Decostruzione era anche un atteggiamento strutturallsta, o comunque un atteggiamento che faceva propria una certa necessità della pratica strutturallsta. Ma era anche un atteg­ giamento antistrutturallsta - e la sua fortuna dipende in parte da quell'equivoco 11• L'attività strutturalista è stata spesso utilizzata in archi-

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tettura, lo stesso termine « struttura » è di derivazione ar­ chitettonica. De Fusco parla di « smontaggio » dell'oggetto architettonico, di una pratica tesa ad analizzare il significato delle parti che concorrono alla formazione del tutto; scom­ porre quest'ultimo per meglio descriverlo, ordinarlo, trovar­ ne le regole di combinazione e di trasformazione, ecc. 12• Lo stesso Barthes si era d'altra parte già chiaramente espresso in proposito: Lo scopo di ogni attività strutturalista, rifles­ siva o poetica che sia, è di ricostruire un 'oggetto', In modo da manifestare in questa ricostruzione le regole di funziona­ mento (le 'funzioni') di quest'oggetto. La struttura è dunque in realtà un « simulacro • dell'oggetto, ma un simulacro orientato, interessato, poiché l'oggetto imitato fa apparire qualcosa che restava invisibile, o, se si preferisce, inintelligi­ bile nell'oggetto naturale. L'uomo strutturale prende il reale, lo scompone, poi lo ricompone; è ben poco, in apparenza ( e c'è chi sostiene che li lavoro strutturalista è 'insignificante, privo d'interesse, inutile, ecc.'). Pure, da un altro punto di vista, questo poco è decisivo, perché tra i due oggetti, o i due tempi dell'attività strutturalista, si produce e del nuovo •, e questo nuovo è niente meno che l'intelligibile generale: li simulacro è l'intelletto aggiunto all'oggetto, e questa addi­ zione ha un valore antropologico, in quanto è tutto l'uomo, la sua storia, la sua situazione, la sua libertà e la resistenza opposta alla sua mente dalla natura u. L'approccio di Derrida tende dunque alla de-costruzione della struttura dell'intero pensiero occidentale, rifacendosi alla metafisica heideggeriana in maniera discutibile e ambi­ . gua. Si differenzia quindi dalla lezione di Gadamer e del « pensiero debole • che non avevano smesso gli abiti raziona­ listi per le loro spiegazioni parziali, pur abbandonando ogni fede nei grandi sistemi unitari. E si contrappone alle note tesi di Habermas, segnate da totale scetticismo nei confronti di ogni forma di sperimentazione decostruttiva: quando il contenitore di una sfera culturale autonomamente sviluppata viene frantumato, anche il contenuto si disperde. Niente resta di un significato desubllmato o di una forma distrutta; non segue alcun effetto emancipatore 14• La liquidazione



trova per esempio, la metafora della fondazione della città, e questa fondazione è propriamente ciò che deve sostenere l'edlclo, la costruzione architettonica, la città... Quando Ari• stotele desidera portare un esempio per teoria e pratica prende l'« archltekton •: colui che conosce la causa delle cose, un teorico che può anche insegnare e agli ordini del quale stanno l manovali, incapaci di pensare autonomamente. E cosi sl istituisce una gerarchia politica: l'architettura viene definita come arte del sistemi, come arte, perciò, idonea a organizzare razionalmente interi settori del sapere 17• La de-costruzione di Jacques Derrida interroga e mette in crisi le opposizioni concettuali date per scontate dalla storia filosofica, un bagaglio che tende a rivelarsi limitativo per lo sviluppo stesso del pensiero. Ora però il concetto stesso della decostruzione è assimilabile a una metafora architettonica. Sovente le viene attribuito un atteggiamento negativo. C'è qualcosa che è costruito, un sistema filosofico, una tradizione, una cultura; poi arriva un de-costruttore e demolisce la costruzione pietra per pietra, analizza la strut­ tura e la disfa. Questo corrisponde abbastanza spesso al vero. Sl osserva un sistema platonico/hegellano, sl analizza come è costruito, quale chiave di volta, quale angolo visuale so­ stiene l'edificio; poi si sposta la chiave di volta e l'angolo visuale e cl si libera in tal modo dell'autorità del sistema. Mi sembra però che questo non sia ciò che costituisce la de-costruzione. Essa non è semplicemente la tecnica di un architetto che sa de-costruire ciò che è costruito, ma una interrogazione che tocca la tecnica stessa, l'autorità della metafora architettonica e di ll costituisce la sua personale retorica architettonica. La de-costruzione non è solo - come U suo nome sembra significare - la tecnica della costruzione alla rovescia, se . essa sa pensare l'idea stessa della costru­ zione. Si potrebbe dire che non c'è nulla di più architetto­ nico della decostruzione, ma anche nulla di meno architetto­ nico. Un pensiero architettonico può essere de-costruttivo solo in questo senso: come tentativo di pensare ciò che 12

stabilisce l'autorità della concatenazione architettonica nella filosofia 17•

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Derrida si muove, come si vede, all'interno della generale temperie post-moderna: e post-moderno è per lui la constata• zione, o l'esperienza, della fine del piano di dominazione della modernità. La decostruzione, anche in architettura, sembra così diventare un modo per approfondire l'esperienza post­ istorica della condizione contemporanea. L'uso della dislo­ cazione, il risolversi delle «differenze» in «identità» proprio attraverso la loro moltiplicazione, provocano disorientamento e confusione. È stato Vattimo a rilevare che la società tardo­ moderna funziona come mondo dell'omologazione proprio lasciando apparire le differenze, delle quali si nutre non solo o principalmente eliminandole e dissolvendole; conferisce loro, piuttosto, un'esistenza 'debole', potremmo dire, orna­ mentale. I:: nell'epoca della fine della storia come processo lineare, gerachico, teleologico, che diventa possibile l'anam­ nesi come ricupero delle differenze, ritorno di ciò che era stato escluso, libera ripresa di modelli monumentali del pas­ sato senza 'giustificazione' storicistico-metafisica 18• Derrida si è a lungo ed esplicitamente occupato di archi­ tettura: di qui la sua odierna popolarità fra critici e progettisti. In Psiché, uno dei suoi libri più noti, ritroviamo tre testi riguardanti rispettivamente Bernard Tschumi, Peter Eisenman e i rapporti fra architettura e filosofia. Con Eisen­ man, in particolare, Derrida ha collaborato al «Choral Work », un giardino facente parte del Pare de la Villette dello stesso Tschumi. Eisenman da parte sua lavora da anni sulla decostruzione. Un'analisi dettagliata · di quella che al­ l'epoca veniva chiamata «decomposizione,. si trova in un saggio dell'82, House X 19• Del 1984 è il testo The Futility of the Objects: Decomposition and the Processes of Difference: un tentativo di tracciare alcuni aspetti di questo negativo della composizione classica, per mezzo della decostruzione di una serie di edifici che sono usati come approssimazioni euristiche di tale sensibilità - come inizi più che come fini, quali essi sono in realtà. Questi rivelano, e simultaneamente suggeriscono; un processo alternativo del fare chiamato de­ composizione 20• E ancora: La 'decomposizione', come ter­ mine, può essere solo un'approssimazione euristica di ciò

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che veramente si intende. Nel primo caso deve essere di­ stinta dall'uso letterale del termine nel senso di qualcosa che realmente decompone. Secondo, la decomposizione è in­ tesa suggerire l'antitetico di composizione nel senso in cui è citata sopra. Cioè, è qualcosa di latente o immanente nel processo di composizione (perciò «non» è composizione) 21• Il progetto per la Villette si colloca, come abbiamo detto, all'interno dell'ormai celebre « Parco del XXI secolo» di Ber­ nard Tschumi. Tschumi rivendica la paternità del primo lavoro decostruttivista: i Manfiattan Transcripts 22• Già nel '76, con il « Giardino di Joyce», aveva adottato un testo lette­ rario come programma architettonico ed aveva adoperato la griglia per punti come strumento di mediazione fra due testi eterogenei sovrapposti. La Villette è oggi il più grande edi­ ficio discontinuo del mondo, il primo lavoro costruito che esplora specificamente i concetti di sovrapposizione e disso­ ciazione 23• Parco di « folies », qualcosa a metà fra la nozione britannica di « folly » architettonica e quella di «follia» - il riferimento, esplicito, è a Foucault e alla sua Histoire de la Folie - una volta completato ne conterrà più di trenta, collegate da una « passeggiata cinematica». Se i richiami ri­ portano a Klee e Kandinsky, a Chernikhov, a Cedric Price, ad Archigram, ad OMA e al gruppo NATO, i singoli pezzi sono stati in realtà affidati ad una serie di eterogenei perso­ naggi che include John Hejduk, Dan Flavio, Jean Nouvel, Gaetano Pesce, Daniel Buren con Jean-François Lyotard, gli stessi Eisenman e Derrida. Il risultato - a complesso ulti­ mato - potrebbe essere una delle più strane agglomerazioni architettonico-artistiche del nostro tempo: una sorta di Avant-Garde-Disneyworld 24• A proposito del « Choral Work » Eisenman spiega: L'idea dello scavo si trasforma in una no­ zione molto interessante. � ciò che stiamo usando alla Vil­ lette. Due temi: la cava e il palinsesto... Ora tu prendi le pietre e costruisci un progetto. Qualcun altro prenderà le pietre dal nostro progetto e costruirà qualcos'altro... Ini­ ziamo dal palinsesto che deriva dalla sovrapposizione di due cose ( Cannaregio e Tschuml?) che poi viene scavato e tu 14 sottrai dal palinsesto lasciando la traccia della precedente


sovrapposizione, ma anche lasciando la traccia della sottra­ zione, in altri termini stiamo parlando del « chora ». La com­ binazione della sovrapposizione del palinsesto e della cava ti dà il « chora ,. che è il programma stabilito da Derrida per il progetto della Villette. Succedono cose da pazzi alla Villette 25•

Il dibattito italiano sul decostruttivismo in architettura sembra diviso fra un atteggiamento di superficiale quanto entusiastico accoglimento di esso, spesso strumentalizzato come possibile risposta all'ormai consumata proposizione del classicismo post-moderno - è la posizione di Zevi . -, cd un atteggiamento di supponente superiorità, tendente ad ignorarne i contributi, quasi che lo spessore culturale del nostro paese ci rendesse immuni dai contagi delle mode. Con maggiore consapevolezza sembrano invece aver reagito gli ambienti filosofici, interessati a comprendere e a non autoescludersi da quanto in sostanza sta monopolizzando l'attenzione mondiale. La cultura architettonica italiana sembra oggi piuttosto sopravvivere sulle rendite delle feconde ricerche linguistiche degli anni settanta. Con il risultato di occupare oggi un posto nella scena internazionale ben più marginale di quello che aveva dieci o venti anni fa. Pure i germi del linguaggio ar­ chitettonico decostruttivista sembrano in parte rifarsi pro­ prio al bagaglio segnico del razionalismo italiano, nelle sue varie fasi: codice-stile semplice e quindi facilmente manipo­ labile, sul quale pesa fra l'altro il confronto, inevitabile, con la tradizione classica. Non estranee a queste ricerche ap­ paiono - non a caso - alcuni progetti di Franco Purini, pensiamo segnatamente al padiglione in cemento e vetro del '76, all'ampliamento della casa P. a Terni, alla stessa difficile soluzione proposta per il Padiglione Italia all'ultima Biennale d'Architettura di Venezia. E d'altra parte il dichiarato inte­ resse di alcuni protagonisti stranieri per tale periodo della nostra storia contribuisce a spiegare non poche fra le loro più recenti e trasgressive scelte progettuali. Il decostruttivismo resta comunque il fatto nuovo nella viéenda architettonica contemporanea. Sbaglierebbe chi ne

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sottostimasse la portata e l'influenza, ritenendolo una sorta di sottoprodotto in ritardo di certo design radical di qualche anno fa. Riteniamo però che si tratti anche di una strada pericolosa. Il rischio maggiore sta proprio nella rapidissima e acritica diffusione della nuova moda progettuale. Un con­ sumo linguistico disattento e superficiale potrebbe vanificare in breve tempo i contenuti della ricerca decostruttivista e costringerla in una condizione micrologica, a somiglianza di quanto è avvenuto con la vicenda architettonica postmoder­ na, i cui stilemi e le cui invenzioni formali sono state ridotti in pochi anni a « canzone da organetto ».

· 1 P. JoHNSON ,- Preface, in P. Johnson, M. WIGU:.Y, Deconstructivist Ar• chitecture, The Museum of Modem Art, New York 1988, p. 7. 2 Cfr. Deconstruction at the Tate Gallery, in « Architectural De­ sign,. vol. 58 (Deconstrnction in Architecture), n. 3-4, 1988, p. 7. 3 Cfr. J. SHEEHAN, Deconstruction: Crystallising a11 Attitude, in « Ar­ chitectural Design», voi. 58 (Contemporary Architecture), n. 7/8, 1988. 4 M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, p. 41. s M. HEIDEGGER, Die Grundprobleme der Pltanomenologie, a cura di von Hernnann e Klostermann, Frankfurt/M 1975, p. 30. 6 M. FERRARIS, Storia dell'ermeneutica, Bompiani, Milano 1988, p. 380. 7 Cfr. J. CUI.I.ER, Sulla Decostruzione, Bompiani, Milano 1988. · a Cfr. J. DERRIDA, La déconstruction: 1111 projet?, in « Techniques & Architecture », n. 380, ottobre-novembre 1988. 9 F. LENTRICCHIA, After the New Criticism, cit. in J. Culler, op. cit., p.

12.

10 J. DERRJ.DA, Pacific Deconstruction, 2. Lettera a 11n amico giappo­ nese, in e Rivista di Estetica"• n. 17 (Estetica e decostruzione), 1984. 11 Ibidem. 12 R. DE Fusco, Segni, storia e progetto dell'architettura, Laterza, Roma-Bari 1973, p. 134. u R. BARTHES, L'attività strutturalista, in Saggi critici, Einaudi, To­ rino 1966, p. 246. . 14 J. HABERMAS, Modernity-An Incomplete Project, in The Anti-Esthe­ tic, Essays on Postmodern Culture, a cura di H. Foster, Bay Press, Port Townsend 1983, p. 11. 15 M. FERRARis, Il postmoderno e la decostruzione del moderno, in Moderno postmoderno. Soggetto, tempo, sapere nella società attuale, a cura di G. Mari, Feltrinelli, Milano 1987, p. 122.

16 lvi, p. 123.

J. DERRIDA, Architetture ove il desiderio può abitare, in e Do­ n. 671, aprile 1986. 18 G. VATIIMO, Identità, differenza, confusione, in e Casabella », n. 519, dicembre 1985. 19 P. EISENMAN, House X, Rizzoli, New York 1982. 17

mus

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»,

20 P. EISENMAN, The Futility of the Objects: Decomposition and the Processes of Difference, in e The Harvard Architectural Review », vol. 3,


1984. Trad. it. La futilità degli oggetti. La decomposizione e i processi delle differenze, in P. EISl!NMAN, La fine del classico, a cura di R. Rizzi, CLUVA, Venezia 1987.

21 Ibidem. 22 B. Tsc11UMI, Manhattan Transcripts, Academy, London 1981. 23 B. TSCIIUMI, Pare de la Villette, Paris, in « Architectural De­ sign», cit. 24 Cfr. CH. Jl!NCKS, Architecture today, Academy, London 1988, p. 259. 25 Cfr. Interview Peter Eisenman + Lynn Breslin, in « Space De­ sign», marzo 1986.

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. Il «piacere» del design RENATO DE FUSCO

L'attenzione al valore estetico dei prodotti industriali sembra da tempo scomparsa nei discorsi riguardanti il de­ sign. Se questo è vero, abbiamo perso, o quanto meno accan­ tonato, uno dei temi più importanti della speculazione teorica della nostra disciplina; non solo ma anche lasciato cadere l'argomento più proprio, convincente, rispondente alla domanda del pubblico e, in definitiva, pratico a sostegno della qualità degli oggetti « disegnati». Piuttosto che defi­ nire bello un dato prodotto, si preferisce dire che esso è funzionale, ingegnoso, interessante, rispondente ad uno status symbol, ecc.; attributi certo necessari ma non sufficienti a specificare la principale valenza che è appunto quella este­ tica. Le cause di tale reticenza sono molte: da un malinteso pragmatismo al timore di cadere in difficili discorsi filosofici; dal funzionalismo al timore di utilizzare un concetto, quello di bellezza, certamente vago e discutibile; dal commercia­ lismo al timore di invocare una categoria non abbastanza «moderna», ecc. E poiché nelle tre cause suddette, il cui elenco potrebbe estendersi di molto, ricorre la parola « ti­ more», è lecito dedurre che il motivo principale e ricorrente del nostro tacere sul « bello» si debba interpretare come

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..� •· " Questo breve saggio per alcuni aspetti sintetizza, per altri amplia una serie di articoli pubblicati su « Il Sole-24 Ore•, donde l'accento didascalico che si è voluto conservare per rendere anche qui l'argomento accessibile -al maggior numero di lettori.


una sorta di codardia intellettuale che informa la critica del design. Per vincere queste resistenze poco coraggiose si può co­ minciare notando che l'idea di bellezza pertinente il design non ha nulla di trascendentale, che esiste una utile distin­ zione fra l'« artistico» e l'« estetico» e che, in definitiva, è meglio discutere di un tema in maniera imperfetta e non esaustiva che fingere di ignorarlo. Un'altra premessa che an­ ticipa anche la conclusione del presente scritto è la seguente: non è vero che del bello e del gusto non si può disputare, in quanto fattori di giudizio troppo soggettivi. Quelli del critico d'arte e del design non sono meno soggettivi dei criteri di valutazione e di orientamento di qualsiasi altro esperto, del medico, dell'ingegnere, dell'avvocato, ecc., coi quali è sempre lecito ed utile discutere, ma ai quali in defi­ nitiva affidiamo importanti compiti, scelte e decisioni. Sulla base di tali considerazioni vediamo come il pro­ blema del bello nel campo del design possa almeno essere impostato. Intanto ricordiamo che l'estetica nasce alla metà del '700 come scienza della perfezione sensibile e non come scienza dell'arte, donde la legittimità di associare al design non la seconda accezione, quella che pertiene la filosofia artistica, l'arte pura o emergente, bensl la prima, ovvero quella che si addice ad un'arte applicata, ad una esteticità diffusa basata sul gusto, sul piacere, sulla bellezza sensibile. Ma che cos'è il gusto? Una risposta per molti aspetti ancora valida si trova in un altro autore della stessa epoca, David Hume, che scrive: (la bellezza) non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella mente umana che la con­ templa, e ogni mente percepisce una diversa bellezza. Ma pur entro la varietà ed l capricci del gusto vi sono certi principi generali di approvazione o di biasimo la cui in­ fluenza può essere notata In tutte le operazioni dello spi­ rito /... / In ogni creatura vi è uno stato sano e uno difettoso e si può supporre che soltanto il primo è In grado di darci una vera regola del gusto e del sentimento 1• Il gusto va però educato e liberato dal pregiudizio: 2 compito del 'buon senso' li neutralizzarne l'Influenza; e da questo punto di vista,

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come da molti altri, la ragione, anche se non è parte essen-. ziale del gusto, è per lo meno una condizione perché que­ st'ultima facoltà possa operare / .../ Soltanto un forte buon senso unito ad un sentimento accresciuto dalla pratica, perfezionato dall'abitudine al confronto e liberato da tutti i pregiudizi, può conferire al critici questa preziosa qualità; e la sentenza concorde di questi, ovunque si trovino, è la vera regola del gusto e della bellezza 2• Non è casuale questa associazione fra gusto e buon senso proposta da un autore proprio alla vigilia della rivoluzione industriale e che in­ carna un livellamento medio-alto tipico della società bor­ ghese nell'atto di affermare i suoi valori. La scissione fra gusto e buon senso o, meglio, il venir meno di quest'ultimo come « elemento costruttivo " del gusto e dell'arte può considerarsi una delle principali cause della crisi dell'estetica contemporanea. D'altra parte il lineare ra­ gionamento di Hume è oggi inapplicabile alla lettera dopo i moti del gusto che successivamente hanno minato il con­ cetto stesso. Ne risulta un quadro abbastanza complesso che tuttavia non ci esonera affatto dal riprenderne le fila, sia pure rifacendosi alle fonti più eterogenee. Per restare nell'ambito settecentesco è d'obbligo un rife­ rimento a Kant specie dopo che qualche autore d'oggi ha visto nella distinzione kantiana fra una bellezza libera e una aderente una base teoretica della disciplina del design. Infatti il filosofo tedesco scrive: Vi sono due specie di bellezza: la bellezza libera (e pulchrltudo vaga»), e la bellezza sempli­ cemente aderente (e pulchrltudo adhaerens»). La prima non presuppone alcun concetto di ciò che l'oggetto deve essere; la seconda presuppone questo concetto, e la perfezione del­ l'oggetto alla stregua di esso. La prima si dice bellezza (per sé stante) di questa o quella cosa; l'altra, essendo aderente ad un concetto (bellezza condizionata), è attribuita ad og­ getti, I quali stanno sotto il concetto di uno scopo partlco­ lare 3. Ora, da un lato, essendo architettura ed arti applicate legate appunto ad uno scopo, si direbbero escluse non solo dalla bellezza libera ma anche dal bello e dal gusto; infatti 20 prima del brano citato leggiamo: Il gusto è la facoltà di



delle cose vlslbill ed lnvlsiblll, regolato l'arte dl rappresen­ tarle 9• La citazione serve anzitutto ad avvertirci che detta $Omiglianza o mimesi non è da intendere nel senso ingenuo e comune, la semplice copia cioè di qualcosa, l'atto mimetico comportando una varia e complessa fenomenologia. Per il design, un'arte che implica nei prodotti tanto la conformazione che la rappresentazione, la linea mimetica è ancor più problematica rispetto, poniamo, alle arti figurative. Ai fini della nostra esposizione è necessario ridurre i molte­ plici atti di somiglianza a due soli casi. Il primo riguarda quei prodotti che hanno un referente esterno, vale a dire che « imitano » qualcosa come la natura, i processi organici, gli -artefatti di un altro settore merceologico, ecc. Il secondo è proprio dei prodotti che hanno un referente interno allo sviluppo della loro stessa categoria, ai vari stadi cui essi approdano, grazie ai progressi della tecnica, ai moti del gusto e a quant'altro che non esorbita da quella determinata classe di oggetti. Quanto al richiamo ad un fattore esterno, esso si verifica in vari settori del design. È tesi universalmente accolta che il tempio greco, paradigma di tutta l'architettura successiva fino a quella modernamente prefabbricata, sia una tradu­ zione, una imitazione in pietra di più antiche costruzioni in legno. Il settore dei mobili è forse il più ricco di richiami mimetici: elementi zoomorfi, fitomorfi, antropomorfi sono presenti in esemplari- che vanno dal mondo pre-classico fino a tutto l'Ottocento. Né l'avvento della civiltà industriale ri­ duce la tendenza a rifarsi, magari con intenti non più sim­ bolici come in passato, ad un precedente. Che l'aereo si sia ispirato alla morfologia degli uccelli e alle leggi che ne regolano il volo è noto ed evidente; l'automobile, nei suoi primi modelli, è concepita come una carrozza cui mancano solo i cavalli; la più sofisticata stilografica discende dalla penna d'oca; la lampadina elettrica « imita " la candela, di cui conserva il nome designante il suo potenziale; persino la macchina da scrivere ebbe bisogno di richiamarsi ad un precedente. Giuseppe Ravizza, che nel 1855 brevettò il mo22 dello più prossimo a quello attuale in quanto munito di quasi


tutti i pezzi (tasti, martelletti portacaratteri, nastro colorato scorrevole, campanello di fine riga) lo chiamò il « cembalo scrivano» per la forma dei tasti simili a quelli dello stru­ mento musicale. Quanto ai prodotti che si richiamano ad un referente in­ terno, ovvero costituiscono, come s'è detto, stadi dell'evolu­ zione di uno specifico genere merceologico, qui la mimesi presenta altri significati. Infatti, se paragoniamo la mimesi alla questione della causalità, anche in quest'ultima, come abbiamo notato altrove, possiamo riconoscere per gli arte­ fatti una causazione esterna (i fatti socioculturali) ed una interna: nel senso che un'opera genera un'altra in un rap­ porto assai simile a quello fra causa ed effetto. Se il paral­ lelo è legittimo il referente mimetico coincide con il prece­ dente modello causale. Ma a questo punto è necessario chiedersi: è poi vero che la somiglianza, la mimesi, il richiamo a qualcosa di preesi­ stente costituisce il piacere estetico di un prodotto? La ri­ sposta è positiva nel caso del referente esterno all'oggetto in esame perché quella mimesi si coglie in maniera indiretta e mediata, per lo più sotto la specie simbolica. Inoltre nella fruizione estetica la « ripetizione " è talvolta un fenomeno gradevole e rassicurante (si pensi al maggior gusto che ci provoca l'ascolto di un motivo musicale già noto rispetto ad· uno inedito). La risposta è invece negativa nel caso del referente interno al processo conformativo di un determinato oggetto di design. La sua valenza estetica generalmente non si coglie tanto confrontandolo coi modelli che Io hanno pre­ ceduto (un'operazione comunque niente affatto trascurabile), bensì per il gradevole aspetto, per la bella apparenza, per la «simpatia», ecc. che quell'oggetto ha in sé senza bisogno di alcun rimando. Cosicché, nel primo caso, il piacere estetico deriva da una esperienza indiretta, mediata ed asso­ ciativa, del tipo in absentia, per usare un termine semiotico; nel secondo, tale piacere è diretto, immediato e sintagmatico, del tipo in praesentia. Inoltre se, come abbiamo visto, la « ripetizione » è talvolta gradevole, talaltra ci piace la novità, la sorpresa, l'inedito, l'ambiguo, ecc. sensazioni tutte

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anch'esse presenti nella fenomenologia della fruizione este­ tica. In quest'ultimo caso la mimesi vale ancora, ma come esperienza conoscitiva del processo di metamorfosi dell'og­ getto, non più come fattore di piacere estetico. Chiudendo questi cenni sul criterio della mimesi per rendere dicibile il « bello » del design, possiamo dire che, vuoi che abbia va­ lore mediato e simbolico, vuoi che abbia valore immediato e segnico, tale mimesi può essere una condizione necessaria ma non sufficiente a spiegarsi la bellezza di un prodotto. Essa è certamente un fattore utile alla caratterizzazione e alla riconoscibilità di un oggetto, produce quella utile « ri­ dondanza » che prescrive la teoria dell'informazione, ma non esaurisce affatto la sua problematica estetica, spesso rima­ nendone addirittura estranea. Più in generale, poiché nulla nasce dal nulla, la mimesi vale come richiamo, ancoraggio, punto di riferimento, fattore interessante la decodifica di un determinato prodotto, elemento non estraneo all'arte che comunque è conoscenza, ma non risolutivo del problema della sua bellezza. Per questa è necessario formulare altre ipotesi esplicative. Assumiamo quella che lega la bellezza di un manufatto alla sua funzionalità. Quale che sia il significato di tale le­ game, è impensabile che un prodotto sia bello senza essere ·al tempo stesso utile e funzionale. In assenza di questi re­ quisiti si uscirebbe dal campo delle arti applicate e del design. Ma, una volta riconosciuta l'importanza della com­ ponente funzionale, resta da discutere se essa risolve anche il problema estetico dell'oggetto. In particolare, è necessario verificare: a) se - la forma di quest'ultimo è in rapporto con una sola e specifica funzione; b) se tra forma e funzione esiste una relazione diretta· oppure interviene un fattore di mediazione cui si deve in gran parte la qualificazione estetica del prodotto. Proviamo a riconoscere questi punti in alcuni enunciati del pensiero funzionalista. Tra i più significativi resta l'afa­ .risma settecentesco di Carlo Lodoli: « nulla si deve mettere in rappresentazione che non sia anche in funzione ». Esso 24 ha tra gli altri meriti quello di sottolineare una duplic�


esigenza, cui abbiamo già accennato, per cui un'opera d'ar­ chitettura o di arte applicata deve essere una conformazione funzionale e in pari tempo rappresentativa. Lodoli pensava probabilmente ad una rappresentazione dettata dal gusto del suo tempo (la plastica minore, la decorazione, il simboli­ smo, ecc.), mentre gli autori successivi la intesero· in altre accezioni quando non la omisero addirittura. Se prendiamo la notissima formula del naturalista Lamarck, « la forma segue la funzione » - impropriamente estesa al campo delle arti, dove nulla dimostra che una forma fedele alla funzione debba necessariamente essere anche bella - la rappresentazione lo­ doliana può essere intesa come la rappresentazione della fun­ zione stessa. Ma non si tratta di una tautologia. Infatti, con­ siderando i manufatti più semplici (l'amo da pesca, il chiodo, la ruota ed altri utensili elementari), notiamo che in essi la funzione risulta definitivamente fissata in una forma, la cui estetica può riconoscersi proprio in questa costanza nel tempo. Viceversa, per tutti gli altri prodotti appena più complessi, tale costanza si perde nel loro processo· evolutivo. Il legame certo permane, ma non può più dirsi che una spe­ cifica forma rappresenti una ed una sola funzione. Entrambi i termini del binomio hanno acquisito una loro molteplicità: lo dimostra il fatto che una stessa funzione, sia in senso diacronico che sincronico, ha trovato numerosissime inter­ pretazioni formali ed ognuna con una diversa qualificazione estetica. Si direbbe pertanto che, a differenza dei manufatti più elementari, caratterizzati, come s'è detto, dalla loro inva­ rianza, quelli più complessi si caratterizzano per la loro con­ tinua variazione. Le considerazioni finora svolte ci portano a rispondere negativamente al quesito (a): . la· bellezza di un prodotto non dipende dalla fedeltà della sua forma ad una sola e specifica funzione, ma semmai dal modo sempre nuovo di interpretarla e di attualizzarla. Circa il punto (b) sul rapporto immediato o mediato tra forma e funzione, esso ci consente ulteriori riflessioni. Già il ragionamento svolto sop.ra ci dice che i moti del gusto, · l'evoluzione della tecnica, le stesse destinazioni d'uso degli

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oggetti, in una parola, tutte le connotazioni storiche che hanno stratificato un determinato settore merceologico han­ no reso scarsamente immediato il rapporto in esame e di conseguenza diversificato il piacere estetico prodotto da un oggetto di design. Ma, oltre a ciò, un principio più generale fa dipendere il « bello » da un fattore di mediazione. Emble­ matico è il caso del rapporto strutturale fisso e costante tra il suono di una parola ed il suo significato; qui più che altrove non si dà l'uno senza l'altro in una indissociabile relazione dialettica. Eppure in questo ineccepibile fenomeno linguistico, modello di tante altre «costruzioni» di linguaggio non verbali, interviene un fattore di mediazione: la «con­ venzione ». Infatti, del tutto convenzionale è che la parola « tavolo» denoti esattamente l'oggetto tavolo. Sulla scorta di un simile precedente è lecito asserire che il rapporto torma-funzione non è immediato ma mediato e mediato ap­ punto da una convenzione, che costituisce forse una delle più attendibili regole del gusto e del piacere estetico. Non è stato forse autorevolmente asserito che L'arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte? 10• Un assunto che appena riportato alla convenzionalità e alla storicità perde il suo accento apparentemente paradossale. L'idea della convenzione (che recupera in parte anche l'ipotesi di una componente mimetica della bellezza) chiama in causa una serie di fattori esclusi dalla spiegazione mera­ inente funzionalistica del problema estetico. Primo fra tutti il fattore simbolico declinato in mille modi dall'antichità fino ai nostri giorni. Per restare solo a questi ultimi, si pensi al simbolismo dei Futuristi, dei costruttivisti, dello Styling, degli stessi razionalisti, sostenitori ortodossi sì del binomio forma-funzione, la prima tuttavia considerata simbolica del­ l'altra, ovvero ancora richiamante un elemento di mediazione. Assai più problematico è diventato il nostro binomio in seguito agli sviluppi della più recente tecnologia. Come os­ serva Dorfles, spesso .si parla di forma e funzione senza es­ sersi resi conto che, per moltissimi prodotti ancora ieri rispondenti a questo imperativo, oggi non esiste neppure 26 una « forma »! Per portare semplici esempi: si pensi all'io-


finita gamma degli elementi basati su microprocessori, su minime lamine di silicio grandi come un'unghia, capaci di 1·egistrare, mettere in moto, ordinare, ecc. Interi meccanismi automatizzati, laboratori, fabbriche... o si pensi all'Infinita gamma degli strumenti Hi-fi: registratori, amplificatori, ra­ dio, microfoni, videocassette, ecc. Ormai ridotti a minute scatolette nere che albergano solo qualche piccola lamina su cui sono stampati misteriosi circuiti. Dove sta la forma in questi casi? La forma non esiste più o è Inventata di sana pianta e senza alcuna relazione con quanto essa 'ricopre' o nasconde, solo per dare all'utente, al compratore, un simu­ lacro di quel « contenente ,. che è In realtà privo di « con­ tenuto» morfologicamente corrispondente 11• Questa inconfutabile analisi che esprime, almeno per una larga categoria di prodotti, il completo scollamento tra forma e funzione, paradossalmente non esclude affatto la questione del « bello » e del piacere estetico. Certo, in quanto consu­ matori saremo costretti per molto tempo a convivere con un mondo di oggetti tutti uguali, inespressivi e scarsamente in­ dicativi della loro stessa funzione, ma quando una larga fascia di mercato sarà satura di una merce tanto omologata e persino tecnicamente efficiente (l'esattezza di un orologio, ad esempio, è oggi assicurata persino dalle marche più mo­ deste ed anonime), che cosa orienterà il consumatore nel­ l'acquisto di un prodotto se non il piacere estetico che esso provoca? E non importa in questa sede di che livello sarà tale piacere. Come si vede, il nostro problema rimane aperto. La spie­ gazione funzionale del « bello » vale solo parzialmente, ov­ vero per alcuni settori e per alcuni momenti della storia del design; anche in questi non sempre direttamente ma soste­ nendosi su fattori di mediazione, in gran parte convenzio­ nali. Ne deriva che la nostra inchiesta, volta a riconoscere e rendere dicibile ciò che procura piacere negli oggetti di design, richiede altri parametri ed altre ipotesi interpreta­ tative: proviamo ad utilizzare l'antica nozione di symmetria. Il termine, il cui significato non va confuso con quello più banale di simmetria bilaterale, compare, com'è noto, 27


per la prima volta nella letteratura artistica in Vitruvio dove designa: un accordo uniforme fra le membra della stessa opera, e una corrispondenza di ciascuna delle medesime se­ paratamente a tutta l'opera intera 12• Esemplificando, in una facciata architettonica si ha symmetria quando, poniamo, le finestre stanno fra loro in un rapporto gradevole e uniforme, non solo, ma quando ciascuna finestra è ben accordata con l'insieme della facciata (altezza, lunghezza e quant'altro la compone). La nozione è molto importante, essa è alla base di tutta la critica formalista, della teoria della Gestaltung, dello strutturalismo e, prima ancora cronologicamente, dell'otto­ centesca «teoria della pura visibilità», donde possiamo far discendere · ogni tendenza « costruttiva» dell'avanguardia storica dal Cubismo al De Stijl, dal Bauhaus ai costruttivisti russi, dall'architettura al design dei razionalisti. Per il· purovisibilismo, com'è noto, accanto alla cono­ scenza razionale del linguaggio, esiste una conoscenza visiva della realtà. In particolare, si ha conoscenza quando kantia­ namente diamo forma alle nostre sensazioni. Questa forma non imita, non racconta fatti esterni, non ha altro contenuto che se stessa, non significa un essere, ma è un essere. Se . passiamo da questi assunti filosofici, elaborati da Fiedler, agli strumenti della critica d'arte da essi derivati, abbiamo un ricco repertorio di parametri che ci consentono di leg­ gere la «forma» in quasi ogni suo aspetto: la visione vicina e quella lontana, proposte da Hildebrand; le cinque coppie di concetti antitetici, studiate da Wolfflin: lineare e pittorico, superficie e profondità, forma chiusa e forma aperta, molte­ plicità e unità, chiarezza e non-chiarezza, per citare i più noti principi-base della critica formalista. Ora, benché Fiedler avesse intenti diversi da quelli relativi al « bello • (non volendo egli occuparsi di estetica e di pia­ cere ma di una particolare teoria dell'arte), si pone per noi il centrale quesito se gli esiti della pura visibilità e per essi l'originaria idea di symmetria siano esaustivi o meno del problema della bellezza e del valore estetico proprio delle 28 arti figurative, dell'architettura e del design. In altre parole,


riescono veramente quell'antica idea e i suoi più moderni derivati a rendere autonomo un prodotto artistico, a ren­ derlo bello affrancandolo da qualunque altro apporto esterno? Un moderno commentatore di Vitruvio, il Ferri spiega la symmetria con l'evoluzione del tempio greco. Identificando quella nozione con l'altra di «commensurabilità», egli ne spiega la genesi secondo un processo tecnico. Infatti al già citato passaggio dal sistema costruttivo ligneo del tempio a quello lapideo fu necessario trovare un metodo razionale che sostituisse le primitive caratteristiche statiche e visive, peculiari al materiale naturale e assicurate dall'esperienza. Fu quindi necessario trovare una regola che prescindesse dalle proprietà del vecchio materiale, ma ne conservasse l'im­ magine, il sistema costruttivo e in definitiva il valore seman­ tico. Nacque così l'unità di misura: dapprima una parte del corpo umano, il piede, il cubito, il palmo, il dito; in seguito, perché più comodo e meno relativo, il numero, l'unità di misura numerica; ogni membro dell'edificio o della statua sarà multiplo di questa unità. Nasce cosi in greco il concetto della « syrnmetria »: due o più numeri sono « symmetroi » quando ciascuno di essi è divisibile per l'unità di misura data u. Il ragionamento risulta riduttivo rispetto alla definizione vitruviana, la quale, alla poca chiarezza, unisce tuttavia un accento di positiva complessità e di ambiguità che, quanto meno, affranca la nozione da ogni procedimento meramente meccanico, rendendola disponibile ad una maggiore inter­ pretazione estetica. Tuttavia nel commento del Ferri c'è quanto basta a rispondere al quesito da noi· posto sopra. Infatti, l'idea di symmetria solo in parte fissa un ordine in­ terno ed autonomo del manufatto artistico. Anch'essa neces­ sita di un modello, di un referente esterno: dapprima gli elementi antropomorfici (ricordati dallo stesso Vitruvio che esemplifica con altri manufatti, quali parti di navi e di mac­ chine militari), successivamente il numero. Nell'età moderna ancora antropomorfismo ed ordine. numerico verranno fusi fino al più recente caso del Modular di Le Corbusier.

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Insomma; al pari della mimesi e della funzione condizio­ nante la forma, ipotizzate come fattori esplicativi della bel­ lezza dei prodotti del design, anche la symmetria, ovvero il più fertile scandaglio dell'analisi formale, si rivela una con­ dizione necessaria ma non ancora sufficiente a sciogliere il nodo del piacere estetico. Per spiegare quest'ultimo potremmo avanzare altre ipo• tesi: invocare l'espressività, l'empatia, la semanticità, lo « spirito del tempo », la moda e quant'altro la critica ha escogitato negli anni per individuare quel quid che cerchia­ mo, ma giunti a questo punto della nostra inchiesta una cosa appare certa: la bellezza di un oggetto artistico non è riconducibile ad una sola causa, ad un solo parametro. E se ciò vale per le arti cosiddette pure, meglio definibili dagli esiti «disinteressati», esso si accentua fortemente per un'arte applicata qual è il design, dove quel « bello » è soggetto ai più vari ed eterogenei interessi, dai più pragmatici in ordine alla domanda e all'offerta del mercato a quelli più sofisticati del collezionista e dell'amatore. · E. opportuno quindi abbandonare l'idea di esplicitare la questione della bellezza nel design invocando un'unica ed esclusiva causa e prendere in esame una causalità molteplice, un concerto, un accordo di fattori, una concinnitas. Com'è notò quest'ultima nozione risale a L. B. Alberti, che così la esprime: che cosa sia bellezza, e ornamento da per se, e che differentla sia infra di loro, forse Io intenderemo più aper­ tamente con Io animo, che a me non sarà facile di espri­ merlo con le parole. Ma noi per essere brevi la diffiniremo in questo modo, e diremo, che la bellezza è un concerto ( « concinnitas») di tutte le parti accordate insieme con pro­ portlone, e discorso, in quella cosa, in che le si rltruovano, che e' non vi possa aggiungere, o diminuire, o mutare cosa alcuna, che non vi stesse peggio 14• Intesa in tal modo, la concinnitas, ove si escluda la parte finale, il precetto pratico tutto albertiano, altrimenti detto del nihil addi, non si discosta molto dalla symmetria vitru­ viana. Tuttavia, in altri scritti l'Alberti usa concinnitas non 30 solo come accordo o concerto fra le parti interne di una data


struttura, ma come conformità fra due o ·più organismi da accordare o da fondere, come avviene nel caso del comple­ tamento e restauro di antichi edifici. Ora, visto l'amplia­ mento che la nozione albertiana apporta a quella vitruviana e considerato che l'autore moderno parla di concinnitas, oltre che per l'architettura e le arti, anche per altri campi del­ l'esperienza umana, è lecito pensare ad essa come un con­ certo non limitato a fenomeni conformativi ma esteso ad un più vasto orizzonte concettuale. Cosicché, concinnitas può designare (ed in tal modo l'interpretiamo) un accordo fra molteplici fattori, parametri e strumenti critici - la mimesi, la funzione, la symmetria, il nihil addì, le categorie della visione, la Gestaltung, la tecnologia, lo spirito del tempo, ecc. - tutti convergenti nella spiegazione della bellezza e del piacere estetico che ci procura un oggetto di design. Nasce immediata l'obiezione: se la bellezza non dipende da un fattore unico e specifico ma da un insieme di fattori, non perdiamo anche la specificità di ciascun campo arti­ stico? In altri termini, cos'è che rende bella proprio una macchina da scrivere, un edificio, un quadro, una scultura? La risposta può ricavarsi dalla linguistica generale che, no­ tiamo per inciso, non a caso fu associata all'estetica. Infatti, come nella lingua esiste un codice generale, elementi e regole combinatorie, così nell'estetica la concinnitas può assimilarsi ad un codice, che si articolerà nelle forme specifiche del design, dell'architettura, delle altre arti, ognuna contrasse­ gnata da specifici elementi e regole combinatorie. Quali siano poi gli elementi e le regole combinatorie di ogni arte lo suggerisce la storia, l'esperienza e segnatamente la semiotica col suo concetto di pertinenza. te: ben vero che vi sono opere nate dalla sintesi di aspetti prelevati da arti diverse, ma la nozione di concinnitas è così ampia da paragonarsi ad un concerto in grado di includere strumenti di varie orchestre. In conclusione il « bello ,. è appunto un concerto di fattori i quali sono pertinenti a ciascun campo artistico; è un concorso di elementi eteronomi ridotti ad una forma autonoma; un elastico accordo di gusti mutevoli nel tempo ma ricondotti alla storicità dell'evento particolare. 31


t D. HUME, La regola del gusto, Laterza, Bari 1967, pp. 31 e 33-34. 2 Ivi, pp. 42-44. 3 I. KANT, Critica del giudizio, Laterza, Bari 1970, pp. 73-74. 4 lvi, p. 52. s Ivi, p. 62. 6 Ivi, p. 183. 7 R. MASIERO - G. PIGAFEITA, L'arte senza muse. L'architettura nel­ l'estetica contemporanea tedesca, Clup, Milano 1988, p. 51. a B. CROCE, Estetica, Laterza, Bari 1950, pp. 312-313. · 9 M. FoucAULT, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, p. 31. to D. FORlliAGGIO, Arte, ISEDI, Milano 1973, p. 9. Il G. DORFLES, Dieci anni tra due convegni, in e Caleidoscopio 29 •• n. 34, a. 1983. 12 B. GALIANI, L'architettura di M. Vitruvio Pollione, Stamperia Si­ moniana, Napoli 1758, p. 17. 13 S. FERRI, Vitruvio, Architettura (dai libri I-VII), Palombi Editori, Roma 1960, pp. 53-54. 14 De re aedifìcatoria, VI, 2.

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Realismo e post-realismo nella pittura americana GIANNI LARONI

All'interno della molteplicità di proposte dell'arte ameri­ cana d'oggi, il realismo vive una stagione particolarmente felice, pericolosamente felice. Accerchiato dalla triade del Concettuale, del Minimale (anche in chiave new-geo), del Neoespressionismo, ingaggia con ciascuna di queste istanze una singola partita, modificandole, uscendone modificato. Chiusasi con il Pop e con la sua grandezza la stagione della diffidenza verso l'iconismo, così ben documentata da Linda Nochlin 1, si è resa disponibile tra realismo e no una zona media, o franca. Non riserva, ma vasta e pluralista terra di libertà. Vi approdano autori già fotorealisti, già espressionisti, o altri grandi, in tutta autografia e conse­ quenzialità. Vediamo alcuni esempi. Malcom Morley, inglese di nascita, newyorkese di ado­ zione lavorava, negli anni '65-'70 in chiave fotorealista su immagini stucchevoli, transatlantici e visioni di città dall'alto così come vengono proposte dalle agenzie di viaggi: Cristo­ foro Colombo, 1965. Dopo un South Africa cancellato con due fregi diagonali - una protesta contro la segregazione razziale, Racentrack, 1969-70 - la sua visione, apparente­ mente distaccata, acquista un gradiente di drammaticità. Le varie scene di un depliant aperto a fisarmonica su un'imma­ gine di nave, S.S. France, 1974, si sono qualificate nei lavori successivi come descrizione di inferni sgargianti e eterocliti, in cui gente in costume nazionale sta incongruamente a ri- 33


dosso di montagne innevate, o esotica fauna. Giustamente la sua opera più recente può essere intesa come « sintesi aggres­ siva» delle fasi precedenti 2• Lo cogliamo in Farewell to Crete, 1984, in cui i colori, tra il naif e il clownesco parlano dell'incultura e dello spos­ sessamento-della storia che la civiltà delle immagini ha inge­ nerato. La lezione di Malcom Morley è stata bene intesa dalle nuove generazioni. Per la « Binational» - Boston 1986, Diisseldorf e altre città della Ddr, 1989 - una ambiziosa mostra-scambio 3, gli Stati Uniti hanno proposto, tra gli altri, un Tony Labat (n. 1951) che chiaramente riprende, Blanket Policy, 1988, gli stilemi del Nostro. Un altro mondo paral­ lelo, e sempre realista, è quello proposto da Leon Golub. I suoi Legionari verdi, su fondo rosso come quello dei per­ sonaggi della Villa dei Misteri a Pompei, sono tratteggiati con penetrante grafismo, e ci parlano della spicciativa vio­ lenza, del sadismo diffuso che governa l'agire umano. Le tute mimetiche, i giubbotti, le fondine, le mitragliatrici (di un pauroso blu metallizzato) sono solo forme esteriori, varia­ mente fungibili. Se l'arte di Morley e Golup risente di una più generale propensione all'espressività, che viene dalla heftige Malerei europea, il· realismo decorativo, di cui tra poco si dirà, ha dietro di sé gli es_iti della ricerca di due grandi, Frank Stella e Jasper Johns, cosl come andava configurandosi a metà degli anni '70. · La ricerca di Frank Stella muove, è noto, dai Black Paintings degli ultimi anni 'SO alle Shaped Canvas dei primi anni '60; telemodulate, sagomate dai sentieri neri di colore. Si anima di altre cromie con gli Aluminum e soprattutto con i Copper Paintings. Dopo vari, altri passaggi intermedi Stella arriva, intorno al 1974, alla serie dei Birds. L'interesse dei quadri di Uccelli ... è che essi combinano l'aspetto informale con una struttura rigidamente formale. Appaiono deliberata­ mente esuberanti; le sezioni violentemente colorate assumono le forme di curve francesi... ognuna di esse è ricoperta di pittura e di vernice lucida, creando un insieme selvaggio di 34 colore acido, - vernice fluorescente e lustrini... Nelle più


recenti serie di « lndian Bird » le costruzioni a superfici piane sono a loro volta fissate su griglie metalliche appese al muro 4• Jasper Johns, dopo le stagioni New Dada e Pop, ormai consegnate alla Storia dell'Arte, redige, dal '74, lavori a « Crosshatch painting» fasce triangolari di linee e colori ac­ cesi, che si scontrano e si compenetrano nella tela. Vale anche la pena ricordare che nel '74-'75 Robert Rauschenberg presenta gli «Hoarfrost», tessuti trasparenti sovrapposti. Sui diversi strati, l'artista di Port Arthur aveva sovraim­ presso, con una tecnica che si serviva del tricloroetilene come fissatore chimico, varie immagini, che apparivano schermate, sfumate, moltiplicate. Entro queste coordinate storiche si evolve, dal '75, intor­ no alla galleria di Holly Salomon la Pattern and Decorative Painting, con Robert Kushner, Brad Davis, Donna Dennis, Kim Mc Connel, Thomas Lanigan-Schmidt e altri. L'arte decorativa sostiene Francesca Alinovi parte dal presupposto che l'ornamento superficiale della pelle del pia­ neta, costituito dall'apparenza delle merci e dai « Make Ups ,. delle cose possa essere equiparato alla stoffa di un abito immaginario... la cultura, oltre che spingersi in profondità nei concetti si manifesta con luccicanze esteriori, che raccol­ gono... il rimosso della coscienza infelice. Per questo l'orna­ mento è la più autentica manifestazione del tanti « es ,. in­ dividuali5. Agli antipodi l'interpretazione che dà, di questo fenomeno, Germano Celant: Per il nostalgico del calligrafismo e del pittoricismo, gli anni '70 hanno sostenuto solo il primato delle soluzioni filosofiche, dalla Mini.mal al Conceptual... Negli anni ottanta si tende... a entrare nell'individuale, dove con­ tano la distinzione, l'eleganza, la diversità, l'eccentricità. Al tempo stesso fa seguito una personalizzazione che... ricerca l'arte come organismo infantile e dispersivo, prodotto di una certa educazione anarco-spirltuallsta 6• � opportuno, a· questo punto, farsi un'idea di persona. Le due «installazioni» che riporteremo alla memoria 7 sono le più prossime a quell'idea di realismo informato alla le- 35


zione di tre grandi (colti nella loro parabola a metà degli anni '70); felicemente contaminato da altre mozioni, ridefi­ nito nei modi detti all'inizio. Avvolta in un virtuale « effetto notte» Skowhegan Stair­ way, 1983, di Donna Dennis (n. 1942). È una casetta in stile vagamente coloniale, con una grande scalinata e una lampada alta e curvata che illumina il portico. Tutto è un po' sba­ gliato nelle linee bizzarre, nel tetto aggettante, nelle forme contratte da una singolare anamorfosi: comunque quello che ci è dato cogliere è il ricordo materializzato di una ca­ setta d'infanzia. Ecco il muro esterno di color grigio rico­ struito in cartone stampato e piegato a simulare più ordini di mattoni, ecco, troppo fuori scala a enfatizzarne la miste­ riosità, i contatori dell'acqua e della luce da cui si dipartono fili e tubicini. La porta dell'ingresso principale è ornata dal di dentro con una tendina nera a fiori bianchi, in quella del retro si vede una zanzariera. Ambedue sono sbarrate, quasi a sottolineare un borderline, l'inizio dopo la soglia di una dimensione affatto privata del ricordo, che l'artista non si sente di spartire con chicchessia. Dopo questa operazione intimistica, ingenuamente intrisa di goticità, vediamo come Th. Lanigan-Schmidt (n. 1948) in modo più chiassoso rimaterializzi l'universo dei suoi verdi anni. Piccole icone, trasparenze di cellophane, baluginii di carta stagnola, scritte vergate a penna e a matita tappezzano la parete esterna, istoriano la superficie interna del suo Childhood Memories, 1984. Il mondo del Luna-Park è il primo piano di lettura suggerito dal pattern-painter newyorkese. Da ciò le scritte cubitali di prezzi di ingresso, differenziate per adulti e bambini ; enfatizzate da sottolineature e punti esclamativi; da ciò anche la sovrabbondanza di richiami visivi formato cartolina, fissati provvisoriamente alle super­ fici con nastro scotch. È comunque il mondo dell'infanzia con le sue suggestioni, con i suoi valori, con le sue mito­ grafie, con la sua religiosità, con i suoi doveri anche, quello che l'autore ci ripropone, in chiave di ricordo: dunque gli eroi del comics, con il loro seguito, i piatti di compleanno, 36 le tracce di punizioni asserite educative: scrivi dieci volte ... •.


Italo Scanga (n. 1932), operaio alla Genera! Motors al suo arrivo negli States, nel 1947, poi docente e artista di conso­ lidata fama, porta avanti, da vari anni, proposte assimilabili a quelle dei giovani della Holly Solomon. Le sue sculture policrome, manichini, robot in legno dall'aria innocua, ri­ prendono da David Smith talune stereometrie e una certa insistenza tassonomica. Il più anziano maestro battezzava i bronzi dal '37 al '40 Medaglie al demerito, con chiara inten­ zionalità di critica sociale. Scanga censisce, nell'80, le più terrestri e correnti paure: del buio/del bere/di comprare una casa/del fuoco/ del successo... Un richiamo alle radici può essere sentito, secondo alcuni, nelle carestie del 1979 9• L'ultima serie, quella dei simulacri Meta dell'86 è giocosa nel mood, neocubista nella composizione. La Graffiti Art obbedisce anch'essa a questo gusto deco­ rativistico, analizzato più sopra in Dennis, Lanigan-Schmidt, Scanga. I Graffiti possono essere intesi come seconda pelle, fiorita e texturizzata, che il drop-out portoricano, greco, sud­ americano appone al suo statico o mobile spazio perimetrale. Un discorso su questa forma d'arte già ben attraversata dalla critica 10 ci porterebbe lontano, se non fosse per la scul­ tura di John Ahearn; da taluni ricondotto in questo milieu. Nato a Binghamton, stato di New York nel 1951, dopo un iter di studi di tutto rispetto si trasferisce nel Bronx per correre il rischio fisico, reale, che chiunque ogni giorno possa ammazzarti senza ragione 11• Sistema sui muri screpolati le sue sculture di negri portoricani adulti e no, intenti a giochi o in situazioni di quotidiana domestichezza: We are Family, 1982-83, El Pirata, 1982, Charlie I, 1982, Bernice, 1982, Karen, 1982. L'esito è paragonabile ai «doppi» iperrealisti, tanto che Boys playing soccer, 1971 di John De Andrea è il prece­ dente più attendibile delle sue opere. Aheam riprende tut­ tavia da George Segai la tecnica e il materiale-calco in gesso e la possibilità di presentare le figure anche in altorilievo, o a solo busto, o mutile, invalsa in Segal, con intento classi­ cheggiante, dai primi anni '70. Il d'après fotografico, il più delle volte colto, è la ten­ denza .che ora gode di maggior fortuna, negli States. Il critico

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Douglas Crimp e la galleria newyorkese « Metro Pictures », sono, sulla sponda orientale, i centri propulsori di questo trend, che coniuga la costante del realismo con proposizioni e lasciti del concettuale. Sherrie Levine rifotografa ventisei Walker Evans del pe­ riodo della Grande Depressione; Cindy Sherman mette in gioco se stessa presentandosi come donna che aspetta, in penombra, il telefono vicino, Untitled, 1981 in risposta alle Blonds waiting di Roy Lichtenstein, desunte dal fumetto. Cindy vive di persona le esperienze di indossatrice (per uno stilista di Soho) alienandosi le simpatie della critica. Si dà in pericolose visioni di sogno, vista dall'alto, la gente molto sotto di lei Untitled, 1985, a dire della vertigine che la co­ gnizione di sé « Camme chair » comporta. Si prova in vari ruoli, distesa sulla ghiaia ad esempio, persuasa che The identity of the model is no more interesting than the pos­ sible symbollsm of any other detail 12• Nella costa del Pacifico una parallela esperienza fotocon­ cettuale, con aperture alla Earth Art, è promossa da John Baldessari, nei primi anni '70 docente al California Institutc of Art. Alla sua scuola, anche un po' ironica e vestita di humour, si forgia il talento di David Salle (n. 1952). Prima di accostarsi alla tela, questo autore ha bisogno di .avere chiara dentro di sé l'immagine che comporrà. Talvolta scatta delle foto, in altri casi la reverie corteggiata gli guida il pennello. Il corpo, per lui « location of human inquiry » 13 in dettagli faziosamente ingranditi, e in genere in situazioni di scoperto corteggiamento, è ciò che è dato immediatamente cogliere. Sulle opere, partite orizzontalmente e verticalmente, si apro­ no finestre, o riquadri a diapositiva, con dentro citazioni di Gericault - le teste di suppliziati - nature morte, o riferi­ menti sfuggenti al Nouveau Realisme. L'occhio del ciclope (o del voyeur?) ricorre in molte tele: Colony, 1986, The Sun­ Dial, 1988. Salle è padrone di una tecnica impeccabile, che gli permette di animare graficamente e coloristicamente il quadro con l'impiego talvolta simultaneo di olio, acrilico, matita. Questa bellezza troppo patinata ingenera tuttavia una 38 certa diffidenza. Convincono di più gli acquerelli, presentati


in buon numero nella rassegna che ha toccato Madrid, Mo­ naco, e ora è a Tel Aviv 14: in questi sì la mente e la mano agiscono insieme, come la camera-stylo di Astruc. Robert Yarber (n. 1948), elegge a luogo privilegiato della « sua ,. America i Motels, quali provvisori ancoraggi di una vita veicolare lì così diffusa. Scene accese, nervose, visionarie Night Pool, 1980; Double Suicide, 1983 (anche un po' naif, ma ad arte). Chi adesso in Italia legge Motel Chronicles di Sam She­ pard 15, troverà, oltre ad analogie di situazioni, lo stesso narrare spezzato, rapsodico. Andrebbero ancora ricordati vari altri artisti, da Robert Longo a Barbara Kruger, a Julian Schnabel, e non solo. Vedremmo, anche, in questo novero Francesco Clemente che agisce li, è fruito come ame­ ricano, ed esercita un notevole influsso sulle nuove genera­ razioni. Un caso a sé è invece quello di Eric Fischl: la sua ispirazione affonda le radici prevalentemente nella tradizione del realismo americano, Hopper, Henri, e da queste premes­ se in tutta autonomia si evolve.

I L. NOCHLIN, Tlre Realist Criminal and the Abstract Law, in « Art in America •• settembre-ottobre 1973. 2 I. LAwsoN, La pittura a New York: una guida illustrata, in « Flash Art,. n. 92-93, ottobre-novembre 1979. J D. A. ROSE, J. HARTEN, The Binational, Die Binationale. American Art of the Late 80s, Deutsche Kunst der spiiten BOer Jahre, catalogo della mostra, Institute of Contemporary Art, Boston, Mass. 1988; Du Mont Buchverlag, Koln 1988, 2 voli. 4 T. LAWSON, op. cit., p. 10 e passim. 5 F. ALINOVI, Quel che piace a me, dedicato al Postmoderno, in « Flash Art • n. 104, estate 1981. 6 G. CELANT, Artmakers. Arte, architettura, fotografia, danza e mu­ sica 11egli Stati U11iti, Feltrinelli, Milano 1984, p. 163. 7 XLI Esposizione Internazionale D'Arte. La Biennale di Venezia. Arte e Arti, Attualità e Storia. Sezione: Arte, ambiente, scena. Cura­ tore: Maurizio Calvesi. 8 Non lasciamoci fuorviare dall'apparenza leggera, corsiva e svagata dell'operazione. Per la suggestione del Luna-Park e del baraccone da fiera, così Leslie Fiedler: « II baraccone... è diventato non soltanto parte integrante della cultura americana, ma un tipico esempio del­ l'interdipendenza tra illusione e realtà, tra piacere e sofferenza, tra ripugnanza e rispetto, a disposizione dei più semplici come dei più so­ _ fisticati. Nato come forma d'arte spontanea e popolare... è diventato materia di un'arte colta più cosciente e di un'arte di massa più ag-

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giornata"· L. FIEDLER, Freaks, tr. it., Garzanti, Milano 1981, p. 296. 9 A cura di F. LICHT, Tre artisti Italo-Americani, catalogo, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1988, p. 29. 10 A. D'AvossA, La questione dei Graffiti, in « Op. Cit.,. n. 57, mag­ gio 1983, e bibliografia citata dal!'Autore. 11 Citato in F. AUN0VI e altri, Arte di Frontiera. New York Gra ffi­ ti, catalogo, Mazzotta, Milano 1984, p. 20. 12 R. MARsHALL, R. MAPPUITH0RPE, 50 New York Artists, Chronicle Books, San Francisco 1983, p. 109. 13 Da una dichiarazione raccolta da P. Schjeldal e riportata in E. EARTNEY, David Salle: Impersonai E(lects, in « Art in America», giu­ gno 1988, p. 122. Per il controverso fenomeno Salle vedi anche: C. MIL­ u:r, David Salle, in « -Flash Art• n. 129, novembre 1985 e A. BONITO OLIVA, Spostamenti Allegorici dell'Arte, in « Tema Celeste• n. 10, gen­ naio-marzo 1987. 14 K. P0WER, C. SCHULZ-HOFFMANN, David Salle, catalogo, Ediciones El Viso, lmpresor Julio Soto, Madrid 1988. L'impostazione grafica di G. Delgado ne fa uno stupendo libro-oggelto. 1s S. SHEPARD, Motels Chronicles, tr. it., Feltrinelli, Milano 1986.

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