Op. cit., 76, gennaio 1990

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op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

Direttore: Redattori:

Segretaria di redazione: Redazione: Amministrazione:

Renato De Fusco

Roberta Amirante, Livio Sacchi, Sergio Villari Roberta Amirante

80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Te!. 7690783

80122 Napoli, Via Francesco Giordani, 32 - Te!. 684211

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Edizioni e Il centro • di Arturo Carola


R. DE Fusco

I venticinque anni della nostra rivista

F. IRACE

La critica architettonica: note per un dialogo

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G. CARNEVALE

Deformazioni ai margini

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L. SACCHI

La scena del design contemporaneo

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L. MOSCATO ESPOSITO

La scultura è noiosa?

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Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Giovanni Corbel­

lini, Ada D'Avino, Marina Montuori, Maria Luisa Scalvini, Maurizia Torza Conti.


La rivista si avvale del contributo economico dei seguenti Istituti ed Aziende: Alessi Alias Banco di Napoli Bulthaup Carnera di Commercio di Napoli Cassina Driade Falconio IC soft Promemoria Sabattini Zen Italiana



grafico, fosse dicibile. Tale scommessa non nasceva eviden­ temente dallo spirito del gioco, né solo dall'esigenza di di­ stinguerci in virtù della nostra autolimitazione. Com'è noto, è stato osservato che, nonostante l'invasione delle immagi­ ni, la nostra è più che mai una civiltà della scrittura. L'as­ sunto non va inteso alla lettera perché la comunicazione contemporanea è multimediale e privilegia quei media che sono meno «faticosi», tra i quali non è certo la scrittura. Questa è tuttavia alla base di ogni forma espressiva: come non si dà teatro senza testo, né cinema senza sceneggiatura, né persino pittura senza una previa concettualizzazione, così non si dà oggi un'architettura significativa fuori da un pro­ cesso logico, quindi fondato o, quanto meno, riconducibile ad una «scrittura•· Un'altra motivazione del nostro continuare a redigere una rivista tutta da leggere, dal formato in sedicesimo e del tipo di quelle « politica e cultura», non è la reazione alle altre dal più grande formato, illustrate e colorate, com'è giusto che sia per una documentazione delle arti visive, ma una reazione al loro uso. Negli studi professionali e nelle aule universitarie, con le dovute eccezioni, le riviste non si leggono, ma si guardano o si copiano o, peggio ancora, se ne fondano di nuove, come sembra d'obbligo dall'istituzione dei dipartimenti e dall'abbondanza dei fondi disponibili. No­ tiamo per inciso che, quanto al vizio di copiare, è questa la ragione, senza ricorrere a chissà quali motivi trascenden­ tali, che indusse Gropius a bandire l'insegnamento della sto­ ria; e in tal senso bisogna riconoscere che il tempo gli ha dato ragione. L'obiezione è immediata: se «Op. cit.» è una selezione della critica, perché sottolineare il fatto che essa è scritta e non illustrata? Non è forse quella della scrittura la forma più adatta al linguaggio critico? Una risposta l'abbiamo già data, _le altre sono ricavabili dalla natura e dal senso del nostro «far critica».

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Intanto, salvo l'imprudenza di qualche giovane redattore, non abbiamo in generale adottato criteri desunti da univoci sistemi filosofici, non siamo caduti nella trappola oscu-



zione di ogni tema e problema e persino da accenti di ter­ rorismo culturale, è stato quello della «riduzione». Una proposta teorica e pratica non nata casualmente ma dall'in­ contro delle esigenze del momento con le precedenti rifles­ sioni sull'architettura, il design, le arti nell'era della cul­ tura di massa e sul modo di vedere queste esperienze nel­ l'ottica semiotico-strutturale. L'intento propositivo della no­ stra critica ci ha portato finanche ad ipotizzare, coerente­ mente con gli altri argomenti trattati in precedenza, un nuovo prevedibile « ismo » architettonico, che consideriamo soprattutto come un tentativo di sbloccare il discorso sul­ l'architettura dalle secche del postmodernismo, senza fin­ gere di ignorarlo. Quanto al settore delle arti visive, oltre a registrare il rapido susseguirsi e consumarsi di tutte le tendenze pitto­ riche e plastiche sorte in questo quarto di secolo, abbiamo privilegiato l'arte concettuale; prima perché, a nostro avvi­ so, è stata la proposta più significativa della neoavanguar­ dia, poi perché risultava congeniale alle nostre posizioni, sia per le sue implicazioni linguistico-strutturali, sia per la sua vocazione di fondo, quella cioè che l'ha fatta definire un'arte della riduzione dell'oggetto al concetto. Nel campo del design, tra il trionfalismo nazionalistico, lo scherzo provocatorio, l'apologia del banale e del Kitsch - queste sono state le vie più battute dalla critica di set­ tore - abbiamo viceversa scandagliato tutti o quasi gli aspetti della sua fenomenologia fino a descriverne l'unita­ rio processo, distinto tuttavia nelle sue quattro componen­ ti: il progetto, la produzione, la vendita e il consumo. Beninteso, qui non s'intende fare l'elogio di « Op. cit. », elencare libri e saggi che hanno trovato nella rivista il loro spunto iniziale, né menzionare tutti gli apporti di studiosi esterni e di quelli che in essa si sono formati. Il giudizio sulla nostra attività lo lasciamo ovviamente agli altri, pur consapevoli che la fortuna critica non dipende tanto dalla validità quanto da diversi fattori: gli interessi professiona­ li, la politica architettonica, l'industria culturale, il mercato 8 d'arte, le logiche di produzione-consumo del design, ecc.


Due punti vogliamo tuttavia rivendicare: la nostra avver­ tita storicità nel registrare, e non passivamente, tutto quan­ to rientra nella storia della critica del periodo suddetto; la nostra coerenza pur operando su tante proposte: quanti critici sono pronti a sottoscrivere oggi assunti e giudizi da loro formulati in un arco di venticinque anni, specie quelli pronunciati nel '68 e dintorni? E concludiamo con un auspicio, quello per cui in futuro « Op. cit. », libera com'è da ogni interesse eteronomo, possa contribuire a che storici e critici non parlino più da soli, che comincino anche ad ascoltare e a citare le fonti italiane come quelle straniere, che soprattutto sviluppino il gusto della risposta, della replica, del dialogo al fine di ristabilire un autentico dibattito, oggi praticamente inesistente. R.D.F.

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gia, alla letteratura, al processi creativi, alle tangenze tra l'architettura e le altre arti o discipline e rivolgendosi esclu­ sivamente al dati strutturali di un progetto o di un'opera costruita, la\ critica realistica toglie di mezzo il linguaggio architettonico quando non ne premedita l'abbandono 1s. Che è come dire, secondo il noto motto, di far attenzione a non buttare il bambino insieme all'acqua sporca. O, più sofisti­ catamente, secondo l'obiezione di Barthes, che la specificità della letteratura non può essere postulata che all'interno di una teoria generale dei segni: per avere il diritto di difen­ dere una lettura immanente dell'opera, occorre sapere che cosa sia la logica, la storia, la psicoanalisi; in breve, per restituire l'opera alla letteratura bisogna precisamente uscir• ne e far ricorso a una cultura antropologica 16• Pericolosa­

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mente contigue a un minimalista «codice della lettera», la « descrizione critica» e la critica come «sceneggiatura» pos­ sono essere discusse come esasperate grida d'accusa alle insufficienze e alla degradazione di certi modelli d'analisi purtroppo correnti. Appaiono però diversamente discutibili quando le si voglia con analoga efficacia estese dal terreno della denuncia a quello della proposizione normativa: senza la critica, come opportunamente ricorda Purini, l'architet­ tura non esisterebbe. Si limiterebbero ad esistere architet­ ture, oggetti solitari privati di quel tessuto di reciproche appartenenze e di rimandi a categorie generali che non solo Il unifica ma ne detennina l'esistenza come entità concet­ tuali. Si• rivelano funzionali all'istituzione di questo territo­ rio dell'architettura ... quelle note duplicità della critica che chiamerei volentieri ambiguità costituzionali se questo con­ cetto non fosse sin troppo consumato. La critica accetta la propria dissociazione rivolgendosi all'esterno della disciplina e facendosi propaganda, divulgazione, mediazione. Astrazione e realismo, insomma, si precisano come si­ multanei poli del pendolarismo critico, di quel movimento di andata e ritorno verso il proprio oggetto che la critica si propone di mediare rispetto alla ricezione del pubblico e di collocare in relazione ad altre istanze del sapere. La mediazione che la critica tradizionalmente si assume nel



merito alla metodica della storiografia architettonica, ha sot­ tolineato il carattere strumentale e «finzionistico» di ogni categorizzazione critica, sottraendola all'ipoteca di indebite ipostatizzazioni ontologiche. È il caso di Renato De Fusco che, ancora recentemente nell'esporre i risultati di una este­ sa ricerca di campo, ha riproposto quella nozione weberiana di «tipo-ideale» che meglio si avvicina alla sopradescritta condizione dell'artificio storiografico: che cosa meglio di que­ st'ultimo, argomenta infatti De Fusco, tenta di fornire un mezzo per rappresentare una realtà eterogenea e confusa come la nostra senza ricorrere a «fondamenti», ma ponen­ do in luce aspetti più o meno evidenti della realtà stessa al fine di una sua interpret�one? Quale concezione diversa. dal tipo ideale è cosl disponibile a rivedere il suo schema quando questo si rivela superato dal fatti e pronta a ripro­ durne un altro più adatto alla loro lettura? In altre parole, il tipo-ideale grazie alla sua natura ipotetica e «finzionisti­ ca», costituisce forse l'unica guida per poterci regolare, ben­ ché in maniera provvisoria, in un universo estremamente sregolato 19; Per parte nostra, poi, non ci sembrerà disdicevole né at­ tardato riconoscersi in quella celebre, quanto forse sottova­ lutata, risposta da Baudelaire formulata - sulla metà del secolo passato - a fronte dell'interrogativo « a che serve la critica?»: credo che in coscienza la migliore critica sia quella che riesce dilettosa ,e poetica; non una critica fredda ed algebrica, che, col pretesto di tutto spiegare, non sente né odio né amore, e si spoglia deliberatamente di ogni trac­ cia di temperamento ( ... ). Perché sia giusta, cioè perché ab­ bia la sua ragion d'essere, la critica deve essere parziale, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ina tale da aprire il più ampio degli orizzonti 20• Ci sembra che ne discenda con conseguenza il radicale ridimensiona­ mento di quel ricorrente e pernicioso mito dell'oggettività che funesta, con le sue accuse di arbitrarietà, statuto e ruolo della funzione critica. Se, infatti, come è stato notato, in definitiva il critico è un individuo che legge ed osserva, ln20 terpreta e scrive, e, di conseguenza, non può non ricondurre



ciato da Vattimo. Scartata la pretesa di voler per tale via denunciare l'inaffidabilità tout court della critica a petto della storia, va riconosciuto a queste indagini il merito di sottolineare il carattere provvisorio e narratologico di ogni ricostruzione epocale: e questo non in funzione di uno scet­ ticismo totalmente relativistico; ma a favore di una disponi• billtà meno ideologica all'esperienza del mondo, il quale più che l'oggetto di saperi tendenzialmente ( ma sempre solo tendenzialmente) «oggettivi», è il luogo della produzione di sistemi simbolici, che si distinguono dai miti proprio in quanto sono « storici • - e cioè narrazioni che prendono criticamente le distanze; si sanno collocate in sistemi di coordinate, si sanno e si presentano esplicitamente come «divenute», non pretendono mai di essere «natura» 23• Il che può significare riconoscere che, se è vero che è impos­ sibile accostarsi ad un'architettura al di fuori del quadro della sua fortuna critica, della concrezione esegetica che ne condiziona sia l'assenso che il rifiuto, liquidare la critica in funzione di una veridicità dell'opera equivale appunto alla pretesa di ridurre lo stato di cultura a quello mitico e in­ formulabile dello stato di natura.

I M. TAFURI, Teorie e storia dell'architettura, Laterza, Bari 1968. Gli interventi ospitati sono, in ordine cronologico: M. DE GroRGI, Storici come pubblicitari, storici come sceneggiatori (n. 541. 1987); L. BENEVOLO, Le due tradizioni dell'arcltitettura contemporanea (n. 544); V. GREGOITI, Descrizione e I. DE Sou-MoRALES, Sadomasochismo, ovvero, la critica e la pratica architettonica (n. 545); F. PuRINI, Il momento critico (n. 546); W. SZAMBIEN, Incerte frontiere tra storia e critica del­ l'arcllitettura (n. 547) e K. MICHEL HAYS, Oggetti, testi e testi-oggetto: sulla recente svolta verso la testualità (n. 549). J R. BARTHES, Critica e verità (1966), trad. it. Einaudi, Torino 1969. 4 M. CORTI, La milizia del critico, in «L'Indice• n. 7, 1989. s G. DoRFLES, 1:. ancora possibile un giudizio assiologico?, in Teoria e pratiche della critica d'arte, Atti del convegno di Montecatini, mag­ gio 1978, a cura di E. Muccx e P. L. TAZZI, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 11 e ss. 6 F. JAMESON, Il Post Moderno o la logica culturale del tardo capitalismo, trad. it. Garzanti, Milano 1989. 7 F. MENNA, Editoriale, in e Figure• n. 1, 1982. s Cfr. Intervista con Manfredo Tafuri, in « Domus • n. 653, 1984. 9 V. GREGOTTI, Descrizione, cit. 10 F. MENNA, Critica della critica, Feltrinelli, Milano 1980, p. 30. 2

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11 V. GREGOTTI, op. cii. 12 M. Dll GIORGI, op. cii. 13 Cit. in C. GARBOLI, Longhi lettore, in L'arte di scrivere sull'arte, a cura di G. PREVITALI, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 111. 14 Ibidem. 15 F. PURINI, op. cii. 16 R. BARTHES, op. cit., p. 33. 17 G. VATTIMO, L'ermeneutica filosofica e la critica sulla produtti• vità della distanza, in « Figure» n. 1, cit. . 1s Ad esempio, F. MllNNA, Critica della critica, cit., pp. 88 e ss. e A. TRIMARCO, Itinerari freudiani. Sulla critica e la storiografia dell'arte, Officina, Roma 1979 e Sulla critica interminabile, in « La rivista•• Lerici,

n. 11, 1980. 19 R. DE Fusco, Storia ma-Bari 1988, p. 455.

dell'architettura contemporanea,

Laterza, Ra.

20 A c/1e serve la critica?, in CHARLES BAUDEUIRE, Scritti Einaudi, Torino 1981, p. 57. 21 F. MENNA, Lo statuto della critica, in Teoria e pratiche tica d'arte, cit., p. 117. 22 G. VATTIMO, L'ermeneutica filosofica... , cit. ll G. VATTIMO, La società trasparente, cit., p.

sull'arte, della cri•

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Deformazioni ai margini GIANCARLO CARNEVALE

Questioni di gusto Carlo Emilio Gadda, ne La cognizione del dolore, descris­ se, con puntiglioso sarcasmo, le aberrazioni del gusto rap­ presentate nella vasta e diversificata produzione di ville, di villule, di villoni ripieni, di villette isolate, di ville doppie, di case villerecce, di ville rustiche, di rustici delle ville con le quali gli architetti pastru.faziani avevano ingioiellato, poco a poco, tutti i vaghissimi e placidi colli delle pendici prean­ dine. Questa Pastrufazio è, in Gadda, un'immaginaria loca­ lità del Sud America, ma è anche un « luogo della memo­ ria», come si dice, forse l'Argentina da lui vissuta, o la sua Brianza, dove già allora, durante i primi anni Sessanta, si affollavano architetture che si insignivano di cupolette e pinnacoli vari, di tipo russo o quasi, un po' come dei rapa­ nelli o cipolle capovolti, o anche col tetto tutto gronde e le gronde tutte punte, a triangolacci settentrionali e glaciali ... e così via, in un vertiginoso elenco di deliri eclettici de­ scritti con verve indignata. L'« ingegnere» annota anche, for­ se consentendosi il gusto di una polemica « di parte », che tutto, tutto! era passato pel capo degli architetti pastru.fa­ ziani, salvo forse i connotati del Buon Gusto! Mi permetto di raccomandare . la rilettura, oggi, di quelle pagine 1 che rappresentano, a mio avviso, un contributo critico premoni­ tore, un segnale che, come accade talvolta, la letteratura invia agli addetti ai lavori. 24 Abbiamo smesso di parlare del Gusto, si tratta di un



impegno intellettuale. Pure sappiamo che è possibile unifi­ care, semplificare le variegature presenti sul campo. Esi­ stono dei punti di vista comuni, una consapevolezza, non espressa, di appartenenza ad una medesima condizione. Sia• mo partecipi, nonostante il litigioso appigliarsi alle diffe­ renze, di un medesimo destino storico. Scrive a riguardo Philippe Ariès: Ma che cos'è l'inconscio collettivo? Sarebbe forse meglio dire il non-cosciente collettivo. Collettivo: co­ mune a tutta una società In un dato momento. Non.co­ sciente: non percepito o scarsamente percepito dai contem­ poranei In quanto spontaneo, facente parte dei dati immu­ tabili della natura, delle idee ricevute e delle idee che sono nell'aria, luoghi comuni, norme di convenienza e di morale, conformismi o proibizioni, espressioni ammesse, imposte o escluse dai sentimenti e dai fantasmi. Gli storici parlano di « struttura mentale», di « visione del mondo» per indi­ care le componenti coerenti e rigorose di una totalità psi• chica che si impone ai contemporanei senza che lo sap• piano 4. Ho ritenuto utile inserire questa citazione perché mi pare che un tale punto di vista, almeno in questa fase storica, non appartenga alla nostra cultura. Siamo portati a « so­ pravvalutare le differenze», ad indagare sul frammento; si tratta di atteggiamenti critici innovativi, che ci stanno con­ ducendo a nuove acquisizioni, ma· che ci allontanano da una visione sincronica. Anche nella osservazione particolare è possibile riscontrare delle relazioni più ampie, dei collega­ menti che riconducono ad unitarietà fenomeni apparente• mente slegati. Credo che considerare con maggiore atten• zione la totalità delle manifestazioni inerenti all'architettu­ ra, cercare di analizzare anche quelle realizzazioni marginali o emarginate, le devianze, « l'architettura spazzatura», po­ trebbe portarci al riconoscimento di comuni « strutture mentali». Non mi sembra che, in architettura, ci siano state delle riflessioni in tal_ senso, negli ultimi quindici anni. Piuttosto delle attenzioni verso analisi « microstoriche», o nuove con• siderazioni sui rapporti con la cultura materiale, ma, per 26



getto, piuttosto che verso le logiche « materiali» dell'archi­ tettura. Dall'altro lato, il gusto popolare, per così dire, abbando­ nato a se stesso, ricerca dei modelli che possano soddisfare il « bisogno di bello» che continuamente accompagna ogni realizzazione architettonica. Scarsa e sporadica attenzione è rivolta ai segnali, pur molto espliciti, che ci vengono ma­ nifestati dalle architetture « popolari ». Definirei cosl quelle costruzioni che rappresentano il gusto corrente, realizzate direttamente dalla committenza, con scarsa mediazione; o anche tutte quelle produzioni che vedono il ruolo del tec­ nico limitato alla traduzione dei modelli indicati dalla pro­ prietà, oltre, naturalmente a considerare come tali tutti i fenomeni di autocostruzione, di edilizia spontanea, di abu­ sivismo. Una « storia» di queste manifestazioni dell'archi­ tettura contemporanea, non è mai stata scritta. Eppure si tratta della storia della stragrande maggioranza del costruito in Italia 7• Naturalmente non intendo dire che il fenomeno non sia stato indagato, sostengo solo che l'attenzione por­ tata è apparsa preoccupata di definire le ragioni strutturali, le mutate condizioni economiche, lo stravolgimento degli strumenti urbanistici, l'indifferenza all'ambiente ed alle pro­ blematiche ecologiche, liquidando· con sdegnate e frettolose sortite moralistiche l'aspetto « figurativo ». Quando l'interesse della critica disciplinare si è rivolto all'architettura popolare, lo ha fatto considerando le forme tradizionali, l'architettura rurale, l'« architettura senza ar­ chitetti », i « sassi» di Matera, le tipologie contadine'· Quello di cui lamento la mancanza è l'impegno ad osser­ vare la deteriore volgarità contemporanea. Esistono studi sofisticatissimi che tendono ad individuare i bisogni di una società attraverso l'osservazione dei rifiuti prodotti. Mi sem­ bra un modello interessante cui far · riferimento. Credo che queste due tendenze, il vertiginoso evolversi e moltiplicarsi dei linguaggi « alti » e il degradato imbarbari­ mento di quelli « bassi », più che individuare una divarica­ zione, una forbice, segnali, al di là dell'evidente allontana28 mento, una segreta convergenza.



corate ai principi elementari del costruire, al rispetto degli spessori, degli accostamenti dei materiali, ai sistemi di pro­ tezione dei manufatti, alla coerenza tra le parti. Questo ci appare come un elemento comune: lo smarri­ mento dei primi referenti, dei fondamenti tettonici, ed il prevalere, in contrapposizione, di una caratterizzazione osti­ nata, anche caricaturale: una puntigliosa elencazione di pre­ rogative formali, una ipertrofia della « figura». Potremmo esercitarci a riconoscere ed elencare tutte le alterazioni e le forzature che sono apparse nelle architet­ ture d'autore: le deformazioni, le anamorfosi, le miniatu­ rizzazioni, i fuori scala, le citazioni straniate. Da Plecnik a Venturi i repertori figurativi si sono andati arricchendo di accezioni esasperate, caricaturali. Insisto col sottolineare che non vi è alcuna riserva critica a priori, per gli esiti for­ mali raggiunti, al contrario. Ancora più semplice, anche se più ingrato, è il compito di riconoscere nelle sembianze deformi di quella che defi­ nivo prima come « architettura popolare», la fitta casistica delle alterazioni del gusto. Segnalerei, come elemento comune a molti di questi stra­ volgimenti, su entrambi i versanti, un dato nuovo: il non rispetto delle logiche materiali. Anche in passato, in quelle fasi di transizione «manieristiche», i repertori formali « classici» venivano scomposti secondo criteri spregiudica­ ti, con forzature ed accentuazioni di vario genere, ma il gu­ sto per la trasgressione non faceva velo alla « correttezza costruttiva». Dimenticanze

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Ho la convinzione che in quasi tutte queste manifesta­ zioni la preoccupazione di rispettare i comportamenti dei materiali, le tecniche di esecuzione, i tempi di cantiere, le gerarchie dei costi, sia estremamente ridotta. Parlerei aper­ tamente di indifferenza, se non di cinismo, per le « ragioni della forma». Mi sembra di poter affermare che se il distanziarsi dalle



petenze chiamate ad indagare ed interpretare quei sintomi di un malessere tanto evidente, ma potrebbe esserci utile farcene carico. Intravedo infatti alcuni elementi di segno positivo, indizi che, con coincidenze non prive di senso, vanno concentrandosi proprio dove la nostra cultura appare meno adeguata a fornire risposte. Dietro la maschera

Trovo che, per quanto riguarda la casa monofamiliare, ad esempio, si possa delineare, sia pure attraverso l'affol­ larsi contraddittorio di simboli ambigui, un desiderio di so­ lidità, di convenzionalità tradizionale, di decoro, di chiu­ sura e di protezione. Si tratta di elementi verso i quali le architetture contemporanee non appaiono particolarmente sensibili, anzi. Ma sono soltanto osservazioni superficiali. Proviamo ad insistere in queste notazioni: non sembra af­ fiorare da più parti un'indicazione, non determinata con precisione, di tumultuoso vitalismo, di vivacità, di masche­ ramento? E, nel contempo, si va definendo una semplicità di impianto, un'elementarità, anche se spesso casuale, pla­ nimetrica; così come il ricorso a materiali «antichi», il riapparire del rivestimento, la ricerca di un lusso allusivo. Il rifiuto del «rigoroso», dell'«essenziale» sembrano smen­ tire alcuni tra i più fortunati atteggiamenti della cultura «ufficiale» di questi ultimi anni. Probabilmente si tratta di indicazioni frettolose, non rie­ sco ad andare oltre in assenza di studi sistematici su que­ . sti temi. Proverei però ad indicare una definizione che mi sembra utilizzabile per includere sia gli « eccessi » legati alla produzione popolare, sia le sperimentazioni più colte. Proverei .ad indicare questo complesso di manifestazioni _ come espressioni di un'architettura grottesca, utilizzando una connotazione che, pur avendo origine dal lessico disci­ plinare, ha acquisito valenze letterarie nel tempo. Prende­ rei le mosse da un testo di critica letteraria, L'opera di Rabelais e la cultura popolare, di Michail Bachtin: In realtà 32 il grottesco, [ ... ] rivela la possibilità di un mondo compie-



P. NORA (a cura cli), Fare storia, Einaudi, Torino 1981, p. 244. Titolo originale: Faire de l'histoire, Gallimard, Paris 1974. 3 In J. LE GoFF (a cura di). La nuova storia, Mondadori, Milano 19873, p. 36. Titolo originale: La nouvelle histoire, RETZ-CEPL, Paris

1979.

4 P. AR11ls, Storia delle mentalità, in J. LE GoFF (a cura di), cit., p. 166. s L. F'EnvRE, La sensibilità e la storia, in F. BRAUDEL (a cura di), Pro­ blemi di metodo storico. Antologia delle "Annales», Laterza, Bari 1982, p. 28. 6 Mi sono, negli ultimi anni, già occupato di questi temi nei seguenti scritti: L'architettura perde per distacco, " Confronto » n. 3, 1984; Il grottesco prossimo venturo, in M. CANESTRARI (a cura di), Architettura e forma urbana, Fratelli Fiorentino Editori, Napoli 1984; Architettura grottesca: una non evitabile opportunità, in M. M0NTU0RI (a cura di), Studi in onore di Giuseppe Samonà, vol. I, tomo I, Officina Edizioni, Roma 1988. 7 M. TAFURI riportava, a pag. 123 della sua Storia dell'architettura italiana 1944-1985, Einaudi, Torino 1986 (19821), che i metri cubi realiz­ zati da architetti, al 1974, erano meno del 3% del totale, e non credo che tale percentuale possa essersi di molto migliorata. a Mi riferisco ai molti studi sull'architettura spontanea in genere. Da quello fondamentale cli G. PAGANO e G. DANIEL, Architettura rurale italiana, Hoepli editore, Milano 1936, al testo di A. MusACCHIO, La cul­ tura e gli oggetti, Mazzetta, Milano 1980. Ma la bibliografia disponibile è vastissima. 9 M. BACHTIN, L'opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 1979. Tutte le citazioni riportate sono tratte dalla Introduzione dell'autore.

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peti circolari s1 ispirano alla geografia ed alle immagini scattate dai satelliti artificiali. Un selvaggio avanguardismo segna poi la scena inglese. Un'ansia di frammentazione e di disintegrazione della realtà costituisce la cifra esponente di lavori che tendono spesso a- porsi come vere e proprie opere d'arte. Si pensi alle se• die di Ron Arad, o al lavoro del gruppo NATO, Narrative Architecture Today, di cui fanno parte personaggi di for­ mazione anche molto diversa, tutti più o meno gravitanti attorno all'Architectural Association di Londra e oggi molto attivi proprio come designers. Si tratta di un'azione, quella di NATO, tesa a distruggere ogni preordinata volontà compo­ sitiva. NATO si interroga sull'artificialità di città inflessi• bilmente pianificate, di manufatti prodotti per le masse, su tutti quegli aspetti disumanizzati della vita in un mondo fabbricato dall'uomo. I rifiuti, i residui delle società indu­ striali sono cosl visti come un potente antidoto al design !per-razionale di città e oggetti 1• Molto fotogenici sono pure i grandi divani e gli scultorei tavoli frutto della scatenata creatività di Zaha Hadid, ameboidi galleggianti e semoventi, in• cui si fondono in maniera nuova e imprevista influssi De Stijl e costruttivisti con il gusto streamlined americano degli anni Trenta. Come in Inghilterra, anche in Francia le ultime novità sembrano segnate da un deciso radicalismo: è il caso, per esempio, delle zoomorfi.che sedie di Philippe Starck, di pro­ duzione giapponese ma anche italiana (Driade); o dei mo­ bili di Jean Nouvel, architetto, in cui coesistono tentazioni aeronautiche con ambigui simbolisnù di gusto teatrale. Straordinaria si presenta poi la collezione di mobili dise­ gnata da Olivier Gagnère per la Galerie Maeght di Parigi, che fa seguito, con intenzioni ancor più dichiaratamente artistiche, a quella presentata da Memphis nell'87. La Germania, più di ogni altro paese, sembra invece im­ mutabilmente e orgogliosamente legata alla tradizione del moderno. Si pensi, ad esempio, che nell'introduzione all'In­ ternational Design Yearbook 1988/89, curato quest'anno da 36 Arata lsozaki, è riportato che la società tedesca Tecta,



quali Ettore Sottsass, Hans Hollein, Michael Graves; o a quella realizzata da Alessi con Robert Venturi e Aldo Rossi. Commercialmente connotata è anche l'incursione di una star della moda nel campo del design: pensiamo a Giorgio Ar­ mani ed al suo costoso telefono luminoso, prodotto da ltal­ tel ( operazione peraltro parallela a quella di Rei Kawaku­ bo, la donna che sta dietro all'impero giapponese della moda di « Comme des Garçons », da due anni attiva anche come designer di mobili). Prevedibile risonanza avrà pure la linea d'arredamento proposta - al momento non ancora realizzata - alla B & B Italia da Francesco Dal Co, con la collaborazione di alcuni fra i migliori architetti italiani: si tratta di· Aymonino, Canella, Cellini, Cantafora, De Feo, Ferlenga, Gabetti e Isola, Gardella, Gregotti, Natalini, Por­ toghesi e Purini. Fra questi fortemente sbilanciato nell'area della decostruzione ci sembra, in particolare, il felice pro­ getto per una sedia di Franco Purini, tra i pochi oggi in Ita­ lia a mostrarsi attento al dialogo con ciò che monopolizza ormai da qualche anno l'interesse critico della scena inter­ nazionale. Anche in questo caso ci sembra valga la pena sottolineare come la progettualità nell'area dell'industriai de­ sign sembri meno penalizzata dai talvolta impositivi filtri censori della critica architettonica, consentendo una dimen­ sione creativa più libera e accattivante. Anche il Giappone offre un panorama complessivamente molto stimolante, diviso fra la pur originale frequentazione di- modelli condivisi con gli europei e gli americani - è il caso di designers notevolmente sofisticati, come Toshiyuki Kita - e una caratteristica capacità innovativa che con­ sente l'esplorazione di possibilità estreme, ai confini del buon gusto corrente. e il caso di Shiro Kuramata, che la­ vora sull'uso fecondante della luce. Su pezzi storici, si veda la poltrona disegnata da Josef Hoffmann nel 1911 per la casa Koller, dove i tradizionali chiodi da tappezzeria sono sostituiti da piccole luci lampeggianti telecomandate -· l'ef­ fetto che ne deriva va al di là della semplice trovata, ne smaterializza il volume e conferisce luminosità e magica 38 leggerezza all'oggetto. Ma anche su pezzi totalmente nuovi:



del riesame dei periodi meno noti ed esplorati della pro­ pria vicenda, privo forse di quella na"iveté che ne aveva se­ gnato gli anni eroici, molto più consapevole, molto più vi­ cino ad una prassi creativa tipicamente manierista. Di qui forse anche la recente sensazione di ironia, di esuberanza, che è dato di trovare in molti prodotti americani contem­ poranei in misura maggiore di quanto avviene in Europa, magari a scapito dell'eleganza formale degli stessi. Fra i molti designers che meriterebbero di esser menzionati vor­ remmo almeno ricordare il lavoro di una serie di architetti famosi: Frank Gehry, con le sue ormai celebri poltrone in cartone pressato - un materiale « povero » per un oggetto «ricco»; John Hejduk, con un letto che riprende il fanta­ sioso skyline dei suoi schizzi di città; Richard Meier, che controlla oggetti piccolissimi, come scatole, cornici, acces­ sori da tavola in silver plate; il più giovane Steven Holl, autore di sofisticati mobili. Non è evidentemente possibile esaurire, nel breve spa­ zio a disposizione, una rassegna che meriterebbe ben altro approfondimento. Né questo è, in fondo, il nostro scopo. Vorremmo però riassumere le conclusioni tratte da Isozaki nel già citato lnternational Design Yearbook 6• Le fortune linguistiche del design contemporaneo vengono da lui gra­ ficizzate su due assi cartesiani alla cui origine sta la no­ zione - apparentemente in via di estinzione - di minima­ lismo. Sull'asse delle ascisse si sviluppa la famiglia lingui• stica orientata sull'uso della storia, che oscilla cioè fra la simulazione di un passato spesso indulgente verso il ver• nacolare e la volontà retrospettiva - non immune da una dichiarata nostalgia - di chi riprende determinati periodi storici. Sull'asse delle ordinate si sviluppano invece i lin­ guaggi della moderni.tà, che vanno dalla ripresa del moder­ nismo attraverso una sua distaccata rivisitazione - ovvero il riuso della Cl)nsueta imagerie macltiniste - ai più recent; e aggressivi tentativi che, con palesi pretese di artisticità, declinano le contemporanee oscillazioni del gusto figurativo, fra ridondanze neo-espre�sioniste - talvolta affiancate �a catastrofismi apocalittici - e trasgressioni decostruttiviste, 40



segnano il dibattito contemporaneo si identifica poi in quella che è stata chiamata la« sindrome Jaguar/BMW » 9• Si tratta della tensione fra il fascino di una tecnologia sof t che si accompagna ad una elevata qualità artigianale nelle finiture e nei dettagli - è il caso della Jaguar - cui sono partico­ larmente sensibili, per restare in ambito automobilistico, quei clienti che non necessariamente amano sentirsi al vo­ lante di un'astronave, e quello, di segno opposto, tutto orien­ tato verso scelte high-tech, che punta quindi sulla massima efficienza e su di un'estetica che è in fondo l'erede delle scuole. storiche di design in Germania - ed è il caso, ov­ viamente, delle BMW. Si tratta in realtà di un esempio che chiarisce l'odierna ambivalenza nei confronti della tecnolo­ gia. Positivamente connotata in maniera acritica e apriori­ stica per molti designers, soprattutto per quelli più legati alla temperie culturale della modernità; spesso accolta cri­ ticamente, se non con notevoli riserve, da chi comincia a diffidare delle sue apparentemente infinite possibilità di cre­ scita. Non è chi non veda come su questo tema sia in gioco l'intero rapporto dell'uomo con la storia, con il passato. Il passato gioca un ruolo importante nella determina­ zione del valore di un oggetto, funziona anzi come un pre­ ciso indicatore dello status del suo possessore. Tutti sono interessati al passato e alle sue implicazioni economiche, culturali, ecc. Soltanto l'operaio o il contadino non amano il passato, osserva J ean Baudrillard. Questo perché non han­ no né la voglia né i soldi per indulgervi, ma anche perché essi non partecipano a quel processo di « acquisizione cultu• rale » che influenza le altre classi ( non che lo respingano consapevolmente, semplicemente non ne sono toccati). Co­ munque essi non amano nemmeno lo « sperimentalismo » moderno, né l'avanguardia 10. · Ma, più di ogni altro, il problema fondamentale che sem­ bra oggi profilarsi è la crescente perdita di valore dell'og­ getto, in un'età in cui le cose saranno inevitabilmente meno importanti delle idee e dei processi culturali. Si tratta, co­ me si vede, di qualcosa con cui dovrà fare certo i conti 42 l'architettura - e che ha un significativo precedente nel-



le sue proprie basi. La sua attività tecno-logica ( « prepensa• ta •?) lo rende, come s'è detto, il luogo dell'intelligenza ar­ tificiale 12• Alla neutra ed indistinguibile esistenza del mi­ croprocessore subentra l'acquisizione di una precisa indivi­ dualità con il caricamento del soft.vare. Lo stesso termine software implica e contiene alcune delle qualità esponenti del nostro tempo, con l'affermazione di ciò che è elastico su ciò che è rigido, di ciò che è automatico su ciò che è meccanico, di ciò che è adattabile su ciò che non lo è. Nel breve volgere di pochi anni si è passati dall'età dell'hard­ ware (1965-75). all'età del software (1975-85). Oggi le mag­ giori società giapponesi che operano nel settore delle alte tecnologie parlano invece sempre più insistentemente .di « età dell'uomo» per descrivere la crescente importanza as­ sunta dai bisogni personali della gente nella determinazione dell'andamento dei processi di progettazione produttiva. Co­ m'è stato rilevato, esse stanno sviluppando sofisticate ana­ lisi di un futuro sempre più consapevole dell'importanza del fruitori; un periodo in cui l'avanzamento tecnologico si sta assestando più che evolvendo... Ci si concentra soprat­ tutto sulla possibilità di immettere nel prodotto lo stile di vita del consumatore, rendendo le tecnologie più intelligen­ ti, più flessibili nei confronti di consumatori con « back­ grounds ,. culturali diversi, e considerando più in generale il contesto sociale dei prodotti 13• Può bastare? Sappiamo bene che qualsiasi processo analitico-razionale nasce in ma­ niera rozza e approssimativa e tende poi gradualmente a raffinarsi. L'obiettivo ·è dunque, ancora una volta, l'uomo. Un nuovo sofisticatissimo software sarà sufficiente ad inte­ grare le odierne componenti tecnico-razionaliste, potrà ba­ stare il pur sempre nuovo apporto creativo della fantasia degli artisti? Cosa c'è dunque di nuovo all'orizzonte del de­ sign? Fu Harold Rosenberg a scrivere, quasi trent'anni fa: La famosa rottura con la tradizione è durata tanto a lungo da aver dato origine ad una tradizione sua propria 14•

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I J. TACKARA, Introduction, in New British · Design, Thames & Hud· son, London 1986, p. 13.


2 N. NIESEWAND, Introduction, in The lnternational Design Year­ a cura di A. IsoZAKI, Thames & Hudson, London 1988, p. 9. 3 M. e K. McCoY, Design in the information age, in New American Design, cit., p. 12. 4 Ivi, p. 13. 5 Cfr. M. e K. McCoY, op. cit. 6 Cfr. A. IsoZAKI, The current state o/ design, in The international Design Yearbook, cit., p. 10. 7 J. TACKARA, Beyond the object in design, in Design after moder• nism, a cura di J. TACKARA, Thamcs & Hudson, London 1988, p. 11. 8 J. TACKARA, lntroduction, in New British design, cit., p. 11. 9 Cfr. ivi, p. 10. 10 J. BAUDRILL'\RD, The system of objects, in Design after modernism, cit. p. 180. 11 T. CHAPUT, From Socrates to Intel: the chaos of micro-aesthetics, in Design after modernism, cit., p. 185. book,

12 Ibidem. 13 T. MITCHELL, The produci as illusion,

cit., p. 209. p. 1

14

H. RosENDERG,

in

Design after modernism,

La tradizione del nuovo,

Feltrinelli, Milano 1964,

45


La scultura

noiosa? LILIANA MOSCATO ESPOSITO

Quale mente che non sia •inalata può concepire senza orrore una pittura in rilievo, una scultura manovrata dalla meccanica, un'ode senza rime, un romanzo in versi, ecc.?

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1

Con queste parole - che, sorprendentemente, sono di Bau• delaire - il padre della letteratura contemporanea si dimo­ stra cattivo profeta; dovremo dunque credergli quando af­ ferma che « La scultura è noiosa,. 2? La scultura, senza dub­ bio, nonostante il risveglio d'interesse conosciuto in questi ultimi anni, è sembrata rimanere per un lungo periodo in secondo piano rispetto alle altre arti: l'effervescenza e la tensione creativa, gli appassionati dibattiti teorici, le violente polemiche e la fortuna critica che hanno caratterizzato la pittura e l'architettura, non l'hanno toccata che in parte. Ora mille motivi pratici possono spiegare il fenomeno, come la mancanza di una stablle committenza pubblica che offra un punto di riferimento sicuro; la conseguente difficoltà di reperire quell'ampiezza di spazi che l'ingombro e il peso delle sculture richiederebbero; il costo elevato dei materiali e cosl via. Tuttavia tali motivi di ordine pratico non sem­ brano sufficienti a dar conto del minor interesse critico di solito riservato alla scultura, la cui importanza risulta pe­ raltro intuitivamente evidente ove si pensi ai capolavori pro­ dotti ed al suo valore di testimonianza storica, specie in rap­ porto a quei periodi e civiltà di cui le opere scultoree, per la solidità e non deperibilità loro proprie, costituiscono l'unico documento rimastoci. A nostro avviso il minor interesse teorico trova piuttosto spiegazione nella difficoltà di



gio e di un metamessaggio, o scambio di informazioni sul messaggio, posti a tre diversi livelli logici. Nella pittura que­ ste tre categorie sono presenti come sfondo, figura e linea di contorno la cui interazione genera una relazione esterno/in­ terno. Più in particolare: la linea di contorno non appartiene né allo sfondo né alla figura, ma genera la differenza tra questi due elementi, differenza che può essere tradotta in una informazione del tipo: « Ciò che è al mio interno è la figura»; « Ciò che è al mio esterno è lo sfondo». Tale informazione, nel porre la relazione di diversità tra ciò che è interno e ciò che è esterno alla linea di con­ torno, definisce la specifica strutturazione di ogni processo comunicativo grafico-pittorico. Questa stessa relazione ester­ no/interno si trova poi reduplicata lì dove viene fornita un'ulteriore informazione sulla differenza tra opera e spazio circostante e cioè nell'inquadratura che segna il limite tra il livello logico della realtà ed il livello logico della rappre­ sentazione. � .da notare a questo proposito come ciò che contraddistingue i disegni dei bambini e dei primitivi da forme mature di rappresentazione è la mancanza, nel primo caso, dell'inquadratura: questa, nel segnare una differenza esterno/interno tra realtà e rappresentazione, struttura, allo stesso tempo, le parti interne di un'opera come un sistema, come qualcosa cioè di diverso da un aggregato o una somma di parti. Il rapporto tra le parti interne di un'opera e la conseguente possibilità di un « racconto » sono perciò ge­ nerati, o resi possibili, dall'esistenza dell'inquadratura che, per usare un'analogia non del tutto adeguata, ha una fun­ zione simile a quella del verbo nella frase: come infatti le parole in tanto costituiscono una frase in quanto vengono connesse ad un verbo, analogamente le figure e le relazioni sfondo/figura costituiscono un « racconto visivo» o, per me­ glio dire, un processo comunicativo pienamente strutturato, solo in presenza dell'inquadratura. Quando si passa dal campo della pittura a quello dell'architettura, la differenza esterno/interno assume un significato diverso: l'esistenza della dimensione della profondità, infatti, fa sì che tale rap48 porto vada inteso non più in relazione ad una superficie



lora come la linea evolutiva che, a partire dal '400, conduce sia la scultura che la pittura verso forme di autonomia, assuma nelle due arti aspetti diversi. Per· la pittura l'auto­ nomia diventa contemporaneamente autonomia dal contesto esterno e autonomia di discorso, cioè possibilità di com• pletezza del processo comunicativo; per la scultura, invece, l'autonomia dell'opera dal contesto esterno finisce col ri­ velarsi inversamente proporzionale alla possibilità di pie­ nezza comunicativa, come emergerà dall'esame delle diverse tipologie di scultura 6• Le tipologie della scultura tradizionale, stiacciato, basso­ rilievo, altorilievo e tutto tondo, trovano completa espres• sione nel '400 da cui, come si è detto, prendiamo le mosse. Lo stiacciato, come è stato notato 7, le cui modalità fu. rono riscoperte o inventate da Donat�llo, presenta un tratto lineare a carattere disegnativo che genera la possibilità di prospettiva e di veduta frontale, inoltre la possibilità di un racconto plastico con un tema a più personaggi ed infine la presenza interna all'opera di uno sfondo con rappresen· tazioni di scene naturali o architettoniche. In termini co· municativi esso presenta uno sfondo/contesto, delle figure/ messaggio e le linee di contorno costituite dal tratto dise­ gnativo/metamessaggio; tale livello metacomunicativo è poi reduplicato nell'inquadratura che segna il limite, dunque la differenza, tra l'opera ed il sistema, presumibilmente archi·

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tettonico, in cui l'opera stessa è inserita: sono pertanto presenti tutti gli elementi necessari al processo comunica­ tivo non diversamente da quanto avviene per la pittura. Bassorilievo e altorilievo, rispetto alla precedente tipolo­ gia hanno la caratteristica di consentire allo spettatore una variazione del punto di vista in misur� maggiore o minore; pertanto producendo il fattore volumetrico più linee di con• tomo e più di uno sfondo possibile, rende instabili, perché variabili a seconda del punto di vista, i rapporti sfondo/ linea di contorno, il che rende in qualche misura non uni• voca la trasmissione del messaggio. Simili invece al caso precedentemente esaminato restano i rapporti delle parti all'interno dell'opera e di questa col contesto circostante



teristica l'uso pieno del fattore volumetrico, essendo proget­ tata per essere vista da ogni lato e facendo del tutto a meno sia del contesto che dell'inquadratura; pertanto è proprio in questa tipologia· che emerge con maggiore evidenza il problema di una lettura teorica che tenga conto sia del ca­ rattere rappresentativo, e quindi comunicativo, sia della sua specifica caratteristica di tridimensionalità. La questione può essere considerata sotto due punti di vista: il rapporto delle parti tra di loro ed il rapporto dell'opera con l'ambiente circostante. Quanto al primo punto, possiamo osservare che la lettura di un'opera scultorea avviene sulla base della dif­ ferenza convesso/concavo: tale lettura dovrebbe fornire in­ formazioni precisamente sull'aspetto specifico della scultura che è quello della profondità; in realtà non è così, e l'in­ formazione risulta in genere incompleta, perché tale con­ vessità/concavità non attraversa la scultura in tutto il suo spessore. Per cogliere lo spessore reale della scultura è ne­ cessario, girandole intorno, ricavarlo da una somma di vi• sioni parziali; ciò equivale a dire che non essendo possibile coglierne unitariamente le tre dimensioni, il messaggio che da essa proviene risulta in qualche misura manchevole e incompleto. I gruppi scultorei potrebbero costituire un'eccezione a quanto abbiamo detto. Opere a più figure dell'antichità clas• sica, come il Laocoonte ed il Toro Farnese, grazie alla par­ ziale sovrapposizione e separazione delle singole figure, con­ sentono una lettura in larghezza, altezza e profondità del­ l'intero gruppo anche da un unico punto di vista; è come se, in qualche modo, lo spazio interno dell'opera, generato dalla profondità, fosse penetrabile allo sguardo, trasmet­ tendo un messaggio completo circa la specifica natura tri­ dimensionale dell'opera. La straordinaria fama che ha sem­ pre accompagnato tali gruppi, e soprattutto la fortuna cri­ tica conosciuta, si pensi al Laokoon di Lessing, sembrano confermare non solo l'importanza estetica, ma anche l'im­ plicito valore . teorico di tali capolavori. I gruppi scultorei, inoltre, presentano una seconda pecu­ 52 liarità che consiste nella produzione di un racconto plastic o



in un'opera quale la Trinità di Masaccio; in questo dipinto la rappresentazione include due insiemi: a) la pala d'altare in cui è effigiata la Trinità e b) i devoti e l'ambiente circo­ stante la pala che sono esterni al primo insieme ma nello stesso tempo interni al dipinto. In altre parole quest'opera presenta uno sviluppo del livello metacomunicativo tale che · esso riesce a fornire informazioni non solo su parti dell'in­ sieme, ma sulla totalità dei rapporti pittura-non pittura, il che significa produrre la negazione, l'autoriferimento e un metadiscorso: col ricorso alla tipologia del quadro nel qua­ dro, la pittura ci parla di se stessa. Essa dunque, in un breve volgere di anni, da un lato raggiunge l'autonomia dal contesto come materiale autonomia dal supporto architet­ tonico, mediante l'impiego dei teleri e la nascita del quadro da cavalletto - di opere, cioè, che non sono pensate per un sito particolare, ma possono essere spostate in luoghi diver­ si - dall'altro lato raggiunge anche l'autonomia di poter trasmettere inalterato e completo il proprio messaggio in qualsiasi condizione, senza che contesti estranei possano si­ gnificativamente alterarlo 9• Quanto è stato detto finora riguarda le tipologie tradi­ zionali della scultura; che cosa dire di quella contempora­ nea? Essa ha conosciuto un'evoluzione nella quale conflui­ scono elementi diversi: l'attenzione per la macchina e l'im. magine tecnologica, l'interesse per il movimento e la speri­ mentazione di nuovi materiali, J).UOVe prospettive e ricerche formali cui è spesso sottintesa una contestazione polemica verso la solennità e l'ufficialità della scultura tradizionale e così via. Tuttavia la scultura del '900 presenta anche feno­ meni rilevanti per il punto di vista teorico fin qui seguito che sembrano coincidere con le novità più tipiche della scultura del nostro secolo e che si possono, a nostro avviso, suddividere in tre categorie: a) le sculture coi fori; b) quelle fatte con materiali o strutture trasparenti; e) i mobiles di Calder. Quanto alla prima categoria è d'obbligo il riferimento ad Henry Moore: i vuoti, che costituiscono il tratto più 54 caratteristico delle sue sculture, non sono « parti mancan-


ti», come pure avviene in numerose opere di altri autori che a lui più o meno scopertamente si ispirano, ma sono piuttosto compensazione formale degli elementi pieni, come egli stesso testimonia: Il foro congiunge ,una parte con l'al­ tra e la scultura acquista immediatamente un carattere tri­ dimensionale. Un foro può avere da solo forma e significato tanto quanto una massa solida 10 • Come si vede, l'accenno alla tridimensionalità ci riporta a quello che abbiamo de­ finito essere il problema centrale della specificità del mes­ saggio nella scultura: il foro non solo è, a pieno titolo, un elemento dell'insieme, ma, in più, nel congiungere una fac­ cia con l'altra, consente di penetrare totalmente la profon­ dità dell'opera, cioè di cogliere unitariamente e non con una serie di movimenti successivi lo specifico messaggio tridi• mensionale della scultura, La seconda categoria costituisce una diversa risposta a questo stesso problema: opere come le « strutture lineari spaziali» di Gabo o le « forme che si torcono nello spazio» di Pevsner consentono sia la visione da un unico punto di vista di entrambe le facce dell'opera, sia la percezione della sua intera profondità mediante tor­ sioni delle superfici che, in più, sono allusive di un movi­ mento. La terza categoria, i mobiles di Calder, presenta il movimento vero e proprio dell'opera che rovescia il rap­ porto tradizionale della scultura con l'osservatore: non è più quest'ultimo che le si muove intorno, scegliendo il pro­ prio punto di vista, ma è l'artista stesso che offre allo spet­ tatore una pluralità di punti di vista grazie alle lievi oscil­ lazioni e rotazioni delle varie parti dell'opera. Come dalle opere di Calder, nelle quali il movimento è provocato da agenti casuali evocativi di processi naturali e di un equilibrio leggerezza/pesantezza, si passi all'arte ci­ netica e programmata, cioè a vere e proprie « sculture ma­ novrate dalla meccanica»; come dalle superfici di Gabo e Pevsner e dai fori di Moore si passi ad opere dai materiali trasparenti o a strutture fatte prevalentemente di vuoti, restando i pieni a segnare i confini esterni dell'opera (si pensi ad alcune produzioni di Sol Lewitt), è argomento che esulerebbe dal presente discorso; ci basti qui dire che 55


le tre tipologie della scultura contemporanea cui abbiamo accennato hanno avuto wl'influenza difficilmente calcolabile su tutta la produzione successiva proprio rispetto a ciò che ci è sembrata essere la loro caratteristica comune: consen­ tire la simultaneità di lettura delle tre dimensioni e, di con­ seguenza, permettere una trasmissione completa ed una ri­ cezione non alterata del messaggio specifico della scultura. Tuttavia, nonostante tale orientamento verso una maggiore pienezza comunicativa, ci sembra che il processo evolutivo non possa dirsi del tutto concluso: la scultura, infatti, pur avendo sviluppato rapporti più complessi di quelli presenti . nella tradizionale tipologia del tutto tondo, non ha ancora raggiunto la capacità, presente invece nella pittura, di ge­ nerare la differenza di livello logico tra realtà, rappresenta­ zione e rappresentazione della rappresentazione, di espri­ mere cioè il livello dell'autoriferimento. In breve: la pit­ tura parla anche di se stessa, la scultura no; diremo perciò che Baudelaire aveva ragione, ma per un motivo parados­ sale: se le persone che parlano sempre di se stesse sono noiose, la scultura è noiosa perché non parla mai di se stessa.

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1 CH. BAUDEUIRE, Salon del 1859. Scultura, in Scritti sull'arte, Ei­ naudi, Torino 1981, p. 270. 2 Cfr. CH. BAUDELAIRE, Perché la scultura è noiosa, in op. cit., pp. 115 sgg. 3 Ibidem. 4 L. MOSCATO EsPOSrro, I tre livelli logici nella comunicazione gra­ fico-pittorica, in « Op. Cit." n. 60, maggio 1984. 5 A. HilDEBRA.'ID, Il problema della forma nelle arti figurative, in R. SALVINI, La critica d'arte moderna, L'Arco, Firenze 1949. 6 Quanto diciamo circa l'autonomia è da intendersi sul piano lo­ gico-comunicativo, essendo noto che, stù piano storico, la spinta all'au� tonomia venne alla pittura ed alla scultura da un rinnovamento del gtisto manifestatosi prima che in architettura, sicché la ricerca di au­ tonomia fu anche, o soprattutto, ricerca di affrancamento da ambienti tardo-gotici. 7 R. DE Fusco, Il Quattrocento in Italia, UTET, Torino 1984, pp. 19-20. a Ivi, pp. 84-85. 9 lvi, -p. 103. 10 Cit. in U. KULTERMANN, I contemporanei, Mondadori, Milano 1979, p. 24.




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