Op. cit., 77, gennaio 1990

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op.cii. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Livio Sacchi, Sergio Villari Segretaria di redazione: Roberta Amirante Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 7690783 Amministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Giordani, 32 - Tel. 7612002 Un fascicolo separato L. 6.000 (compresa IVA) - Estero L. 8.000

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Edizioni e Il centro ,. di Arturo Carola


R. DI! Fusco,

Le arti si insegnano, le arti si imparano Il parere di Enzo Mari

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M.

Note sulla didattica dell'architettura

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Paris fin de sitcle

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Libri, riviste e mostre

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L.

MoNTUORI, SACCHI,

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Giancarlo Carne­ vale, Giovanni Corbellini, Salvatore Cozzolino, Valeria Giannetti, Fabio Mangone, Gianfranco Neri, Annamaria Sandonà .

Alla redazione di questo numero hanno collaborato:


LA rivista si avvale del contributo economico dei seguenti Istituti ed Aziende: Alessi Alias Banco di Napoli Boffa arredamenti Bulthaup Camera di Commercio di Napoli Cassina Driade Falconio IC soft Promemoria Sabattini Zen Italiana



ha trovato un suo equilibrio sul piano finanziario), ma alla maggioranza di coloro i quali aspirano ad entrarvi e in con­ dizioni migliori. l:. stato osservato che « l'arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte» (D. Formaggio, Arte, !sedi, Milano 1973, p. 9), ovvero che la definizione dell'arte debba condursi alla storicità di ogni epoca, ma anche a condividere questo as­ sunto, resta comunque problematica l'idea di artisticità pro­ pria della nostra. Nella ridda delle definizioni, delle asser­ zioni, delle ipotesi intorno alle arti contemporanee, molte delle quali sottintese, date per note e scontate, ne sceglie­ remo tre aventi più o meno direttamente un rapporto con la didattica: quella romantico-idealista, quella nata nell'am­ bito dell'avanguardia e quella, per così dire, nutrita dal più diffuso senso comune. Notoriamente, per la prima, l'arte, intesa come espres­ sione lirica del sentimento individuale, non può apprendersi se non con l'esercizio dell'esperienza personale, raffinando le proprie e naturali tendenze, elaborando i moti della propria fantasia, insomma in forma esclusivamente autodidattica. Il sistema di estetica cui fa capo questa concezione dell'arte nega persino il concetto di stile nell'accezione generalizzan­ te, epocale, caratterizzato da invarianti morfologiche, rico­ noscendo come legittimo soltanto lo stile individuale; ne di­ scende la negazione di ogni scuola e corrente, di ogni ri­ cerca di gruppo o movimento. A confermare l'intransitività della didattica artistica ha contribuito la seconda prospettiva estetica, l'ideologia del­ l'avanguardia, non a caso anch'essa figlia del romanticismo. Com'è noto, l'avanguardia artistico-letteraria, ponendosi in contestazione con tutto il preesistente, con la tradizione, coi codici, con le norme, con qualsiasi « sistema » di poli­ tica culturale, ha prodotto la rottura con ogni referente, una forte discontinuità della storia, la negazione di ogni sapere artistico che non fosse interno alle poetiche e alle tendenze in cui si articolava. Si sono create così due « esagerazioni» nel concepire 6 l'arte, allontanandola da quel « centro» verso il quale tutta








che su quello della scuola, che porterebbero una testimo­ nianza preziosa. Se essi risulteranno troppo indaffarati, at­ tendiamo allora gli interventi di giovani docenti e studenti cui, come dicevamo all'inizio, attribuiamo un potenziale in grado di rinnovare, attraverso la didattica, la condizione stessa delle arti contemporanee.

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rei viscerale come gli Antichi e nella ridondanza delle cul­ ture e dei rapporti di produzione, mentre possiamo descri­ vere come entomologi « usi e costumi » dei progettisti e dei loro committenti, ci risulta difficile definire le coordinate cul­ turali di tali pratiche di lavoro. Ma queste coordinate sono ovvie e sono sempre esistite. Provo a definirle separatamente perché di solito, quando se ne parla, se ne tenta una sintesi risibile, con censure di vario tipo. Le coordinate sono tre: quella dell'arte, quella della tec­ nologia e quella dei rapporti di produzione, quindi dei bi­ sogni. L'arte. La qualità formale dell'arte corrisponde al­ l'ideale che permea una società o alla sua negazione (da Fi­ dia a Duchamp). In questa fine di secolo la gente per igno­ ranza o tracotanza è permeata dall'ideale del Kitsch. Che fare? L'avanguardia? Ma l'avanguardia è diventata uno stile... La tecnologia. La qualità formale della tecnologia, di pari valore di quella dell'arte (dal boomerang alla lampada di Edison), è espressione delle ragioni della materia. La qua­ lità formale dei rapporti di produzione (dalla cattedrale di Chartres agli Shakers) deriva dal sapere collettivo che per­ mea una società. Perché sento il bisogno di tali precisazioni? Perché penso che una scuola di architettura e/o di design che non abbia queste tre coordinate come nuclei centrali di insegnamento (e dove Arte e Tecnologia non abbiano amplissimi e speci­ fici laboratori) non abbia la dignità di chiamarsi scuola di progettazione. In ogni caso dico sempre agli studenti che la qualità della scuola dipende, più che da quella degli in­ segnanti, da loro stessi. Se si vuole fare questo lavoro con un minimo di qualità non si può praticare il progetto im­ proprio (la norma) ma quello effettivo (tensione al globale). E tale tensione è talmente onerosa da poter essere soppor­ tata solo con una dedizione totale della propria vita (direi a livello patologico). Caro Renato, concludo con questa bat­ tuta miseramente misticheggiante perché non c'è qualità di insegnamento che tenga se non esiste tale tensione da parte degli allievi. ENZO

MARI


I Intervengo in forma di lettera nel dibattito che tu intendi aprire, perché la ridondanza delle poetiche - diciamo cosl - è tale, unita anche alla realtà delle legislazioni vigenti, che la forma più organica del saggio acquisterebbe, per un minimo di chiarezza, la dimensione di un libro. 2 Se il tema di progetto fosse già stato da me preventivamente verificato, gli studenti avrebbero teso a percepire i miei interventi, necessariamente sintetici, quali norme. Ritenevo invece più utile, nel senso di più formativo, metterli di fronte anche ai miei personali dubbi, incertezze, carenze di informazione e al mio modo di affrontarli e, con loro, risolverli nel rispetto delle loro scelte ideologiche. Devo sottolineare, a questo proposito, che è più corretto che l'in­ segnante parli dei «suoi» dubbi in luogo di gabellare verità metodo­ logiche oggettive. 3 Essendo ancora permeato dai vecchi codici, le ipotesi di pro­ getto, nella prima fase, non possono che essere riferite ad essi. Ma in questo modo il progetto sarebbe solo predeterminato, quindi improprio. L'unica garanzia sta nell'osservare e criticare attentamente (cioè te­ nendo conto omeostaticamente delle ragioni proprie alle diverse e spe­ cifiche culture) i diversi tipi di modelli fisici che via via la mano rea­ lizza. Solo così può capitare di ravvisare un alcunché non previsto e «altro» da ciò che si intendeva sperimentare. L'esempio classico che si fa solitamente, a questo proposito, è quello di Cristoforo Colombo che volendo raggiungere le Indie andando verso ovest, secondo le nuove teorie astronomiche, scopre le Americhe di cui nessuno sospettava l'esi­ stenza. Posso concludere paradossalmente, ma forse non troppo, che il cervello si trova nella mano.

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ne originarla [ ... ]. Ancora, definirò maestri quegli architetti che sono in grado di essere, nello stesso tempo, nella stessa frase, direi, assertivi e dubitativi. Altalenare dubbi e certezze significa costruire una condizione, ovviamente oscillante, al­ l'interno della quale l'unità diventa molteplice e la molte­ plicità sa come unificarsi 6• Due casi emblematici: Ludovico Quaroni e Giuseppe Samonà

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La definizione di Purini si attaglia, in particolare, a due figure di « maestro». È infatti una sorta di identikit di Lu­ dovico Quaroni e Giuseppe Samonà, due personaggi estre­ mamente diversi per formazione intellettuale, ma per certi versi molto simili, simili nella qualità di essere al contempo « assertivi e dubitativi», nel tendere ad una impostazione metodologica, consci però della infinita gamma di problema­ tiche poste dall'insegnamento di una disciplina che pur « ten­ dendo all'arte» deve fare i conti anche con tecniche e para­ digmi scientifici, consci della necessità di dover « privile­ giare sempre i valori della cultura» (come era solito ripe­ tere, con una punta di civetteria, Giuseppe Samonà). In realtà la lista dei nomi può agevolmente comprendere molti altri docenti che si sono distinti per la loro continua tensione a trasmettere una « cultura del progetto», in forme didattiche mai imitative come E. N. Rogers, I. Gardella, A. Libera, S. Muratori, etc. Costoro, infatti, pur praticando in prima persona il lavoro progettuale, senza mai abbando­ nare la prassi professionale, e pur possedendo ognuno una poetica definita in un linguaggio individuale perfettamente riconoscibile, non hanno mai teso ad una didattica di ma­ niera, che riproducesse modi e forme del proprio patrimo­ nio stilistico. L'insegnante di composizione [ ...] - scriveva nel 1947 Giuseppe Samonà - dovrà avere il controllo assoluto di tutto quanto si riferisce alla compilazione del progetto; do­ vrà potere e sapere interloquire su tutto, alla luce della sua esperienza aggiornata continuamente in profondità su quello che nel mondo si va preparando e costruendo. La sua espe-



"luogo•, per finire col dettagli, ma può anche rovesciarsi, il procedimento, e cominciare con la messa a punto d'un elemento del discorso, che può esser di dettaglio ma non sarà mai secondario per il processo compositivo 8• Queste considerazioni testimoniano in realtà una coscien• za della necessità di una riflessione sulle motivazioni dell'ope­ rare disciplinare che tenesse conto di riferimenti più fondati (e fondenti); [ ... ] di portare a limite disciplinare l'operare progettuale· nell'intento di assicurare una diversa storicità allo specifico - come ci ricorda Pasquale Lovero in un sag• gio sull'insegnamento di G. Samonà (ma la considerazione appare pertinente anche alla figura di Quaroni) - per affron­ tare la varietà delle situazioni didattiche dando [ ... ] dimo­ strazioni di sincretismo in nome di istanze ben più impor­ tanti di quelle correttamente riconoscibili alla base di un corso di composizione architettonica 9• Eppure questi due maestri, al di là delle apparenti ana­ logie di intenti, hanno avuto destini molto diversi. Quaroni, « la coscienza inquieta dell'architettura italiana», preso nel suo perenne rovello, non riuscì a vedere concretizzato il suo impegno didattico, del quale forse solo oggi si riesce a cogliere il senso e a comprendere quanto abbia inciso la sua capacità di insegnante su diverse generazioni di prota­ gonisti della cultura architettonica italiana che, pur muo­ vendosi per strade diverse e sviluppando ciascuno una in­ dividualità molto differenziata, hanno in sostanza saputo co­ gliere la complessità della «lezione» di questo maestro. Ben diverso il ruolo di Giuseppe Samonà (e innumere­ voli sono le testimonianze in tal senso 10), che è stato l'arte­ fice di un «clima culturale• 11, lasciando un'eredità tangi­ bile: la «scuola di Venezia•· Ricordando il ruolo svolto a Venezia da Samonà, Luciano Semerani scrive: Distrusse molto lentamente, ma tenace­ mente, con la sua intelligenza, le convenzioni ereditate dal1'Accademia delle Belle Arti di Venezia, che pure erano re­ gole, tecniche, mestiere. Fece uso, per questo, delle suggestioni che provenivano 26 dal Movimento Moderno, il formalismo di Rietveld, ma an•



A. Samorià, nella· monografia a lui dedicata, rileva che Il suo insegnamento, quasi unico per quanto ne sappiamo nelle fa­ coltà di architettura dell'ultbno ventennio, si basa sulla ne­ cessità di chiarire gli equivoci e le ambiguità dietro le quali spesso si mascherano, nella scuola i disegni di progetto quando non sono sostenuti da condizioni veramente con­ crete, perché indagate criticamente, e non riescono, perciò, che raramente ad esplorare la autenticità del reale 14 • Vi è la necessità di prendere coscienza di una via per af. frontare i problemi delle scelte progettuali - diceva Gar­ della agli studenti - che in ogni momento esigono una sin­ tesi del «perché • e del «come •• letteralmente del «perché • si decide una cosa e del «come• la si realizza. [ ... ] La scuola non può che essere una continua esperienza [ ... ] nel corsi di composizione, l'insegnamento si caratterizza come esperienza del fare, cioè come esperienza d'arte attraverso la media­ zione dell'esperienza storica 15• Per il secondo ricordiamo il giudizio di Franco Purini, suo allievo del periodo romano, che ha espresso una lucida sintesi della complessità del pensiero muratoriano in un re­ cente saggio di esemplare chiarezza critica. Le certezze mu­ ratoriane sono tutte all'interno di un triangolo teorico, da lui disegnato nel passaggio dagli anni cinquanta al sessan­ ta [ •.. ]. I vertici di questo triangolo sono costituiti rispetti­ vamente, da una critica del problema del linguaggio così come era stato posto in successione storica, dall'«esteti­ smo •, dall' espressionismo ,. e dal «funzionalismo »; dalla riconduzione della questione del linguaggio sull'alveo natu­ rale della città, entità capace non solo di legittimare l'archi­ tettura ma soprattutto di garantirle la continuità; dalla ri­ proposizione, in termini teoricamente ineccepibili, dell'Idea di tipo architettonico, come anhna di qualunque manufatto, come intenzionalità, come a priori del progetto, paradigma di tutto ciò che c'è di valutativo nell'architettura opposta ad una sua riduzione a dispositivo combinatorio ad involucro distributivo. [... ] Il triangolo muratoriano, che ha fortemente segnato le avventure teoriche di Samonà, di Aymonino, di 28 Rossi, di Semeranl, di Caniggia e del Bollati e di molti al-



(da Wright all'architettura orientale), precisato attraverso un « infinito dettagliare» nell'empiria del processo compositivo, l'opera di Scarpa diviene modello. Tanto più «unico» appare il suo operare, in quanto indissolubilmente connesso con un talento singolare di «disegnatore» delle proprie architettu­ re: Scarpa ha inventato una rappresentazione dei propri pro­ getti, al tempo stesso poetica e realistica che non potrà mai essergli sottratta a causa dell'inesorabile privilegio del talen­ to: ché non è dato donarlo a chi non lo possiede. Misurava con gli occhi e con la mano - scrive Quaroni nel ricordare Scarpa - gli spessori e accarezzava le super­ fici, per conoscere bene, tattilmente anche, la ruvidezza e la grana col palmo della mano aperto sulle superfici curve che andavano accompagnate, nel loro girare convesso, o col dor­ so delle dita della mano quando le superfici stesse giravano concave 22. Così è se vi pare

Ma se il «caso Scarpa» rappresenta una lezione difficile, il «caso Aldo Rossi » incarna un vero e proprio « paradosso didattico». Scarpa non ha mai preteso di porsi come fonda­ tore di teorie, non voleva costruire metodologie, né aspirava a catartiche rifondazioni disciplinari, metteva semplicemente in evidenza un mondo poetico, riscattando il «mestiere», re­ stituendolo alla dignità della creazione artistica. Al contrario Aldo Rossi è colui che più profondamente ha segnato, per oltre un decennio, il panorama teorico nazio­ nale ed internazionale inducendo il più macroscopico feno­ meno di «clonazione» di immagini architettoniche del no­ stro secolo. Un lessico astratto, un patrimonio figurativo che si avvale di riferimenti rivisitati poeticamente, appartenenti più al modo della figurazione che a quello della costruzione, sono stati isteriliti, in nome di un'adesione fideistica, in ra­ gione della «semplicità» dell'iconografia, senza cogliere la lezione di indicazioni metodologiche che avrebbero dovuto condurre, se correttamente interpretate, in ben altre direzio­ ni. Tutto ciò avveniva in nome di un presunto e malinteso



stampa specializzata, che ha reiteratamente proposto i suoi progetti, a imprimere un segno profondo, e pertanto ad in­ segnare: facciamo riferimento ad un'anomala figura di mae­ stro, non impegnato specificamente nella didattica, anche se i suoi rapporti con l'università sono continui: Mario Bot­ ta. Non è un teorico, ma un corretto «costruttore», che invoca radici molto diverse: formato alla scuola di Venezia, si richiama a matrici classiciste, esibisce una coerenza for­ male che si concretizza in manufatti accattivanti. Capace di riprodursi estenuatamente, ma raramente di reinventarsi. Il modello rappresentato dalle sue opere diviene quindi facile lezione. L'assenza di rischio connota la produzione di ogni imitazione; diventano quindi bersagli appetibili quei riferi­ menti che minor imbarazzo procurano nella decodificazione. La parabola di Botta, sempre più simile a se stesso, ma sempre meno vero, richiama alla mente un aneddoto riferito a Picasso. Un giorno un collezionista si recò dal maestro spa­ gnolo perché aveva saputo che un quadro in suo possesso era stato dichiarato falso. « Ma come? - egli disse - Io ho acquistato da lei questo quadro e gliel'ho anche visto dipin­ gere! ». « Molti sono in grado di fare un falso Picasso - ri­ spose il pittore -, anche Picasso! ».

L'assillo della qualità

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t:. difficile interrompere queste osservazioni, in quanto non paiono convergere in qualche determinata direzione, pure ci sembra di poter azzardare una qualche provvisoria conclusione, ben sapendo che si tratta di formulazioni labili. ed imprecise, che abbisognano di ulteriori approssimazioni. Riteniamo di poter sostenere che quanti provano ad « in­ segnare » l'architettura, fornendo regole e repertori, alibi teorici e armamentari pratici, restano come defraudati dai propri stessi allievi che restituiscono immagini immiserite di ambiziose rappresentazioni; egual sorte sembra riservarsi a quanti cercano nel segreto dei propri laboratori di preci­ sare una faticosa individualità riflettendo su impercettibili differenze; quasi come se la qualità, in architettura, essen-



di Venezia di L. Semerani: Why not?, in M. MoNTU0RI (a cura di), S111di in onore di Giuseppe Samonà, Officina Edizioni, Roma 1988, pp. 381-383; il già citato volume a cura di G. Cxuccr, L'architettura italiana oggi. Racconto di una generazione; il supplemento alla rivista «Modo» n. 111, 1989: Architettura Venezia; gli atti preparatori del convegno: L'insegnamento dell'architettura nei co,·si di Composizione e Progettazione architettonica, IUAV, Venezia 1988; il saggio di M. CA· NESTRARI, La profondità e l'estensione, Studi in onore di Giuse[Jpe Sa­ monà, cit., pp. 87-100; la Presentazione della sottoscritta e il capitolo Giuseppe Samonà, entrambi in Lezioni di progettazione, cit., pp. 9-1 3 e pp. 242-270.

Il Samonà così descrive questo clima di lavoro: Cl sono momenti della vita che ricordiamo con particolare emozione. [ ... ] DI questi momenti [... ] riviviamo Intensamente quello scambio d'i freschi pen• sieri, quell'entusiasmo del discutere e del sognare che cl affratellò anziani e più giovani, nella ricerca ancor non chiara ma consapevole di un nuovo mondo, di una più valida realtà che fosse superamento di In• finite disillusioni [ ... ]. Allora, In quel momento, lo professore e un gruppo di pochi alllevi abbiamo vissuto come tanti altri la grande illusione. Abbiamo sentito l'ansia del rinnovamento, l'entusiasmo della ricerca, Il calore di una sistematizzazione che potesse rifare un volto alle cose, una concretezza al nostro operare ancora diviso e confuso fra tanti diversi frammenti In un'ansia creativa di conoscenza che voleva farsi e che urgeva per conquistare una realtà non rivelata. Abbiamo vissuto una forma di pionierismo da scopritori di terre !lconosciutc [.,.] che cl uni con una vincolante energia di collabora• zione. G. SAM0NÀ, Ricordo di Masieri, in « Metron » n. 49-50, 1954. 12 L. SEMERANI, Wlty not?, in Studi in onore di Giuseppe Samom). cit., pp. 381-383. 13 Nel segno di questa unità metodologica si muove anche Quaroni. tanto che, sul finire della propria carriera di docente, ammonisce gli studenti: I moltissimi tentativi di rinnovare la scuola - a parte l'as• surdità solo italiana di avere, per un'Università che dovrebbe adattarsi continuamente alle circostanze, e alle circostanze adattare quindi gli insegnamenti e i docenti, tutto resta invece cristallizzato nella rlgi• dezza del programmi ministeriali e nella burocrazia sindacale dei do• cenli - vengono dispersi In buona parte dal fatto che si è perduto quel senso d'.l « sostanza unitaria ,. del diversi aspetti, delle diverse scale, del fare architettura, e anche di unità, all'interno di un edificio, fra l'aspetto estetico, quello strutturale, quello funzionale [... ]. Bisogna che voi evitiate di combattere solo sotto le band1ere della Tecnologia, sotto gli stendardi della Storia, sotto i gagliardetti dell'Urbanistica, perché quello che si attende da voi è la ricostruzione dell'unità fra urbanistica e architettura, e all'interno di quest'ultima la ricostruzione del sistema unico della Estetica, della Tecnologia, dei problemi del• l'uso, cioè della distribuzione. Parole agli studenti di Ludovico Quaroni, , Domus,. n. 689, 1987, pp. 17-18. 14 A. SAM0NÀ, Ignazio Gardella e il professionismo italiano, Officina Edizioni, Roma 1981. 15 Cit. in N. VALLE, Ignazio Gardella, professore, in Lezioni di pro­ gettai.ione..., cit., p. 69. 16 F. PuRINI, "L'ammirazione clte all'arte si deve»: impressioni, in­

terpretazioni, riflessioni su Saverio Muratori, sulla sua opera interrotta,

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in e Phalaris,. n. O, 1989, p. 7. 17 La personalità di E. N. Rogers non è ancora stata oggetto di accurate analisi critiche. Ma se la sua produzione progettuale viene riassorbita all'interno dello studio BBPR (si ricorda in proposito l'impo•


nenie monografia di E. BONFANTI e M. PORTA, Città, museo e architettura. I/ gruppo BBPR nella cultura architeltonica italiana 1932-1970, Vallec• chi, Firenze 1973), il contributo da lui fornito sia in sede didattica, sia all'interno di « Casabella Continuità• ha lasciato eredità complesse in figure di primo piano dell'architettura italiana. A tutt'oggi si ricor­ dano, tra gli scritti che hanno analizzato l'opera di questo protagonista: r. TENTORI, Celebrazione di Ernesto N. Rogers, Circolo della Cultura e delle Arti, Trieste 1970; C. DE SETA, E. N. Rogers. Gli elementi del feno­ meno architettonico, saggio introduttivo al testo omonimo di Rogers, ora in AA.VV., Architetti italiani del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1987. 18 Il lavoro didattico di Libera è stato indagato da V. Qurucr, Adalberto Libera l'architettura come ideale, Officina Edizioni, Roma 1981, e nel saggio: Adalberto Libera e la disciplina dell'insegnamento, in Lezioni di progettazione, cit., pp. 95-113. 19 Vedi R. GABElTI, Per Carlo Mollino, in Lezioni ... cit., pp. 125-129, e dello stesso autore: Se penso a lui, al Lieber Meister, in AA.VV., Carlo Mollino 1905-1973, Electa, Milano 1989. 20 Per il contributo didattico di G. Michelucci parlano soprattutto i suoi scritti e le sue opere. Cfr. gli apparati bibliografici in M. C. BuscIONI, (a cura di), Michelucci, li linguaggio dell'architettura, Qflì. cina Edizioni, Roma 1979; V. FONTANA (a cura di), Miclzelucci, Idee per la città, Essegi, Ravenna 1986. 2I G. Ciucci rileva che volendo ragionare sugli architetti presenti oggi nel panorama nazionale non solo in base alla qualità, ma anche per aree geografiche si conferma il fatto che al Nord esiste una diffu. sione territoriale della cultura architettoruca, mentre il Centro d'Italia si identifica prevalentemente con Roma, e li Sud offre poco con Napoll (e Palermo [ ... ] che per la generazione precedente ha avuto una bandie­ ra in Samonà). G. Cn;ccr, Prefazione, in Io. (a cura di), L'architettura italiana oggi, cit., p. VI. Questa constatazione può essere considerata valida anche per il passato, fatta eccezione per la Facoltà di Firenze che ha annoverato tra i suoi docenti personaggi come A. Libera, G. Michelucci, L. Quaroni, L. Ricci, mentre oggi continua a permanere in una condizione di stallo didattico. 22 L. QuARONI, Le « lezioni• di Scarpa, cit. 23 E ancora Franco Purini a ricordarci che, nonostante il debito che molti hanno contratto nei riguardi di Muratori, il frutto del suo paziente lavoro costituisce, nel bene e nel male, li luogo enigmatico della rl· cerca italiana nel secondo dopoguerra. Il suo essere pressoché scono­ sciuto al di là di due ristrette cerchie, quella del suol allievi per I quali è l'oggetto di un culto Iniziatico e quella dei derugratori, oggi

sempre meno numerosi, a dire li vero, che lo liquidano con fastidio h1 due battute frettolose, si configura come un successivo enigma anche se la solitudine della sua figura sulla scena italiana sembra l'effetto di un suo progetto di autoccultamento e di autoesclusione piuttosto che il risultato di una censura generalizzata. L'ammirazione

che all'arte si deve... , cit., p. 7.

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Paris fin de siècle LIVIO SACCHI

Negli ultimi anni Parigi è stata segnata da una attività - edilizia particolarmente intensa. La ricorrenza del bicente­ nario della Rivoluzione ha costituito apparentemente l'oc­ casione per la realizzazione di una straordinaria serie di opere pubbliche che hanno modificato l'immagine della città in maniera radicale. In realtà il tipo, l'entità e il numero degli interventi trascendono ampiamente il pur notevole significato di tale ricorrenza. � chiaro che un simile pro­ gramma guarda al passato della Francia, alla sua eccezio­ nale tradizione di opere di grande respiro architettonico; ma al tempo stesso guarda al futuro, alle palesi intenzioni di presentare Parigi alla prossima scadenza europea del '93 come grande capitale a scala continentale. La regione pari­ gina, con i suoi 336 comuni, costituisce oggi un'agglomera­ zione di quasi nove milioni di abitanti, paragonabile, in Eu­ ropa, soltanto alle aree metropolitane di Londra e di Mo­ sca. Analogamente ad altre grandi città del nostro pianeta e contrariamente alle previsioni di qualche anno fa è an­ cora destinata a crescere. Certo l'incremento demografico francese è minimo e lo scambio interno debole. Ma l'ana­ lisi del problema ad una scala più ampia impone la consi­ derazione di nuovi bacini d'emigrazione solo apparentemente lontani, come l'Est europeo o il Maghreb africano. La città vive dunque una forte accelerazione. Le pressioni politiche 36 ed i progetti che candidano Parigi al nuovo ruolo di capi-



iniziare il nuovo corso nel 1969, con la decisione di Georges Pompidou di costruire il Beaubourg. La presidenza di Mit­ terrand si è impegnata ancor più esplicitamente sul fronte dell'architettura: La Parigi dei grandi progetti annuncia quella dell'anno 2000... Si visita e si visiterà la Parigi del­ l'architettura, la Parigi delle sculture, la Parigi dei musei, la Parigi dei giardini ... Città aperta alla creatività, alle idee, alla giovinezza ... 2• Dopo venti anni il bilancio non è privo di interrogativi e di dubbi. Quel che è certo è che la so­ cietà francese sembra oggi decisamente favorevole ad una creatività coraggiosa e innovativa, che non riposa sul pas­ sato ma punta al futuro, anche a costo di sacrificare una notevole parte della propria identità: esempio emblematico l'incomprensibile distruzione delle Halles. Proviamo a pas­ sare brevemente in rassegna le operazioni di maggiore spicco. Un gran numero di interventi è costituito da musei ed istituzioni culturali. Non a caso François Mitterrand dichia­ rò: Il nostro progetto deriva dalla convinzione che l'indu­ stria culturale è l'industria del domani 3• Si tratta, oltre al già citato Grand Louvre, del Musée Picasso, del Musée d'Or­ say, del Musée National des Sciences et de l'Industrie, del­ l'Institut du Monde Arabe. Numerosi anche gli edifici tea­ trali: l'Opéra de la Bastille, il Théàtre de l'Est Parisien, lo Zénith. Ci sono poi i grandi complessi polifunzionali - il Forum des Halles, il Palais Omnisports a Bercy, la Grande Halle alla Villette - e le sistemazioni urbane: la Tète Dé­ fense. Per finire due celebri giardini, quello alle Halles e il Pare du 21e Siècle. Il progetto per il Grand Louvre è il solo nato da un in­ carico diretto. La scelta di Mitterrand è caduta, com'è noto, sull'americano I. M. Pei. Il tema posto - il ridisegno dello storico palazzo del Louvre al fine di trasformarlo nel più grande ed efficiente museo del mondo - era tale da gene­ rare perplessità in chiunque. Al di là degli esiti di un pro­ getto non ancora completo e già troppo discusso, va detto che Pei è probabilmente oggi l'architetto più qualificato a dare una risposta adeguata. Non a caso sul suo nome c'è 38 stata la più ampia convergenza da parte di tutti i consu-


lenti di Mitterrand. Non a caso, forse, è stata scartata l'ipotesi di bandire un concorso: Pei, com'è noto e com'è stato da lui esplicitamente confermato, non vi avrebbe partecipato. I. M. Pei è uomo di straordinaria sensibilità culturale, figlio di una cultura antica, come quella cinese, e di una contemporanea, come quella americana. Grande esperto e collezionista d'arte, ha progettato a riprogettato alcuni fra i più celebri musei del nostro tempo: dalla East Wing della National Gallery di Washington, al Museum of Fine Arts di Boston; dall'Everson Museum di Syracuse, nello stato di New York, all'Art Center di Des Moines, Iowa; dall'Herbert Johnson Museum di Cornell University a Ithaca, ancora nello stato di New York, al Paul Mellon Art Center di Wallingford in Connecticut. Il grande Louvre di Pei è costituito da un colossale intervento sotterraneo che occupa per intero la Cour Carrée e che diventa il nucleo distributivo centrale del museo, oltre che da una lunga galleria commerciale e da un grande parcheggio, anch'essi sotterranei. La profondità è relativamente contenuta dalla prossimità della Senna: al­ l'esterno emergono le celebri piramidi trasparenti, tre piccole e una grande, più una quarta, molto depressa, vicina all'arco del Carousel, quasi le punte di un gigantesco iceberg sommerso. Ora ci si può interrogare sulla legittimità e sull'opportunità di una simile soluzione. Quel che è sicuro è che le scelte operate da Pei appaiono il frutto di un com­ promesso fra volontà e paura d'intervenire, fra desiderio di protagonismo e rispettoso ritegno per la sovrastante pre­ senza del vecchio Louvre. La piramide principale è effetti­ vamente piuttosto alta (22 metri), ma è per sua natura un solido molto più discreto e sfuggente di un cubo della medesima altezza, risulta dunque molto meno incombente di quanto le sue dimensioni lasciano prevedere. E. inoltre anche più trasparente di quanto sia lecito aspettarsi, soprattutto dall'interno di giorno e dall'esterno di sera. Straordi­ naria è poi la cura per i dettagli e la qualità esecutiva del­ l'insieme, per le quali Pei è d'altra parte giustamente fa­ moso. Una curiosità: la grande scala elicoidale che lega il livello sotterraneo a quello del cortile esterno e che sembra

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sostenuta da un pilastro cilindrico, è in realtà completa­ mente sospesa: il cilindro - che funziona come un ascen­ sore aperto a pistone e che risolve quindi anche i problemi di accesso per i portatori di handicap - la regge visiva­ mente solo quando è in estensione, per poi sparire nel sot­ tosuolo lasciando atterrare dolcemente i visitatori alla quota inferiore. L'Institut du Monde Arabe è probabilmente uno degli edifici più significativi ed emblematici di questi ultimi anni del XX secolo. Nato dagli sforzi congiunti della Francia e di venti paesi arabi d'Asia e d'Africa, è il frutto di un con­ corso nazionale che ha visto vincitore il progetto di Jean Nouvel, Pierre Soria, Gilbert Lezènes e Architecture Studio. Jean Nouvel è fra i personaggi più interessanti della scena contemporanea europea. Divide con Portzamparc e Philippe Starck i favori di una grande popolarità. Nel cuore del quar­ tiere latino, e quindi della zona universitaria, non lontano dalla moschea, l'istituto ospita un museo dell'arte e della cultura islamica, una mediateca - libri, periodici, dischi, cassette, banca immagini, film, ecc. -, un servizio di docu­ mentazione informatizzato, un auditorium, sale per esposi­ zioni temporanee, servizi televisivi. Gli aspetti che contribui­ scono a fare dell'Institut du Monde Arabe uno degli edifici oggi più celebrati e amati della capitale francese sono mol­ ti: le peculiarità del luogo in cui sorge, sul bordo della Sen­ na, ai margini fra un quartiere tradizionale, segnato da una trama compatta e continua, ed un'area più recente, segnata dunque da un tessuto moderno, discontinuo; i rapporti fra presente e passato, fra la cultura islamica e quella occiden­ tale; gli interni, fortemente connotati da un originale uso della tecnologia. Ma ciò che costituisce l'aspetto più appari­ scente dell'edificio sono le facciate. Quella nord, verso il fiu­ me, è segnata da uno stretto modulo orizzontale che, più che ricordare i ricorsi lapidei della città storica, com'era nelle intenzioni di progetto, contribuisce a far perdere il senso della scala: l'edificio sembra dunque, soprattutto in fotografia, più grande di quanto è in realtà. Quella sud, verso 40 la corte, è segnata invece da uno straordinario diaframma



secondari identici, in grado di spostarsi in orizzontale su bi­ nari e in verticale su montacarichi idraulici; le macchinerie sono completamente automatizzate. Una sala più piccola e sperimentale è invece «regolabile» da 600 a 1000 posti, ed è in grado di assumere diverse configurazioni. Paradossalmente più interessante dell'Opéra Bastille è il piccolo teatro a pianta quadrata dello Zénith alla Villette, opera di Philippe Chaix e Jean-Paul More!. Si tratta di una struttura metallica leggera, sospesa senza appoggi intermedi con una luce che supera gli ottanta metri, adatta a sostenere le macchinerie di scena, le luci e i tecnici che vi lavorano, ricoperta da un doppia tenda in PVC. Nato come uno spazio provvisorio per i concerti rock, lo Zénith è la dimostrazione di un nuovo modo di intendere l'architettura: costi e tempi esecutivi estremamente ridotti, elevata adattabilità a situa­ zione spettacolari nuove, tecnologie avanzate, caratterizzano una sala che nessuno pensa più a smontare. L'aspetto di­ messo e il colore grigio argento della copertura ricordano più un hangar che un tendone da circo: i richiami all'ima­ gerie aeronautica sono sottolineati da un obelisco, unico re­ sto dei vecchi mattatoi, cui è sospeso un piccolo aeroplano, rosso come le vicine strutturine di Tschumi. Grande e impegnativo è invece il complesso teatrale della Cité de la Musique, opera recente di Christian de Portzam­ parc. 50.000 mq di superficie utile dedicati a tutti i campi della formazione e della pratica musicale: conservatori, scuo­ le, musei, biblioteche, mediateche, laboratori, ed una grande sala da concerti (800-1200 posti) che offrirà al Conservatorio nazionale e all'Ensemble intercontemporain di Pierre Boulez un luogo privilegiato d'esecuzione. Portzamparc è una delle figure più interessanti della scena francese: dopo le prove, se si vuole discutibili, degli edifici di rue Hautes-Formes progettati con Giorgia Benamo, del conservatorio del 7• ar­ rondissement, del quartiere di Marne-la-Vallée e della scuola di danza dell'Opéra di Nanterre, ma anche del celebre Café Beaubourg, sembra avviarsi oggi con la Cité de la Musique verso una stagione di grande felicità creativa. La Villette è un grande quartiere popolare ai limiti set-



nel suo genere, in Europa. La decisione di dislocare gli uf­ fici nell'est parigino fu presa in seguito a quella di esten­ dere all'intero palazzo del Louvre la destinazione d'uso mu­ seale. Il gruppo vincitore del concorso risultò l'Atelier d'Ur­ banisme et d'Architecture del francese Paul Chemetov e del cileno Borja Huidobro. Già noti al pubblico per aver curato le realizzazioni sotterranee delle Halles, i progettisti hanno qui proposto uno schema a T che copre un'area di 225.000 metri quadrati, in cui un enorme corpo di fabbrica lungo 325 metri, sospeso prima sulla rue de Bercy e poi sul lun­ gosenna - che si conclude infatti, esempio unico a Parigi, con due possenti piloni nelle stesse acque del fiume - si contrappone ortogonalmente ad un altro, altrettanto lungo ma più morbido e sinuoso. L'impianto è completato da un lato da un vasto blocco segnato da sei corti interne e da un grande giardino. Sobrio e riservato per quel che può esserlo una fabbrica così estesa, completamente computeriz­ zato per la parte impiantistica - vi funziona persino il té­ lédoc, un sistema di consegne postali che si avvale di pie-• coli shuttles elettronici che vengono giù dai controsoffitti, il ministero riprende i linguaggi più asciutti e controllati del post-razionalismo contemporaneo: significative le analo­ gie con quanto viene proposto in Italia da Vittorio Gregotti. Ultimo fra i recenti progetti parigini è il grande arco della Défense, un cubo cavo di 35 piani, alto 110 metri, aperto su due lati e rivestito in marmo di Carrara, che conclude, con un leggero spostamento pari a sei gradi, il monumentale asse che dal Louvre giunge sino alla Tete Dé­ fense e al tempo stesso apre a nord-ovest, verso Nanterre e Montesson, dove si gioca il futuro di Parigi. Anzi è stata proprio tale natura bifronte a fame preferire l'impianto ad altre più concluse soluzioni, a por fine alla questione sul­ l'opportunità di chiudere, inquadrare o rinviare specular­ mente. Opera dell'architetto danese Otto von Spreckelsen, re­ centemente scomparso, cui spetta il merito di aver avuto l'idea, e del francese Paul Andreu, architetto capo della so­ cietà Aéroports de Paris, che gli venne affiancato quando il 44 consorzio Tete Défense si rese conto che il vincitore non



so. Fra i duecentocinquanta gruppi presenti ne sono stati selezionati venti in una prima fase: si tratta di Arquitecto­ nica, Bofill, Maki, Siza, Hertzberger, Nouvel, Gaudin, Stir­ ling, lo stesso Perrault, Koolhaas, Ciriani, Botta, Tschumi, Chaix e Morel, Grimshaw, Meier, Huet, Soler, Domenig e Kaplicky. I progetti più interessanti sembrano puntare su di un rinnovato interesse per l'immaginario high tech: da quello vincitore - peraltro così elementare nell'impianto da risultare forse proprio perciò abbastanza sorprendente a quelli di Maki, Grimshaw, dello stesso Meier, di Nouvel, ma anche di Bernard Tschumi e di Rem Koolhaas, i più radicali fra i concettuali. Tra i più efficaci ed eleganti il pro­ getto di Chaix e Morel. Imponente il monumentale e fram­ mentario assemblaggio di Stirling, che si muove in maniera sempre più capricciosa e disinvolta, al punto da ricordare gli arbitri eclettici di Johnson. Poche e deludenti le com­ posizioni classicamente segnate: Bofill, Siza e Bernard Huet. Riassumiamo, per concludere, i punti di maggiore inte­ resse che sembrano emergere da questa rassegna. Prima di tutto ci sembra valga la pena sottolineare lo straordinario e lungimirante interesse che il mondo politico dimostra con­ cretamente per l'architettura della città, per la costruzione di nuovi edifici e per il restauro di quelli storici. Interesse che ne privilegia esplicitamente la dimensione culturale, co­ munque correttamente riportata all'interno di una logica di mercato. Va poi rilevato il ruolo assunto dall'archltettura francese sulla scena contemporanea: siamo oggi costretti a rivedere radicalmente i giudizi di marginalità sui quali sem­ brava attestata la critica nei decenni passati. Importante è anche l'apertura dei grandi incarichl ai progettisti stranieri: ciò implica una visione ampia e sprovincializzata della cultu­ ra architettonica, particolarmente apprezzabile in un paese da sempre patria degli sciovinismi più accesi 4• L'indiscutibile eccezionalità degli interventi sembra poi ridimensionarsi a fronte dell'eccezionalità stessa di Parigi. Va detto infine che, pur nell'estrema eterogeneità e nella più grande disconti­ nuità qualitativa, sembrano tuttavia emergere alcuni orien46 tamenti comuni. Sembra cioè che la composita ricerca con-



1 M. CAl\'TAL-DUPART, Paris bouge-t-il?, in « Urbanisme & Architectu­ re •, n. 231-232, ottobre-novembre 1989. 2 F. MIITERRAND, in Paris 1979-1989, Rizzoli, New York 1988, p. 9. J F. MrrrERRAND, nel colloquio Création et développement tenuto alla Sorbonne il 13 febbraio 1983, cit. in Paris New/Nouvelle Architecture, a cura di M. Behar e M. Salama, « Tecniques et Architecture •• Regirex France, 1988, p. 16. 4 A Parigi hanno di recente costruito anche celebri nomi stranieri, oltre a quelli incontrati per il programma di stato che abbiamo ana­ lizzato: pensiamo a Gino Valle, con il blocco di uffici Le Galilée alla Défense; a Renzo Piano, con l'estensione sotterranea dell'IRCAM e con il centro direzionale comunale per la nettezza urbana; a Ricardo Bofill, con il dubbio complesso residenziale di Piace de Catalogne. Molti ancora quelli che stanno oggi costruendo: Kenzo Tange, con il grande edificio polifunzionale di Piace d'ltalie; Peter Rice, con il gruppo di passerelle per la linea D della RER al Quais de Grenelle; Aldo Rossi, con un lungo edificio residenziale alla Villette-Sud; Helmut Jahn, con un albergo dì quattrocento camere, un centro per lo sport e per gli affari a Paris-Nord II a servizio dei sedici milioni dì viaggiatori che transitano ogni anno per l'aeroporto di Roissy Charles de Gaulle.




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