Op. cit., 82, settembre 1991

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Marina Montuori, Livio Sacchi, Sergio Villari Segretaria di redazione: Saia Graus Ventrella Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Te!. 7690783 Amministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Giordani, 32 - Te!. 7612002 Un fascicolo separato L. 6.000 (compresa IVA) - Estero L. 8.000

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Edizioni • Il centro • di Arturo Carola


G.

CARNEVAIJl -

M.

MONTUORI

Paraphernalia di fine millennio

A. SANDONĂ€

Arti visive e improbabili certezze

R. DE Fusco

Design: la forbice di storia e storio­ grafia Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero /tanno collaborato: Andrea Affaticati, Maria Virginia Cardi, Alessandro Castagnaro, Giacomo Ricci, Sergio Villari.


La rivista si avvale del contributo economico dei seguenti Istituti ed Aziende: Alessi Alias Boffa arredamenti Bulthaup Camera di Commercio di Napoli Corlegno Driade IC Soft Majorano Sabattini Zen Italiana


Paraphernalia di fine millennio GIANCARLO CARNEVALE - MARINA MONTUORI

La quinta Mostra Internazionale d'Architettura della Bien­ nale di Venezia ci offre lo spunto per ritornare su di un tema che ci pare come emarginato e rimosso pur essendo, da sempre, legato agli aspetti più concreti e storicamente permanenti del nostro lavoro 1• Pensiamo alla pratica proget­ tuale, a quel complesso di procedure e di azioni che accom­ pagnano il lavoro dell'architetto, una sorta di privato pro­ tocollo che ogni progettista, nel tempo, perfeziona e mette a punto, e del quale si avvale ogni volta che pone mano ad una qualche occasione compositiva. Riteniamo che siano in­ tervenute nuove condizioni storiche, vorremmo riferirci ad uno stravolgimento, ad un mutamento rapido e profondo ad un tempo e non abbastanza - ci sembra - segnalato dalla cultura specifica, che in questi ultimi decenni ha in­ vestito le modalità stesse di esercitare il nostro lavoro. La critica da un lato, gli architetti progettisti dall'altro, si vanno reciprocamente influenzando, determinando una tra­ sformazione dei tempi e dei modi della produzione archi­ tettonica 2• Da più parti sono state rilevate le analogie tra lo star system ed il sistema culturale che circonda il progetto 3• Si sono andate imponendo delle nuove condizioni di lavoro, delle tecniche di comunicazione che determinano, in modo indiretto e non evidente, l'esercizio stesso delle due attività culturali - da sempre - interdipendenti: la riflessione teorica da un lato, la pratica progettuale dall'altro.

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La critica di architettura promuove continuamente mo­ stre, segnala e divulga le opere di interesse già prima che vengano progettate, durante l'elaborazione, immediatamente dopo, mentre si procede all'esecuzione, togliendo addirittura il respiro agli stessi autori, insegue i talenti non ancora pub­ blicizzati, risponde alla domanda di informazione che un pubblico nazionale ed internazionale, ormai estesissimo, in­ cessantemente rivolge. E il ruolo che è tenuta a svolgere, che i sistemi di informazione, la pubblicistica, l'editoria stes­ sa reclamano. La critica amplifica, moltiplica gli eventi ar­ chitettonici, anzi, comincia a produrli, anche artificiosamen­ te, prova ad orientarli - raramente -, ne insegue gli svi­ luppi 4 • Il progettista, incalzato, deve cambiare le modalità del proprio lavoro, assumere tempi di «confezione», di «mani­ fattura,. diversi, accettare ruoli nuovi, «pubblici», parteci­ pare a dibattiti, convegni, presentazioni di mostre, di libri, affrontare seminari progettuali (degli ex tempore collettivi che vanno richiamando un pubblico internazionale di spe­ cialisti sempre più folto) 5• E, come dicevamo prima, un ri.ncorrersi tra chi analizza, interpreta e descrive dei fenomeni da un lato, e chi è pro­ tagonista e produce materialmente gli oggetti della osserva­ zione dall'altro. Ma l'osservatore influenza la produzione non meno di quanto il prodotto condizioni l'attenzione critica. A volte è la critica ad indicare delle linee operative, spe­ rimentali, altre volte sono le tendenze progettuali a richia­ mare la curiosità repentina del pubblico dell'architettura. In ogni caso - e dobbiamo prenderne atto - stanno tra­ sformandosi, sotto i nostri occhi, i fondamenti stessi del me­ stiere: le nuove destinazioni verso cui si dirige la produzio­ ne architettonica ne hanno modificato l'aspetto, la conforma­ zione, le tecniche di rappresentazione, la condizione opera­ tiva. Il lavoro dell'architetto, nel moltiplicarsi di altri ruoli, si è riproporzionato su realtà organizzative nuove, anche in ragione di nuove tecnologie. Questa rivoluzione, questo sconvolgimento, come lo defi6 nivamo prima, non è stato oggetto di molte riflessioni né





qualche classificazione, un ordinamento. La risposta cui per­ viene è che non esiste un atteggiamento innocente, comple­ tamente obiettivo, neutro. Ogni -volta che proveremo a raccogliere dei materiali, delle produzioni, degli oggetti, ricorreremo, con maggiore o minore consapevolezza, a dei sistemi di classificazione par­ ziali. Quando poi l'obiettivo che ci si pone è quello di rap­ presentare, per mezzo di una raccolta, una condizione sto­ rica, un insieme di atteggiamenti culturali, una registrazione delle « forze » presenti in un determinato momento in un determinato luogo, non solo è da escludere ogni innocenza, ma va messa in conto una buona dose di partigianeria e di faziosità. Tale è il destino di ogni critico chiamato ad istruire una esposizione, una mostra. Perché mai - ci sarà sempre qual­ che addetto ai lavori pronto a chiedersi ed a chiedere - è stato escluso quel tal quadro, la cui presenza andava invece ritenuta irrinunciabile alla piena comprensione della vicenda artistica di Tizio (o di Tiziano)? Figuriamoci .poi quando si allarga il campo della rappresentazione affrontata: immagi­ niamo una collettiva, e non interna ad una determinata ten­ denza, ma che voglia tener conto di un ampio ventaglio di opportunità intellettuali, proviamo ancora ad escludere ogni limite generazionale, estendendo ulteriormente il campo del1'osservazione. Ora riferiamoci non alla grafica, o alla musica, né alla pittura, ma all'architettura, senza ulteriori delimitazioni (non quella dei concorsi, non quella riferita alle opere pubbliche, non quella dei grandi complessi, non solo quella realizzata, ma anche quella dei progetti), e proviamo ad allargare a li­ vello internazionale il raggio della nostra attenzione. Un ul­ timo tocco: rivolgiamoci non solo alla produzione profes­ sionale, ma anche alle sperimentazioni e; infine, facciamo intervenire le questioni della didattica, dell'insegnamento, vale a dire di come e cosa vada trasmesso del corpus disci­ plinare (ammesso che esista una delimitazione accertata in 10 tal senso).


Stiamo parlando del progetto, generoso ai limiti dell'am­ bizione più luciferina, dell'ultima Biennale di Architettura di Venezia. Il complesso sistema di esposizioni e mostre che Francesco Dal Co è riuscito a mettere insieme. Una prima considerazione va fatta, facendo seguito alle ipotesi già formulate: bisogna rendere merito alla lucidità di questa operazione che, nell'assumere i rischi di una par­ zialità inevitabile, ha inteso ripartire il carico degli arbitri e degli azzardi (cioè le decisioni delle esclusioni), sul mag­ gior numero di responsabili possibili. Vale a dire: le varie scuole di architettura, invitate secondo una prima già discu­ tibile selezione, espongano ciò che vogliono, purché i mate­ riali si conformino agli spazi disponibili. Le varie nazioni presenti con dei propri padiglioni nei giardini della Bien­ nale (e le altre? Potrà interrogarsi il solito difensore delle neutralità e delle obiettività assolute. Le altre - potranno rispondere tautologicamente i curatori della Biennale di Ar­ chitettura di Venezia - non sono, di fatto, fisicamente pre­ senti nella Biennale di Architettura di Venezia), ebbene que­ ste nazioni propongano un proprio show di progetti rappre­ sentativi della condizione storico-culturale della architettura nel proprio paese, andrà benissimo una mostra di under 40, o di over 70, o di sola avanguardia hard, o di retroguardia soft. Naturalmente, ed è un quesito intrigante, questi cura­ tori, ·questi corrispondenti cileni, ungheresi, francesi, come sono stati designati? Tutti dai Ministri della Cultura dei ri­ spettivi Governi? E poi c'è la collettiva, un gruppo di Quaranta (perché poi Quaranta? Altri numeri buoni sono stati in passato Dieci o Dodici, o Cinquanta o Cento, si ricordano anche dei Tre), architetti italiani, e i tre concorsi due a invito e uno no, anzi no nel senso che non c'erano stati inviti (o forse sì, ma informali anzi, clandestini) e invece c'era stato un pub­ blico non-invito a partecipare, una diffida (o scomunica, dati i toni da crociata assunti da alcuni ordini professionali). Chi è invitato al Palazzo del Cinema, non lo è al Padi­ glione Italia, il primo è un concorso internazionale, il se- 11


condo nazionale. Per il terzo si parla di duecentocinquanta progetti da tutto il mondo, scomunica a parte. Come si vede, i criteri, per quanto ci si possa esercitare, sono talmente tanti e tanto affidati, come si diceva prima, ai margini di discrezionalità di molti, da garantire quasi, nel moltiplicarsi delle sceltè e delle esclusioni, quella inattingi­ bile obiettività che sembrava, all'inizio, doversi escludere. Possiamo, ragionevolmente, sostenere che in questa Bien­ nale difficilmente saranno state ignorate tendenze o scuole, e che, al contrario, siano rappresentati, in misura variabile, quasi tutti i contemporanei atteggiamenti in architettura. Dunque la critica, ha voluto ricordarci Dal Co, non può che registrare, al momento, la dispersione 8 e la molteplicità che caratterizza il nostro modo di produzione. Tanto vale provare a fare un giro d'orizzonte totale, una ricognizione il più possibile ampia, che consenta a tutti noi di prendere atto di una condizione di diffuso disorientamento. I ritmi accelerati che il consumo di architettura va imponendo sot­ traggono spazio all'esercizio del confronto, al riconoscimento delle analogie, alla capacità di ricordare (o dimenticare). Le costruzioni sintetiche di sistemi critici per ordinare, per elencare sono, giocoforza, labili, soggette a rettifiche, ag­ giornamenti, censure. Da più parti, con lapalissiana mestizia, si è detto che vi­ viamo, per l'architettura, in un'epoca di appiattimento di va­ lori, di frammentazione, di esasperate ricerche impazienti, quasi che il Valore di un'architettura potesse emergere così, per caso, per serendipity. Si va coltivando una speranza un po' grottesca che la Qualità, prima o poi, non tarderà a ma­ nifestarsi, impigliata in qualcuna delle reti tesate; nel frat­ tempo, in questa transizione, è anche giusto che si moltipli­ chino i fronti, tentando e sperimentando, tra revival e anti­ cipazioni, tra dubbi generosi e certezze avare. E i critici devono registrare. Cos'altro? Alla critica di tendenza, di «regia», ci crediamo poco tutti ormai: andreb­ bero fatti tanti distinguo in proposito da togliere immedia­ tezza e fascino a questa formula, e poi dove sono questi artisti trasognati da indirizzare, da incoraggiare; ed i critici 12


che presentano e dispensano elogi e bacchettate, dove sono? Dunque registrare, classificare, senza innocenza, certo, con personali e palesate idiosincrasie, sintonie, simpatie. Ma (ed è una richiesta che rivolgiamo a noi prima che ad altri) saremo in grado di attraversare questa landa inde­ finita popolata così tumultuosamente da concitati e vario­ pinti interpreti - sì parliamo del territorio dell'Architettura, oggi - senza lasciarci travolgere da vertigini stendhaliane, o semplicemente, per rifarci ad un autore a noi più caro, senza subire quella sazietà che viene dall'abbondanza (Eduar­ do - Questi fantasmi - quando sostiene che, a suo avviso, Giulietta e Romeo dovevano essere molto ricchi per poter dedicare tutte quelle energie e quel tempo all'innamorarsi)? Ecco: il nostro timore è che siamo arrivati ad affermare l'opulenza del minimalismo per esorcizzare ( o far dispetto a ) l'alta tecnologia. Che cioè s i proceda per scatti automatici, per sussulti non emotivi, ma quasi meccanici, per supera­ menti coatti. La Biennale ci offre questa occasione, oggi, di festoso confronto, una sorta di chiamata alla ribalta indiscriminata di protagonisti e comparse, una affollata passerella che, e può darsi che vi sia la malizia di Dal Co in agguato, acco­ stando figure solitamente remote ne accentui involontarie ed imbarazzanti somiglianze. Potrebbero gli studenti di Sidney, ad esempio ed a caso, non riconoscere l'autorità di Botta, ma pervenire a risultati assimilabili alle più recenti ricerche dell'ancor giovane vete­ rano ticinese? O altre e più intriganti coincidenze potreb­ bero darsi: l'Atelier 2, polacco, potrebbe ricordare l'Atelier 5, passando attraverso il Team X e non escludendo i Five? Molte acrobazie sono possibili, oggi, di fronte a questa kermesse voluta e faticosamente realizzata; sta a noi usare questa occasione per evitare mondanità e funambolismi. Vor­ remmo formulare dei buoni propositi. Due buoni propositi, per l'esattezza. Il primo è che vi sia, da parte della critica ufficiale, mi­ litante e non, militarizzata e non, un recupero di un antico atteggiamento (critico, per l'appunto). Ci piacerebbe tanto

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che qualcuno, tra gli addetti ai lavori, riuscisse a formulare, apertamente, motivatamente, articolatamente, un giudizio cri­ tico negativo, riconoscendo che il Tizio (o il Tiziano - an­ che lui, Vecellio, ebbe ad incorrere in prestazioni opache, talvolta!) ha prodotto una architettura davvero modesta, anzi mediocre, e che, stavolta, è di molto al di sotto dei propri standard abituali. Una pretesa assurda, nevvero? Sono anni che aspettiamo un giudizio polemico esplicito rivolto a qualche nome di prima grandezza, ma sembra sem­ pre meno presente questa verve discriminatoria, questa ca­ pacità un po' bellicosa di attaccare ciò che si avverte come mediocre 9• Sarà un segno di civiltà, di gentlemen's agreement, ma il massimo che possa accadere, oggi• come oggi, è il passare sotto silenzio, nella convinta certezza che vi sia spazio per tutti, che viviamo un periodo di transizione (ancora?), e che la propria attenzione vada rivolta soltanto a quelle esperienze che ci interessano davvero. Ma non è così - ci sembra che si esce dallo stallo in cui ci troviamo, molte incertezze possono, devono esserci, il dubbio è una conquista che va difesa dalla cultura contemporanea, certo, ma vi sono anche alcune certezze, piccole, modeste. Soprattutto, queste piccole certezze, sono riferibili all'assenza di qualità. Potremo anche avere dubbi sul valore effettivo - facciamo degli esempi, proprio utilizzando i casi dei quali siamo, al contrario, più certi, per non turbare neanche noi stessi - di Alvaro Siza, che magari, nel corso della metà del terzo millennio, potreb­ be persino essere dimenticato, ma come far finta di niente di fronte alla clamorosa mediocrità dell'ultimo progetto di un qualche signor Rossi, verso il quale, privatamente, unanime è il biasimo, mentre nessuna voce si leva pubblicamente? Dunque che escano allo scoperto dei critici abilitati a far­ lo, ma anche dei progettisti, per dirci cosa c'è che non va nel lavoro di altri (o, perché no, nel proprio stesso lavoro); non chiediamo tanto, ma certo è più utile riconoscere le dif­ ferenze, ritagliare le diversità, negare, negarsi, che non l'apa14 tico ecumenismo nel quale versiamo.


Il secondo proponimento, quasi un corollario del primo; è quello di fissare dei confini convenzionali tra ciò che an­ cora può dirsi architettura e ciò che già non lo è più. Cre­ diamo di non esagerare nel parafrasare il Calvino de La gior­ nata di uno scrutatore, quando descrive la partecipazione alle operazioni di voto in un seggio insediato nel Cottolengo, e la progressiva caduta di tutte le sue istintive diffidenze di militante comunista, di fronte all'apparire di ogni sorta di miseria fisica, tanto che si andava convincendo che la vera differenza da stabilire non era più tra chi fosse capace di esprimere liberamente un voto o meno, ma soltanto tra umano e sub-umano. Analogamente, e non crediamo di esa­ gerare, la attuale condizione pone non già problemi di in­ terpretazione critica e di definizione analitica, quanto piuts tosto va evidenziando che la sola vera distinzione che conta rischia di non passare più attraverso le ideologie, o sempli­ cemente la qualità, ma deve cominciare a definire un con­ fine ben più netto ed inclusivo tra ciò che è ancora archi­ tettura e ciò che architettura non è più 10• E, secondo noi, non è su sofisticati impalcati teorici o enunciati poetici che si gioca questa partita: le analisi sono semplici, banali, quasi volgari. Fermo restando che non crediamo nell'esistenza di norme che possano garantire la qualità, che preferiamo far riferi­ mento alla induzione più che alla deduzione, che, in breve, non ci sembra che le regole producano architettura, quanto, piuttosto, che sia l'architettura, nel suo farsi, a fissare dei principi; fermo restando tutto ciò, ci pare di poter dire che non siamo in presenza di architettura, per quanto amma­ lianti possano esserne le rappresentazioni che se ne danno, quando una scala si imbatte a mezza strada in una trave importuna, quando un solaio cerca invano dei pilastri, quan� do la rappresentazione è prepotente rispetto alla fisicità, con­ creta e dolente, della costruzione. Anche questo proposito è ambizioso? � troppo, in un momento di opulenza, di « sazietà che viene dall'abbondanza », ripiegare sulle poche misere regole d'arte. Eppure si sente sempre più il bisogno di un rallentamento, di un co-

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prifuoco, di un po' di prudenza, di pazienza nel fare, di im­ pazienza nel giudicare. Dovranno distinguersi i ruoli, gli at­ teggiamenti, prima o poi, tra critici ed operatori. Chi progetta dovrà rivendicare, riconquistarsi, il diritto alla confusione, all'impaccio, all'imbarazzato tentativo, osten­ tare meno eleganze, allungare i tempi di elaborazione, ridarsi il gusto della soluzione artigiana, della limatura, del rap­ pezzo raffinato. Accettare il rischio dell'indefinito per soddi­ sfare la curiosità di un esperimento. Oppure ripiegare sul banale, sull'ovvio, accorgendosi di quanto coraggio ci voglia. Chi guarda (ricordiamo la distinzione, durante un pub­ blico dibattito, che Tafuri operava tra Voyers ed Esibizioni­ sti), chi giudica dovrebbe riappropriarsi del ruolo, ingrato, di esperto: riconoscendo le croste, i falsi, esercitando il proprio diritto-dovere pubblicamente, disconoscendo autori ed opere, piuttosto che continuare ad operare come talent

scout.

Paradossalmente, in questi ultimi anni, abbiamo assistito ad un gioco al massacro capovolto: il cercare autori nasco­ s_!i, rivendicando scuole misconosciute o scoprendo le grandi possibilità latenti o il proporre tre, quattro, cinque opere all'anno del progettista infallibile, sempre in grado di supe­ rarsi e, se no, di confermarsi ad altissimo livello. Questa be­ nevolenza continua e riguardosa, lungi dal provocare avanza­ menti e progressi, ha ingenerato nella critica una « caduta del desiderio», una assuefazione, una malinconica ed elegante nonchalance, dimentica ormai degli antichi e sanguigni sa­ pori, del calore di un'invettiva un po' aspra, delle accuse di plagio, delle esaltate conclamazioni di qualità. Ben venga questa festa della Biennale, ci sembra che il momento non potesse essere più opportuno, una sorta di riepilogo, di celebrazione conclusiva; proviamo a conside­ rare quest'incontro come un gigantesco inventario, una elen• cazione minuziosa dei paraphernalia di questo ultimo decen­ nio del secondo millennio, sarà per tutti noi l'occasione per esercitare il gioco crudele del disconoscimento, da affiancare a quello, che sa essere affettuoso fino a sconfinare nell'eccesso 16 imprevisto del dramma, del riconoscimento.


1 Alcune riflessioni in questa direzione sono già state svolte sulle pagine di questa rivista nel saggio di G. CARNEVALI!, Il pensiero della mano, « Op. cit.• n. 80, 1991. 2 Ciò che sl sta producendo sul terreno dell'architettura è una spaccatura sempre più profonda con la cultura materiale e mentre da ormai cinquant'anni la storiografia della scuola delle « Annales ,. parla del Portogallo del Cinquecento in termini di zucchero o della Germa­ nia del primi dell'Ottocento in termini di filo metallico, In architettura siamo ancora, nella mlgliore delle Ipotesi, ad omaggiare vasarianamente le storie degli architetti Illustri. Resta purtroppo isolato il provocato­ rio contributo di MANOLO DE GroRGI, intitolato Storici come pubblicita­ ri, storici come sceneggiatori, pubblicato in « Casabella• n. 541, 1987, dal quale abbiamo tratto la citazione, che, pur avendo avviato un di­ battito intorno al tema, non ha prodotto elaborazioni nel merito delle questioni più legate alla e qualità fisica dell'architettura•· 3 Ad esempio Francesco Tentori parla di clowns internazionali in Tradii.ione cinismo didattico, Architettura Venezia, supplemento a « Mo­ do• n. 111, 1989. 4 Cfr. in proposito l'analisi svolta da noi stessi nell'Editoriale de­ gli Annali dell'architettura italiana contemporanea 1986-191fl, Officina Edizioni, Roma 1991. s I seminari progettuali, stanno diventando, sempre più, delle vere e proprie tournée, delle performance organizzate e programmate rigo­ rosamente che vanno investendo, capillarmente, il territorio periferico della nostra cultura. Si tratta di una nuova forma, a metà tra didat­ tica e spettacolo, che fornisce, in tempi limitati e obbligati, un pro­ dotto rivolto sia ad amministratori, politici ed operatori economici (da cui le sponsorizzazioni, via via più cospicue), che ad un pubblico di appassionati cultori del genere. I baracconi che vengono montati qui e là, e che proliferano di anno in anno, lungi dall'essere semplicemente dei festival di architettura, vanno acquistando connotazioni tali da richiedere, ormai, una sorta di professionalità specifica, stabilendo dei circuiti di specialisti di architettura a gettone, ma, e questo è forse l'aspetto più inquietante e più rassicurante allo stesso tempo, di certo paradossale, nonostante questa tendenza alla routine, all'iterarsi di sce­ nari e situazioni, i progettisti partecipanti, come tutor da un lato e come frequentatori paganti dall'altro, si impegnano davvero, sembrano continuare a credere nell'architettura, anche in questa architettura d'oc­ casione, venale, ... su appuntamento. Non sappiamo come valutare que­ sto nuovo bisogno, questa ennesima conferma di una domanda e di una offerta vivacissima di progetto: potrà anche essere una manifesta­ zione patologica, ma comunque attesta una condizione vitalistica, esu­ berante, di insaziabile desiderio. l:. una nostra interpretazione, ma non sarà forse che le università, i corsi didattici, siano ormai dei luoghi inadeguati, falsati dalle deformazioni strutturali intervenute, e il biso­ gno di architettura si canalizzi altrove, rivolgendosi a nuove forme di mercato? 6 G. PEREc, Pensare/Classificare, Rizzoli, Milano 1989, pp. 97-98. 1 Ibidem, p. 143. • Sul tema della dispersione, della frammentazione, dello spezzet­ tarsi del senso, è ormai molteplice la produzione critica, ma ci sem• bra, fra tutti, di interesse la riflessione fornitaci da Derrida quasi venti anni addietro. J. DERRIDA, La dissémination, Editions du Seui!, Paris 1972, trad. it. La disseminazione, Jaka Book, Milano 1989. 9 La stroncatura. Quanta nostalgia per un genere dimenticato! Per quale ragione si stia perdendo il gusto per la stroncatura, in partico-

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lare da noi, in Italia, non sappiamo immaginare. Sono passati tanti anni da quando Argan giudicò negativamente la Cappella di Ronchamp, pure nessuno ha mai ritenuto sminuito il valore di quel critico per un giu­ dizio forse un po' affrettato, certo severo. Noi crediamo rientri nel gioco delle parti, e che, quando si abbiano argomenti e buona fede sia perfettamente lecito ed auspicabile dissentire da quelle prove che non appaiono convincenti, anche se di autori consacrati. IO G. CARNEVALE, M. MONTUORI, Editoriale, in Annali dell'arc/1itelt11ra italiana contemporanea, 19S8..S9, Officina Edizioni, Roma 1991.

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Arti visive e improbabili certezze ANNAMARIA SANDONÀ

L'estate del 1991 sarà ricordata per un fenomeno anomalo nell'ambito delle grandi rassegne espositive. Si sono tenute infatti due mostre, la prima a Berlino,.« Metropolis », la se­ conda « Anni 90 » a Bologna, Rimini e Cattolica, sulla situa­ zione internazionale dell'arte. Si tratta di una vasta rifles­ sione critica sulla creatività contemporanea, o meglio su quelle che si ritiene possano essere le direttrici entro cui si incentrerà il percorso artistico del prossimo decennio. Una specie di futurologia dell'arte con tutti i distinguo imposti dall'argomentare su una attività che non ha mai risparmiato sorprese ed imprevedibili impennate per l'impraticabilità di arti divinatorie attendibili. Queste due rassegne meriterebbero la solita recensione, se non emergesse negli scritti in catalogo l'ipotesi non tanto velata di una impasse, o per lo meno di una involuzione crea­ tiva degli artisti, già così evidente da alcuni anni da far le­ citamente supporre che nell'ultimo decennio di questo se­ condo millennio la produzione artistica non si discosterà di molto da quanto si sta già facendo oggi. Fino a questo secolo era prassi comune che la nascita, lo sviluppo, la maturazione ed il superamento di un linguaggio artistico si sviluppassero in un periodo di una qualche de­ cina di anni per cui venivano rispettati dei tempi tecnici di evoluzione creativa e di assorbimento della nuova forma espressiva.

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· L'appropriazione di uno stile personale da parte dell'ar­ tista avveniva gradualmente senza troppi traumi ed era ac­ compagnata dal consenso del « pubblico», in genere della committenza: il tempo della storia svolgeva il suo corso ac­ canto al tempo interno della creatività dell'artista. Questo si verificò più o meno fino all'impressionismo. Poi il tempo sociale determinato dal progresso industriale subì una for­ tissima accelerazione, tanto più evidente in questo secolo, accelerazione che trascinò con sé anche il cammino dell'ar­ te. Questo è vero a tal punto che i primi vent'anni del No­ vecento, fautori delle avanguardie storiche, furono investiti da un fenomeno di affabulazione strepitosa delle stesse, pari per forza innovativa solo a quanto altrettanto è accaduto negli anni sessanta. In due diversi periodi storici quindi, ma con innegabili similitudini nelle trasformazioni sociali e nei traumi politici che si sarebbero verificati di lì a poco, le ten­ denze artistiche si svilupparono in modo incalzante, una ap­ presso all'altra, in uno spazio temporale estremamente ri­ dotto. Fu per questo che molti artisti nel corso della loro vita aderirono a più movimenti espressivi, spesso in modo superficiale, appunto perché esposti a sempre nuove solleci­ tazioni e sperimentazioni. Era anche il momento della con­ taminazione fra più stili, della ricerca affannosa di un lin­ guaggio diverso, personale, legittimato dalla riflessione sulle finalità e sulle funzioni dell'arte. L'insofferenza e l'aperto dis­ senso nei confronti della tradizione faceva da giustificazione etica al rifiuto del passato. Il dibattito artistico si incentrò quindi sul difficile rapporto fra pensiero, modalità creativa e realtà sociale. Gli artisti delle avanguardie storiche si ponevano come i demiurghi di una necessaria alternativa stilistica ad un Modernismo voluttuoso che celebrava l'ottimistico mito bor­ ghese di una società felice fondata sul progresso industriale. Gli artisti degli anni sessanta a loro volta si trovarono ad affrontare gli effetti della spinta tecnologica e consumistica derivati dalla ripresa industriale post bellica, che velavano le contraddizioni stesse di una società avviata ad una drammatica rotta di collisione con le prime lotte operaie e stu-


dentesche. Da un punto di vista artistico comune a questi due momenti storici fu sia una costante ricerca progettuale interna alla produzione che un destino temporale relativa­ mente breve dei linguaggi formali. Appare evidente come si sia verificata una profonda scis­ sione fra il modo di approccio al reale, sia esso descrittivo del mondo visibile o mutuato da istanze del profondo, e le possibilità di comunicazione insite nella sua rappresentazio­ ne. Le non-forme, o immagini destrutturate, di gran parte delle avanguardie trascendevano il fenomeno dato apriori­ sticamente poiché l'artista, non essendo più interessato alla sua raffigurazione, per approfondire il problema della cono­ scenza del reale operava attraverso uno shock metalingui­ stico al fine di provocare un complesso di sollecitazioni mentali. Nel momento in cui la comunicazione visiva mirò a dimo­ strare la precarietà del dato oggettivo si verificò una impasse gnoseologica, la cui unica riva di approdo era costituita dal bisogno di teorizzare per cercare di spiegare una identità fra arte e vita. Gli artisti, dall'espressionismo in poi, tesero ad esprimere, sia nella prassi che nelle dichiarazioni di poetica, un pensiero critico sulla loro relazione con la società del tempo, sui sottili legami che vincolavano ad essa il proprio mondo creativo. Il fatto che l'opera d'arte si allontanasse sempre più da codici estetici tradizionali scompigliò anche i consueti para­ metri di giudizio cui faceva ricorso sia la critica nell'inda­ gare il fenomeno in termini di maggiore o minore artisticità dei contenuti e delle tecniche usate per esprimerli, sia l'ac­ cettazione del « pubblico », fruitore e non più committente, che si trovava ad aver sempre più bisogno di ricorrere a chiavi di lettura interpretative per comprendere i significati dell'opera. Lungo tutto questo secolo, di fatto, l'arte ha preso le distanze dalla sua stessa funzione di comunicazione e su­ blimazione rispetto al reale. Le modalità espressive hanno sempre presupposto infatti una conoscenza articolata ed eli­ taria per essere comprese. Ne è derivata una forte frattura fra la teoria che proclamava una critica messa in scena del

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sociale, ed il pubblico, anche il più attento, che si è mostrato spesso indifferente ed insofferente alla provocazione poiché non ne ha riconosciuto né le ragioni né gli stilemi usati per proporle. Del resto non è stata impresa da poco sostituire alla categoria del bello quelle del significante, del vitale, del­ l'espressivo, o peggio quella del brutto, del degradato, come polo positivo e paritetico in una nuova estetica. L'artista ha lavorato su e con dei linguaggi in cui veniva a mancare quel dialogo simbiotico fra operatore e fruitore che avrebbe do­ vuto portare all'elaborazione di un pensiero creativo che coin­ volgeva entrambi. Per cui,· pur essendoci una fortissima esi­ genza da parte degli artisti di farsi portavoce nell'opera di un rapporto alienante fra il loro io ed il mondo moderno, di fatto, nella realtà produttiva, questo non appariva, o meglio le tematiche del disagio sociale erano espresse in modo crip­ tico e simbolico. Il corpo artistico, che in teoria assorbe e contesta il corpo sociale, nella prassi se ne distaccava attra­ verso linguaggi sempre più cerebrali, poco comunicativi, in un difficile ed improbabile approccio con le esigenze della collet­ tività, le sue istanze e le nuove ideologie. Era un problema di lasso temporale fra ideazione e ricezione del messaggio. La scarsa permeabilità del pensiero insito nella produzione ar­ tistica contemporanea ha tuttavia una sua ragione se Nor­ man Rosenthal sostiene che quanto più un'opera d'arte si chiude alle spiegazioni, tanti più strati di contenuti signi­ ficanti contiene e quindi tanto più valida e ricca di signifi­ cati è per l'osservatore. Proprio il non fornire facilmente una esigenza morale di ·base conferisce all'arte la sua forza, la sua dinamica e l'impressione o per lo meno la speranza che nasca qualche cosa di nuovo 1• Tramite esplicativo indi­ spensabile è diventata quindi la funzione della critica che ha fatto ricorso a più strumenti iconologici per svelare i si­ gnificati delle tendenze artistiche contemporanee. La critica ha inoltre la fondamentale· funzione di promuovere l'opera immettendola in un circuito mercantile in cui anche il gal­ lerista -diviene un operatore culturale. Con questa affermazione mi piacerebbe pensare che tutta la produzione artistica presentata nelle grandi mostre, come


quelle da cui prendono le mosse queste considerazioni, le Biennali, Documenta o, a maggior ragione, nelle grandi fiere internazionali, sia significativamente la più interessante e valida perché proposta dagli operatori più attenti a cogliere gli elementi formativi della cultura contemporanea. Tornando alle mostre di Berlino e Bologna si presup­ pone quindi che le scelte operate dai curatori aderiscano ed interpretino il senso stesso della contemporaneità. Non a caso dieci artisti, peraltro già presenti sulla scena interna­ zionale da almeno dieci anni, espongono sia in « Anni 90 ,. che in « Metropolis » 2• Il sintomo più significativo che emer­ ge ed accomuna le due rassegne sembra essere la riflessione critica sull'atmosfera creativa generale. In entrambe appare subito evidente come manchi una linea di tendenza forte che coaguli un nucleo di artisti dal linguaggio innovativo ed omologo. È interessante notare come questi anni novanta si aprano all'insegna di · una molteplicità polisegnica in cui tutte le possibilità espressive sono percorse in quello spirito noma­ dico che era stato anticipato, con diverse modalità, alla fine degli anni settanta dall'ultima tendenza significativa, la Tran­ savanguardia internazionale. È una diaspora che permette agli artisti di esprimersi riscoprendo e reinventando tutti i momenti della creatività di questo secolo. Da qui nascono le perplessità della critica. Per il momento, non resta che ri­ ciclare il già fatto... meglio prendere coscienza di un simile destino ormai volto immancabilmente a ricalcare, a riedita• re, a lavorare entro le virgolette della citazione... a questi itinerari dell'ibridazione, dello scambio incrociato 3• Renato Barilli, curatore di « Anni 90 », giunto a questa conclusione disincantata, nello scritto in catalogo tenta ugualmente una sistematizzazione delle principali linee cui la creatività odier• na fa riferimento proponendo una griglia interpretativa per similitudine da cui enuclea quattro generi: la pittura, il con­ cetto, l'oggetto hard e l'oggetto soft 4• Tutta la critica internazionale è d'accordo sull'assenza di novità, sulla ripetitività creativa del momento, forse dovuta anche ad un fenomeno,· quello della sovrainformazione, ti- 23


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pico dei nostri tempi. Il numero eccessivo di mostre, la mo­ bilità stessa degli artisti, in sé meritoria, il potere dei mezzi di informazione capaci di determinare un successo effimero per un mercato nel recente passato onnivoro ed ora bloccato da una crisi che penalizza tutto il sistema dell'arte, sem­ brano aver paralizzato la ricerca di identità degli artisti, per cui l'unica regola del gioco è un eclettismo che regge le pratiche artistiche attuali (e) non genera più una reale di• versità 5• Il remlx riprende tutti gli ingredienti di un successo pro­ ponendolo, lievemente modificato, al gusto del pubblico. In tal modo l'artista applica ricette già sperimentate, rivisita una certa idea della modernità e delle avanguardie con pre­ tesa di novità. Ancora una volta sl tratta della sindrome del neo che privilegia la replica, il surrogato a scapito dell'ori­ ginale 6• Questa analisi è forse bruscamente liquidatoria delle motivazioni che hanno portato gli artisti all'attuale momento di eclettismo onnivoro. Senza dubbio lo strato roccioso che impedisce un reale affrancamento dal passato degli artisti è determinato anche dal fatto che tutte le strade sembrano essere già state percorse ed i linguaggi e�periti, per cui lo scarto di innovazione creativa risulta essere minimo. Pur tuttavia mi sembra che gli artisti esprimano soprattutto una pausa autenticamente riflessiva sulle molteplici modalità espressive di questo secolo e non solo il cul de sac del loro riciclaggio. Certo che visitando queste due mostre, ma sarebbe lo stesso se fossero altre con altri nomi, si rimane con la sen­ sazione del déjà vu, si ha l'impressione di assistere alla mes­ sa in scena di una storia dell'arte ripropo.sta con codici che, pur cercando di discostarsi dalla matrice e di reinterpre­ tarne il linguaggio ed i contenuti adeguandoli ai nostri tem­ pi, non riescano a raggiungere una reale autonomia. Provia­ mo allora ad analizzare il problema da un altro punto di vista con un'altra modalità interpretativa ed a porci una do­ manda. E se gli artisti fossero nel giusto? E se questo atteggiamento non fosse sintomo di impasse creativa, bensl di un


nuovo modello per la mente, di una adesione meditata allo spirito della contemporaneità, di riequilibrio emotivo dopo l'euforia della scoperta? E se fossero ancora una volta i por­ tavoce più autentici e simbolici della crisi diffusa dalla revi­ sione ideologica in atto e manifestassero l'impossibilità di capire dove e contro che cosa vale ancora la pena di lotta­ re? Del resto anche a livello politico e sociale è evidente che l'atteggiamento più diffuso è quello dell'immobilismo, dello stare a guardare quello che avviene nel mondo intervenen­ do, se proprio necessario, il meno possibile. E in fondo non è così anche in campo letterario e filosofico in cui da qual­ che decennio si rieditano riflessioni sui grandi del passato? Forse che non si sa o non si può più scrivere o pensare? Non è detto che andare sempre avanti porti in qualche luo­ go, talvolta per leggi misteriose di bussole interne all'indi­ viduo, si può anche tornare sui propri passi. Come facevo notare all'inizio di questo scritto, dalle avanguardie storiche fino agli anni settanta l'arte di questo secolo è stata impron­ tata da un succedersi incalzante di tendenze che si sono fagocitate a vicenda all'insegna del necessario superamento, della sperimentazione eversiva, dell'aperta opposizione ad un passato anche recentissimo. Il fatto che la novità, l'origina­ lità, le mirabilia fossero oggettivamente un valore, aveva spinto gli artisti ad un'ansia di rinnovamento a tutti i costi, per cui si impose la convinzione onnipotente che il territo­ rio dell'arte fosse senza confini. Oggi sembra che i confini invece ci siano e ci si misura proprio con essi. A mio giu­ dizio questo è un punto nodale di estremo interesse per va­ lutare quanto, prima della critica, gli artisti hanno intuito. La storia dell'arte contemporanea, o meglio del processo creativo, non può sempre costruirsi su degli iati, su feno­ meni di cannibalismo teorico ed espressivo. Proviamo a pensare a quanto è successo nell'evoluzione della società di questo secolo. Il progresso industriale ha sostituito al nucleo patriarcale ed artigianale il nucleo privato, chiuso. I padri cosi violentemente contestati, soprattutto in un recente pas­ sato, hanno da tempo smesso di essere dei punti di riferi­ mento per i figli. Essi - come statisticamente ci dicono an- 25


che i mass-media - assolvono la loro funzione sociale sol­ tanto nel generare e nel mantenere i figli, demandando alle strutture pubbliche la loro istruzione e l'inserimento nel cor­ po sociale. Sempre meno si trasmettono cioè i valori della tradizione ed i suoi contenuti. Tornando agli artisti di questo secolo ed alla loro insof­ ferenza nei confronti di modelli espressivi tradizionali, si può dire che essi abbiano attuato un processo analogo di negazione della paternità in funzione di una nuova creativi­ tà. Questo ·gesto di disconoscimento violento voleva signifi­ care un atto rivoluzionario, il bisogno di affrancarsi da leggi ·e· modalità espressive ormai praticate e quindi di limitato impatto emotivo e conoscitivo. L'aperto dissenso portava con sé una progettualità fattuale piena di alternative valide che giustificavano il gesto arrogante della rottura con il passato. Da un punto di vista sociale questo fenomeno ha avuto il suo acme nel 1968, anno che usiamo paradigmaticamente per indicare il momento in cui più evidente è stata la rivolta contro il simbolo paterno che rappresentava un modello re­ ferenziale inalienabile fondato sulla tradizione. Di fatto, nelle arti visive, come del resto in qualsiasi am­ bito, ·compreso quello· della vita di ogni giorno, tutti gli arti­ sti, da Picasso a Duchamp, a Pollock a Beuys, tanto per far riferimento a quelli· che si possono considerare i padri fon­ datori del linguaggio contemporaneo, nella loro prima pro­ duzione furono figli di qualcuno, ebbero cioè legami imita­ tivi e ·generazionali con modelli cui far riferimento, altri­ menti non sarebbe potuta· avvenire quella rottura, o parri­ cidio simbolico, in senso creativo, cui accennavo poc'anzi. Ma fino a circa vent'anni fa c'era ancora la possibilità di violare il passato, di contestare e rigettare aspetti for­ mali anche di recentissima apparizione, talvolta prima che fossero assimilati ed accettati. Era il· territorio senza confini dell'onnipotenza. La storia dell'arte procedeva per iati trau­ matici, incurante dei tempi di evoluzione del linguaggio crea­ tivo. Tutto· doveva avere il carattere di novità, imporsi rapi­ damente e portare al successo pena l'esclusione dal banchetto 26 degli dei. Ma se questo « tutto » viene consumato troppo in


fretta, ne consegue il suo essere un fenomeno effimero che porta alla sua svalutazione. Come si inserisce quindi in questa lettura la produzione degli artisti di oggi già tacciati dalla critica di revivalismo o peggio di incapacità di rinnovamento creativo? Osservando le opere ho pensato che il riscontro di elementi desunti da linguaggi informali, minimalisti, poveristi e soprattutto da­ daisti è privo di imitazione simulatoria, il che in ultima ana­ lisi sarebbe un trucco. La produzione artistica presenta piut­ tosto i caratteri di una autentica nostalgia del patriarcale, del bisogno di identità ritrovata, è pervasa da un atteggia­ mento di consapevole ricreazione di una paternità fittizia de­ terminata da affinità spirituali. In questo modo gli artisti assolvono il compito di far ri-durare il tempo della creatività del passato per farne esaurire in una specie di neo-vita pro­ prio quel tempo interno affettivo e mentale di tutte le ten­ denze artistiche di questo secolo che non aveva avuto la possibilità di consumarsi per evoluzione endogena. Ripren­ dere le fila di forme espressive lontane vuol anche dimo­ strare di attribuire loro un valore che si pensa sia stato sot­ tovalutato e frettolosamente rimosso per l'incalzare dei tem­ pi e delle mode. I tempi sono maturi per riannodare i fili di discorsi interrotti bruscamente, non nei termini fredda­ mente cerebrali e storicistici di certi anacronismi museali, bensì in funzione di un ripensamento in cui vengono rico­ nosciuti dei geni ereditari. All'illusione dell'autoctonia fon­ data sull'assenza e sullo stacco onnipotente dal passato, su­ bentra un atteggiamento costruttivo di ricerca di paternità per una identità riconosciuta e da cui solo in un secondo momento ci si può affrancare. Gli artisti insomma per non affrontare l'insopportabile angoscia di una paralizzante ri­ cerca di autonomia provano prima a liberarsi del fantasma sempre presente di una perdita con cui si devono continua­ mente misurare. Per fare questo ricuciono lo strappo, tanti strappi, con un atto riparativo, quello dell'affettuosa, defe­ rente ripresa di modelli referenziali, in modo da elaborare finalmente un lutto e sentirsi poi liberi di esprimersi in un linguaggio autonomo. · 27


Recentemente, dopo l'unificazione delle due Germanie, uno spirito ironico ed illuminato ha tracciato con la bom­ boletta spray una scritta sul piedistallo del monumento a Marx ed Engels nell'omonima piazza dell'ex Berlino est, at­ tribuendo loro la frase: « Scusateci, non tutto è colpa no­ stra!». Gli artisti allo stesso modo riconoscono che, nel riesame di un passato ingombrante che sembrava averli condannati all'asfissia creativa, possono recuperarne invece aspetti for­ mali e concettuali ancora validi come stimolo riflessivo pri­ ma di avventurarsi su nuovi percorsi. Questo atteggiamento del profondo spiegherebbe anche il senso di tutti i neo e di tutti gli ismi su cui la critica ha tanto dibattuto attri­ buendoli al pensiero postmoderno. Se è pur vero che la so­ cietà attuale si fonda sul consumismo acritico, sull'informa­ zione veloce e superficiale per cui anche gli eventi più im­ portanti vivono lo spazio di uno scoop, è anche vero che questo atteggiamento, valido per i frigoriferi e per la guerra del golfo, non dovrebbe essere applicato al territorio del­ l'arte che di per sé ha caratteri elusivi, sofisticati e, almeno nelle aspettative, durevoli nel tempo. Ecco perché gli artisti negli anni del tramonto delle grandi ideologie e dell'illusione dell'onnipotenza creativa, per salvarsi cercano di ripercorrere liberamente, senza ironia, con affetto, quei linguaggi che sembravano esauriti per il collasso dovuto all'incalzare dei tempi moderni. Gli artisti oggi sembrano rendersi conto con grande senso di realtà che sono degli orfani, ma, rispetto a quindici anni fa, hanno deciso di riprendere in mano apertamente e senza mistifica­ zione le trame profonde che li vincolano ai linguaggi del passato, trascurando per il momento l'impellenza tipicamen­ te mercantile dell'originalità a tutti i costi. Penso che, sotto sotto, la parola d'ordine per la contemporaneità potrebbe es­ sere: e Cerchiamo una tomba ed andiamo a metterci un fiore•·

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I N. RosENTHAL, Das Prinzip der Rastlosigkeit, in talogo della mostra, Cantz, Berlino 1991, pp. 13-14.

e Metropolis

,., ca­


2 Gli artisti presenti in entrambe le mostre sono: J. M. Armler, U. Cavenago, S. Fermariello, G. Forg, P. Halley, M. Kaufmann, M. Kel• ley, J. Koons, C. Noland, T. Ruff e H. Steinbach. 3 R. B,IRlLLI, Guida al grande cniciverba, in e Anni 90 •, catalogo della mostra, Elemond Associati, Bologna 1991, p. 11. 4 La mostra, che si suddivide in tre sedi di differenti città, segue un criterio espositivo molto articolato. Barilli ha cercato di raggrup­ pare nelle diverse sezioni principali una serie di sottoinsiemi per sot­ tolineare la molteplicità delle modalità espressive contemporanee, per cui nella Pittura sono presenti: Nuova geometria, Astrazione postin­ formale, Ricerca di pattern ; nel Concetto: Concetto ed immagine, Con­ cetto e fotografia, Concetto e scrittura, Concetto e serialità; nell'Og­ getto hard: Neominimalismo, Appropriazione, Ready-made allargato; nell'Oggetto soft: Neomanualità, Materiali deboli, Barocco freddo. !J F. C. PR0DHON, A view from tlze bridge, in e Anni 90 •, cii., p. 32. 6 lvi, p. 35.

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Design: la forbice di storia e storiografia* RENATO DE FUSCO

La distinzione tra i fatti storici e il loro studio o racconto, tra gli eventi e il discorso sugli eventi, vale a dire tra sto­ ria e storiografia, rimane molto spesso inapplicata; e ciò av­ viene, a parte l'ignoranza o la dimenticanza di questa sco­ lastica nozione, in primo luogo per semplificazione lessicale: usiamo il termine « storia » anche per significare storiogra­ fia. Ma le difficoltà del binomio non si limitano ad errori, malintesi, improprietà terminologiche, esse sono insite nella sua stessa problematica. Esemplificando e anticipando ciò che dirò meglio più avanti, la distinzione fra storia e sto• riografia esiste, va approfondita e magari articolata specie in presenza di una disciplina, qual è il design, che ha avuto finora poca familiarità con la storia e la relativa riflessione critica. In pari tempo e per taluni aspetti, sia teorici che operativi, segnatamente per il rapporto con la progettazione, si legittima anche l'idea della loro unificazione. È stato sostenuto, sia pure da una minoranza di studio­ si, che storia e storiografia costituiscono una unità indistinta in quanto, non essendovi realtà fuori dal nostro pensiero, un fatto diventa storico quando lo pensiamo storicamente. Tra­ lasciando il rischio tautologico contenuto in tale giudizio,

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.. Il presente articolo è parte dell'omonima relazione presentata al 1• Convegno Internazionale di studi storici sul design, organizzato dal Dipartimento di Programmazione, Progettazione e Produzione Edilizia del Politecnico di Milano, aprile 1991.




rica? E, simmetricamente, perché un fenomeno come la Wie­ ner Werkstiitte, che pure fu importantissimo, che pure ebbe una significativa storia, non ha dato luogo ad una altret­ tanto ricca storiografia? In effetti, molti eventi e processi storici sopravvivono più per la loro capacità di riverberarsi sugli interessi successivi, di colpire le esigenze, la fantasia e l'immaginario dei posteri - un'azione di fissaggio cui solo la storiografia è deputata - che non per le loro particolari valenze. Ma il «primato» della storiografia sulla storia del design si basa su numerosi altri motivi. Se la storia dell'arte s'identifica con la presenza delle opere, tal che la funzione di ricordarla è assolta dagli stessi monumenti, come si evince dalla loro etimologia, questa me­ desima autosignificazione può assumersi anche per le arti applicate e il design? Chi ci dice, per usare un'espressione marinettiana, che un'automobile conserverà il suo valore sto­ rico pari o addirittura maggiore della Vittoria di Samotra­ cia? Chi colmerà il divario fra l'oggetto utilitario e il suo significato in un preciso contesto storico: si pensi al feno­ meno ormai classico della Vespa e della Lambretta nel qua­ dro dell'industria italiana del dopoguerra? Chi attutirà gli effetti del consumo e dell'usura di tanti prodotti d'uso che pure sono portatori di qualcos'altro? Che cosa infine col­ merà la differenza fra la storia delle arti maggiori, che ap­ punto si ammirano ma non si consumano, e la storia delle arti applicate che, diciamo così, utilizziamo prima e ammi­ riamo dopo? La risposta a tutti questi interrogativi non può che essere una: la letteratura storico-artistica, la riflessione su tutte queste storie particolari, fa storiografia. Spingendo agli estremi il nostro ragionamento, possiamo addirittura so­ stenere che quanto più fragile, complesso e problematico è l'oggetto storico tanto più la sua sopravvivenza è affidata ad una forte storiografia.

L'unità di stoira e storiografia Dopo le considerazioni sulla differenza fra i termini del binomio al centro del nostro discorso, svolgiamone qualche

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altra sulla loro possibile unificazione a partire da quel tanto di vero contenuto nella citata idea che li identifica. A tal fine va chiarito di che storia intendiamo parlare, non ba­ stando asserire che è quella del design. Senza la pretesa di identificare storia e realtà, né di di­ scutere l'assunto che vuole la storia come l'attuazione di un disegno superiore, né il suo opposto di un relativismo sto­ rico che appiattisce fatti e valori, né infine di aderire al­ l'idea che la storia esaurisca ogni altra esperienza, insomma senza toccare le questioni filosofiche della storia, è tuttavia necessario affrontare alcuni temi e problemi che si pongono per quella che abbiamo chiamato una storia obiettiva. Si pone immediato il quesito: anche in una storia sif­ fatta è ancora il pensiero a giocare, come nella storiografia, il ruolo principale? A primo acchito la risposta è afferma­ tiva: persino quella che un tempo si chiamava la storia na­ turale è oggi in gran parte manipolata dall'uomo. Più com· plesso ma niente affatto ozioso è il chiedersi di che tipo di pensiero si tratta. Risulta evidente che, mentre gli uomini contribuiscono alla storia nel suo farsi, pensano e riflettono sul già fatto. Un artefice del design, ad esempio, può pen­ sare ed agire mentre partecipa al processo storico della sua disciplina e in pari tempo rifletterci sopra, interpretarlo, nar­ rarne le vicende. Cosa distingue e accomuna le due espe­ rienze di solito affrontate da persone diverse e in tempi e luoghi diversi? Che fra storia e storiografia dell'architettura e delle arti si sia sempre stabilito un colloquio incessante, un continuo scambio è già stato da più parti notato, ma no­ tato soprattutto per ciò che attiene al piano stilistico; qui ci interessa stabilirlo a livello fenomenologico e strutturale, in particolare a quello del pensiero strutturante. Cosicché, mentre resta vero che storia e storiografia hanno in comune il pensiero, questa condizione risulta necessaria ma non suf­ ficiente: è indispensabile indicare, come dicevo sopra, di che tj.po di pensiero si tratta. Per ogni storia _si può riconoscere uno specifico pensiero che accomuna l'attore della storia · e lo storiografo: il senso della strategia per la storia militare, 34 la fede per la storia delle religioni, l'intuizione per la storia


dell'arte. Per quella dell'architettura, delle arti applicate e del design, il denominatore comune che cerchiamo è il pen­ siero progettuale. Questo fa sì che l'autore di un prodotto, il progettista, oltre ad avvalersi delle precedenti esperienze storiche del design, si avvalga anche, più o meno consapevolmente, della storiografia della disciplina. Simmetricamente, lo storico di essa, oltre a conoscere i fatti, deve utilizzare il suo talento progettuale per interpretarli. Che cos'è in fondo il processo interpretativo, ermeneutico, ·se non una continua messa a punto fra il bagaglio delle conoscenze acquisite, i pre-con­ cetti o pre-cognizioni, e i concetti o le cognizioni che sca­ turiscono dalla diretta esperienza del tema da risolvere, di un testo da interpretare con un procedimento di « fare e ri­ fare» del tutto analogo a quello di un progettista?. Come si vede, il rapporto fra la storia nel suo farsi e la storiografia è un continuo divaricarsi ed unirsi con una sorta di movimento a forbice il cui perno, il punto in comune è il pensiero: nel caso del design, il pensiero progettuale. Proviamo ad analizzare i termini di questa figura 'meta­ forica che mi sembra fra le più pertinenti il nostro argo­ mento. Partendo dal perno del pensiero progettuale, il mo­ mento della divaricazione è dato dalla specificità dei due tipi di progetto. Quello d�l fare. storico_ si esprime coi ben noti criteri di formatività, funzionalità, pratica, tecnica,· ecc., integrati da apporti di altre teorie e metodologie ausiliarie: l'estetica, l'ergonomia, la semiologia, ecc. Quello della sto­ riografia con gli altrettanto noti criteri di individualità, cau­ salità, selettività, di periodizzazione, attribuzione, organizza­ zione espositiva, di dichiarazione esplicita del punto di vista adottato per l'interpretazione. Se tale è il momento della di­ varicazione fra le due lame della forbice, il momento del­ l'unificazione avviene quando le lame si chiudono. Ora tutte le caratteristiche della storia (sempre beninteso nel suo far­ si) e quelle della storiografia, pur restando sempre distin­ guibili, si integrano: linguaggio e metalinguaggio si sovrap­ pongono, il fare si unisce al racconto del fatto, l'esperienza del designer a quello dello storico. A completamento della ,35



mamente legato alle opere, alla biografia degli artisti, espri­ me Io spirito del tempo e, in quanto fatto storico, offre alla successiva ricerca storiografica un appiglio sicuro, una sorta di sintesi espressiva più agevolmente attingibile che non le singole espressioni individuali. La conferma che le poetiche riguardano soprattutto la storia nel suo farsi è data dalla loro funzione normativa, dal loro valere come parametri verso i quali o contro i quali si sono mossi gli artefici. Il design dell'Art Nouveau si è mosso contro l'Eclettismo sto­ ricistico; quello del Protorazionalismo contro la Secessione; quello del Razionalismo verso la poetica funzionale; quello dello Streamline verso il dinamismo; quello del Movimento organico verso le istanze psicologiche; quello del Post-mo­ derno contro il Razionalismo e verso un rinnovato ecletti­ smo, ecc. 1=: significativo che, anche quando questi « ismi »­ parametro non sono stati posti da ragioni socio-culturali e da moti del gusto, essi sono stati inventati quali artifici ap­ punto, ma ritenuti tuttavia indispensabili punti di leva per l'attività operativa. Dilatando il discorso, si può dire che in un certo senso la storia stessa sia stata assunta dall'azione progettuale come un simile parametro. Ezio Bonfanti, inter­ venendo nel dibattito sull'architettura moderna e il passato dell'architettura, scrive: la storia del nuovo non è separa­ bile dalla storia dell'antico, se· non altro perché nuovo e an­ tico hanno In comune del commentatori che, nel conside­ rarli, usano lo stesso strumento concettuale, la chiave sto­ rica, e perché è sommamente evidente che l'avanguardia ba parlato dell'antico, per rifiutarlo, almeno quanto ne parlano I classicisti, per trame lumi. Il nuovo è nato dall'antico al­ meno per negazione. E veniamo agli « artifici storiografici ». Essi sono ogni sorta di parametro - si pensi al binomio ottico-tattile di Hildebrand, ai cinque punti di Wolfflin, alla dicotomia ico­ nografico-iconologico di Panofsky e, oltre questi tipi della visione, - ai tipi di Weltanschauungen di Dilthey e soprat­ tutto ai tipi-ideali di Weber - atto ad organizzare il mate­ riale storico, la sua periodizzazione, i suoi aspetti emergenti, le opere paradigmatiche, le costanti e le variabili, tutto _37




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puntelli sia pure semplicistici di tanti ragionamenti. La loro eliminazione comporterebbe l'obbligo di adottarne altri, di progettarne di nuovi, criticamente più avvertiti e più ricchi per qualità e quantità. Ciò evidentemente non per il gusto di rendere più complessa una vicenda già abbast:mza ag­ grovigliata, ma invece per chiarirla, ravvivarla, affrancarla dalla ;sfiducia e dalla noia. Quanto agli effetti pratici di un design che nel suo farsi ripensi alla sua tradizione e tenga conto di quel che gli of­ fre la sua rinnovata storiografia, si apre un vasto campo di prospettive e di ipotesi: ripresa di tipologie frettolosamente accantonate, di motivi simbolici, di forme semantiche, per­ sino la possibilità, per dirla con Adorno, di dare agli uo­ mlnl ciò che cosl fatti - e non altrimenti - essi vogliono e di cui hanno magari bisogno perché anche nel falso bi­ sogno del viventi sussiste un moto di libertà. Non insisto nell'elencare le possibilità aperte da una riforma storico­ critica del design che ci porterebbe troppo lontano. Qui ba­ sti dire che la sua dimensione progettuale sarebbe impe­ gnata da motivazioni più forti, meditate e socialmente con­ divise; quanto meno il suo modello ritornerebbe ad essere l'architettura e non più quello dell'alta o bassa moda. Ma al di là degli effetti distinti, cui sopra ho accennato, interessano i vantaggi reciproci di un progetto storicizzato e di una storiografia progettata. Infatti, se la vera e propria storia dei prodotti, dei designer, delle aziende, dei mercanti e degli stessi consumatori è tutta incentrata sul progetto, tant'è che è stata ipotizzata per ognuno di questi momenti una componente progettuale, se è vero altresì che anche la storiografia si progetta - e lo abbiamo visto parlando degli « artifi.ci storiografici ,. - non dovrebbero esservi più dubbi sulla ·dialettica, sulla osmosi, sulla scambievole influenza fra il design nel suo farsi e la relativa letteratura critica, fra storia e storiografia. Beninteso, non intendo avanzare idealistiche proposte concilianti mondi attualmente impermeabili e strutturatisi nel tempo su opposte posizioni: l'estremo filologismo, da un lato, per cui darei per certo che la maggioranza degli




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