Op. cit., 89, gennaio 1994

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Marina Montuori,

Livio Sacchi, Sergio Villari

Segretaria di redazione: Saia Graus Ventrella Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 7690783 Amministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Giordani, 32 - Tel. 7612002

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Edizioni ·« Il centro • di Arturo Carola


L. SACCHI,

Disegnare con il computer

A. D'AURIA,

In Italia, il design ha da essere italiano?

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M.

Affreschi metropolitani allo spray

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Libri, riviste e mostre

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BECCIIIS,

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Giovanni Corbellini,

Giuseppe Lotti, Fabio Mangone, Marina Montuori, Stefania Papa.


La rivista si avvale del contributo economico dei seguenti Istituti e Aziende: Alessi Camera di Commercio di Napoli Driade Golden Share Sabattini Zen Italiana















stesso spazio in maniera diversa, scegliendo· a· quali tipi di sollecitazioni essere sensibili in base alle diverse esigenze 14• La metafora della liquidità è strettamente pertinente: questa architettura varia in base alla struttura delle. sue relazioni interne ed esterne. Alcune «. architetture •·, derivate da un generatore architettonico sottostante, sono viste da prospettive diverse in diversi momenti della loro. evoluzio­ ne. La struttura compositiva di ogni opera architettonica è distinta dal sistema di riferimento in cui è mappata e dal• l'insieme di primitive che raggruppa. La struttura stessa, il sistema di riferimento, e le primitive sono visti come dina• micamente modificabili sotto la guida di una loro inteli• genza o in risposta a un controllo esterno. Questa trasfor• mabilltà fondamentale suggerisce una liquidità di quella che era una volta la più concreta delle arti e richiede l'uso del plurale: architetture 15 • Il successo e la diffusione degli spazi relazionali artifi• ciali potrebbe restare confinato all'interno di domini del tutto estranei all'architettura, ma la sua espansione e la sua accessibilità potrebbe anche corrispondere ad una· radicale diminuzione - comunque non all'annullamento - dell'ef• fettiva importanza dello spazio reale e, quindi, anche alla progressiva perdita di significato dell'architettura vera e pro­ pria. Mario Docci, in un editoriale apparso di recente, ri­ corda la sindrome di Laodamia, che ritrova nel simulacro dello scomparso marito Protesilao una perfetta sostituzione della realtà: quando il padre Acasto si accorge che tale si• mulacro è .preferito dalla figlia a tutti i giovani che vorreb­ bero sposarla, fa gettare la statua di cera nel fuoco. Laoda• mia, disperata per la perdita della realtà simulata di Prote• silao, si getta anche'ssa nel fuoco· e muore. Le conseguenze di una simile percezione sono evidenti, è chiaro il pericolo di rifugiarsi in un mondo onirico fatto di immagini vir­ tuali 16. Michel Foucault così conclude la sua analisi de Las Me­ ninas: VI è forse in questo quadro di Velasquez una sorta di rappresentazione della rappresentazione classica e la de• 18 finizione dello spazio che essa apre. Essa tende Infatti a rap·


presentare se stessa in tutti- i suoi elementi, con le sue im­ magini, gli -sguardi cui si offre, i volti che rende visibili, I gesti che la- fanno nascere. Ma là, nella dispersione da essa raccolta e al teinpo stesso dispiegata, un woto essenziale è imperiosamente indicato da ogni parte: la sparizione neces­ saria di :ciò che . la istituisce - di colui cui essa somiglia e di colui ai cui· occhi essa non è che somiglianza. Lo stesso soggetto - che è il medesimo -,- è stato eliso. E sciolta in• fine -da questo rapporto che la vincolava, la rappresentazione può offrirsi come pura rappresentazione 17• Ci auguriamo che tale vuoto essenziale, tale elisione del suo stesso soggetto, tale sua pretesa purezza - pur affascinante per chi di rap­ presentazione si occupa - non debba tuttavia mai verifi­ carsi ··nella pratica della rappresentazione architettonica.

Ordine conformativo Fin qui le· questioni rappresentative e quelle, ancora rap­ presentative, ma connesse ad un registro più esplicitamente spettacolare. Può questa nuova tecno-scienza toccare anche concezioni e fattualità conformative? E, in tal caso, fino a che punto si resta nello spettacolare senza che tale ordine ritorni ad essere reale? Iniziamo col dire che l'uso del CAD non si risolve sol­ tanto in un generico risparmio di tempo e nella nota faci­ lità con cui è possibile correggere e modificare gli elaborati: sembra che esso stia piuttosto generando dei nuovi e sofisti­ cati modi di progettare, che gli stessi caratteri strumentali di tali macchine · aprano le aree di ricerca linguistica ad al­ tri, diversi, poco praticati orizzonti. Che la strumentazione non sia mai neutrale in ogni attività umana è cosa nota e condivisa; e risvolti precisi proprio sulla fase ideativa del progetto, sia a scala urbana che architettonica, cominciano ad essere abbastanza evidenti. Del resto molti artisti con­ temporanei. stanno da· anni conducendo una serie di interes­ santi• sperimentazioni con l'ausilio del computer, spesso fa. - cendone· interagire gli esiti con il mezzo televisivo. Ciò non poteva. non provocare effetti notevoli sulla creatività stessa

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degli architetti. Lo sconfinamento nelle geometrie non eucli• dee, l'uso applicativo della topologia o della cosiddetta «geo­ metria del foglio di gomma», la fortuna delle geometrie frattali e degli insiemi di Mandelbrot, il successo della fi· sica dei quanti, il ricorso - più o meno legittimo - a René Thom e alla teoria delle catastrofi, la diffusione delle teorie del caos e delle turbolenze, l'utilizzo di tecniche composi• tive quali lo scaling o il folding, le stesse pratiche disloca• tive, decostruzioniste, a-topiche, entropiche, deboli, in una parola anticlassiche, che giocano un ruolo così importante nella definizione del disegno dell'architettura e della città contemporanea, sembrano condurre inevitabilmente a com• plesse, articolate e forse ancora non del tutto immaginabili interazioni fra creatività architettonica ed elaborazione gra· fica. Significativo è anche il fatto che se, da una parte, la qualità dell'elaborazione grafica tende progressivamente ad avvicinarsi ad effetti via via più realistici, dall'altra la qua­ lità linguistica di un'area non secondaria della scena archi• tettonica contemporanea sembra spesso tendere verso poeti• che ispirate alle stesse immagini prodotte dal CAD, segnata­ mente alla progressiva smaterializzazione, «artificializzazio­ ne» - o «virtualizzazione»? - dell'edificio. Più in generale va detto che il successo del computer è in realtà difficilmente spiegabile soltanto in termini stretta• mente utilitaristici. :t:: evidente che i vantaggi pratici sono tali da rendere poco probabile il suo abbandono dopo averne sperimentato l'efficacia. Ma è tuttavia probabile che siamo in presenza di un fenomeno forse più complesso e articolato di quanto appaia ad un esame superficiale "· Nessun dubbio che il precedente più significativo di una simile rivoluzione sia costituito dalla riscoperta quattrocentesca della prospet­ tiva e dalla coeva diffusione di una cultura spaziale dalla quale non siamo usciti ancora oggi. Purini osserva che si sta ricreando per molti aspetti, con le ovvie differenze, quel particolare momento di dipendenza e di scambio che vide la rice1·ca architettonica, a partire dalla metà del quattro­ cento, confrontarsi con l'orizzonte rivoluzionario dischiuso 20 dalla • invenzione • della 'Prospettiva. Oggi i limiti estremi



in poi ordine rappresentativo e· ordine conformativo vanno di pari passo 21 • La perspectiva naturalis - l'ottica - è ben nota ai dotti depositari della cultura medievale, a Vitellione, Grossatesta, Ruggero Bacone e John Peckham, ma tale sa­ pere non è in grado di trasformarsi in• alcunché di confor­ mativo: perché ciò avvenga è necessario. attendere quella capitale svolta di cui, per primi, saranno capaci i protagoni­ sti della vicenda fiorentina del primo Quattrocento. Una svolta che riesce, per la prima volta, a fecondare ciò che sino ad allora era· rimasta sterile accumulazione di cono­ scenza; a trasferire su di un piano creativo ciò che era su di un piano strettamente scientifico; a spostare su di un regi­ stro conformativo ciò che era su di un registro geornetrico­ rappresentativo. È facile insomma intuire che l'ordine rap­ presentativo sta all'ordine conformativo conie l'ottica,· (la perspectiva naturalis) sta alla prospettiva (la perspectiva· ar­ tificialis). Mutatis mutandis potremmo adesso, lasciando in­ variati i due termini costituenti il primo rapporto, sosti­ tuire all'ottica tutta la nuova tecnologia rappresentativa mes­ sa a punto in questi ultimi anni e alla prospettiva la nostra incognita. Potremmo insomma immaginare di trovarci in un periodo paragonabile alla temperie culturale .della fine del XIV secolo: in cui cioè si aveva tra le mani tutto quanto era scientificamente necessario per l'inaugurazione del nuovo spazio prospettico, ma non erano ancora arrivati i protago­ nisti in grado di « metter in scena » la grande « rappresen­ tazione » prospettica quattrocentesca, che era - si ·badi be­ ne - un fatto eminentemente conformativo. È possibile pen­ sare in conclusione che il forte impatto delle più recenti tec­ nologie rappresentative si traduca, prima o poi, in un fatto nuovo, effettivamente conformativo? Pensare cioè, prima o poi, di passare da un registro sostanzialmente quantitativo ad uno più propriamente qualitativo; da un ambito limitato alla sfera della rappresentazione ad uno in grado di gene­ rare nuovi modi di concepire e conformare lo spazio archi­ tettonico, di rifondare lo stesso concetto di spazio architet� tonico e di uscire dai confini di ciò che, seppur con cormo. 22 tazioni estremamente sofisticate, appare ancora per. adesso



19 F. PURINI, Nota introduttiva a • Arti elettroniche,. di L. Taiuti, ìn • XY, dimensioni del disegno"• n. 14/15, gennaio-agosto 1992. 20 A. TZONIS e L. WAIVRll, Le due nuove scienze della rappresenta­ zione, in • Casabella "• n. 605, ottobre 1993. 21 Cfr. R. DE Fusco, Mille anni di architettura in Europa, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 240, n. 15. Cfr. anche E. PANOFSKY, Rinascimento e rinascenze nell'arte occidentale, Feltrinelli, Milano 1971.

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In Italia, il design ha da essere italiano? ANTONIO D'AURIA

La recente pubblicazione di un libro ricco di dati quanto di intenzioni di carattere metodologico sulla Storia del di­ segno industriale italiano I scritto da Anty Pansera, induce immediatamente ad alcune riflessioni, concernenti la duplice questione della storia e geografia •del design. Come già an­ nunziato nel titolo - un piccolo omaggio al vecchio autar­ chico Ojetti - una prima sollecitazione riguarda la speci­ ficità « nazionale » della vicenda del design. L'attributo na­ zionale - vien fatto di chiedersi - è legittimo quando col sintagma design-italiano o, mettiamo, design-francese, design­ svizzero, ecc. si identifichi, più semplicemente, la cifra del fenomeno design in un dato paese? O per riformulare con maggiore evidenza la domanda: in che senso è valido e pro­ ponibile il concetto di italianità del design e secondo quali livelli referenziali e stratificazioni connotative esso consiste? Non senza ironia, uno studioso olandese ha recentemente sintetizzato l'innegabile, che cioè « se il design tedesco è ra­ ziotiale, quello italiano sensuale, quello francese inventivo e lo scandinavo naturale, allora i termini più appropriati per designare il design britannico sono workmanlike e solid »: 1• E ancora, in area tedesca, in uno studio sul disegno indu­ striale nella Germania del dopoguerra 3. l'autore, pur mo­ strando, a nostro avviso, una certa diffidenza verso un'im­ mediata attribuzione nazionale, scioglie l'ambiguità e tra-

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sforma, nel titolo, il sostantivo design ner verbo designing. Si passa così dalla determinazione dell'oggetto alla defini­ zione, più articolata e densa, della dinamica dell'azione, di un fare. In tal caso risulta con esemplare chiarezza che i titoli non sono- mai innocenti, rappresentando anzi -una sorta di· indicatori· delle linee ideologiche e metodologiche sottese al testo. Il risultato, Designing in Germany, costituendo ol­ tre tutto una versione aggiornata dell'universale trade mark « Made in Germany », si propone di individuare il design della cosiddetta Germania Ovest, la Repubblica Federale 4• Ma, per tornare al volume in esame, la cosiddetta italia­ nità del processo definito design quando sussiste? Solo da quando (prima ipotesi) progetto, produzione e fruizione siano stati, nel nostro paese, omologati agli standard che ca­ ratterizzavano la vicenda in altri paesi occidentali? Vale a dire che si sarebbe potuto a rigore parlare di un design ita­ liano allorquando il· fenomeno avesse assunto quella com­ piutezza fenomenologica, estetica ed economica che contrad­ distingue, mettiamo,.il design tedesco dalle origini o quello statunitense a partire dal primo decennio del secolo? In caso contrario, si sarebbe trattato di un fatto secondario, marginale,· che viveva in modo passivo rispetto alle fortu� nate vicende del· design degli altri. ··. Oppure il design - è l'altra ipotesi - sarebbe stato identificabile e riconoscibile come « italiano » solamente quando la sua vicenda fosse uscita dalla generalizzazione multiculturale e sovranazionale che contraddistingue, per ragioni non solo merceologiche ma anche storiografiche, il design· -industriale,- una disciplina segnata come nessun'al­ tra dall'international: style e dal cosmopolitismo formale? Come dire ·che il design si configuri come un fenomeno re­ gionale (italiano o inglese o· giapponese, ecc.) solo quando tr�sgredisca il suo statuto di fenomeno standardizzato o globale? Intendiamo suggerire che, mentre è possibile parlare - po­ niamo - di architettura italiana, di letteratura francese, di cinema americano, per l'industriai design - .che non è immediatamente,e necessariamente legato alle modificazioni del



affidabile e durevole, meccanicamente ineccepibile e resisten• te.. Si vuol dire che ci muoviamo in una zona di confine fra definizioni strutturali - il reale nesso fra prodotto e spe­ cifici modi e modelli di produzione - e altrettanto reali e persistenti suggestioni connotative (nel senso che ancor oggi la connotazione tedesco, marchio ed emblema, resiste, pur se attagliata alla lavatrice costruita a Hong-Kong). Quando, in anni recenti, un design «nazionale» ha fon• dato la sua fortuna sul gusto o sullo « stile », com'è acca­ duto al made in ltaly, la qualità estetica costituiva un plus rispetto a quella costruttiva e alla generale convenienza del prodotto. E, come abbiamo più volte avuto occasione di no­ tare, anche dalle pagine di questa rivista, la temporanea for­ tuna del nostrano design è dovuta in maniera non irrilevante alla personalità di designer e stilisti, all'immagine delle aziende produttrici, al supporto di riviste e pubblicazioni, mostre e fiere, numerose ed efficaci, all'accordo fra progetti• sti, industriali, organizzazioni di vendita, critica e pubblico, alla coincidenza fra crescita culturale e crescita economica. E. da verificare, allora, se non sia più corretto - come crediamo -, o almeno più opportuno, un discorso sulla sta• gione italiana dell'industriai design o sul contributo italiano a questo processo complesso ormai quasi secolare o sulla temporanea parziale italianizzazione del fenomeno. Tradotto in un sintagma definitorio, in sigla orientativa, il titolo di una Storia del design che riguardi il nostro paese dovrebbe assumere la forma del genitivo, dell'Italia, o, meglio, la più esatta determinazione del complemento di luogo, in Italia. In quest'ultimo caso si escluderebbe in partenza l'esistenza di un fenomeno unitario e riconoscibile, in una diacronia . parallela allo svolgimento del processo nel resto del mondo, del design italiano. In merito .a questioni siffatte il critico olandese già citato, Frederique Huygen, in occasione di una pubblicazione sul design della Gran Bretagna, si è mosso con qualche preliminare cautela a proposito del termine british e della definizione di un'identità culturale oltre che geogra• fica e, poi, del problema della britishness of british design 5• Intanto dobbiamo ripetere che per design, o industriai 28



giungere ai nostri giorni, l'Autrice dà conto di tutte le condi­ zioni al contorno, delle _vicende artistiche, economiche, so­ ciali .che, in. Italia, in qualche misura, si sono intrecciate con q�ella del -disegno- industriale. Si inizia col racconto degli antefatti, dalle • intuizioni dei futuristi,. ai tentativi di in­ dustrie e progettisti di seguire la vague razionalista e fun­ �ionalista, dalle ricerche su· nuovi materiali, magari autar­ chici; alle Triennali. t:. riconoscibile senza difficoltà una pro­ spettiya. storiografica funzionalmente, ma forse un po' mec­ canicamente, italocenti::ica, dal momento che, per comincia­ re,• i.l confronto tra iniziative editoriali di respiro europeo come ,« '{he Studio• o.• Dekorative -Kunst • o • Das Inte• ;rior• e le nostrane, provincialissime, " Emporium » o « L'ar­ t�_-decorativa .moderna• è assai sfumato e non viene rimar­ cata . la . vistosa assenza degli architetti e designers italiani ad eventi di portata continentale come la Weissenhofsiedlung a _Stoccarda nel 1927 e il loro marginalissimo contributo al dibattito t.eorico sul design, in Europa, almeno fino al 1933-34. Né viene proposto;-il confronto dei tentativi di intellet­ tuali o produttori o progettisti italiani con iniziative come il Deutscher. Werkbund, la DIA britannica .o l'UAM francese, anche se, a nostro avviso, la ricezione in Italia di questi fatti come. delle intraprese produttive., dall'AEG alla Pel, dalla Thone_t all'Artek, e delle elaborazioni teoriche che li accom­ pagnarono, andava ricostruita, almeno per spiegare la com­ piuta consapevolezza di un Persico sui temi del design al· l'.inizio del cruciale decennio Trenta. Del resto, architetture, oggetti e ambienti della Neue Sachlichkeit e del modernismo europeo erano ben noti in Italia: basterebbe a dimostrarlo un sorprendente libro del 1930 di Papini 9, dedicato a Benito Mussolini • cittadino onorario di Universa », e èonfezionato con molto ·gusto. e con tanto anticipo rispetto al celebre li­ bro di Platz sull'arredamento moderno 10• La scelta tuttavia di sottacere il quadro generale sovranazionale può risultare una strategia retorica quando nella mente di chi legge queste pa­ gine scorre, parallelamente alla vicenda descritta, la sequen­ za·-.dei fatti ·arcinoti che· hanno costituito la ·nascita e l'af· 30 fermazione; in ·tutto il mondo occidentale e non solo, del



zioni di continuità, i «nessi ereditari,. si allentano 12• Lungo la medesima linea, che coniuga formalismo e storicismo, il filosofo H. Blurnenberg, nel 1981, avrebbe scritto: « Accele­ razione e dilazione sono momenti di processi storici cui fi. nora è toccata poca considerazione. La 'storia' non consiste solo di eventi e delle loro connessioni (comunque siano in­ terpretate), ma anche di ciò che si potrebbe chiamare 'stato di aggregazione' temporale,. 13• Nel flusso, storiograficamente accreditato, sia pure in ma­ niera non pacifica, che partendo dall'Arts & Crafts e pas­ sando per il Bauhaus approda ai nostri giorni, registriamo, ad esempio, degli «affioramenti,. generati dalle casualità più disparate: il Werkbund e la politica di Rathenau, lo stream­ lining e il New Deal roosveltiano, il funzionalismo scandi­ navo del dopoguerra e la peculiare condizione socioecono­ mica e politica di quei paesi, il « made in Italy » e il no­ stro cosiddetto miracolo economico, i prodotti elettronici giapponesi e la supremazia tecnologica e commerciale di quella nazione, la rivincita dell'orologeria svizzera e il feno­ meno Swatch, eccetera. Lo storico Paolo Fossati, qualche anno fa, introducendo un suo libro su questi temi, avver­ tiva il lettore che «la storia del design italiano è recente, ed è breve, anche se fitta di nomi, oggetti, avvenimenti•· E aggiunge: «Malgrado ciò è poi più uniforme e ripetitiva del previsto: qualcuno ha osservato che meglio che di sto­ ria si dovrebbe parlare di preistoria, dal momento che solo da poco si è entrati in una fase diversa, meno pionieristi­ ca. In effetti tutto si riduce all'ultimo ventennio, o ancor meno• 14• La Pansera, in maniera non dissimile da altri autori, come Frateili 15 o Gregotti 16, sembra privilegiare la linea evo­ lutiva «nazionale•, pur non mancando di distinguere i mo­ menti di splendore (e di conseguente fortuna internaziona­ le), del nostrano design dalle fasi di elaborazione, per così dire, sommersa 17• Il presupposto dell'A. è che esista un è filo rosso di un'inerenza nella realtà del paese che da sempre co­ stituisce la specificità del 'caso italiano' ,. 11• Questa specifì32 cità comincia nel secondo dopoguerra, un periodo noto come



mono il senso sono: uno dei primi lavori in metallo di Dres­ ser del 1880, un chintz di Morris, una sedia in castagno ru­ stico di Gimson, una radio anteguerra «Murphy,. di Rus­ sel, una porcellana Wegdwood disegnata da Ravilius, una sedia di Race presentata al Festival of Britania del 1951, una lampada Rotaflex di Heritage, un tessuto di Shirley Craven, un pezzo di arredamento del Craft Revival degli anni '70, un treno « High-Speed,. 23• «All these - si legge a commento della lista - have a common basis in a parti­ cular, peculiarly British tradition of designing » 24• Alcuni di questi oggetti sono così tipicamente e felicemente britannici da essere sconosciuti fuori dai confini nazionali e risultare poco \llOti pure agli addetti ai lavori. Non a caso non vi sono « fiotti smaglianti ,. nella vicenda inglese, a parte le esperienze del gruppo «Isokon». Quali son.o, secondo Pansera, gli .oggetti «archetipi», gli oggetti emblematici di . una qualità peculiare del progetto italiano? Fra le tante ci sembra di poter riconoscere le se­ guenti sottolineature: il luminator di Baldessarri 25, l'ETR 200 di Pagano 26, la radio Phonola di Caccia Dominioni 27, la vespa di Corradino D'Ascanio 21, la Fiat 500 di Giacosa 29, il «_Settebello» della Breda di Minoletti 30, la «Lexicon 80 • Olivetti di Nizzoli 31, la «Luisa,. di Albini32; la «TS502» della Brionvega di Zanuso e Sapper 33, U «Grillo» degli stessi autori 34, la «Arco,. dei Castiglioni 35, il. «Sacco» di Gatti/ Paolini/Teodoro 36, la Fiat «Panda » di Giugiaro 37• Quasi tutti questi oggetti sono del resto indicati come esemplari da tutte le Storie e Rassegne. In realtà, poi, la questione della geografia del design, come l'abbiamo denominata, si rivela strettamente connessa con la questione della validità storiografica dell'identità geo­ grafica dell'Evento-design, ·e. quindi con la questione della periodizzazione, con la questione della definizione di un cor­ pus di testi su cui fondare il racconto storiografico. Ci sem­ bra che una delle strategie elusive più consuete, nel campo delle più recenti storie del design, sia quella che consiste nel retrodatare la nascita del fenomeno, sino a giungere a 34 soglie fatidiche, quando sarebbero state generate · troppe co-



I Laterza, Roma-Bari 1993. z F. HUYGEN, British design. lmage cfr identity, Thames and Hudson, London 1989, p. 19. l M. ERLHOFF (ed.), Designing in Germany. Since 1949, Prestel-Vcr1a&, Munich 1990. 4 M. ERLHOFF, e Preface•• ivi, p. 6. 5 F. HUYGEN, op. cit. 6 T. MALDONADO, Disegno industriale: un riesame, Feltrinelli, Milano 19915, p. 15. 7 A. PANSERA, li design del mobile italiano dal 1946 ad oggi, Laterza, Roma-Bari 1990. a A. PANSERA, Storia del disegno industriale italiano, cit., p. 290. 9 R. PAPINI, Le arti oggi. Architettura e arti decorative in Europa, Bestetti & Tuminelli, Milano-Roma 1930. 10 G. A. Putz, Wohnriiume der Gegenwart, Propylaen Verlag, Berlln 1933. 11 Cfr. I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico (a c. di R. Fac­ cani e U. Eco), Bompiani, Milano 1969. u R. FACCANI, Appunti in margine ad alcuni saggi di Ju. M. Lotma11, e Prefazione. al volume di Ju. M. LoTMAN - B. A. USPENSKIJ, Tipologia della cultura, Bompiani, Milano 1975, pp. 10-11. Il H. BLUMENBERG, Le realtà in cui viviamo, Feltrinelli, Milano 1987, p. 100. 14 P. FOSSATI, Il design in Italia 1945-1972, Einaudi, Torino 1972, p. 7. 15 E. FRATEIU, li disegno industriale italiano 1928-1981, Celid, To­ rino 1983. 16 V. GREGOlTI, li disegno del prodotto industriale, Italia 1860-1980, Electa, Milano 1982. 11 "Che cosa si intendesse o potesse intendere per "disegno indu­ striale" è un problema che, come abbiamo già visto, nel nostro paese non si può porre che a chiusura del decennio Quaranta e di apertura di quello successivo• (A. PANSERA, Storia..., p. 90). 11 lvi, p. VII. 19 Ivi, p. 88. 21J lvi, p. 91. 21 R. DE Fusco, Storia del design, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 268-69. Z2 F. MAc CARTHY, Ali Things Bright & Beautiful. Design in Britain 1830 to today, George Allen & Unwin Ltd, London 1972 e Io., British Design since 1880, Lund Humphries, London 1982. 2l F. MAc CARTHY, British ..., cit., p. 11. 24

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Ibidem.

zs A. PANSERA, Storia..., cit.• p. 45. 26 lvi, p. 52. 21 Ivi, p. 69. 21 lvi, p. 96. 29 lvi, p. 99. 30 lvi, ·P· 106. li lvi, p. 128. l2 lvi, p. 131. n lvi. p. 184. 34 Ivi, p. 188-90. l5 Ivi, p. 192. l6 lvi, p. 233. n Ivi, p. 270. li E. CASTELNUOVO, Storia del disegno i11dustriale, voi. I, 1750-1850. L'età della rivolu1.io11e industriale, Electa, Milano 1989.



Affreschi metropolitani allo spray MICHELA BECCHIS

• E perciò non si chiamerà propriamente arte ciò che si può fare, non appena sem­ plicemente si sappia ciò che si deve fare e quindi soltanto si conosca a sufficienza l'effetto desiderato. Dell'arte fa parte solo ciò che anche quando sia conosciuto per­ fettamente, non si ha ancora l'abilità per produrlo • 1.

:t:. singolare come spesso nei luoghi e nei momenti più inaspettati capiti di vedere le proprie riflessioni intorno ad un problema che appassiona. :t:. così che ponendo mente alla questione dell'influenza di una particolare tecnica sull'espres­ sione artistica e al fatto che probabilmente vi sia anche un doppio registro espressivo nell'utilizzazione di quella certa tecnica, ci si accorge di pensare a tutto questo seduti dentro ad un vagone di un treno e di essere colpiti dai murales presenti oramai sui muri di tutte le stazioni in cui si ar­ riva o da cui si parte. Che ci si trovi a Roma come a Pa­ rigi, a Berlino come a Napoli, impressiona la notevole ca­ pacità di queste opere di raccontare molte cose e di saperlo fare nonostante esse siano molto simili le une alle altre, tanto da indurre a pensare che esista sempre uno stesso gruppo di ragazzi che si aggiri assai rapidamente per l'Eu­ ropa a colorare quei muri lontani tra loro molti chilometri. 38 :t:. chiaro, non è così: sono tanti gli autori di questi « muri



referente, mantenendo cioè solo un tipo di scrittura, oppure un particolare oggetto rappresentato di frequente o, magari, un pezzo del corpo dell'eroe di un cartoon, fino a giungere - in un effetto zoom - all'adozione di particolari quasi irriconoscibili. Il punto fermo sembra rimanere allora l'omo­ logazione tecnica - il colore smaltato, brillante e lucido, l'impossibilità dello sfumato - e spesso è su questo che si basa la presunta comprensione di questi lavori come frutto di una ripresa, quanto la loro capacità di rimandare ad un contesto comune con l'osservatore. Ma è proprio su quest'ul­ timo punto che vorrei avanzare qualche dubbio, poiché se i dipinti ferroviari stabiliscono un ambito comune con il frui­ tore, non lo costituiscono sulla scorta di quelli che solo ap­ parentemente sono i loro referenti diretti. Infatti il dato più interessante è che, proprio sulla base dell'adozione delle medesime forme indotte dalla medesima tecnica, ma grazie alla focalizzazione solo sui particolari di quel linguaggio, viene a mutare totalmente il livello comunicativo di que­ ste opere. Infatti, l'animazione, il cartoon, l'immagine pubblicitaria, raggiungono livelli di serialità totale, scegliendo di congelare dei modelli formali che solo apparentemente compiono un percorso, descrivono un'evoluzione. In realtà, prescindono da qualunque narrazione, da qualunque rappresentazione del contesto da cui nascono. La comunicazione si arresta esclu­ sivamente al riconoscimento di formule note e al tempo stesso fugaci. Il lavoro di focalizzazione compiuto dai mi­ gliori murales, al contrario, compie un salto di qualità poi­ ché, pur adottando necessariamente la ripetizione, essi iso­ lano, come ho detto, alcuni particolari delle forme a cui sem­ brano ispirarsi. Questo isolamento crea un linguaggio per moltj aspetti nuovo, più rappresentativo, che si stacca, cioè, dall'immediato livello comunicativo, per raggiungere un gra­ do che definirei di « artisticità ridotta »: « ridotta ,. in quan­ to presenta aspetti di ricerca e di progettualità relativamente coscienti e coerenti e una forte dose di occasionalità nel­ l'agire, in modo a volte stravolgente, su un corpo specifico 40 di convenzioni inerenti ad una particolare tecnica. Ma, certo



percezione, molto di più di un manifesto pubblicitario o di alcuni fumetti esposti in un'edicola. Non dipende solo dal• l'eventuale differenza di formato, ma dalla capacità di of• frire anche all'osservatore distratto un luogo dove, anche a voler rifiutare quell'immagine, egli possa misurarsi con il tentativo di « capire cos'è» e quindi impegnarsi, seppur per un attimo, nell'interpretazione di quell'oggetto, in un dia• logo quindi. Esiste tuttavia, una differenza profonda tra que­ sti muri violentemente colorati e i lavori di artisti che con i graffiti condividono tanto l'acrilico spray quanto le sue mo­ dalità d'uso; fra i tanti mi piace pensare a Wolf Vostell e ad alcune delle opere che ha eseguito fra il 1990 e il 1992, intitolate « La caduta del Muro», dove sembrava che di proposito egli riproponesse tanti dei segni e dei colori che avevano fatto vivere il muro di Berlino. Il murale metropo­ litano dipinto forse da mani molto più inquiete, rivoluzio­ narie e dissidenti, mantiene, nel confronto con le opere di Vostell, un livello che definirei di « narrazione superficiale» del disagio; è quindi in definitiva un gesto neutralizzabile. Infatti, nell'uso tanto di un dato linguaggio formale, che di una particolare tecnica, rimane uno scarto tra ciò che si voleva dire e l'effetto finale, il detto, poiché non c'è stata la chiara consapevolezza di poter rendere una perfetta cor• rispondenza tra idea e medium. L'opera d'arte di Vostell, al contrario, è stata eseguita con questa lucida consapevolezza circa l'adeguatezza del me• dium e le potenzialità della tecnica; così se apparentemente potrebbero essersi diluiti disagio ed inquietudine, in realtà è proprio tramite questo « atto tecnico» che l'autore riesce a dare corpo espressivo e formale ad un istante di tale in· tensità drammatica da imporre un modo totalmente nuovo di•capire, anzi di« vedere» un vissuto. L'osservatore solo in quest'ultimo caso viene messo di fronte alla necessità di ar· restare quell'istante, non certò per vincere la faustiana scom· messa, bensì per poterne valutare la portata, per poter for• mulare un giudizio su• ciò che quella tela figura, su ciò che Bacon chiama il « soggetto della pittura,. 2• Tutto ciò è molto meno neutralizzabile; non lo è al punto tale che la forza 42




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