Op. cit., 95, gennaio 1996

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R.D.F.

Ricordo di Arturo Carola

L. SACCID, La crisi dell'architettura: un'autocritica V. BARADEL, La nuova sacralitĂ dell'arte G. Lorn, Design e problema occupazionale Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Alessandro Casta­ gnaro, Alessio Jan D' Auria, Alessandra de Martini, Michela Temporin.


La rivista si avvale del contributo economico dei seguenti Istituti e Aziende: Alessi Camera di Commercio di Napoli Driade Golden Share



richiamò l'intera classe sociale cui apparteneva, in prece­ denza legata all'arte tradizionale e da lui iniziata all'interes­ se per quella moderna. La componente più positiva della borghesia, fatta di spi­ rito d'iniziativa imprenditoriale, di promozione sociale e cul­ turale, ebbe a Napoli in Arturo Carola la sua maggiore espressione, almeno per quanto riguarda la nostra genera­ zione. E ciò sia per gli atti che lo videro protagonista, sia principalmente per gli accenti signorili e discreti che li ca­ ratterizzarono. Riferendomi solo a quelli dell'arte e della cultura di cui posso dare testimonianza, Arturo Carola fa­ vorì il rinnovamento del gusto in questi settori evitando trau­ mi e conflitti. Amatore d'arte d'ogni tempo e paese, affian­ cato dalla moglie Angela Perrotti, studiosa di ceramica e porcellane antiche, non ebbe quella partigianeria che molto spesso anima collezionisti ed artisti schierati per l'antico o per il nuovo, tanto più accesa quanto più ristretto è il loro circolo. Tuttavia, se il buon gusto e la raffinata educazione lo affrancarono dalla faziosità, non gli impedirono, di fronte a responsabili impegni, il rigore di una scelta: la galleria « Il centro» si occupava esclusivamente d'arte contempo­ ranea. Nel '64, nell'ambito della galleria, nacque « Op. cit. » ed il primo segno dell'ampiezza di vedute del suo editore si manifestò nel fatto che il periodico non dovesse essere in funzione delle mostre ivi effettuate e delle collezioni ivi custodite, bensì secondo la massima libertà di scelte setto­ riali e tematiche del sottoscritto; in breve, al posto di un bollettino pubblicitario, Arturo Carola consentì di avviare una iniziativa pubblicistica che da oltre trent'anni è rimasta fedele alla sua formula originaria. Quando egli abbandonò l'impresa della galleria si dedicò esclusivamente a questo periodico con sostegno economico da mecenate e discreti quanto esperti consigli, senza mai interferire nel lavoro di­ rettivo e redazionale della rivista. Questo rapporto fra edi­ tore e direttore, tanto decantato in ogni giornale e periodi­ co, nel nostro caso si stabill nel modo più autentico. Tutti ricordano Arturo Carola quale ingegnere, impren6


ditore, presidente dell'Unione Industriali, come di varie isti­ tuzioni e imprese sociali e economiche, ma sono certo che non ultima, tra le sue attività benemerite, sia stata quella di aver legato il suo nome a questa rivista. Come ho ricor­ dato in altre occasioni, oltre al servizio critico e informati­ vo, relativo ai campi dell'architettura, delle arti figurative e del design, offerto ai lettori, « Op. cit. » è presente in tutti gli istituti. italiani e in molti stranieri interessati a queste discipline, è seguita da centinaia di studiosi e studenti, ha contribuito alla formazione di diecine di giovani ricercato­ ri, ha fornito titoli per numerosi concorsi universitari. Tutti quelli che vi hanno collaborato ricorderanno sempre la par­ te avuta da Arturo Carola nella loro storia personale. Ciò vale anzitutto per il sottoscritto che non rimpiange solo la perdita dell'editore, sostituibile da un altro, grazie anche al prestigio dato dal primo alla pubblicazione, ma soprat­ tutto l'insostituibile perdita dell'amico.

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La crisi dell'architettura: un'autocritica LIVIO SACCHI

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L'architettura non è una cosa «in sè» e «per sè», come quasi sempre lo sono altre forme d'arte: pertanto sia le sue conquiste che le sue cadute non dipendono solo da circo­ stanze autonome, isolatamente considerate. È vero altresì che una storia dell'arte si può sempre risolvere in un com­ pendio di storia civile: basta mettere le vicende umane allo specchio dei valori plastici 1• Ancora inconfutabile è quan­ to, sistemando in maniera forse definitiva la questione, eb­ be a sostenere Luciano Anceschi: trattando di autonomia ed eteronomia, egli scrive: esse rimandano alla fine ad una legge trascendentale, che nella sua purezza resta invariabile pur nel mutare delle situazioni concrete stesse ... che attra­ versano i singoli piani dell'attualità unificandoli: l'antitesi autonomia-eteronomia è essa stessa questa legge, che domi­ na e regge, regolandolo, il momento teorico-pragmatico delle riflessioni sul campo estetico dell'arte e la vita stessa del­ l'arte nelle sue espressioni più individuate 2• I momenti ine­ liminabili dell'autonomia e dell'eteronomia costituirebbero insomma una polarità entro la quale si muove il giudizio critico e lo stesso fare artistico. Tuttavia, pur condividendo ciò che sopra abbiamo cita­ to, è sempre possibile, per motivi analitici - l'analisi essen­ do comunque un atto di divisione - distinguere, nel nostro caso, quanto dell'attuale crisi architettonica si debba a cause politiche, sociali ed economiche e quanto a motivazioni



degli anni Settanta, in un bilancio dell'architettura contem­ poranea: essa si è sviluppata, in tutto il mondo, secondo alcuni principi generali: 1) la priorità della pianificazione urbanistica sulla progettazione architettonica; 2) la massi­ ma economia nell'impiego del suolo e nella costruzione al fine di poter risolvere, sia pure a livello di un «minimo di esistenza», il problema delle abitazioni; 3) la rigorosa razionalità delle forme architettoniche, intese come dedu­ zioni logiche (effetti) da esigenze obiettive (cause); 4) il ri­ corso sistematico .alla tecnologia industriale, alla standar­ dizzazione, alla prefabbricazione in serie, cioè la progressi­ va industrializzazione della produzione di cose comunque attinenti alla vita quotidiana (disegno industriale); 5) la con­ cezione dell'architettura e della produzione industriale qua­ lificata come fattori condizionanti del progresso sociale e dell'educazione democratica della comunità. 4 Pur ricono­ scendo l'abilità dell'autore nel sintetizzare i capisaldi pro­ grammatici dell'architettura, dell'urbanistica e del design del periodo da lui considerato e, pur tenendo conto che il brano è inserito in un testo divulgativo, ci corre l'obbligo di constatare che i suddetti cinque punti, appunto program­ matici, vengono dati per realizzati storicamente, mentre nei fatti sono vere e proprie petitiones principii, vale a dire so­ fismi consistenti nel presupporre implicitamente dimostrata la stessa tesi che si pretende di dimostrare. Assumendoli invece non come eventi storicamente verificati, bensì come «artifici storiografici», ossia come parametri di riferimen­ to atti alla verifica o alla falsifica di quanto realmente è accaduto, possiamo dire quanto segue. Falso è il preteso primato dell'urbanistica sull'architettura, ad eccezione di qualche isolata esperienza; anzi la prima, che nell'Ottocen­ to aveva dato tante prove positive, ha perduto recentemen­ te di credibilità al punto da essere considerata, secondo al­ cuni autori, un equivoco disciplinare. La Francoforte pia­ nificata da Emst May, la Berlino amministrata da Martin Wagner, l'Amburgo di Fritz Schumacher, la Amsterdam di Cor van Eesteren sono i capitoli più importanti della sto1 O ria della gestione socialdemocratica della città. Ma accanto



sto progresso, cosi diceva, era destinato a emancipare l'u­ manità dal dispotismo, dall'ignoranza, dalla barbarie e dal­ la miseria. La repubblica è l'umanità cittadina. Questo pro­ gresso oggi prosegue con il nome meno appariscente di svi­ luppo. Ma è divenuto impossibile legittimare lo sviluppo con la promessa di un'emancipazione dell'umanità intera. Questa promessa non è stata mantenuta 6• Ad analoghe conclusioni, pur muovendo da una diversa filosofia e specificamente discutendo del nostro campo, era già giunto nel '73, Manfredo Tafuri. Ciò che ci interessa ... è precisare quali siano i compiti che lo sviluppo capitalisti­ co ha tolto all'architettura: che è come dire, che esso ha tolto, in generale, alle prefigurazioni ideologiche. Con la qual cosa, si è condotti quasi automaticamente a scoprire quello che può anche apparire il «dramma» dell'architettu­ ra, oggi: quello, cioè, di vedersi obbligata a tornare «pura architettura», istanza di forma priva di utopia, nei casi mi­ gliori, sublime inutilità .•. I temi nuovi che si propongono alla cultura architettonica sono invece, paradossalmente, al di qua e al di là dell'architettura. Nessun rimpianto, ma anche nessuna apocalittica profezia in tale riconoscimento, che ci proponiamo di convalidare storicamente. Nessun rim­ pianto; poiché quando il ruolo di una disciplina si estingue, è solo utopia regressiva e della peggior specie, tentare di fermare il corso delle cose. Nessuna profezia: perché il pro­ cesso si svolge quotidianamente sotto i nostri occhi, e, per chi ne volesse una prova clamorosa, sarebbe già sufficiente riflettere sulla percentuale degli architetti laureati effettiva­ mente esercitanti la professione. È però vero che alla cadu­ ta della professionalità non corrisponde ancora alcun ruolo istituzionalmente definito per i tecnici preposti all'edilizia. Per questo, ci si trova a navigare in uno spazio vuoto, nel quale tutto può accadere, ma nulla è decisivo 7• Anche se questa severa analisi va contestualizzata nei propri anni, e nonostante che, bene o male, il sistema capi­ talistico non sia più, momentaneamente, messo in discus­ sione, essa conserva una indubbia attualità. D'altra parte 12 la critica e persino quella che abbiamo definito autocritica,



do in luce aspetti più o meno evidenti della realtà stessa al fine di una sua interpretazione univoca? Quale concezio­ ne diversa dal tipo-ideale è così disponibile a rivedere il suo schema quando questo si rivela inadeguato ai fatti a pronta a riproporne un altro più adatto alla loro lettura? In altre parole, il tipo-ideale, grazie alla sua natura ipotetica e « fin­ zionistica », costituisce una possibile guida per poterci rego­ lare, benché in maniera provvisoria, in un universo estre­ mamente sregolato 8• Per ciò che concerne quelle contrad­ dizioni che sarebbero più vitali degli stessi strumenti cultu­ rali atti a controllarle, ed escluso che fra essi sia da annove­ rare il tipo-ideale appena menzionato, ci sembra che Tafuri colga uno degli aspetti centrali dell'odierna condizione. In­ fatti la presa d'atto dell'esistenza di una realtà ben più com­ plessa degli strumenti elaborati dalla modernità, la loro stessa riammissione nel novero dei materiali di lavoro dell'archi­ tetto, non può che aprire a quest'ultimo un più vasto cam­ po d'azione. Ma quali sono tali contraddizioni e quali i nuovi ipotizzabili strumenti? Se ci riferiamo alla vasta tematica, poniamo, dei centri storici, non più intesi soltanto come ambito di salvaguardia e tutela, ma come campo di intervento operativo, le con­ traddizioni si danno in tutta la loro evidenza: antico e nuo­ vo, monumento e ambiente, piano e progetto, conservazio­ ne e innovazione, ecc., fino al più problematico conflitto fra proibizionismo e abusivismo. In particolare, come me­ diare tra chi vuole che nulla cambi e chi vuole cambiare senza regole? Ancora ... , tra chi proibisce, e proibendo abu­ sa di potere, e l'abusivismo tradizionale sempre in aggua­ to? 9 In una fonte certo non sospetta di collusione con la speculazione edilizia, leggiamo: Se il fiorire delle leggi volte al controllo minuzioso del territorio è coevo ad un diligente abusivismo non bastano le scomuniche e le condanne: oc­ corre riflettere sulle ragioni profo·nde di quella contraddi­ zione. Forse è meglio programmare meno ma meglio, co­ gliere ciò che conta, proporsi di dire ciò che veramente si riesce a fare. L'importanza grande e decisiva di questa scel14 ta, non può sfociare nell'archeologia urbana, in un riflesso


condizionato contro la produzione 10 • Ma, prendendo atto dell'interpretazione realistica, bastano questi propositi di una gestione più attenta e qualificata a risolvere le contraddizio­ ni di cui ci occupiamo? L'esperienza ha dimostrato il con­ trario. Alla doppia distorsione del vitalistico abusivismo e dell'ideologismo proibizionistico non s'è ancora trovato un fattore di correzione. Basta un compromesso, nell'accezio­ ne migliore del termine, basato su quel senso comune che Cartesio identificava senz'altro con la razionalità? O è in­ vece necessario chiamare in causa, «costruire» una struttu­ ra del genere ideai-tipico, cui abbiamo accennato sopra, da utilizzarsi come parametro verso il quale o contro il quale regolare le nostre azioni?

1 Cfr. E. PERSICO, Profezia dell'architettura, in Scrilli critici e po­ lemici, Rosa e Ballo, Milano 1947, p. 202. 2 L. ANCESCHI, Autonomia ed eteronomia dell'arte, Vallecchi, Fi­

renze 1959, p. 281. 3 Cfr. s. SUTTON, in «PIA», ottobre 1993. 4 G.C. ARoAN, Arte moderna 1870-1970, Sansoni, Firenze 1970, p. 324. s M. TAFURI, Progetto e utopia, Laterza, Roma-Bari 1973, p. 100. 6 J.-F. LYOTARD, Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano 1987, p. 108. 7 M. TAFURI, op. cii., p. 3. s R. DE Fusco-e. LENZA, Le nuove idee di architettura, Etaslibri, Milano 1991, p. 322. 9 P. BELFIORE, Architettura: tra proibizionismo e abusivismo, in « Op. cit. », n. 63, maggio 1985. 10 L. LIBERTINJ, in « Rinascita», 3 novembre 1984.

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La nuova sacralità dell'arte VIRGINIA BARADEL

Ancora alle soglie del terzo millennio l'arte è pur sem­ pre un'esperienza di conoscenza che si compie attraverso lo sguardo. L'occhio, inteso come organo della mente non meno che del corpo, occhio di visione e occhio di veduta. L'occhio che si contende con la parola il primato sull'origi­ ne stessa della conoscenza. L'arte si accorda alla vista. Ma la facoltà del vedere propria dell'artista si estende all'invisi­ bile e all'inesistente 1: il primo è popolato dalle verità pro­ fonde dei miti e degli archetipi, il secondo da quegli em­ brioni di senso che l'artista doterà della facoltà di apparire concretamente, provvedendoli di materie e di forme in gra­ do di evocarli. Su questa via delle ragioni segrete, delle prio­ rità ontologiche, l'arte coincideva in origine con il sacro. Ebbene avvicinandosi la fine del millennio sembra sia in atto una nuova, inedita, convergenza. Gli artisti considerati più radicali, la cui ricerca è, con ogni evidenza, la più rap­ presentativa dello spirito del proprio tempo, fanno rientra­ re in gioco tale tema. A prima vista sembra paradossale attribuire all'arte d'avanguardia, così libera da ogni vinco­ lo fideistico, così spregiudicata, un interesse verso l'univer­ so del sacro, ma esso appare tanto più attuale in un mo­ mento come questo in cui, da un lato si è giunti alla massi­ ma saturazione ed insignificanza della comunicazione cor­ rente, dall'altro si avvertono forti esigenze di spiritualità. 16 L'arte ha mantenuto in vita, anche nelle sue fasi più razio-



tende invece a sparire, a dissolversi nell'assorbimento del­ l'inorganico per fare spazio al vuoto, per ottenere la visibi­ lità del nulla. A questo punto è bene fare i nomi di due artisti che impersonano nel modo più convincente questa doppia polarità, si tratta della francese Orlan e dell'indiano­ inglese Anish Kapoor. Non è poi un caso che la prima sia donna, sia francese, gravata da tutto il sovraccarico intel­ lettuale ed iconico del sapere occidentale, dell'ateismo illu­ minista, in una parola del primato della dimensione terrena dell'esistenza, per cui l'arte ha finito col diventare la più spirituale tra le esperienze umane, ottenendo una spazialità apofatica interstiziale tra i saperi. Il secondo è uomo, è in­ diano trapiantato a Londra in epoca e in luogo propizi al­ l'apparire di esperienze nuovamente interessate a contenuti archetipici e spirituali. Questi due artisti rappresentano le opposte polarità non solo per quel che riguarda la ricerca artistica ma, anche, come riedizione dei grandi dualismi: femminile e maschile, occidente ed oriente, pieno e vuoto, corpo e spirito. Per entrambi l'entità di partenza è il corpo naturale, quale è dato di possedere dalla creazione di Ada­ mo ed Eva, che Orlan ritiene superato nella sua finitezza e Kapoor insuperato quale tramite per accedere a superiori verità; entrambi tendono a produrre visibilità nel (in) luogo del corpo 3 • Orlan condurrà il suo stesso corpo attraverso i secoli sino ad includere fisicamente, con l'aiuto delle tecnologie chirurgiche più sofisticate, la coscienza dell'occidente pro­ dotta dall'arte, considerando l'arte stessa come l'unica e autentica coscienza dell'occidente. Kapoor procederà dalla cognizione dei principi di ordine cosmico contenuti nei cor­ pi maschile e femminile, per tendere a quella soglia ineffa­ bile del mistero dove viene istruito il segreto della vita. L'op­ posizione tra i due si giocherà a livello dell'io, del luogo dell'identità che in Orlan è l'artista stessa intesa come cor­ po fisico, in Kapoor è l'artista come sacerdos 4 , come ce­ lebrante di un libero « regressus ad uterum », del ritorno nel grembo della divina origine. Per entrambi l'incarnazio18 ne costituisce un passaggio obbligato. In antroposofia l'io



che, nel linguaggio dell'arte può essere intesa anche simbo­ licamente, come apparizione sensibile dell'opera d'arte, ma che oggi va intesa anche in senso letterale. Il corpo è lo scandalo di fine millennio, la morte è l'intollerabile rivela­ zione. Scandaloso per la logica e la morale è il corpo in continua mutazione di Orlan 7, scandaloso è il vuoto del corpo, del ventre-sepolcro inorganico di Kapoor 8• Nel vec­ chio e nel Nuovo Testamento viene usata proprio la pietra quale metafora per intendere lo scandalo (l'incarnazione del figlio di Dio) su cui inciamperanno gli uomini: « Egli sarà laccio e pietra d'inciampo / e scoglio che fa cadere» (ls. 8, 14). La rimonta del corpo quale fenomeno centrale, irradiante nuova coscienza per l'età contemporanea, è certamente in relazione con l'allontanamento iperriflessivo ed ipertecno­ logico dalla condizione terrena. In tal modo si tende ad adeguare lo stesso corpo alla natura non mortale delle pra­ tiche speculative e proiettive cui è pervenuta l'odierna autocoscienza 9• Del resto, la dimensione extrasensoriale si rende quasi naturalmente accessibile anche in relazione alla cecità indotta dall'inflazione e dal disordine visivo del no­ stro tempo. L'eccesso di informazioni iconiche, la riduzio­ ne delle immagini ad apparenze analfabetiche ed intercam­ biabili, ha portato ad uno stato di cecità involontaria per cui l'occhio tende a ritirarsi dalla vista del visibile e ad ef­ fondersi in direzione di universi dotati di una visibilità non 'a giorno', in spazi virtuali con accesso notturno, dovuti a processi tecnologici o spirituali. Già per questa via, via negationis di fatto, cioè collegata all'esito negativo dell'e­ voluzione del sistema delle comunicazioni, ci si avvia ad un superamento dello stato di veglia sul mondo da parte dei principi attivi della coscienza artistica e ad una loro ri­ conversione sui pensieri fondamentali. L'inattualità del com­ mercio con quanto concerne l'oggettività esterna, sia essa di ordine fenomenologico o analitico, è certificata dall'im­ plosione dalle poetiche omeologiche postmoderne. L'arte concettuale più autentica è pervenuta, nei processi di sma20 terializzazione più raffinati e conseguenti, a latitudini cate-



che produce gli oggetti del vedente-veggente, cieco ai simu­ lacri che saturano l'iconosfera. Il carattere oculare dell'arte di fine millennio va dunque inteso come origine, attinente ad un occhio che attraversa, per giungervi, l'esperienza della cecità, del buio, dell'indi­ stinto. L'occhio che si introflette per vedere all'interno del buio sostanziale della carne in Orlan, l'occhio che si affac­ cia verso la vertigine del vuoto, che affonda nel luogo del nulla divino in Kapoor. L'occhio dunque quale, esso stes­ so, latore di luce. Nel vangelo di S. Matteo, citato anche da Wim Wenders nel frontespizio del suo film dal titolo emblematico «Così vicino, così lontano», si legge «Lucer­ na del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce, ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra». (6, 22.23) Potremmo considerare la ricerca di Kapoor dal lato della luce, quella di Orlan dal lato delle tenebre. Nel primo vi è un procedere nella luce sino a ottenere un modo di dare visibilità al vuoto. «Il vuoto è davvero una condizione interna. Ha molto a che fare con la paura in termini edipici; ma, più di questo, con le tenebre. Non c'è niente di più nero del nero interno. Nessuna oscurità è più nera di questo... Questo vuoto non è qualcosa che sia impossibile esprimere. È uno spazio potenziale non un non-spazio». 11 La seconda avanza nell'interno carnale del suo corpo, nelle tenebre delle sue carni mortali per inglobarvi quegli archetipi che la trasformeranno in un corpo di sintesi uni­ versale. Ella potenzia plasticamente il pieno contestando l'in­ toccabilità del corpo che ha portato alla sua obsolescenza e «dando l'idea che la vita è un fenomeno estetico recupe­ rabile». In modi diversi ed opposti, entrambi muovono dal corpo umano mortale per giungere all'idea di Dio: Orlan, che proviene da un lavoro sull'iconografia religiosa, vi ten­ de facendosi essa stessa totipotente e inibendo la volontà divina sulla finitezza del suo corpo; Kapoor la evoca nella 22 forma-funzione mistica che fa assumere alle materie inor-



le», che potrebbe uccidere l'artista, non lo stress e l'insita pericolosità degli interventi chirurgici. E ciò perché ella si identifica totalmente con la totalità-sacralità dell'arte che riconduce l'azione a rito. La stessa sala operatoria le appar­ ve la prima volta « come una specie di chiesa, con la luce che viene dall'alto, con dei cerimoniali che ufficiano l'atto, con il drappo tutt'intorno: ero molto stupita di quell'even­ to di grande meditazione e concentrazione». La creazione artistica in questo caso è una forma di rinascita che evoca i miti su questo tema presenti in tutte le religioni. Per Kapoor la ritualità concerne l'altro soggetto della rinascita, l'artefice è il celebrante, colui che trasforma « la pietra in cielo». La 'maternità' dell'uomo è sempre stata oggettuale, simulata e applicata ad un creato artificiale 13• Quindi tutto rientra in un ordine noto, ma portato, in que­ sto momento di cocenza epocale, ad un punto di estrema tensione rivelatoria. Il tema del grembo materno, della ge­ nerazione naturale financo del condotto vaginale e della ca­ vità uterina sono del tutto evidenti nell'opera dell'artista inglese. I valori della generazione delle forme, della molte­ plicità dell'esistente, riconducibili alle proprietà dei due ses­ si, l'attribuzione di un'evidenza spaziale ad un repertorio di creato primigenio 14, introducono l'avvento di «Adam » ('88-'89), dell'uomo, « lt is a man» ('89-'90), in cui appare la visibilità del vuoto in una cavità rivestita di pigmento di colore blu di Prussia, a forma di parallelepipedo, scavata all'interno di un grande masso della stessa forma, alto co­ me un uomo. La cavità di configura in un primo momento («Adam») come il luogo della testa (dello sguardo e, in immediata successione, (« It is a man»), dell'intero corpo. « Il pigmento, polvere di colore, significa la forza creatrice: è segno di vita, comparabile al seme o al polline dei fio­ ri>> 15• Tuttavia la polvere è tanto metafora della vita del corpo, quanto della sua negazione: « polvere di polveri / tutto fumo/ polvere» dice l'Ecclesiaste, ciò che rimane della dissoluzione del corpo 16• «It is a man» appare come una sorta di sepolcro corrispondente alla capienza di un corpo 24 umano che sia evaporato lasciando sul posto l'impronta del



donarsi (che pensando ringraziamo: il danken-danken in Hei­ degger), per cui ogni arcano è tolto, è il Mistero» 19 •

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1 «Fare un oggetto che non sia un oggetto, fare un buco nello spa­ zio, fare qualcosa che veramente non esiste» A. Kapoor in G. CELANT, Anish Kapoor, catalogo della mostra alla Fondazione Prada, Milano, Charta, 1995, p. XXX. 2 La centralità del corpo nella coscienza artistica contemporanea è il tema intorno cui ruota l'ottima rivista multimediale e multidisciplinare «Virus», creata e diretta da Francesca Alfano Miglietti. 3 «Un aspetto essenziale del mio lavoro è che le dimensioni sono sempre in relazione con il corpo... Lo spazio dentro è spazio mentale e corporeo. Un santuario per una persona» G. CELANT, Anish ... cii., p. XXIX. 4 Cfr. lvi, p. XII. s A tale proposito sovviene la 'Merda d'Artista' di Manzoni e quan­ to dice (cito a memoria) nel documentario di Mario Martone « Lucio Amelio - Terrae Motus» lo stesso Amelio «questa scatola è una tomba, quest'opera è un pensiero di morte». 6 G. BATAILLE, Storia dell'occhio, Roma, Gremese, 1980, cfr. an­ che l'introduzione di A. Moravia. 7 Le icone femminili che Orlan sovrimprime nel suo suo corpo di sintesi sono sinora: Diana, Psiche, Venere, Europa, la Gioconda: «Per sintetizzare posso dire che il mio lavoro è un lavoro di autoritratto estre­ mamente classico che viene prima concepito con l'utilizzo delle nuove tecnologie; è un autoritratto ottenuto con il computer e che, in seguito, diventa reale sul mio corpo come Scultura realizzata sulla mia carne». Tutte le citazioni di Orlan sono tratte dal n. 2 del maggio 1994 di «Virus». 8 «La pregnanza del corpo assente, ombra, alone e vuoto, è al cen­ tro di tutta la meditazione artistica di Kapoor» G. CELANT, op. cii., p. XVII. 9 La pubblicistica su tali tematiche è vastissima. Vogliamo qui se­ gnalare due titoli attinenti ad esse in modo indiretto, ma indicative di due modalità opposte di intendere l'esito dell'evoluzione umana progres­ siva: E. M. CIORAN, La caduta nel tempo, Milano Adelphi, 1995, e M. PERNIOLA, li sex appeal dell'inorganico, Torino, Einaudi, 1994. . 10 L'artista che ha affrontato in modo diretto tale questione è Mi­ chelangelo Pistoletto. Ricordiamo il ciclo di opere sul tema della radica­ lità del credo artistico, come l'«Arte assume la religione» del 1976 e alcune sue affermazioni quali: «Ma cosa c'era nell'arte antica di non definibile come produzione artigianale? La produzione della sacralità... E cosa c'è oggi nell'arte che è distinto dall'applicazione pratica delle leggi del progresso? L'arte «concettuale» è stata la più alta sospensione laica di un antico sguardo spirituale verso l'alto» in B. CoRA, Pistoletto, Ravenna, Essegì, 1986, p. 214. In tale guisa di spiritualità laica si può rinvenire il tema dell'introflessione dello sguardo ancora in Pistoletto (« La luce è cieca» del '77), in buona parte del lavoro di Giulio Paolini e nell'atto di «rovesciare gli occhi» di Giuseppe Penone.


11 In G. CELANT, op. cii., p. XXIX. 12 Sulla questione del corpo quale 'verbo' del femminile molto è stato scritto e teorizzato dalla cultura femminista. Qui vogliamo ricorda­ re il testo di M. ZANCAN, La donna e il cerchio nel «Cortegiano» di B. Castiglione, che coglie questa modalità di porsi «con le parole del corpo» nell'essere del discorso, da parte delle donne, in una circostanza storico-letteraria fondamentale per la coscienza occidentale: l'Europa delle corti. In AA.VV., a cura di M. ZANCAN, Il cerchio della luna, Venezia, Marsilio, 1983. 13 Sul carattere metaforico della produzione materiale dell'opera pa­ ragonato alla generazione materna, rimane insuperato il testo di J. KRI­ STEVA, La maternità in Giovanni Bellini, in «Nuova DWF», 6/7, 1978. 14 Si veda a riguardo l'interpretazione dell'opera «1000 names» ('79-'80) e «l'importanza della luce quale prima manifestazione visibile della Forza e del Divino, motivo ricorrente in tutte le articolazioni meta­ fisiche» G. CELANT, op. cit., p. Xlii. 15

Ibidem.

16 Cfr. in particolare l'edizione a cura di G. CERONETTI: Qohélet o /'Ecclesiaste, Torino, Einaudi, 1988. 17 Nell'ambito di una particolare linea di riflessione teologica la pos­ sibilità di accedere visivamente al divino, com'è accaduto a Paolo, rie­ conduce alla condizione di Adamo «Ce que Paul a expérimenté, c'est donc d'avoir été ravì dans le paradis, d'avoir retrouvé pour un temps l'union divine que possédait Adam et l'avoir dépassé». AA.VV., Dic­ tionnaire de Spiritualité ascétique et mystique, doctrine et histoire, Pa­ ris, Beauchesne, 1953, Tome II, deuxieme partie, p. 1874. 18 «Ebben, si vada al fondo della cosa, / che forse nel tuo Nulla il Tutto posa» così Faust si avvia rabbrividendo nel regno delle Madri incalzato da Mefistofele che Io apostrofa «Fuggi da tutto quanto l'esi­ stente / verso i liberi regni delle forme / Ti piaccia ciò che non è più presente / da lungo tempo. Come nembi a torme / s'intreccian ivi tu­ multuosi i piani». W. GoETIIE, Il secondo Faust, Milano, Rizzoli, 1951, pp. 80-81. 19 M. CACCIARJ, Ateismo e misticismo, in AA.VV., Alle radici del­ la mistica cristiana, atti del convegno di S. Spirito, Palermo, Augusti­ nus, 1989, p. 108.

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Design e problema occupazionale GIUSEPPE LOTTI

Se è vero che oggi si è compreso che il sogno (o l'incu­ bo) di una fabbrica che possa produrre a luci spente e cioè senza l'i�tervento dell'uomo è dannoso perché le macchine, quando sbagliano, non se ne accorgono ed è quindi possibi­ le che migliaia di pezzi difettosi vengano prodotti senza che nessuno riesca a rimediare all'errore, è altrettanto vero che la diffusione dell'automazione sta portando ad una pro­ gressiva perdita di posti di lavoro. I dati relativi al numero di ore necessarie per la produ­ zione di un oggetto sono illuminanti: Per montare un tele­ visore si è passati in dieci anni da 20 ore a 2 ore. Per co­ struire un'auto di media cilindrata (1000 eme) ... si è passa­ ti in dieci anni da circa 180 ore a meno di 120 ore con un aumento di produttività del S0OJo. L'aumento di produt­ tività è del lOOOJo per la costruzione di un motore... Gli altri prodotti elettronici - videoregistratore, computer - han­ no addirittura visto dimezare ogni 2-4 anni i tempi di mon­ taggio finale 1• Il termine deindustrializzazione, oggi mol­ to usato e anche contestato da alcuni addetti del settore, va inteso appunto non nel senso di riduzione del numero delle industrie ma in quello di diminuzione dei posti di la­ voro. Possiamo discutere sulle dimensioni e sul ritmo di intensificazione del processo con cui, a seguito dell'auto­ mazione e della robotizzazione, si contrae la domanda di 28 forza lavoro•.. Ma alla luce dei fatti e delle prospettive del-


lo sviluppo tecnologico nel contesto dell'attuale rivoluzione industriale non possiamo negare, senza il rischio di essere accusati di ignoranza, che le nuove tecnologie stanno limi­ tando drammaticamente la richiesta di forza lavoro, scrive­

va qualche anno fa Adam Schaff 2• La situazione è davve­ ro grave se si considera anche che, come fa notare Massimo Paci, l'automazione avrà sicuramente un effetto risparmia­ tore di lavoro addirittura più globalizzato portando ad un'e­ stensione graduale anche al settore dei servizi (compresi quelli pubblici) dei fenomeni di riduzione delle possibilità occupazionali 3• Proprio perché questo fenomeno è ormai universalmente riconosciuto che la causa principale della diminuzione dei posti di lavoro, gli esperti, mentre segnalano alcune pos­ sibili vie di uscita - « lavorare tutti, lavorare meno», ridu­ zione della busta paga, innalzamento del limite scolastico, formazione ripetuta o continua lungo il corso dell'intera esistenza -, concordano anche nel ritenere che, purtroppo, l'attuale crisi occupazionale sia un fenomeno strutturale de­ stinato a durare nel tempo. Avevano forse ragione i luddisti che quasi due secoli fa distruggevano le macchine accusan­ dole di essere fonte di disoccupazione? Sarebbe fuori luogo sostenere un simile assunto; i grandi progressi compiuti dal genere umano negli ultimi due secoli, infatti, sono soprat­ tutto frutto dell'evoluzione della tecnologia e del massiccio impiego delle macchine. Ma sarebbe altrettanto sbagliato proseguire su questa strada come se niente fosse. È infatti necessario acquisire la consapevolezza del limite, frenare lo sviluppo incontrollato, fare un po' « marcia - e macchina - indietro». Se è assurdo attribuire in toto all'automazione la responsabilità del problema occupazionale, è altrettanto sbagliato continuare a considerarla, non solo come l'unica possibilità di sviluppo, ma addirittura come una panacea per tutti i problemi umani. Tra la fiducia incondizionata nelle macchine ed il loro aprioristico rifiuto, tra uno scenario fortemente high-tech, caratterizzato dalla mitizzazione della tecnologia, ed uno /ow-tech in cui ad affermarsi è il rifiuto della stessa, esiste sicuramente una strada interme- 29


dia. Una terza via importantissima anche in prospettiva eco­ logica. Al posto della tradizionale contrapposizione tra un'i­ deologia del dominio e un'ideologia della sottomissione, ab­ biamo bisogno che si faccia strada una filosofia del rispetto per la natura, scrive Paolo Rossi in Physis: abitare la terra 4.

Pensiamo ad un futuro in cui alta e bassa tecnologia, lavoro manuale ed automatizzato, produzione in grande se­ rie e tiratura limitata convivano fianco a fianco in perfetto equilibrio. La cultura industriale classica, rilevava qualche anno fa Ezio Manzini, pensava ad un mondo semplificato e trasparente come una catena di montaggio. Quello che invece appare è un mondo complesso, in cui l'alta tecnolo­ gia può combinarsi nelle più diverse forme con tecnologie mature ed anche con l'artigianato, in cui antiche conoscen­ ze possono essere riciclate per nuovissimi campi di impiego; in cui insomma, invece dell'attesa omogeneizzazione dei mo­ delli culturali e produttivi ad un'unica razionalità dominan­ te, si riscoprono le diversità 5• È la stessa epistemologia contemporanea che ha messo in crisi l'idea di omniscenza, ha mostrato l'infondatezza delle verità assolute, ha indica­ to la via di un sapere molteplice e plurale, capace di conci­ liare gli opposti. La questione è indubbiamente di grande interesse ma, per l'ampiezza delle tematiche che investe, è di competenza soprattutto degli esperti di economia, di politica industriale e sindacale. Noi, che lavoriamo a più livelli nel mondo del progetto possiamo semmai domandarci quale ruolo può eser­ citare il design in questo panorama che si sta delineando sotto i nostri occhi e, soprattutto, se questo, contribuendo nel senso che abbiamo sopra indicato all'affermazione di un modo meno disincantato ma allo stesso tempo più co­ sciente di guardare alla tecnologia, sia in grado di aprire· nuove opportunità dal punto di vista occupazionale. La risposta è affermativa. Ma perché ciò accada deve in parte mutare i propri assunti. È infatti necessario che il design, rivedendo il suo programma originario e cioè la 30 capacità di integrare la qualità artistica nella quantità della



si tratta di muoversi su una strada non molto diversa da quella percorsa finora dall'economia italiana e che, come scrive Giuseppe De Rita, ha permesso al nostro paese un processo di internazionalizzazione originale rispetto agli al­ tri stati occidentali, fatto cioè rion dalle grandi macchine delle aziende multinazionali ma costruito sulla penetrazione e occupazione di tante piccole nicchie di mercato da parte di tante piccole imprese, spesso centrate sulle capacità individuali 7•

La nostra ipotesi si avvicina a quella formulata qualche anno fa da Filippo Alison e Renato De Fusco. I due autori, dopo aver rivelato come, attualmente, i confini tra artigia­ nato e design siano sempre meno definiti, proponevano un nuovo «genere» di produzione intermedio, l'artidesign, che si distigue da questi per le sue particolari modalità: a) di progetto - il disegno è importante come nell'industriai de­ sign ma durante le fasi di lavorazione è possibile apportare delle modifiche; b) di produzione - uso di materiali artifi­ ciali ma tiratura limitata ottenuta attraverso l'utilizzo di mac­ chine dalla tecnologia semplice: c) di vendita e consumo - non su commessa come la produzione artigianale ma con un preciso equilibrio tra domanda ed offerta e con una no­ tevole capacità di instaurare un rapporto con il gruppo, ter­ mine intermedio tra singolo e massa. Con questi quattro punti gli autori individuavano nella maggior flessibilità pro­ duttiva dell'artidesign, nella sua attenzione alla qualità più che alla quantità, nei suoi processi di lavorazione meno in­ quinanti, alcune possibilità di soluzione ai molti problemi che si presentano sul nostro cammino 8 • Ma un'operazione del genere può avere successo? Che cosa potrebbe spingere le aziende a non affidare alle sole macchine la lavorazione e a lasciare ancora spazio all'opera dell'uomo? È possibile pensare ad una produzione in cui l'intervento umano risulti ancora decisivo quando la mac­ china è in grado di eseguire perfettamente da sola un lavoro con minori costi ed in tempi più brevi? Pensiamo di sì. E questo non solo perché, come affer32 ma certo ecologismo un po' ingenuo, data l'importanza della



la manifattura mista ed integrata -, recentemente l'atteg­ giamento è mutato in maniera decisa. Le motivazioni del successo di quei prodotti che, utiliz­ zando il termine coniato da Alison e De Fusco, possono essere definiti come di Artidesign sono molteplici. Innanzi­ tutto la tendenza ad una progressiva demassificazione della produzione in risposta alle profonde mutazioni della do­ manda. Mentre l'era industriale era caratterizzata dalla gran­ de serie, in una società come quella attuale, segmentata e frantumata, si assiste ad una richiesta crescente di prodotti diversificati capaci di rispondere alle esigenze di piccoli gruppi di consumatori. E questa esigenza non può essere soddi­ sfatta esclusivamente dal lavoro delle macchine a controllo numerico che permettono di realizzare variazioni esclusiva­ mente superficiali e di piccola entità. Non esiste infatti un prodotto che, come quello che nasce dal lavoro dell'uomo con i suoi inevitabili scarti e diversità, sia in grado di espri­ mere l'individualità, la personalità e la creatività di chi lo compra. Anche la rinnovata attenzione per i valori della tradizione, rilevata da gran parte degli operatori del setto­ re, sembra spingere in questa direzione. La società italiana appare improvvisamente chiudersi su se stessa, scrive Giam­ paolo Fabris nel suo ultimo libro. Abbandonare tutto ciò che in qualche modo appare trasgressivo o semplicemente diverso. La tensione

è a tornare, o cercare di tornare, a

un mondo ben conosciuto in cui le certezze prevalgono 10•

Infine è facile intuire che la crescente attenzione per le pro­ blematiche ambientali, la nuova sensibilità etica e, più in generale, il diffondersi di un sistema di valori esistenziali e culturali più profondi e duraturi, con la conseguente tra­ sformazione degli atteggiamenti di consumo che si fanno meno effimeri ed ostentativi, spingeranno il mercato verso prodotti che non si presentino solo come inutili, appari­ scenti trofei da esibire, ma, come quelli di un tempo, siano dotati di vita propria ed abbiano una storia da raccontare. La fascinazione, scriveva Jean Baudrillard nel lontano 1963 a proposito dell'oggetto artigianale, ma noi potremo esten34 dere il concetto, deriva dal fatto che è passato per le mani



vengono dal mercato, potrebbe risultare decisivo. E il de­ sign, un design che sappia rimettersi in gioco, mutando in parte il proprio campo di azione, deve svolgere in tal senso un importante ruolo di promozione e di supporto tecnico e culturale per quelle aziende che vogliono intraprendere questo difficile cammino. 1 N. CACACE, Attività professionali emergenti: la società di doma­ ni, Franco Angeli, Milano 1986, pp. 114-115. 2 A. ScHAFF, La disoccupazione strutturale è un risultato inevita­ bile della seconda rivoluzione industriale?, in M. CERUTI, E. LASZLO (a cura di), Physis: abitare la terra, Feltrinelli, Milano, 1988, p. 411. 3 M. PACI, li mutamento della struttura sociale in Italia, Il Muli­ no, Bologna, 1992, p. 229. 4 P. Rossi, Atteggiamenti dell'uomo verso la natura, in M. CERU­ TI, E. LASZLO (a cura di), op. cii., pp. 203-204. S E. MANZINJ, Artefatti: verso una nuova ecologia dell'ambiente ar­ tificiale, Domus Academy, Milano, 1990, p. 65. 6 G. D'AMATO, Zampe d'insetto, in «La Gola», maggio 1986, cit. in F. AusoN, R. DE Fusco, L 'Artidesign: il caso Sabatti11i, Electa, Na­ poli, 1991, pp. 174-175. 7 G. DE RITA, 6 Virtù per una nuova Italia, in « L'Italia che nascerà dall'Italia», n. 9, 1994, p. 4. 8 F. ALISON, R. DE Fusco, op. cit. 9 E. MANZINJ, op. cit., p. 9. •0 G. FABRIS, Consumatore & Mercato: le nuove regole, Sperling & Kupfer, Milano, 1995, p. 37. 11 J. BAUDRILLARD, Le système des objets, Gallim_ard, Parigi, 1968, trad. it. a cura di S. Esposito, li sistema degli oggetti, Bompiani, Mila­ no, 1972, p. 9.

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