Op. cit., 96, maggio 1996

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Marina Montuori,

Livio Sacchi, Sergio Villari

Segretaria di redazione: Saia Graus Ventrella Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Te!. 7690783 Amministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Caracciolo, 13 - Te!. 7614682 Un fascicolo separato L. 8.000 (compresa IV A) - Estero L. 9.000

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Electa Napoli


s G. PIGAFETTA, Architettura, le teorie «silenziose» 20 G. Lorn, li design de/l'ascolto A. 1ìuMAit.co, La critica d'arte dopo la fine dei «grandi racconti» 30 39 Libri, riviste e mostre

Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Paolo Balmas, Gio­ vanna Cassese, Alessandro Castagnaro, Alessandra de Martini, Rosa Lo­ sito, Fabio Mangonc.


La rivista si avvale del contributo economico dei seguenti Istituti e Aziende:

Alessi Camera di Commercio di Napoli Driade Golden Share



vato un essere raro, dotato di una vita preziosa - ed ora lo si vedesse declinare verso lo sfacelo. È qui, che ho capito Hol­ derlinl 2 L'incontro, che Guardini descrive·, con un'epoca che de­ clina e che tramuta il ricordo letterario di Holderlin (e della sua follia) in una «presenza», in un'esperienza vissuta, mi­ nacciosa e destinale, è in fondo il paradigma dominante in larga parte della cultura europea che, sopravvissuta ali'«im­ mane crogiuolo» della Grande guerra, si ritrova di fronte ad un mondo in cui esperienza e tradizione si sono definiti­ vamente svuotate della loro forza autoritativa e normativa. Il «largo tratto rosso» che la prima guerra mondiale ha tracciato su un'epoca ormai «esaurita» - secondo l'efficace espressione di Jiinger 3 - è il segno di non ritorno che la cul­ tura europea si lascia alle spalle come un ponte bruciato, ol­ tre il quale si intravvede sempre più vagamente un mondo in cui esperienza e tradizione fondavano il rapporto dell'uomo con la sua opera. Su questo - con diversi accenti - concordano Jiinger come Meinecke, Gentile come Rensi, Benjamin come Spen­ gler, Evola come Barth. La massificazione, l'irruzione della tecnica quale elemento pervasivo d'ogni angolo della vita, l'introiezione, nell'etica del lavoro totalmente organizzato, della conflittualità non risolta dalla guerra («la guerra mon­ diale è stata assorbita dai giorni feriali» dice Guardini), hanno reso impossibile, ad un'umanità sradicata, di «ve­ dere, di possedere, di abitare, di pensare, di regnare, di creare»; le hanno reso impossibile un rapporto pieno con il fare, con l'opera. Su questo Guardini tornerà, sempre e nuovamente. An­ cora ne La fine de/l'epoca moderna, scritto negli anni cin­ quanta, lo strappo tra esperienza e tradizione, da un lato, e opera viene rievocato come tratto saliente della modernità. I rapporti con la natura, con il mondo, perdono la loro evi­ denza, divenendo astratti e formali. Non sono più oggetto di esperienza, divengono obbiettivi e tecnici. Di conse­ guenza si trasformano anche i rapporti dell'uomo con la sua 6 opera. Ed anch'essi divengono in gran parte indiretti,













1 R. GUAllDINl, Briefe vom Comer See, (1923-1925), Mainz 1953; trad. it., Lettere dal lago di Como, La tecnica e l'uomo, Brescia 1993, p. 9. 2 lvi, p. 13. 3 E. JONGER, Der Arbeiter (1932), Stuttgart 1981; tr. fr., Le travail­ leur, Mesnil-sur-l'Estrée 1993, p. 87. 4 R. GuARDINl, Das Ende der JYeuzeit (1950), Bayern 1984; tr. it., La fine dell'epoca moderna, Brescia 1989, p. 69. 5 R. GUAllDINl, Briefe...; tr. it., cit., p. 108. 6 W. GROPIUS, The new architecture and the Bauhaus (1935), Lon­ don 1956, p. 48. 7 Cfr. J. M. RicRARDs, Walter Gropius, in «The Architectural Re­ view», aug. 1935, pp. 45-46. 8 Cfr. G. PIGAFETI"A, Le teorie «silenziose» dell'architettura mo­ derna, in «Rectoverso», 4, febbraio 1996. 9 Cfr. G. PmAFEnA, Fortuna degli slogans, in«Op. Cit.», 53, gen­ naio 1982, pp. 32-45. 10 Cfr. B. LUBETKIN, Modern architecture in England, in«Arnerican architect and architecture», feb. 1937, pp. 28-42. 11 Cfr. R. BLOMFIELD, Modernismus, London 1934; le citazioni da questo testo sono tratte dalla traduzione italiana (condotta da I. Abbon­ dandolo, a cura di G. Pigafetta) in corso di pubblicazione presso Alinea editore. 12 T. W. ADORNO, Ohne Leitbild. Parva Aesthetica, Frankfurt a. M. 1967; tr. it., Parva Aesthetica, Milano 1979, p. 27. 13 L. Mms VAN DER RoHE, Baukunst und Zeitwille, in«Der Quersch­ nitt», 4, 1924, pp. 31-32; tr. it., Architettura e volontà dell'epoca, in M. DE BENEDErn, A. PRACCHI, Antologia dell'architettura moderna, pp. 402-403. 14 Cfr. F. W. J. SCHELLIN0, System den transzendentalen ldeali­ smus, Tiibingen 1800; tr. it., Sistema dell'Idealismo trascendentale, Bari 1965, p. 274. 15 G. W. F. HE0EL, Die Phaenomenologie des Geistes, Bamberg u. Wiirzburg 1807; tr. it., Fenomenologia dello spirito, Firenze 1979, p. 299. 16 lvi, p. 305. 17 N. PEVSNER, An outline of european architecture, Harmond­ sworth, Middlesex 1960; tr. it., Storia dell'architettura europea, Milano 1966, p. 671. 18 Ibidem.

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19 Cfr. M. TAFUIU, Teorie e storia dell'architettura (1968), Roma­ Bari 1980, p. 13. 20 T. W. ADORNO, Ohne Leitbild ... ; tr. it., cit., p. 32. 21 A. DEL NOCE, Il concetto di ateismo e la storia dellajilosojia come problema, (1964), in Il problema dell'ateismo, Bologna 1990, p. 69. 22 Cfr. K. L6WITH, Gesammelte Abhandlungen. Zur Kritik der ge­ schichtlichen Existenz, Stuttgart 1960; tr. it., Critica dell'esistenza storica, Napoli 1967.


23 W. GROPIUS, Scope of tota/ architecture, Cambridge Mass. 1955; tr. it., Architettura integrata, Milano 1963, p. 110. 24 Cfr. J. EvoLA, Rivolta contro il mondo moderno (1934), Milano

1951, pp. 15-16. 25 R. H. WILENSKI, Reforming the Royal Academy, in «The Archi­ tectural Review», oct. 1935, p. 122. 26 J. M. R1cHARDs, Towards a Rational Aesthetic, in «The Architec­ tural Review», dee. 1935, p. 211. - 27 K. MANNHEIM, Konservatismus (1925), Frankfurt a. M. 1984; tr. it., Conservatorismo, Roma-Bari 1989, p. 124. 28 T. W. ADORNO, Negative Dialektik, Frankfurt a. M. 1966; tr. it., Dialettica negativa, Torino 1980, p. 48. 29 Cfr. E. J. HoBSBAWM, T. RANGER, The invention of tradition, Cambridge 1983.

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Il design dell'ascolto GIUSEPPE LOTTI

La fin� di quelli che J ean François Lyotard ha definito i grandi racconti 1 è stata salutata da più parti con grande sol­ lievo come inizio di un periodo in cui, caduti i vincoli ideo­ logici, fosse possibile esprimersi finalmente in maniera più libera. Mentre la Modernità si basava sull'idea di leggi uni­ versalmente valide ed applicabili indipendentemente da fat­ tori contingenti, il suo superamento coincide con la scoperta e l'affermazione di una possibile convivenza tra idee molte­ plici e complesse. Pensiero debole da una parte e Decostrut­ tivismo dall'altra rappresentano pienamente - per l'abban­ dono del pathos per il nuovo, per la lotta contro ogni schema prefissato, per l'ammissione del molteplice e del di­ verso - questo nuovo modo di guardare al mondo ed alla vita. Anche la fine del racconto del Moderno in architettura e design è stata accolta come una liberazione. Neoliberty, Ar­ chitettura Radicale, controdesign, Alchymia e Memphis rappresentano le tappe più significative di questo progres­ sivo cammino di emancipazione. Vengono in mente le pa­ role di Andrea Branzi che a conclusione de La casa calda scriveva: È certo che se un futuro dell'architettura esiste, questo consiste non in un nuovo modo di progettare, ma in un nuovo modo di usare la casa; un modo che preveda il di­ verso, il privato, l'errore e la variante. Le armi di una rigida 20 morale di giudizio e di azione devono ormai servire non a



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smo, affermano Karl Michael Armer e Albrecht Bangert, forse esagerando un po' nei toni e nei termini, ha incorag­ giato i designers a liberarsi di tutti i freni. Sono stati creati oggetti la cui stupidità si sottraeva al ridicolo soltanto per la pretesa di essere trattati come opere d'arte. Alcuni designers scoprivano nella storia dell'arte una riserva che permetteva loro di nascondere la mancanza di idee dietro la cortina di fumo della citazione stilistica; il tenero desiderio di piacere da parte di molti oggetti post-moderni e le pretese provoca­ zioni di sedicenti artisti hanno ispirato uno stile di design di lampante trivialità 4 • La nostra società ha mostrato in tal senso una grande capacità di assuefazione; basta pensare a quello ·che succede ogni giorno in televisione dove le scene di violenza sempre più forti e spesso gratuite, passano sotto si­ lenzio. Solitamente, scrive Omar Calabrese, sono tacçiati di eccesso gli elementi esterni ad un sistema e per esso inaccet­ tabili. Nelle epoche barocche (come quella in cui viviamo, n.d.r.), invece, si produce un fenomeno endogeno. All'in­ terno stesso dei sistemi si producono forze centrifughe, che . si pongono fuori dai confini del sistema. L'eccesso è geneti­ camente interno. La cultura contemporanea sta vivendo fe­ nomeni di eccessività endogena sempre più numerosi, che vanno dalla produzione artistica a quella metodologica, fino ai comportamenti politici e sociali 5• La grande fiducia che aveva accolto la fine dei grandi racconti si sta incrinando anche in coloro che avevano salu­ tato con maggior entusiasmo il crollo delle ideologie. Em­ blematico è ciò che avviene con i mezzi di comunicazione di massa. Così Gianni Vattimo che nel 1989 giudicava assai positivamente la società della comunicazione in quanto mo­ mento di grande libertà, processo di esplosione e moltiplica­ zione di Weltanschauungen, di visioni del mondo 6 , oggi af­ ferma: La mia idea era che la nascita di molti media, la loro moltiplicazione potesse creare delle reti di comunicazione a doppio senso, potesse evitare, cioè, il rischio di un accentra­ mento. (...) le cose stanno diversamente (...). Ho scritto di recente ( ••. ) che gli intellettuali non hanno più la stessa fede nella possibilità di comunicare con tutti, nel principio che



siamo infatti d'accordo con Magnago Lampugnani - che della tendenza è il principale difensore - quando afferma: La prima cosa che tale cambiamento (il passaggio dal II al III millennio, n.d.r.) deve includere è il ritorno alla sempli­ cità. Per molteplici ragioni. Di tipo ideologico: in un mondo che deve essere suddiviso nella maniera più corretta possi­ bile tra un numero crescente di persone, non può e non deve esserci spazio per il superfluo. Di tipo tecnico: se si inten­ dono semplificare i processi produttivi, per realizzare beni (e quindi, abitazioni) meno costosi, si deve rinunciare a tutto quanto complica tali beni rendendone più difficile la fabbricazione. Infine di tipo estetico: dall'avvento della ri­ voluzione industriale la semplificazione, imposta dai nuovi bisogni tecnici e sociali, è stata nobilitata dalla cultura più evoluta ed elevata a principio artistico 9• Così come non siamo con Lampugnani quando sulle pagine di «Domus» scrive che l'architettura deve seguire un andamento rettili­ neo perché è fatta di mattoni rettangolari, di pietre di solito squadrate, di travi in legno generalmente diritte 10• In un mondo in cui i comportamenti di consumo sono mossi più dal desiderio che dai bisogni ed in cui i progressi scientifici permettono soluzioni un tempo impensate, la semplicità non può scaturire da mere motivazioni di carattere funzio­ nale o tecnico: è, come abbiamo già detto, soprattutto l'in­ quinamento dell'ambiente in cui viviamo che deve spingerci in questa direzione. La riduzione inoltre deve essere rag­ giunta senza perdere la valenza simbolica dell'oggetto che, per colpire l'osservatore distratto e frettoloso e vincere il ru­ more che ci circonda, ha bisogno di caricarsi di significati addirittura più profondi, quasi archetipici e primordiali che lascino grande spazio all'interpretazione. Pensiamo a pro­ dotti allo stesso tempo semplici e complessi, più «lievi» e più«densi». È proprio in questa forte natura simbolica che risiede l'imperfezione di cui parla Volli. La presenza del­ l'oggetto si fa più leggera, scrivono Fulvio Carmagnola e Vanni Pasca, e insieme si approfondisce l'invito a un uso più accorto delle apparenze, a un'esperienza del quotidiano 24 che implica una dimensione temporale meno affrettata e ne-



un periodo storico caratterizzato da un impressionante flusso di emigrazione che oltre a porre notevoli problemi so­ ciali trasforma i principali centri urbani in città multietniche caratterizzate da una sovrapposizione di diversi atteggia­ menti culturali; spetta al designer utilizzare questa occa­ sione per arricchimento dei linguaggi formali e non di omo­ logazione 13• Design dell'equilibrio e della tolleranza dun­ que. Il conflitto tra internazionalismo e attenzione alle di­ verse etnie è un tema attualmente molto dibattuto: si parla di creolizzazione come effetto di contaminazione, risultato delle continue trasformazioni dell'oggetto modificato dal­ l'uso di etnie differenti 14, di métissage come di quel feno­ meno· che stiarrio già viverido di convivenza con grandi masse di immigrati che porteranno ad un inevitabile ripen­ samento del tema della casa e degli oggetti, in una relazione con culture diverse 1'. Ma al di là del giudizio degli esperti ci piace qui ricordare soprattutto le parole di Norberto Bob­ bio, un non «addetto» ai lavori, che in uno dei suoi ultimi libri, con la consueta lucidità, individuava nella mitezza la dote più importante per superare i conflitti della nostra con­ dizione: Anzitutto la mitezza è il contrario dell'arroganza, intesa come opinione esagerata dei propri meriti, che giusti­ fica la sopraffazione. Il mite non ha grande opinione di sé, non già perché si disistima, ma perché è propenso a credere più alla miseria che alla grandezza dell'uomo, ed egli è un uomo come tutti gli altri. ( ...) Con questo non vorrei che si confondesse la mitezza con la remissività. (...) Il remissivo è colui che rinuncia alla lotta per debolezza, per paura, per rassegnazione. Il mite, no: rifiuta la distruttiva gara per la vita per un senso di fastidio, per la vanità dei fini cui tende questa gara, per un senso profondo di distacco dai beni che accendono la cupidigia dei più (...). Come modo di essere verso l'altro, la mitezza lambisce il territorio della tolle­ ranza e del rispetto delle idee e del modo di vivere altrui 16• È, in questo senso, l'allestimento della Bosnia all'ultima Triennale di Milano che presentava i poveri oggetti creati dagli abitanti di Sarajevo durante l'assedio e le considera26 zioni che lo accompagnavano - È più probabile credere che



tando la Biennale di Venezia, di fronte all'esasperata ricerca linguistica, al continuo eccesso formale, al desiderio di col­ pire ad ogni costo lo spettatore che caratterizzava parte delle opere esposte, siamo stati colti da quella sensazione di disagio già descritta all'inizio di questo testo. Poi, improv­ visamente, l'aprirsi di un piccolo spazio disegnato da Carlo Scarpa in occasione dell'edizione del 1952 a congiungi­ mento di due padiglioni - con la linea curva dell'esile pensi­ lina, il fresco zampillare delle fontane, il cinguettare degli uccelli richiamati dalle vasche d'acqua, il colore intenso dei fiori - ci ha mostrato una dimensione «altra» del progetto. Un design fatto di piccole «cose», tenui colori, suoni, deli­ cati profumi che, per la sua impalpabile leggerezza, lascia grande libertà alla fantasia e all'immaginazione;_ma anche uno spazio reale, fisico con una propria matericità e funzio­ nalità. Questa è la strada che crediamo debba essere per­ corsa per superare l'attuale impasse. Questo intendiamo per «design dell'ascolto».

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1 Cfr. J. F. LYOTARD, La condition postmoderne, Les editions de Minuit, Paris, 1979; trad. it. a cura di C. Formenti, La condizione po­ stmoderna: rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano, 1981 e Le Postmo­ derne expliqué aux erifants, Galilée, Paris, 1986; trad. it. a cura di A. Serra, li postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano, 1987. 2 A. BRANZI, La casa calda: esperienze del nuovo design italiano, Idea books, Milano, 1984, p. 150. 3 E. MANZINI, Artefatti: verso una nuova ecologia dell'ambiente ar­ tificiale, Domus Academy, Milano, 1990, pp. 26-27. 4 K. M. AllMER, A. BANOERT, Design anni ottanta, Cantini, Firenze, 1990, p. 11. s O. CALABRESE, L'età neobarocca, Laterza, Roma-Bari, 1989, pp. 63-64. 6 Cit. da G. BosErn, li trionfo di Mike Bongiorno, in N. BoBBIO, G. Bosrn1, G. VA'ITIMO, La sinistra nell'era del karaoke, Reset, Milano, 1994, p. 12. 7 G. VATI'IMO, Tra conservazione e innovazione, in N. BoBBIO, G. BoSErn, G. VATTIMO, op. cit., pp. 36-38. 8 U. VoLu, Apologia del silenzio imperfetto: cinque riflessioni in­ torno alla filosofia del linguaggio, Feltrinelli, Milano, 1991, IVa di co­ pertina. 9 V. MAONAOO LAMPUONANI, La più grande provocazione è data da


quanto è evidente: riflessioni su/l'architettura a cavallo del nuovo seco­ lo/è necessaria una nuova semplicità, bozza dell'intervento per il conve­

gno«Le schegge di Vitruvio: l'architettura come professionalità critica», Firenze, 30 novembre, 1 e 2 dicembre 1995. IO V. MAGNAGO LAMPUGNANI, Progetto e geometria, «Domus» n. 762, 1994, p. 2. 11 F. CARMAGNOLA, V. PASCA, Presenza leggera: appunti per un 'etica delle/orme, «Modo» n. 149, 1993, pp. 50-51. 12 u. VOLLI, op. cit., p. 115. 13 G. FURLANIS, Design dell'equilibrio e della tolleranza, «Profes­ sione Architetto», n. 1, 1994, p. 11. 14 L. PoLINORO, La creolizzazione in Le etnie domestiche ma che razza di spazio! (a cura di F. Morace), «Interni» n. 422, 1992, p. 45. 15 Cfr. V. PASCA, li rapporto tra design ed etnie e F. LA CEcLA, L 'J. talia del '92: sempre più omogenea e provinciale, in Le etnie domestiche: ma che razza di spazio!, cit., pp. 42-44. 16 N. BOBBIO, Elogio della mitezza in Elogio della mitezza e altri scritti morali, Linea d'ombra, Milano, 1994, pp. 24-27. 17 Conferenza tenuta nell'ambito del corso di Strumenti e tecniche della comunicazione visiva del Prof. Egidio Mucci, A.A. 1994-95. 18 A. MENDINl, Architettura ermafrodita, «Modo» n. 45, 1981, rac­ colto in A. MENDINI, Progetto infelice, RDE, Milano, 1983, p. 62.

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La critica d'arte dopo la fine dei « Grandi racconti» ANGELO TRIMARCO

l. Con la «sparizione dell'arte» anche il commento - la critica - è di conseguenza destinato a sparire. Mi sembra questo, dal punto di vista della critica, l'esito estremo del ragionamento di Baudrillard. Giacché, io credo, « il grado Xerox della cultura» è un insieme di giochi di simulazione al quale il giudizio (fosse anche nella forma bello-brutto) è in­ differente. L'utopia dell'arte si è, dunque, pienamente realizzata: quella tensione, andando oltre i confini dell'opera, al di là della cornice, a conquistare la purezza della vita. Con l'av­ vertenza che, come ci ha lasciato detto Artaud, quando pro­ nunciamo la parola 'vita' dobbiamo renderci conto che non si tratta della vita quale la conosciamo attraverso l'aspetto esteriore dei fatti, ma del suo nucleo fragile e inquieto, inaf­ ferrabile dalle forme 1• Quel nucleo - quasi un resto - che ec­ cede il linguaggio e le forme, inafferrabile e impensato. Un topos, ma non un luogo, verso il quale l'arte nel Moderno, nel tempo dei «grandi racconti», non ha smesso di rivol­ gersi con meraviglia e stupore. Ora - da tempo - quest'utopia si è realizzata. Ma la sua realizzazione non ha visto, però, maturare anche le attese e i desideri che ne animavano il progetto. L'estetizzazione to­ tale del mondo o della vita significa soltanto, per riprendere il filo di Baudrillard, «una simulazione di secondo grado, o 30 di terzo tipo», una «simulazione che vive solo della verti-



Cosi, il lungo tragitto da Manet, il cui gesto di « pro­ fonda rottura» ha reso possibile « tutta la pittura del XX se­ colo» e non solamente l'Impressionismo come ci ha inse­ gnato Foucault in un testo appena conosciuto, al cubismo e alla pittura astratta si compie per il contributo decisivo della Scuola di Marburg: si realizza nel nome sovrano di Kant. Manet, secondo il ragionamento faucaltiano, lavora sul ri­ mosso della pittura moderna: sulla dimenticanza che la pit­ tura riposava su (una) superficie più o meno rettangolare a due dimensioni, al punto da sostituire, a questo spazio ma­ teriale sul quale la pittura riposava, uno spazio rappresen­ tato che in qualche modo negava lo spazio sul quale si dipin­ geva. Manet, negando a sua volta lo «spazio rappresen­ tato» a favore della materialità dello spazio sul quale si di­ pinge, ha definitivamente abbandonato l'idea del quadro inteso come « spazio profondo che, illuminato dal sole late­ rale, si guardava come uno spettacolo, a partire da una po­ sizione ideale». Manet, dunque, operando una rottura in profondità, nel luogo terminale del Moderno, «reinventa», o forse inventa, il quadro-oggetto come materialità, come cosa colorata illuminata da una luce esteriore e davanti al quale e attorno al quale lo spettatore gira. In questo modo Manet, destrutturando tutto quello che era fondamentale nella pittura occidentale dal Quattrocento in poi 4, apre al1'esperienza dell'arte del nostro secolo. Al cubismo, per ri­ prendere il discorso. C'è un punto particolarmente indiziato. Quell'osserva­ zione di Juan_Gris e proposito del suo modo di lavorare (e di concepire la pittura): un modo cosi diverso - egli annota rispetto alle procedure di Cézanne e, io aggiungerei, anche riguardo agli orientamenti di Picasso e Braque. Una moda­ lità attenta a rovesciare il rapporto fra cose e forme, oggetti e idee, proprio per definire con sempre maggiore coerenza e rigore l'invito manetiano del«quadro-oggetto». Osserva nel 1921 Gris: Cézanne trasforma una bottiglia in un cilindro, io invece comincio dal cilindro e creo una in­ dividualità di tipo particolare: dal cilindro traggo una botti32 glia - una particolare bottiglia. Procedo dal particolare al


generale; intendo dire che parto da un'astrazione per arri­ vare a un fatto vero. La mia è un'arte di sintesi, di dedu­ zione, come ha detto Raynal 5• Questo rilievo richiama e riprende altre simili considera­ zioni precedenti di Gris, diventate riferimenti obbligati del­ l'interpretazione di· Kahnweiler, a partire dal saggio del 1920, Der Weg zum Kubismus, fino alla monografia sull'ar­ tista, Juan Gris. Sa vie, son oeuvre, ses écrits del 1946, nella quale si legge che quelle rette e quelle curve regolari sono ri­ flessi della vera e propria base, dell'a priori (della dimen­ sione precostituita) di ogni percezione visiva umana 6• D'al­ tra parte, Gehlen tende a sottolineare anche nelle analisi del cubismo di Gleizes e Metzinger suggestioni kantiane. Il fatto è che, dal suo punto di vista, da «nessun'altra parte», se non in Kant, è possibile ai cubisti e ai loro interpreti so­ stenere che «il mondo visibile è il mondo reale», «grazie ad un'operazione di pensiero». Cosi, in un decennio - dal 1912, l'anno del Du cubisme di Gleizes e Metzinger al 192021, l'anno della pubblicazione di Der Weg zum Kubismus e della dichiarazione di Gris - si consolida, secondo Gehlen, una linea interpretativa nel segno di Kant. Avverte addirit­ tura il filosofo e sociologo tedesco d'essere persuaso che il patrimonio d'idee neokantiano sia penetrato nei fonda­ menti del cubismo, in una forma ripetibile e accessibile per gli artisti,(...) precisamente al più tardi nell'anno 1909 7 • Ora, in questione non è tanto la presenza del neokanti­ smo nella pratica pittorica dei cubisti (presenza che ha spa­ zientito oltre misura Gadamer, come sappiamo), ma piutto­ sto la funzione del commento, della critica, nell'interpreta­ zione gehleniana del cubismo e della pittura astratta. Né la domanda riguarda - dal nostro osservatorio - la manovra riduttiva che Gehlen deve compiere nei confronti soprat­ tutto della pittura astratta (di Kandinskij, Klee, Mondrian). Un movimento che si concentra per intero sull'idea della pittura come «nuova scienza dell'arte», o addirittura, «scienza generale dell'arte», per riprendere alcuni emblemi kandinskijani di Punto linea superficie, che reca un sottotitolo molto significativo, Contributo all'analisi degli e/e- 33


menti pittorici. Si vuole appena ricordare con queste consi­

derazioni che Gehlen è soprattutto attento ai modi dì co­ struzione della pittura astratta, alla composizione, alla strutturazione degli elementi pittorici, al lavoro della pittura come «scienza generale dell'arte». Mentre dimentica dell'u­ niverso di Kandinskij, di Klee o di Piet Mondrian quell'a­ pertura, innegabile, della pittura verso l'altro da sé: lo spiri­ tuale, il mistico, la trasparenza assoluta della non-oggetti­ vità suprematista (ma di Malevi� Gehlen non si è mai occu­ pato), il mondo enigmatico della teosofia. Ma, a pensarci bene, è proprio questa rimozione che gli consente di compiere l'ultimo passo: il passo che stringe in un nodo arte e critica, che pensa il commento (o la critica) come parte, componente « dell'essenza della cosa stessa». Non è un caso, del resto, che Gehlen ritenga pienamente realizzato questo suo progetto più nel cubismo che nella pit­ tura astratta, dove il commento è più esposto al rischio del1'ornamento. Più nel cubismo, evidentemente, perché co­ mune all'arte e al commento (alla critica) sono gli stessi principi e lo stesso fondamento: il fondamento neokan­ tiano, appunto. Così, alla fine, è proprio il neokantismo a governare l'intreccio di arte e critica e a definire la peinture conceptuelle, figura dell'epoca post-storica.

3. La sparizione della critica non è dunque, legata sol­ tanto alla estetizzazione totale della vita, a quel « grado Xe­ rox della cultura» dei nostri tempi, ma trova radici più lon­ tane. Questa sparizione segna, appunto, la fine della moder­ nità e l'accesso alla condizione della post-histoire. Dunque, è una condizione che risale ai primi decenni del secolo, af­ fonda nel corpo delle stesse avanguardie. In quell'utopia che, mantenendo viva la sua tensione e la sua potenza sim­ bolica, salvaguardava l'arte (e la distingueva) dalla cultura. L'analisi di Arnold Gehlen mette, radicalmente, in gioco questo modello interpretativo: l'arte come «arte della rifles­ sione» - la peinture conceptualle che è anzitutto il cubismo - rende più complesso il ragionamento, meno lineare. 34 Prima c'era l'utopia, poi l'utopia realizzata. Il fatto è che



nio, dopo i furori analitici e l'amore per la logica, riconside­ rerà il ruolo dell'artista dal lato dell'antropologia. Anche adesso la denegazione della critica è palese, perché il critico e lo storico dell'arte hanno mantenuto una posizione esterna alla prassi 9, elaborando tesi e procedure con la stessa neutralità dello scienziato e dell'antropologo acca­ demico. 5. Come si comporta la critica - la domanda è ormai ur­ gente - di fronte alla sparizione dell'arte e di fronte alla di­ chiarata sparizione della sua funzione e del suo stesso sta­ tuto epistemologico? Nei primi decenni del. secolo oramai al declino la critica, di fronte alle minacce delle avanguardie, ha approntato - lo ricordiamo tutti bene - un insieme di procedure e di teorie di grande rilevanza e significato. Nel 1912 (e mi riferirò soltanto a questo esempio) - e, dunque, negli stessi anni che costituiscono l'oggetto della riflessione di Gehlen - Aby Warburg si permetteva quella celebre ar­ ringa a favore di un ampliamento metodologico dei confini tematici e geografìci della nostra disciplina 10• Un « amplia­ mento» che, orientato poi anche da altri studiosi in dire­ zione naturalmente diversa da quella warburghiana, offrirà alla storia dell'arte prospettive, modelli, procedure e risul­ tati assolutamente imprevedibili. Ma oggi, nel tempo della sparizione dell'arte, la critica come lavora? Lavora cercando di remare in territori sicuri: si è spostata (si va sempre spostando) e come raccogliendosi nella sua dimora. E non importa se ci si occupa dell'arte moderna o dell'epoca post-storica. La tentazione è la stessa: la tentazione di un salutare bagno rigeneratore nella filolo­ gia, nel ritratto di famiglia, nel territorio come spazio con­ creto e saldo della Storia. Un solo campione, anche questa volta, ma altrettanto significativo: la Storia pubblicata dal­ l'Electa. Una «storia» che tende ad essere anche un archi­ vio, inteso proprio come luogo di catalogazione di un bene sommamente prezioso, quello dell'arte. Questa tendenza al­ l'archivio, alla catalogazione totale (ma poi esiste un archi36 vio totale, è possibile?) anima soprattutto l'intrapresa di



1 A. ARTAUD, li teatro e il suo doppio, trad. it., pref. di J. Derrida, nota introduttiva di G. Neri, Einaudi, Torino 1968, p. 113. 2 J. BAUDIULLARD, La sparizione dell'arte, trad. it., Giancarlo Politi editore, Milano 1988, pp. 22, 34. 3 A. GEHLEN, Quadri d'epoca, trad. it., a cura di G. Carchia, Guida editori, Napoli 1989, p. 124. 4 M. FoucAULT, La peinture de Manet {è la trascrizione fatta da Mmc Rachida Triki della conferenza di Foucault al Club Tahar Haddad di Tunisi il 20 maggio del 1971), trad. it. di F. Adorno in corso di pubbli­ cazione. 5 J. GRis, Confessione, trad. it., in E.F. FRY, Cubismo, Gabriele Mazzotta editore, Milano 1967, p. 220. 6 D. H. KAHNWEILER, Juan Gris. Sa vie, son oeuvre, ses écrit, Galli­ mard, Paris 1990. 7 A. GEHLEN, Quadri d'epoca, cit., pp. 142-143. 8 J. KosUTH, Un 'arte senza pubblico, in L'arte dopo la filosofia. li significato dell'arte concettuale, trad. it., introd. di G. Guercio, Costa & Nolan, Genova 1987, p. 43. _9 K. J. KosUTH, L'artista come antropologo, in L'arte dopo la filo­ sofia, cit., p. 68. 10 A. WARBURO, La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cultura, raccolti da G. Bing, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1980, p. 268.

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