Op. cit., 100, settembre 1997

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco

Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Alessandra de Martini,

Marina Montuori, Livio Sacchi, Sergio Villari Segretaria di redazione: Saia Graus Ventrella Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 7690783 Amministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Caracciolo, 13 - Tel. 7614682 Un fascicolo separato L. 8.000 (compresa IVA) - Estero L. 9.000

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Electa Napoli


R. AsTAIUTA,

, Nostalgia dell'architettura industriale: il coso Olivetti

Gli oggetti « uso e getto»: l'ipertelio A.M. SANDONÀ, Le grondi mostre in Europa Libri, riviste e mostre L. PIBnom,

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Allo redazione di questo numero hanno collaborato: Paolo Balmas, Rosa bosito, Marina Montuori, Massimo Perriccioli.


La rivista si avvale del contributo economico dei seguenti Istituti e Aziende:

Alessi Carnera di Commercio di Napoli Driade



cui essa traeva origine, 'caratterizzata da una trasversalità di saperi fino ad allora vertica)i2 e dalla ricerca di una possibile ipotesi di rinnovamento delle strutture istituzionali3. Gian­ carlo Lunati, per esempio, nel recente saggio Dall'utopia alla progettualità, ha ritenuto il progetto olivettiano molto in anticipo sui tempi in cui fu reso pubblico, definendolo un esempio straordinariamente dettagliato di progetto glo­ bale di una nuova società a partire da un 'attenta analisi di

quella contemporanea, della quale Olivetti aveva indivi­ duato con intelligenza e lungimiranza storica disfunzioni ed inefficienze, che poi erano le stesse che ancora oggi, per grandi linee, lamentiamo: ovvero dissociazione fra etica e

cultura e fra cultura e tecnica; conflitto fra Stato ed in­ dividuo; deformazione dello Stato liberale ad opera del­ l'alto capitalismo e di sistemi rappresentativi insuffi­ cienti; mancanza di educazione politica in generale, e di una classe politica, in particolare; obsolescenza della struttura amministrativa dello Stato; disconoscimento

di un ordinamento giuridico che tuteli gli inalienabili di­ ritti dell'uomo; incapacità dello Stato liberale ad affron­ tare le crisi cicliche e il problema della disoccupazione tecnologica; mancanza di misure giuridiche precise, atte a proteggere i diritti materiali e spirituali della Persona, contro il potere diretto ed indiretto del denaro4. Giusta­

mente, quindt,Alvi sostiene che il libro olivettiano L'ordine politico delle Comunità conteneva, già a metà anni Qua­ ranta, tutte le idee più preziose, tutto quello su cui, ora inutilmente, recriminando si conviene5.

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Lo studio che segue è una sintesi di una ricerca sul rap­ porto tra committenza industriale ed architettura moderna, condotta a partire dal «caso» Olivetti6 e con l'ottica, in que­ sta sede, di chi ha guardato a quella particolare ed interes­ sante vicenda industriale dopo la civiltà industriale. Pur consapevoli, pertanto, della complessità di quella espe­ rienza e delle molteplici varianti·altre, di natura economica, aziendale, societaria e finanziaria che ne condizionarono lo svolgimento, determinandone a momenti la fortuna (per esempio la validità del «prodotto» macchina' da scrivere e da


calcolo, gli anni del cosiddetto boom economico, ecc.), a momenti il fallimento (come nel caso dell'incauto acquisto dell'americana Underwood), si sono qui privilegiati, evi­ dentemente, gli aspetti relativi all'architettura.

2. Industria, architettura, committenza . Nel corso di questo secolo numerosi edifici industriali sono entrati a far parte della storiografia dell'architettura contemporanea (la fabbrica Fagus di Walter Gropius, la Tur­ binenfabrik di Peter Behrens, i complessi Van Nelle in Olanda, Sunila in Finlandia, Bata nella ex-Cecoslovacchia, le officine Ford negli Stati Uniti, ecc.). Anche in ambito ita­ liano alcuni edifici realizzati per conto di una tale commit­ tenza ben figurano tra le opere significative del Novecento (lo stabilimento Fiat-Lingotto e gli uffici Gualino a Torino, le fabbriche ltalcima e De Angeli Frua a Milano, ecc.). Tra queste, le architetture costruite dalJa metà degli anni Trenta alla fine dei Cinquanta per l'industria Olivetti di Ivrea rive­ stono certamente un ruolo di primaria importanza: la sigla Olivetti, infatti, non è sconosciuta tra gli addetti ai lavori, essendo essa direttamente riferibile ad alcune delJe migliori e più innovative esperienze disciplinari. Si deve però precisare che per committenza industriale si intende non solo la realizzazione degli edifici che furono sede dei processi produttivi secondo i principi della catena di montaggio, ma anche di quelle architetture sussidiarie alla fabbrica ed indispensabili per instaurare nuove condi­ zioni lavorat.ive e per soddisfare le esigenze primarie e se­ condarie della classe operaia (mense aziendali, edifici sco­ lastici e ricreativi, quartieri operai, ecc.). Ed è in questo senso che il caso emblematico della industria Olivetti con­ ferma la tesi di :Reyner Banham secondo cui il persegui­ mento della massima razionalizzazione economica da parte dell'impresa capitalistica non comporta necessa­ riamente e comunque una parsimoniosità meschina o il rifiuto di valori esteticF. · ·

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L'architettura industriale ha rappresentato, dunque, nei primi decenni del secolo, un fertile te1Teno di sperimenta­ zione per le giovani leve di architetti modernisti. Alcuni im­ prenditori, infatti, persuasi che la realtà espressa dall' indu­ stria - in quanto soggetto capace di innescare processi di trasformazione del territorio e del suo contesto sociale - non dovesse essere funzione soltanto della logica capitalistica dell'esclusivo profitto economico, provarono a conciliare le leggi di mercato con le istanze sociali, culturali e psicologi­ che della classe operaia, promuovendo la modernizzazione e la valorizzazione degli spazi di lavoro ed anche dell' im­ magine pubblica della fabbrica. A tale scopo si servirono spesso di architetti professionisti, a volte di chiara fama, in­

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vece degli anonimi tecnici interni agli organigrammi azien­ dali. Di conseguenza, la progettazione dei cosiddetti «con­ tenitori» di cicli produttivi risentiva delle schermaglie ideo­ logiche e delle polemiche intorno all'architettura moderna: se quindi da una pane questi Maestri applicarono nelle loro opere i risultati dei progressi tecnici e strutturali del!' inge­ gneria in ferro e in cemento armato, dall'altra i committenti, consapevoli del valore simbolico dell'architettura indu­ striale e di quello sociale del lavoro in fabbrica, operarono affinché l'azione di quest'ultima non si limitasse unica­ mente a ciò che avveniva all'interno delle nuove ed ampie pareti vetrate degli stabilimenti, ma si espandesse in modo centrifugo nella vita civile: abbiamo bisogno di artisti aveva detto Henry Ford - che tengano conto delle esi­ genze del sistema industriale, di maestri che lo cono­ scano, di uomini capaci di trasformare la massa informe in una totalità sana e armonica, sia dal punto di vista politico che da quello sociale, industriale e etico8 , rivolgendo non a caso le sue aspettative non a tecnici ma ad artisti. E così avvenne alla Olivetti, dove per merito di Adriano si formò una vera e propria communitas proget­ tuale di tipo bauhausiano9, composta cioè da architetti ed urbanisti, artisti e grafici, poeti e scrittori ,- ai quali egli de­ mandò la cura dell'immagine della propria fabbrica unitamente alla progettazione degli edifici produttivi, dei fabbri-



meccanico 13.

Più concretamente, ali' «architetto indu­ striale» si chiedeva di contribuire con l'abilità nella siste­ mazione degli spazi di fabbrica a ridurre la tendenza agli scioperi e al costo del lavoro, realizzando per il suo cliente un servizio necessario e di valore 14 . Da una parte, dunque, veniva riconosciuta all'architetto una capacità prettamente tecnica, dall'altra una più complessa funzione sociale volta a sensibilizzare il lavoratore e a farlo sentire parte attiva di un più vasto progetto del quale egli rappresentava un fonda­ mentale riferimento. Questo, infatti, sottolineò Giuseppe Pagano, attribuendo proprio alla Olivetti il merito di aver af­ frontato per prima in Italia tali problematiche: [essa] con

l'aiuto delle forze più vive dell'arte italiana mira verso quel mondo ideale in cui l'arte e la vita, l'abitazione e la produzione, il lavoro materiale e il benessere dello spi­ rito dovranno trovare quella pace e quell'equilibrio che gli spiriti più illuminati di oggi pongono come condi­ zione essenziale per ricondurre ad una riconciliazione umana ed a una giustificazione morale i rapporti tra il mondo operaio e quello della moderna industria 15.

Pertanto, al di là del funzionalismo delle strutture ad ampie campate e dell'economicità di una razionale organiz­ zazione del lavoro tipiche delle architetture industriali co­ struite nei primi decenni del Novecento, per cogliere nella sua completezza il senso dell'impegno di Adriano Olivetti si deve considerare la sua aspirazione a guardare oltre l'ar­ chitettura, secondo il vecchio ammonimento di Persico, e cioè verso quel mondo moderno, da lui stesso vagheggiato in Città dell'uomo, che deve accettare il primato dei va­

lori spirituali se vuole che le gigantesche forze materiali alle quali esso sta rapidamente dando vita, non solo non lo travolgano, ma siano rese al servizio dell'uomo, del suo progresso, del suo operoso benessere 16. L'azienda di

Ivrea costitul in questo senso l'unico caso in Italia in cui fu intenzionalmente perseguita un'integrazione tra indu­ stria e architettura 17, avendo chiaro l'imprenditore che

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l'estetica industriale deve improntare di sé ogni strumento, ogni . espressione, ogni '. momento · dell'attività


produttiva, e affermarsi, nella più complessa espres­ sione, nell'edificio della fabbrica che l'architetto deve disegnare sulla scala dell'uomo, e alla sua misura, in fe­ lice contatto con la natura, perché la fabbrica è per l'uomo, non l'uomo per la fabbrica 1 1!. Ivrea, la città della Olivetti, divenne così, grazie ad Adriano, un vero e proprio museo di architettura contemporanea e modello esemplare di urbanistica razionalista. A questo proposito, infatti, c'è da dire che le predile­ zioni architettoniche dell'industriale si orientarono, sin dai primi incarichi conferiti, verso una poetica razionalista, sia per la progettazione degli ampliamenti della vecchia fab­ brica in mattoni rossi e dei nuovi edifici aziendali, sia per le previsioni di uno sviluppo pianificato della cittadina cana­ vesana. Con l'architettura delle sue fabbriche Adriano si po­ neva l'obiettivo di restituire all'esterno l'esempio di un'effi­ cienza moderna; con le iniziative urbanistiche (piani regio­ nali, regolatori, particolareggiati) di stabilire un nuovo rap­ porto operaio-fabbrica-ambiente: mentre noi stiamo fab­ bricando prodotti utili, stiamo anche plasmando la vita umana, e le condizioni di vita della società 19, si legge in un articolo pubblicato nel '37 sulla rivista olivettiana «Tec­ nica e organizzazione» a firma del responsabile delle pub­ bliche relazioni della Ford Motor Company. Consapevole quindi dell'importanza del suo compito, il committente provvide da moderno imprenditore a «tradurre» nelle sue fabbriche le esperienze sull'organizzazione scientifica del lavoro made in Usa, ma anche a dotarle di tutta una serie di infrastrutture e servizi necessari per migliorare le condi­ zioni di vita al loro interno. Tuttavia, diversamente da quanto avevano fatto Henry Ford con Albert Kahn e Walter Rathenau con Peter Behrens, egli si rifiutò di affidare una delega totale ed onnicomprensiva per la costruzione della sua città industriale ad un solo architetto, intendendo evitare in questo modo l'assoggettamento della fabbrica ad un'im­ magine preordinata, ovvero ad un rigido schematismo asfis­ siante, che altrimenti avrebbe esercitato, a suo parere, un'in­ fluenza negativa ·sulla massa. operaia, già notevolmente su-' 11


bordinata alle . nuove condizioni lavorative, L'ideale città/fabbrica Olivetti si definl, pertanto, nel tempo, «eclet­ ticamente» 20, con il contributo - che in qualche caso rimase allo stato di progetto - dei vari Bbpr, Figini e Pollini, Catta.:. neo, Mollino, Gardella, Nizzoli, Oliveri, Vittoria, Quaroni, Ridolfi, Scarpa; Piccinato, Cosenza, Fiocchi, Bernasconi, Calabi, ecc. - ossia il gotha dell'architettura italiana di que­ sto secolo -, offrendo ai suoi operai/abitanti l'esempio di una continua variabilità espressiva e di una libera aggrega­ zione di cellule diverse, ed evidenziando edificio dopo edi­ ficio la volontà del committente di conciliare anche attra­ verso l'architettura quegli aspetti dicotomici della moderna vita in fabbrica, quali il meccanicismo dell'organizzazione del lavoro contro la spiritualità dell'uomo che lavora, la ne­ cessità del prodotto contro la libertà dell'operaio2 1•

3. Il «progetto moderno» olivettiano Quando Adriano Olivetti poneva retoricamente la do­ manda può l'industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell'indice dei profitti? 22 aveva ben chiaro un analogo interrogativo sulla qualità delle architetture di fabbrica e sul messaggio che esse avrebbero dovuto tra­ smettere: la nostra società - scriveva nel '55 - crede nei valori spirituali, crede nei valori della scienza, crede nei valori dell'arte, crede nei valori della cultura, crede in­ fine che gli ideali di giustizia non possono essere estra­ niati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e la­ voro23 . E difatti per alcuni decenni la «Prima Fabbrica Ita­ liana di Macchine da scrivere» divenne la mitica insulafelix nel panorama dell'imprenditoria italiana. Le sue officine di vetro, progettate a partire dal 1939 dagli architetti Figini e Pollini d'intesa con il loro committente, ben illuminate ed aperte sulla strada e sul verde della collina di Montenavale, erano sl la risposta italiana alle tassative prescrizioni di Henry Ford sulla progettazione degli edifici industriali 12 simple mass, large glass areas and undecorated walls24,





4. Attualità vs inattualità

Alla morte dell'ingegnere, sopraggiunta in un momento in cui _nella organizzazione produttiva industriale a livello planetario il taylorismo stava cedendo il passo al toyotismo ed alla robotizzazione, con il conseguente svuotamento pressoché totale delle fabbriche, tali ambizioni moderne, tali utopie positive, si avviavano a divenire, e in parte lo erano già, abbondantemente obsolete. Infatti, nell'epoca at­ tuale del tele-lavoro, di ingenti poteri economico-finanziari in cui il singolo addetto non desta l'interesse del nuovo pa­ drone, spesso anche difficilmente individuabile all'ombra di corpor<ition multinazionali, l'utopia olivettiana rappre­ senta, a voler oggi riconsiderarla, soltanto una tappa, nostal­ gica e largamente superata, della storia economica italiana. La differenza di natura epocale tra il progetto imprendito­ riale di Adriano Olivetti e la cultura industriale odierna si può ben cogliere nelle nevrosi dell'operaio Albino Salug­ gia, per la prima volta immesso in un ciclo produttivo impo­ stato sulla catena di montaggio37, o nell'ostinazione di An­ tonio Donnarumma all'assalto di un posto di lavoro nella nuova fabbrica razionalista38, se confrontate con i dialoghi tra la luna, i ficus ed i calcolatori parlanti de Le Mosche del capitale, e, soprattutto, con lo stato d'animo di quegli ano­ nimi operai che in quest'ultimo romanzo di Volponi, ormai, sul tram parlano da soli: durante gli anni cinquanta e fino anche al '73-74, l'officina era una cosa più seria e più viva, un operaio ci si ritrovava; capiva che era un'offi­ cina e capiva di essere un operaio, riconosceva le mac­ chine e le lavorazioni, i pezzi e i trasporti, vedeva intorno a sé i capi e i controllori. Sentiva e parlava anche con gli altri operai che aveva vicino nel lavoro, colleghi o spe• cialisti o attrezzisti, i più bravi. Tutti insieme, mentre si lavorava anche in mezzo a fortissimi rumori, si poteva parlare, si poteva urlare, anche maledire, bestemmiare, parlare di politica, cantare, discutere sulla paga o di football; i capi camminavano accanto, entravano nelle 16 file, davano raccomandazioni, toccavano e sistemavano



Biennale di Venezia del 1980 ha avuto modo di dire che con tutta probabilità Adriano Olivetti non l'avrebbe percorsa, in quanto «cosa» di cartone, pura scenografia, un' accozza­ glia di contributi, di timpani, di serliane e di modanature40, come tanti post-modernismi ed internazionalismi d'oggi giorno - viene da pensare - che non hanno alcun riferi­ mento con lo spazio dell'architettura, con i suoi obiettivi, con i suoi luoghi. Del resto se una volta le grandi sedi azien­ dali erano anche il simbolo edilizio di una concentrazione di potere economico rispetto al luogo, ora esse - è stato notato - si disperdono nel mare anonimo degli appartamenti delle zone residenziali urbane e suburbane [e] i diffe­ renti uffici divengono terminali di una vasta rete di co­ municazioni, di decisioni e di potere41, come dimostrano, minimum exemplwn, le anonime e brutte torri al Lorenteg­ gio di Milano dove è la sede dell'Archivio Corporate Image Olivetti.

1 Cfr. G. ALVI, La memoria perduta di Adriano, «La Repub­ blica», 24.01.1997; L. Y1u.ARI, Olivelli una memoria imprecisa, ivi, 25.01.1997; G. ALVI, Caro Vii/ari imprec:iso sarà lei, ivi, 26.0 I. I 997; ed anche G. SOAVI, Geminello il «perverso», «Il Giornale», 14.01.1997. 2 M. FABBRI, Un progello per l'urbano, in Architellure per il terzo millennio. Ipotesi e tendenze, a cura di M. Fabbri e D. Pastore, Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti, Roma 1991, p. 249. 3 G. A1.v1, La memoria perdura di Adriano, cit. 4 G. LUNATI, Dall'utopia alla progettualità, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 122. S G. ALVI, La memoria perdwa di Adriano, cit. 6 Architettura moderna e committenza industriale:

il «caso» Adriano Olivelli (1901-1960). tesi di dottorato, VII ciclo, Facoltà di

Architettura di Napoli, tutor prof. C. de Seta. 7 R. BANHAM, A Concrete Arlamis U.S. lndusrrial Building and E11ropea11 Modem Arc:hitectllr 1900-1925, MIT, 1986, trad. it. L'A­

tlantide di cemellto. Edifici industriali americani e architellura mo­ derna europea 1900-1925. Laterza, Roma-Bari 1990, p. 99. 8 Cit. in A. BEHNE, Der Moderne Zwec:kbau 1923-/926, Frank­ fun 1964, trad. it. L'arclzirerrura funzicmale, Vallecchi, Firenze 1968,

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p. 30.

9 Cfr. B. GRAVAGNUOLO, Decoro e ragione: cronistoria degli studi



it. Moderno, Postmoderno e Neoconservatorismo, in «Alfabeta», n. 22, marzo 1981, pp. 15-17. 29 T. MALl)ONAl>O, Il futuro della modernità, Fellrinelli, Milano 1987 (la), 1990, p. I I. 3o lvi, p. 57. 3l Cfr. G.C. ARGAN, L'arte moderna 1770/1970, Sansoni, Fi­ renze 1970 (la), 1980, p. 209. 32 G. PAMl'ALONI, Un servizio televisivo su Adriano Olivelli, in ID., Adriano Olivetti: un 'idea di democrazia, Ed. di Comunità, Mi­ lano 1980, p. 7 I. 33 Per un'interpretazione in positivo del paternalismo olivet­ tiano, cfr. C. DE SETA, U11a Fabbric:a e 1111a città per una moderna cul­ tura industriale, in Immagini dall'Archivio Fiat 1900-1940, Fabbri Editori. Milano 1989, p. 9. 34 Cfr. M. ROMANO, L'urbanistica in Italia nel periodo dello svi­ luppo. 1942-1980, Marsilio, Venezia 1980 (la). 1991, pp. 137-162. 35 Cfr. V. OcHETro, Adriano Olivetti, Mondadori, Milano 1985, pp. 111-112, e lo stesso A. Ouv1o.r1, Città del/"1101110, cit.. p. 74. 36 Cfr. D. HARVEY, The Condition of Postmodernity, Basi! Blackwell, 1990, trad. it. La crisi della modernità, Il Saggiatore, Mi­ lano 1993, pp. 32-33. 37 P. VOLPONI, Memoriale, Garzanti, Milano 1962. 38 O. 01-rmR1, Donnarumma all'assalto, Bompiani, Milano 1959; si è citato dalla edizione Tea, Milano 1995, p. 24. 39 P. V oLPONI, Le mosche del capitale, Einaudi. Torino 1989, pp. 130-131. 40 Cfr. E. Vn,·oRII\, Adriano Olivetti e la cultura del pmgerro, in La comunità concreta: progerro ed immagine, a cura di M. Fabbri e A. Greco, Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti, Roma 1988, p. 164; cfr. anche Il giudizio dei protagonisti. in Architerrura mo­ derna e committenza industriale: il «caso» Adriano Olivetti (19011960), cit., pp. 188-189. 41 B. SECCHI, N11ove tecnologie, in «Casabella», n. 501, aprile 1984, p. 16.

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striale, e al suo «ambiente esterno», cioè al contesto socio­ culturale - genera, il più delle volte, un fenomeno di sovra­ dattamento funzionale ovvero una riduzione dell'autono-,. mia evolutiva dell'oggetto rispetto ai mutamenti ambientali, che ne condizionano sempre più la sopravvivenza e lo svi­ luppo. Il sovradattamento funzionale - scrive Simondon - va talmente lontano che giunge a taluni schemi vicini a quelli che, in biologia, si collocano tra la simbiosi e il pa­ rassitismo: certi piccoli aerei velocissimi non possono decollare agevolmente se non portati da uno più grande \ che li sgancia in volo(...)2. L'ipertelia, descritta da Simondon come la tendenza \ verso una specializzazione esagerata, rappresenta quindi un reale ostacolo al processo evolutivo di un oggetto tee­ \ nico, in quanto implica una notevole rigidità nei confronti \ delle condizioni ambientali, che invece sono in continua tra­ ì. sformazione dinamica. �uesto concetto di iperspecializzazione è condiviso e descritto anche da U. L. Businaro, in Comparing natural evolution and technological innovation, quando afferma che le specie che si pongono lungo una via evolutiva troppo specializzata possono perdere «plasticità evolu­ tiva», e che allo stesso modo l'improvviso fallimento di un prodotto, che ha conquistato una larga parte di mer­ cato attraverso una eccessiva specializzazione, si verifica proprio nel momento in cui cambiano i bisogni del mer­ cato3. Significativa espressione di un fenomeno di «ipertelia», nelle società industriali mature, è la diffusione e l'afferma­ zione dei prodotti cosiddetti «usa e getta», ovvero di tutti quegli oggetti mono-uso, che sono, come scrive E. Manzini, estremamente economici, tanto da risultare più effi­ ciente, dopo ogni uso, buttarli via piuttosto che impie­ gare tempo ed attenzione per ripristinarne la funziona­ lità4 . Sono prodotti quindi che esprimono un'elevatissima qualità funzionale, ma che, nella loro monodimensionalità, 22 sono privi di identità culturale.



profondo, che è l'unica relazione che riescono ad instaurare nella loro brevissima vita. A ben guardare, questa categoria degli oggetti «usa e getta» può subire un'estensione, in quanto, all'interno della grande differenziazione della produzione postindustriale, possiamo trovare altre tipologie di oggetti, non mono-uso, ma dalla vita ugualmente brevissima, cioè prodotti che ven­ gono fruiti e consumati in pochi istanti. Sono tutti quegli oggetti che non vengono realmente «usati», poiché non hanno quasi mai una vera e propria fun­ zione pratica, e che non vengono, subito dopo l'uso, «gettati via» come rifiuti ma piuttosto abbandonati e dimenticati in qualche angolo del nostro ambiente. Si tratta da un lato di tutti quei prodotti «puro-segno o pura-immagine», che sono concepiti come semplici supporti comunicativi e dall'altro di quegli oggetti, definiti «gad­ gets», cioè aggeggi tecnologici di intrattenimento, «diavole­ rie elettroniche», che attraggono con bizzarre e stupefacenti performances, ma che innescano immediatamente un pro­ cesso di disinnamoramento nell'utente-fruitore-spettatore. Per quanto riguarda gli oggetti «puro-segno o pura-im­ magine», si può constatare che i significati e le informa­ zioni, che supportano e veicolano quotidianamente, vanno ad addensarsi in un ambiente semiotico sempre più saturo, cosicché si banalizzano e consumano con estrema rapidità; a volte senza essere stati nemmeno fruiti, vanno ad aumen­ tare l'inquinamento semiotico del nostro intorno materiale e il nostro stordimento sensoriale che si trasforma in fretta in indifferenza percettiva. Per quanto riguarda gli oggetti «gadgets», si può osser­ vare che le loro attraenti ed insolite pe1forma11ces non pro­ ducono un rapporto partecipato e realmente interattivo, ma solo uno spettacolo, a cui è noioso assistere più di una volta; non si tratta mai di un coinvolgimento profondo e di emo­ zioni durature poiché la loro scarsa personalizzazione sul piano dell'uso e della fruizione Ii rende oggetti autorifles­ sivi ed autoreferenziali, incapaci di creare un proprio terri24 torio semantico.



stituiscono (•••). Presto sorpassati e consunti, tutti i pro­ dotti dell'immaginazione tecnologica sono usati come strumenti, per giunta come strumenti temporanei, tran­ sitori (•.•). Ogni cosa viene prodotta per essere consu­ mata e non per restare come duraturo monumento di un mondo (.•.). Molte cose sono usate solamente una volta (...) i corpi morti degli oggetti si accumulano nella ne­ cropoli delle cose (..•). La natura sputa i corpi morti de­ gli oggetti. Gli scheletri consunti di materiale sintetico sono disgustose vestigia di un mondo inorganico. Poichè la natura non può riprenderli indietro, è meglio distrug­ gerli, se possibile. Queste cose diventano morte senza morire; non sono mortali, perché non hanno mai vis­ suto. E tuttavia, non sono neppure fatte per durare; per quanto indistruttibili, non possono durare6. Ritroviamo analoghe considerazioni anche nel libro di G. Viale, intitolato Un mondo usa e getta, quando scrive che è ormai entrato a far parte dell'«ordine naturale delle cose» che tutto ciò che si produce non venga prodotto per durare. Si produce per sostituire, ma il presupposto tacito di questo modo di agire è che tutto ciò che viene sostituito possa e debba essere gettato via. La civiltà del­ l'usa e getta - che è il punto di approdo del consumismo, cioè di una organizzazione sociale che si perpetua attra­ verso la moltiplicazione delle merci (...) - ha i suoi pre­ supposti tanto in un prelievo illimitato di risorse natu­ rali quanto in un accumulo illimitato di rifiuti7. Ovviamente, come sostiene E. Manzini, non si tratta di demonizzare l'intera famiglia dei prodotti usa e getta: molti di essi (ad esempio i prodotti mono-uso utilizzati in campo medico e ospedaliero) hanno buone ragioni per esistere e potranno continuare ad esistere (...), ma come già oggi appare pienamente evidente, la generalizzata accelerazione dei cicli di vita dei prodotti implica un im­ piego di risorse, un accumulo di rifiuti, un impatto am­ bientale che il Pianeta mostra di non poter sopportare. La tendenza al crescente carattere effimero dell'am26 biente artificiale dovrà in qualche modo interrompersi8•



lia simbiotica - per dirla ancora con Simondon - in quanto riesce, anche se a fatica, a mantenere ancora le sue condi­ zioni di sopravvivenza ai danni e al prezzo di alcune altera­ zioni irreversibili del sistema ambientale. Recentemente sembra però delinearsi una situazione ca­ ratterizzata da una serie di segnali deboli ma significativi, provenienti sia dalla cultura industriale, che dalla cultura del progetto, ma soprattutto dalla cultura del consumo, che potrebbero, rafforzandosi, minare proprio le condizioni di sopravvivenza della famiglia degli «usa e getta». All'interno della cultura del progetto, ad esempio, si fa sempre più acceso il dibattito su un approccio al design più consapevole ambientalmente, che sembra trovare un punto di convergenza nel superamento dell'ottica dell'«usa e getta». Di grande interesse al riguardo è un' articolo del desi­ gner tedesco Dieter Rams, responsabile da più di trenta anni del design della Braun, intitolato AL di Là dell'usa e getta, nel quale dichiara che un progetto di design dovrebbe ten­ dere al miglioramento delle possibilità di utilizzo del prodotto in modo da indurre il consumatore a conser­ varlo e utilizzarlo per molto tempo al di là della logica dell'usa e getta e che in questa prospettiva il ruolo del desi­ gner diventa quello di promotore di una modificata cuitura del prodotto che si muove verso la riduzione del­ l'inquinamento e della distruzione del nostro am­ biente(...)9. Dieter Rams non è l'unico esponente della cultura del progetto a considerare l'uscita dal mondo «usa e getta» come un passo necessario che devono compiere insieme produttori, progettisti e consumatori; E. Manzini la consi­ dera la grande sfida che oggi i diversi attori del sistema di produzione e consumo devono saper raccogliere e ag­ giunge che per raccogliere questa sfida la nostra cultura del consumo deve rivedere le proprie basi più profonde (••• ) ed in particolare deve mettere in discussione l'idea che l'obiettivo da raggiungere nel nostro rapporto con le 28 cose sia sempre quello della ricerca del minimo sforzo e



Rispetto all'attuale necessità di definire un modello di sviluppo sostenibile riguardo ai limiti, fisici e semiotici, del nostro ambiente, e di fronte ad una crescente domanda di qualità della vita, che include a pieno titolo la qualità am­ bientale, l'inizio di un processo di «disadattamento funzio­ nale» del mondo degli «usa e getta» non solo sembra sem­ pre più possibile ma diviene anche auspicabile. La cultura del progetto può contribuire ad amplificare questi segnali ancora deboli, che la società esprime in ter­ mini di nuove domande, proponendo scenari ambientali e criteri di qualità coerenti con la prospettiva della sostenibi­ lità; può contribuire inoltre allo sviluppo di una diversa cul­ tura del prodotto, basata soprattutto sul valore d'uso e non sul valore di scambio e che consideri, per valore d'uso, an­ che tutte quelle caratteristiche che vanno al di là dell'effi­ cienza funzionale immediata, come la qualità ambientale e le qualità relazionali del prodotto. Una società che vuole avviarsi verso uno sviluppo soste­ nibile, cioè uno sviluppo che sappia conciliare innovazione e conservazione, ha bisogno di superare una cultura che ri­ conosce come primario il valore della quantità di ciò che si possiede e si consuma contro il valore della qualità di ciò di cui si può fruire, a cui si può accedere, di cui si può godere e che non necessariamente deve essere consumato. Quindi ha bisogno di una cultura del progetto capace di interpretare i limiti ambientali non come semplici vincoli e confini al proprio territorio di intervento, ma come nuove opportunità di ricerca e sperimentazione e di una cultura del consumo capace, come sostiene I. !voi, di sostituire all'idea di ric­ chezza come possesso di beni quella di ricchezza come «accessibilità» ai beni12 e disposta a riorientare i propri va­ lori e le proprie scelte secondo il principio dell'avere di più possedendo di menol3_ Questo principio, coniato da Victor Papanek, in un suo recente libro dal titolo The Green Imperative, rappresenta un segnale di riconoscimento, da parte della cultura del pro­ getto, dell'importanza di un profondo cambiamento, oltre 30 che dei modi di progettare e produrre, anche dei comporta-



12 I. )VOI, op. cit., p. 131. l3 V. PAPANEK, The Gree11 Imperative. Ec:ology a11d Ethic:s i11 De­ sign and Arc:hirec:ture, Thames and Hudson, London 1995. 14 lvi.

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creata una specie di con-fusione, e a posteriori a fatica rie­ sco a collocare le opere nel contesto espositivo e poiché spesso ben poco di quanto è in mostra è riprodotto sui cata­ loghi mi si perdonerà se questo scritto sarà fatto più su al­ cune riflessioni globali che su una cronaca puntuale. Ma forse è proprio questa la cifra interpretativa chiave delle va­ rie esposizioni, un accumulo di opere delle più svariate im­ postazioni accomunate fra loro solo dal fatto che gli artisti le hanno realizzate in questi ultimi anni o per l'occasione stessa. Se all'interno del caos deterministico che sembra impe­ rare in questa fine millennio si può trovare qualche frattale è proprio nella vasta proposta di allestimenti neo-post-neo­ dada. Come a dire che non si è mai trovato un vaccino al vi­ rus dadaista, per cui moltissimi artisti, con varie declina­ zioni, fatalmente, lungo tutto questo secolo ne sono stati contagiati. È una persistenza della memoria o l'incapacità di sottrarsi alla fascinazione di un consumismo generatore del trash più eterogeneo? Forse quello che più impressiona sono le dimensioni dei nuovi allestimenti, all'insegna di una megalomania strutturale che ingigantisce ed enfatizza l'as­ semblaggio di objets trouvés, senza tuttavia l'ironia dada o la poesia di Cornell o la contaminazione con la pittura di Rauschemberg. Un assemblaggio un po' noioso quindi, che sottolinea un isterilirsi del pensiero creativo, dimostrazione forse dell'età della rottamazione e del degrado urbano, allo scopo di mostrare una ex-vita o una ex-funzione, ma pur­ troppo vicino anche ad una sensazione di morte oggettuale nell'incapacità manifesta di una elaborazione veramente creativa. Monumenti al nulla che pure sono opera di artisti internazionalmente molto noti, soprattutto nel mercato del1' arte contemporanea, e che pur in altre occasioni hanno dato prove più significative, come Robert Longo, presente con un'opera, le grandi croci di cera, già vista qualche anno fa, Bernard Lavier o Haim Steinbach o Maurizio Cattelan, unico artista italiano ad essere invi.tata sia alla Biennale che a Skulptur Projekte. Quest'ultimo in entrambi gli allestì_. 34 menti presenta animali imbalsamati o scheletri sovrapposti,



lente ed allo stesso tempo un'aspra condanna alla guerra, a quell'istinto di aggressività ferina che è pur parte della na­ tura umana. In questa azione, pensata ed eseguita per la Biennale, la Abramovic ha abbandonato la sperimentazione sul proprio corpo di masochistiche prove di sforzo e resi­ stenza al dolore psicofisico, per allargare i confini della sua riflessione dall'autocoscienza alla denuncia del rito collet­ tivo del massacro. L'azione partiva da uno sviluppo di pre­ cedenti esperienze nell'ambito delle pe,formances, dall'e­ missione di voce dei primi anni Settanta a Cleaning the mir­ ror del I 995. Nella prima l'artista provava la propria resi­ stenza vocale urlando fino allo sfinimento fisico in un uso analitico del proprio corpo come medium espressivo; nella seconda invece la Abramovic puliva con accanimento per mezzo di una spazzola durissima uno scheletro umano, ap­ punto l'ultimo specchio di sé e di ciascuno di noi, per esor­ cizzare una paura della morte che l'artista sosteneva essere connaturata nella civiltà e nella cultura occidentale a diffe­ renza di quella orientale in cui è considerata un normale ac­ cadimento della realtà quotidiana. La Abramovic alla Bien­ nale stava seduta su di un cumulo di ossa di animali appena macellati con ancora brandelli di carne e cartilagini attac­ cate, vestita di una tunica bianca, quasi sacerdotessa di un rito arcaico, e le spazzolava violentemente cantando una lu­ gubre, lentissima nenia, come un lamento angosciante. L'a­ zione era completata da tre grandi video alle pareti, mentre tutto era immerso in un buio funereo e soffocante per I' o­ dore della carne in decomposizione. La performance, già di per sé altamente inquietante, sollecitava il coinvolgimento emotivo dello spettatore attraverso l'iperestesia dei sensi, soprattutto della vista, dell'olfatto e dell'udito, facendo af­ fiorare al contempo i meccanismi psichici più disturbanti. L'artista della ex Yugoslavia, lontana da una solipsistica azione sul proprio corpo, proponeva un'istanza relazionale, una riflessione accusatoria per tutti nei confronti della cru­ dele insensatezza di ogni genocidio . . Di tutt'altro segno, rappresentativa della faccia effimera 36 e del nomadismo culturale di questi anni Novanta, è la



uno spaccato· artisti di, diverse generazioni, si è inteso mettere in mostra un·sistema di contributi che inquadra la situazione di un nucleo "attuale" dell'arte che deve sempre ricondursi al suo statuto strutturale e lingui­ stico, la cui configurazione non può vincolarsi solo al preesistente o al preveggente2.

Una linea teorica quindi di indagine sulle principali emergenze tematiche di questi ultimi trent'anni, sulle loro permanenze e modificazioni. Eppure, se mi è consentito un giudizio personale, le opere recenti degli artisti del cosiddetto Passato mi sono sembrate dei cloni invecchiati di se stesse. La brutta pittura e la brutta scultura di Dine va a ripescare il mondo dei per­ sonaggi dei fumetti dell'infanzia con una inattualità scon­ certante. I grandi quadri gestuali di Vedova hanno perduto la loro forza; le delicatissime strutturazioni di campiture dai colori tenui di Agnes Martin hanno una ripetitività esaspe­ rante3. Nelle opere di due maestri della pop-art, Oldenburg e Lichtenstein si avverte una mancanza di incisività, una pretestuosità che limita la forza creativa cui eravamo abi­ tuati. Anche nella generazione del Presente, ma forse sarebbe più corretto definirlo Passato recentissimo, in cui si è avuto il ritorno alla pittura della Transavanguardia internazionale, le opere esposte dei suoi protagonisù, di Clemente e di Sch­ nabel, risultano affrettate e poco pregnanù. Al contrario An­ selm Kiefer, a cui il Museo Correr ha allestito una impor­ tante retrospettiva, nelle sue grandi pitture polimateriche dà prova di una straordinaria forza contenutistica e formale. Ma qual'è allora il Futuro? Secondo Celant il contempora­

neo di oggi potrebbe diventare domani il preludio a qualcosa di completamente diverso, ma questa esposi­ zione può soltanto speculare sul futuro richiudendo il passato e il presente in un continuum interconnesso4.

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Una conclusione conciliante e anche un po' scontata che ricorda il vecchio proverbio: le piante ci sono, se sono rose fioriranno. Del resto il panorama espositivo è così variamente campionato rispetto a tutte le tendenze che è ben· pro-



casi di pittura, spesso purtroppo di non grande qualità ed in­ teresse. Qualche eccezione si può trovare fra gli artisti meno giovani come Nancy Spero, nata nel 1926, con la sua pittura scabra, essenziale, fortemente motivata da problemi sociali trascritti con segno molto personale, quasi grafico, cui fa da soggetto una iconografia traumatica, di guerra, di povertà, di sofferenza, soprattutto psichica. O David Reeb, artista israe­ liano, che riporta in pittura immagini della violenta ed insta­ bile condizione socio-politica della sua terra tratte da foto in bianco e nero di cronaca di scontri armati. Interessanti anche le grandi pitture di Kerry James Marshall, quarantenne afro­ americano dell'Alabama che, con una certa naiveté fra Ja­ mes Brown e Basquiat, mostra una curiosa figurazione alle­ gorica. Veritable patchworks, his critically ironie pain­ tings recycle the iconography of a sodai dream and an ideologica} manipulation5 . Un black people quindi perfet­ tamente conscio del proprio inserimento sociale, ma soprat­ tutto pronto a rivendicare con orgoglio le proprie origini. Opere perfettamente inserite nello spirito del politically cor­ rect che domina e condiziona la cultura e la società ameri­ cana, tanto che anche il padiglione degli Stati Uniti alla Biennale ha dedicato una personale all'ormai settantenne Robert Colescott, la cui pittura, in parte debitrice nel segno al tratto grafico dei fumetti, in parte all'espressionismo basso dei graffitisti di Harlem, indaga un mondo di sfrut­ tamento ...per scavare in profondità esplosive combina­ zioni di problemi come quelli legati alla razza alla storia, al sesso, al potere e ai modelli della bellezza6. Nell'ambito di Documenta sono presenti alcune rivisita­ zioni, delle vere e proprie retrospettive, di artisti come Pi­ stoletto, con una serie di lavori degli anni Sessanta e Set­ tanta, o Helen Levitt, doveroso omaggio ad una grande fo­ tografa, o Maria Lassning con i suoi disegni di indagine fi­ siognomica in funzione di una decostruzione dell'imma­ gine. Poiché molti artisti hanno proposto progetti di ambienti o foto di interni, mi è sembrata opportuna la scelta della cu40 ratrice, Catherine David, di esporre i progetti di due gruppi



che era nell'aria, sosteneva che l'avanguardia architettonica avrebbe dovuto, oltre che rifiutare la progettazione, la pre­ figurazione di strutture ambientali, attuare l'eliminazione di ogni diaframma visuale e condurre una seria analisi sulla condizione strutturale del sistema economico. La No-Stop City del 1969-72, presentata a Kassel, parte proprio da que­ sto presupposto, è infatti la raffigurazione dei due luoghi simbolo della società: la fabbrica e il supermercato, ma è anche la rappresentazione metaforica della morte della città. Ho poc'anzi accennato al gran numero di artisti che con atteggiamento neo-concettuale si esprimono attraverso dei progetti, ma fra questi vi sono molti che hanno dato anche forma alle loro preoccupazioni ambientaliste e, sia a Kassel che a Milnster, hanno potuto realizzare i disegni iniziali. Dan Graham, ad esempio, è presente in entrambe le sedi con le sue strutture in vetro, la prima insonorizzata e articolata a raggiera permette a chi entra di seguire da quattro diversi ambienti un programma televisivo, la seconda, installata nel parco della città, ha pareti riflettenti in modo da moltiplicare l'immagine sia di chi è dentro che di chi sta fuori. Destano interesse anche gli A-Z Escape Vehicles e le A­ Z Deserted lslands di Andrea Zitte!, trentenne artista ameri­ cano, rispettivamente esposte le prime a Documenta, le se­ conde in uno dei bacini dei parchi di Milnster. Entrambe hanno come presupposto di ricreare una esperienza indivi­ duale di isolamento dentro un luogo sicuro e confortevole. Si tratta infatti di varie piccole roulottes tutte uguali nella struttura esterna da tenere in qualche stanza della casa e da arredare secondo il gusto personale e le inclinazioni regres­ sive del proprietario in funzione esclusivamente del suo pia­ cere, ed infatti tutte le opere esposte fanno parte di colle­ zioni private. Le seconde sono dei piccoli natanti monopo­ sto, dalle forme diverse, delle piccole isole galleggianti, per immaginarsi dei novelli Robinson Crusoe. Wolfgang Winter e Berthold Horbelt, meno poetici e più funzionali, hanno invece disseminato in vari punti della città 42 di Milnster le Crate-houses, una serie di costruzioni -fatte



Boetti, gli esseri, chiamati dall'artista Thomas Schutte, Grandi Fantasmi, perché sono a metà fra l'umano e la crea­ tura intergalattica di Alien, e pochissimi altri, nella città non si trova traccia di scultura. A rappresentare il mondo con­ temporaneo ci ha pensato il settantenne Paul-Armand Gette che ha esposto (!) una scultura virtuale: Virtuelle Skulptur oder das Zeichen der Aphrodite. Tre punti della città sono stati idealmente uniti fra di loro in modo da formare un triangolo equilatero al cui centro sta la Cattedrale di Mi.in­ ster, is it the Bermuda triangle, where ali the missing

ships go, or the triangle of the goddess the Mons Veneris, the sex of Aphrodite? So many questions to answer8.

Forse l'allestimento più scenografico è quello realizzato da quell'incredibile artista multimediale sempre capace di sorprendere che è Nam June Paik con l'opera 32 carsfor the 20th century: play Mozart 's Requiem quietly. Si tratta in­ fatti di trentadue vecchie macchine americane, dal 191 O al 1950, dichiaratamente bellissime ma dalla forma ormai ob­ soleta, tutte dipinte d'argento tanto da sembrare pietrificate, mentre dal loro interno si diffonde pianissimo la musica del Requiem. Situate nel grande cortile davanti al Castello in stile barocco, sembrano costituire un ideale dialogo di un passato glorioso con la struttura architettonica: questa segna il passaggio dal potere dell'aristocrazia a quello della bor­ ghesia, quelle rappresentano the transition from the indu­ striai to the information society9, ma anche e soprattutto la velocità con cui cambia il gusto per cui le cose sembrano invecchiare, quasi come le persone.

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1 La scelta di Cattelan da pane di Celant è motivata dal fatto che il (suo) discorso prende le distanze da qualsiasi ortodossia arti­ stica e riflette su questa, ricreando un sistema di asserzioni in­ verse che, attraverso il loro grado di esclusione e di emargina­ zione, di clandestinità e di irregolarità, nel corso della loro appa­ rizione liberano istanze eterodosse e marginali, che sono inter­ pretabili come residui, non integrabili. La costellazione dei suoi lavori verte sul segno contrario rispetto a quello della tradizione


Iconografica. G. CF.LANT, Da/l'Italia, XLVII Biennale di Venezia, Ca­ talogo della Mostra, Electa 1997, p. 285. 2 I vi, p. 11. 3 Ricordo che ad Emilio Vedova ed ad Agnes Martin sono stati assegnati i premi per la loro attività anistica. 4 G. CELAN'r, Dall'Italia, cit., p. 13 5 P. Sz-ruLMAN, Kerry James Marshall, Documenta X, Catalogo della Mostra, Cantz 1997, p. 144. 6 M. RonERTS, presentazione dell'artista, XLVII Biennale di Ve­ nezia, Catalogo della Mostra, p. 553. 7 A. Ru1•J>ERSDERG, in Skulptur Projekte, Catalogo della Mostra, G. Hatje Ed., Munster, p. 347. 8 P.A. GETTE in Skulptur. .. , cit. p. 163. 9 U. GRoos, F. MArLNER, Nam lune Paik, in Skulprur. .. , cit., p. 309.

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