Op. cit., 104, gennaio 1999

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Op.cit.

rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

Direttore: Renato DI! Fusco Redattori: Roberta Amirante. Alessandro Castagnaro, Alessandra de Martini

Marina Montuori, Livio Sacchi Segretaria di redazione: Saia Graus Ventrella Redazione: 8012:1 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 769078:1

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R. DE Fusco. V. BARADEIďż˝ G. Lorn.

La storiografia è progetra::.ione lifenomeno dei giovani artisti Design: progetri possibili Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Pasquale Bclfiore, Alessandro Castagnaro, Domitilla Dardi. Rosa Losito. Lucia Pagano, Elena Volpato.


La rivista si avvale del co111rib11to economico dei segue111i Istituti e Aziende:

Alcssi Camera di Commercio di Napoli Driade



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Il primo chiarimento pertanto va operato sulla distin­ zione dei due termini, recentemente modificati in storia­ realtà e in storia-studio, che evidentemente, al di là della correttezza lessicale, denotano addirittura due mondi di­ versi. Inoltre il loro rapporto possiede la prima e più grande caratteristica storica, quella della problematicità. Infatti. non si dà storia senza una storiografia che la racconta, né storiografia senza storia mancandole la materia da studiare. Donde la considerazione che fra l'una e "l'altra c'è distin­ zione ma non separatezza. Un altro aspetto problematico - ed entriamo nel vivo dell'argomento architettura - sta in ciò che il rapporto sud­ detto è reso più complesso dall'essere gli eventi della storia dell'architettura e dell'arte non relegati in libri e in docu­ menti ma materialmente presenti in opere e monumenti; il che. se da un lato agevola l'indagine storiografica, dall'altro induce all'errore suddetto di pretendere dalla storia suggeri­ menti diretti per la progettazione. Quella dell'architettura e dell'arte è una storia speciale anche perché opere e monu­ menti, pur rimandando ad altro, sono principalmente autoe­ spressivi, come ebbe a rilevare Fiedler con la sua Sicht­ barkeit, donde un importante suggerimento: la storiografia artistica. per 1 'autoespressività delle opere-eventi. non deve descriverle, così come si verifica nella gran parte dei ma­ nuali, ma interpretarle: dire ciò che in esse è soggiacente e nascosto; da qui l'impiego delle metodologie strutturalistica ed ermeneutica. Ma prima di procedere oltre, vanno fatte alcune precisa­ zioni sulla vexata q11aestio dell'uso della storia nella pro­ gettazione. Il rapporto tra quello che si deve programmare, prevedere, progettare appunto, non è, come già detto, diret­ tamente ricavabile dalla storia, bens1 indirettamente dalla storiografia. Il vero spartiacque fra storia e storiografia ai fini progettuali è indicato dalla concezione linguistica del­ l'architettura. Ogni sorta di linguaggio, ivi compreso quello architettonico, può strutturalmente considerarsi formato da elementi costanti e da regole combinatorie. Tali elementi e regole da soli non possono costituire un messaggio. Un



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insieme epistemologico tale da non ammettere alcuna sot­ trazione. Cosicché, al fine di esporre e possibilmente dimostrare la nostra tesi del parallelo fra storiografia architettonica e progettazione, bisogna riconoscere anzitutto che i fattori originali in ognuna di queste metodologie - l'individualità, la causalità e la selettività (capisaldi della storiografia); le ti­ pologie, i paradigmi, le invarianti, la semiosi (sostegni dello strutturalismo); la circolarità, il rapporto fra il tutto e le parti, l'intluenza fra l'interpretalo e l'interpretante (canoni dell'ermeneutica) - sono diventali patrimonio comune al suddetto insieme epistemologico. Ai citali fattori, riscontrabili in ogni genere di storiogra­ fia, si associano quelli propri della teoria e della storiografia particolare dell'architettura: i vilruviani precetti dcllajìrmi­ tas, utilitas e venustas; l'antico concetto di symmetria, cioè il rapporto commensurabile delle parti fra loro e di ognuna con il tutto dell'edificio; la comunicabilità espressa in «forme simboliche», variabili da un'età all'altra secondo il K1111s1wolle11 epocale; la tipologia, intesa quale invariante della morfologia; la nozione di stile; la concezione per cui la storia risponde alle domande che solo la teoria è in grado di porre. E l'elenco potrebbe continuare. Ma questi specifici fattori della storiografia architetto­ nica non sono tutti contenuti o riportabili al citato insieme epistemologico composto dalle tre metodologie? Infatti, il concetto di stile è del tutto analogo al tipo-ideale di Weber; la nozione di symmetria è la puntuale incarnazione visibile del concetto di «struttura» e in pari tempo del «circolo er­ meneutico»; i principi di individualità, causalità e di seletti­ vità si riscontrano pari pari nella storiografia architettonica; il rapporto fra «testo»� inteso nel senso più ampio, ivi com­ preso quello materializzato da un fabbrica, e colui che lo in­ terpreta trova precisa corrispondenza fra l'opera architetto­ nica e lo storico che la studia ed ancor più evidente è tale rapporto nel caso di un monumento da restaurare. Quest'ultimo esempio ci introduce direttamente all'esposizione della tesi che la storiografia è progettazione.



pianta, così apparentemente ben organizzata, resta soltanto una «figura» se non si accorda alle altre parti dell'edificio o addirittura le genera: le fronti, la sezione, la copertura. ecc. Nella quasi totalità dei casi questo risultato non si ottiene subito, bisogna ritornare a disegnare la pianta in funzione non solo delle esigenze strettamente planimetriche, ma an­ che di quelle che concorrono a conformare l'insieme dell'o­ pera. Si tratta, in sostanza, di un continuo fare e disfare, di chiamare in causa tutti quei fauori della co11cù111itas, per dirla in termini albertiani, vale a dire l'accordo delle parti nel tutto, fino al punto da raggiungere la condizione del nihil addì, ovvero quando non si può più aggiungere o to­ gliere nulla. In altri miei scritti ho tentato di razionalizzare questo processo, muovendo dalla riduzione del progetto in quattro parti: i dati di partenza, l'intuizione, la rappresentazione e la critica operativa. Ognuna di queste parti, originariamente distinte e appartenenti a specifiche categorie dovranno, nel corso dell'elaborazione, amalgamarsi al punto da confor­ mare un tutto secondo il modello del «circolo ermeneu­ tico». I dati di partenza sono quelli richiesti dalla commit­ tenza e quelli imposti dalle possibilità di tempo e di luogo; l'intuizione, pur essendo momento aurorale, non è fondata sul nulla, ma è la sintesi di generali e preesistenti espe­ rienze; la rappresentazione rientra nel bagaglio «tecnico» degli strumenti già noti al pn?gettista (la geometria proiet­ tiva, la prospettiva, l'assonometria, ecc.); la critica opera­ tiva non è la critica che si effettua ex post su un manufatto già elaborato, l'aggettivo operativo denotando che tale cri­ tica si effettua nel corso dell'elaborazione. 11 passaggio dalle parti al tutto, utilizzando quanto scrive Gadamer sulla scorta di Heidegger, si può pensare come la irasformazione di queste quattro parti, ognuna intesa come una pre-cogni­ zione in cognizione allorquando ciascuna passa al vaglio di tulle le altre. Cosicché, ripeto, nel corso del processo pro­ gettuale, fattori aventi una propria natura e pertanto fra loro eterogenei, abbandonano la loro specificità ponendosi in reIO !azione fra loro nell'intento di conformare un tutto omoge-



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quello della «manipolazione». Caduto il positivistico domi­ nio dei falli nella storiografia e con essa tanti luoghi co­ muni: la «verità storica», la storia magistra vitae, il valore assoluto della storia, la filologia come il momento più «scienti fico» della storiografia, ecc., lulla la ricerca storio­ grafica è affidata alle scelte, all'interpretazione, alle mani­ polazioni dello storico con l'unica garanzia che il massimo dell'oggettività è la soggettività, purché dichiarata. E que­ sto soggettivismo è tanto più valido nell'epoca attuale, quando i moderni mezzi d'informazione vanno afferman­ dosi, quando cioè persino la temporalità degli eventi è ve­ nuta radicalmente a modificarsi: tutto avviene in tempo reale, grazie agli sviluppi della tecnologia. Pertanto l'opera manipolativa costituisce un fattore indispensabile per la «costruzione» della storiografia, al fine di interpretare que­ st'ullima come progettazione. Ed ancora. se le caratteristi­ che più riconosciute della storia e conseguentemente della storiografia sono la relatività, ivi compresa quella riguar­ dante la cosiddeua verità storica, l'incompletezza. lo scarto fra l'essere e il dover essere, la incessante revisione dei giu­ dizi e tutto quanto di incerto e problematico le concerne, la manipolazione, nel senso migliore del termine, non può non intervenire nello studio di una materia tanto inafferrabile. Nessuno scandalo dunque per le manipolazioni storiografi­ che, ma solo l'auspicio che esse trovino un punto d'incontro con l'architettura nel suo farsi e soprallutlo che siano legit­ timale dal senso e dalla loro funzione euristica. Inoltre, ap­ pare del tutto evidente che le scelte, le «manipolazioni», le costruzioni di modelli e quant'allro viene elaborato ai fini d'interpretare la storia e di renderla più prossima alla vita, altro non sono che le forme più spregiudicate di «artifici» storiografici. Quello che nella storia non è modificabile, lo è nella sto­ riografia. A quest'ultima infatti è concessa la facoltà di spe­ culare, di ipotizzare, di prevedere, di progellare un ordine nella vicenda umana o. quanto meno, di nutrire l'illusione di farlo. La storia dell'architettura è anch'essa immodificabile, mentre lo è la storiografia: qui sembra lecito e credi-





«creatività», le arti visive rubricano: arti plastiche, video art, cyber art e fotografia. Traggo questa ripartizione dal bando di concorso alla partecipazione alla prossima Bien­ nale Internazionale del Mediterraneo che si terrà a Roma nel maggio del '99. La Biennale dei giovani artisti ha esordito nel 1985 a Barcellona e l'ultima edizione ha avuto luogo nel 1997 a Torino. In quest'ultima occasione vi fu una vera e propria inondazione pacifica di opere, di artisti - prove­ nienti da 20 Paesi del Sud Europa e dell'area Balcanica, dal Maghreb e dal Medio Oriente- e di visitatori che ha letteral­ mente invaso la città per due settimane2 • Ora la questione che si pone è la seguente: in che rap­ porto stanno queste realtà con le emergenze, con il recluta­ mento di giovani artisti ali'interno delle più specifiche dina­ miche proprie del territorio dell'arte contemporanea? E an­ cora: è possibile trarre da esse qualche considerazione utile a comprendere .lo spettro della natura della creazione arti­ stica oggi, dunque la tipologia e i codici attuali dell'opera d'arte? Proviamo a dare delle risposte. Le iniziative dei circuiti GAI sono andate nel tempo ac­ quistando sempre maggior credito sul piano di una visibilità specialistica. Sempre più spesso vi troviamo nomi di gio­ vani artisti già accreditali in sedi più propriamente di settore oppure giovani che si avviano ad esserlo. Ciò è dovuto da una lato alla manifesta e lodevole intenzione degli stessi cir­ cuiti in esame di dialogare con gli addetti (singoli ed istitu­ zioni pubbliche e privale) del campo ai livelli più adeguali e autorevoli, dall'altro all'assenza pressoché totale di inizia­ tive d'altro genere promosse da altri enti, ad esempio da gal­ lerie civiche o da assessorati alla cultura. Sempre più il cir­ cuito GAI sta trasformando una funzione in una prerogativa che possiede per statuto e che altri gli attribuiscono scari­ candosi di una responsabilità assai poco remunerativa sul piano della promozione d'immagine cui per lo più essi ten­ dono. Dunque le mostre e le iniziative del circuito sono di­ ventate degli appuntamenti per critici e galleristi, artisti più anziani ed affermati, collezionisti e amatori, curiosi ed 16 esperti.



lo più i nuovi disoccupati di corsi scolastici di area artistico­ umanistica che s'industriano con lavori saltuari, magari vi­ vono ancora in famiglia, e si dedicano ad esperienze crea­ tive provvisti di idee e di strumenti idonei acquisiti nel corso di una adeguata formazione scolastica. Dunque non si traila di dilettanti ma di ligure cui la società a11uale ha allri­ buito a tulli gli effetti un diploma di creativo. Le iniziative di cui stiamo trattando funzionano spesso da vero e proprio esordio di figure artistiche in fieri, tuttavia non sembra che la prima preoccupazione del partecipante sia ora quella di esporsi al fine di essere notato dall'esperto che così può fare la sua scoperta e permettere al giovane di prendere quota nell'esercito dell'anonimato. Certo ognuno spera in cuor suo che questo abbia ad accadere, ma il primo impulso che muove alla realizzazione di queste iniziative è proprio il desiderio di cimentarsi in un confronto pubblico e collellivo, di metlere in piedi qualcosa di soddisfacente che nessuno garantisce più dall'esterno e che rende operativo un insieme di intenzioni che riversano le idee individuali nelle relazioni tra affini. Questa risoluzione ha a che fare con il principio del pia­ cere piuttosto che con l'agone esibitivo, anche perché la du­ plice consapevolezza del superaffollamento del campo e della oggettiva penuria di risorse pubbliche, ha comportato il venir meno dell'aspettativa nei confronti delle istituzioni e l'adozione di una logica assai più praticabile di autorga­ nizzazione che, ollrellulto, non deve sottostare ad alcun esame preliminare e valorizza le amicizie, le complicità e le stime reciproche fondate su un'alleanza tra simili piuttosto che su una selezione esterna. Tale condizione viene assunta da taluni osservatori militanti come presupposto di teoria critica, riscontrando in essa i caratleri auuali della dimen­ sione artistica. Si potrebbe dire che l'unico stato di cose che il legame sociale conosce è la comunicabilità -per produzione- delle possibilità che alterano gli stati di cose. Questa è la nuova casa alla cui edificazione anche l'arte viene chiamata. Perché è una casa costruita mobi18 litando, alterando, ossia promuovendo emozioni, pia-



possa, per questo, venire acquisito nel bacino più ampio delle forme notevoli di produzione creativa. Del resto artisti importanti e riconosciuti condividono con questi soggetti che autolegittimano il loro accesso al campo, lo stesso metabolismo estetico e lo stesso repertorio d'informazioni e di referenzialità oggettuale, per cui accade ad esempio che questi giovani realizzino un'installazione che potrebbe benissimo essere firmata da un artista concet­ tuale degli anni '70. Ciò può succedere anche involontaria­ mente, nell'ignoranza del precedente, come prelievo nel ba­ cino dell'esistente, come tratto di un repertorio diffuso e condiviso, di una orizzontalità dominante che quella stessa opera tendeva a elaborare e prefigurare e che ora questi gio­ vani restituiscono alla scena dell'arte non come riedizione volontaria ma come cosa tra le cose del loro mondo, perciò stesso provvista del senso più tipico della contemporaneità. Non déjà vu dunque ma prova cocente della natura conta­ minata e totipresente del contemporaneo, non più contrad­ distinto dall'emozione fredda dell'anticipazione concet­ tuale. A tale omologazione si è giunti per una scelta di dire­ zione obbligata, costitutiva della storia delle avanguardie e delle neoavanguardie sempre più interne allo stato del mondo. Infatti, mentre i media del pittore, quand'anche in­ terprete acuto di una flagrante contemporaneità, ne decreta­ vano la collocazione in uno spazio di esclusività, i media dell'artista contemporaneo lo inseriscono direttamente nel­ l'universo collettivo quotidiano e dunque più diretta, e a volte in vera e propria osmosi, è la relazione tra operatori re­ centi, artisti affermati e fruitori. In fondo questa è stata la manifesta vocazione di molta parte dell'arte degli ultimi decenni, quella di confondersi nel mezzo della normale vita vissuta e ottenere, tramite un punto di vista volontario e programmato, il sabotaggio del­ l'ovvio. In tal senso, al di là di giudizi di valore -che a volte ci sembrano quasi non pertinenti perché altra vuole essere la chiave di avvicinamento all'esperienza artistica di questi 20 giovani - appare ragionevole riflettere su come i paradigmi


più recenti dell'operare artistico abbiano prodotto una stirpe nuova di produttori e di consumatori che comprendono il linguaggio di una perfomance o di una installazione anche in condizione di svalutazione o di indifferenza nei confronti della storia e della natura dell'arte, adducendo l'epilogo di cui sono protagonisti come referto autosufficiente, come pars pro toto, sineddoche terminale. A questo che appare sempre più come un mutamento epocale dello statuto dell'arte e dell'artista, ha concorso in modo preponderante lo stesso artista allorché oltre all'uso di materiali correnti, ordinari, ha teorizzato e sperimentato _ l'inserimento, l'infiltrazione delle azioni e delle opere nelle situazioni reali. all'interno di scenari urhani, fossero essi contrassegnati dalla storia o intestati alla modernità. Ten­ dendo ad un coinvolgimento attivo dei passanti, e dunque ad una nuova combinazione tra il tempo e lo spazio quoti­ diani e l'opera d'arte. gli artisti provvedono quest'ultima dei requisiti di condivisa attualità che istituisce una nuova parentela 'esistenziale'con il fruitore. Dialogo e collabora­ zione sono dei termini centrali in questo campo anche

perché uno degli elementi chiave per la Public Art è na­

turalmente il contatto diretto con le persone. È di fonda­ mentale importanza in questo tipo di interventi la parte­

cipazione del pubblico, spesso non più «semplice pub­ blico» ma costruttore attivo del processo e della realiz­ zazione dell'opera, «limitando» l'azione dell'artista a costruire una regia generale, una sorta di stimolatore dell'intelligenza collettiva"' .

Il rapporto con l'attualità diretta non mancava certo agli artisti del passato ma essi vi provvedevano con strumenti propri ed esclusivi, mentre l'arte contemporanea ha usato e teorizzato l'impiego degli stessi strumenti in corso al secolo (pensiamo solamente ai detriti o alle macchine o ai neon o ai video e così via... ). La materia oggettuale prelevata dal mondo e diventata forma proprio in virtù del potenziamento della sua natura secolare, comincia a dare i suoi frutti in ter­ mini di estetica antropologica. Col tempo, infatti, si è creato un ampio fronte di adepti e di affini dal punto di vista este-

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tico per cui l'intervento di un giovane ignoto potrebbe be­ nissimo essere scambiato con uno, datato, di llia Kabakov o di Vito Acconci, se non fossimo debitamente riforniti di tulle le bussole in uso agli addetti, prima fra tutte la storia di artista esclusiva di Kabakov o di Acconci. Ciò può avvenire poiché i materiali e le logiche impiegate appartengono al mondo di tutti e l'artista le impiega proprio in quanto tali, non sono procedimenti e materie posseduti esclusivamente dall'artista. Certo sarà il modo di combinare quei reperti del mondo a esaltare il potere espressivo e a sancire i I valore del singolo artista ma dal momento in cui egli stesso si è calato completamente all'interno delle realtà correnti per attin­ gervi oltre all'ispirazione modi e materiali, si è reso dispo­ nibile allo scambio. alla confusione, ad una connivenza so­ stanziale con qualsiasi altro fruitore e manipolatore delle cose del mondo. In altre parole la compenetrazione sembra sia diventata parte ragguardevole dell'idea di un'opera, la quale sembra voler smettere ad ogni costo lo status di bene straordinario per assumere quello di eventualità ordinaria, investendo dunque il carattere di evento nella 'normalità' (in quanto tale, preesistente e coesistente) al fine di fuorviarne l'esito previsto, funzionando dunque come accessorio disordinario che porta arricchimento all'ottuso vivere quotidiano. Un tempo la padronanza delle tecniche richiedeva un lungo apprendistato che si prolungava poi, di fatto, per lutto il tempo della produzione individuale ed era un apprendi­ stato che contemplava tanto la manualità, che l'intelligenza, che i 'segreti'. I saperi si congiungevano, si fondevano. Ora i saperi sono del tutto autonomi, immateriali, tecnologiciz­ zati e recepiti come standard informazionali diffusi. I gio­ vani vi sono immersi al punto che sembra impraticabile an­ che il distanziamento metalinguistico. Non è nostra inten­ zione richiamare la noiosa disputa tra apocalittici e inte­ grati, ma visitando le mostre di giovani accade sempre più spesso di constatare come essi sembrino considerare l'espe­ rienza artistica alla stregua di una zattera dove condurre a sé 22 i prodigi delle tecnologie o dei saperi più attuali per escogi-


lare un conlribulo esclusivo e dove mettere in salvo i propri averi privali, tracce concrete rimaste di una storia indivi­ duale. Come se nonostante l'ubiquitaria presenza dell"im­ pero' e un assenso generazionale alla seduzione della sua fL1turibililà, si potesse disporre di una nicchia di resistenza 'familiare'cosliluila dall'opera d'arte, una familiarità che va intesa in forma allargala, estesa alla collellività di affini: Ciò che si edifica attraverso l'arte è il legame sociale, lo

stare-insieme in quanto tale. L'arte contribuisce a 'fare'

legame, 'insien1e'. Non si tratta, come nelle esperienze totalitarie, di un'estetizzazione della politica, ossia della presentazione del politico come artista e della società conte sua opera d'arte. Si tratta, invece, di una circola­ zione delle opere che 'fa'società e di un politico che è sempre più promotore di una tale circolazione. Non è la società a essere un'opera d'arte ma è l'esposizione delle opere a 'fare' legame sociale. L'arte diviene un mezzo del legame. Il legame predomina sull'arte�.

1 Dalla carta di costituzione dcli' Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti Italiani. la quale tra l'altro recica: «Il Circuito si pre1igge di documentare attività. offrire servizi. organizzare opportunità fonnative e promozionali a favore dei giovani che operano nel campo della creatività. delle arti e dello spettacolo. Questo attraverso inizia­ tive pennanenti o temporanee che favoriscano la circolazione di infor­ mazioni ed eventi. a livello sia nazionale sia internazionale. favorendo e incentivando il rapporto tra la produzione artistica giovanile e il mer­ cato. L'Associazione intende inoltre promuovere progetti di documen­ tazione. promozione. fom1azione e ricerca di rilievo nazionale e inter­ nazionale. !inalizzati allo sviluppo artistico e culturale delle nuove ge­ nerazioni». 2 In un articolo apparso sul quotidiano La Repubblica del 27 aprile I 997 Pier Giovanni Castagnoli si inten-ogava sugli aspetti più «in­ terni» al fatto artistico che questo rilevante fenomeno inevitabilmente comporta. affennando tra l'altro: «Ecco: è su questo tema dell'identità e, per converso, su quello dell'alterità. che avviene di doversi mag­ giormente inten-ogare, visitando la Biennale. E di chiedersi, ad esem­ pio, di fronte al dilagare della koinè internazionale dei linguaggi arti­ stici di cui la mostra torinese dà l'ennesima dimostrazione. se abbia ancora possibilità di determinarsi, nel tempo della globalizzazione, quel profondo dinamismo fecondatore che. a partire dalla fine del se-

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colo scorso (da Gauguin a Derain a Picasso a Matisse a Brancusi...) trovò, nell'incontro con l'altro, con lo straniero, una delle molle più potenti di immaginazione per rinnovare l'espressione dell'arte con­ temporanea. Se sia in sostanza fondato il timore che taluni manile­ stano allorché dipingono scenari in cui la sempre più forte integra­ zione della cultura a livello planetario finirà per ridurre enorme­ mente .....le alterità culturali, o se. per contro, anche ove ciò avvenisse. non si debba ritenere sufficiente il presidio della soggettività ad assi­ curare la diversità e la ricchezza delle opzioni creative». � MAURIZIO ZANA1m1, ll luogo dell'arte, in N.O, numero zero, Siena 1998, p. 7. Si tratta del primo numero del periodico di Palazzo delle Papesse di Siena, Centro Arte Contemporanea. diretto da Sergio Risa­ liti che si è inaugurato il 22 novembre 1998 con sei mostre che ave­ vano per protagonisti artisti e critici delle ultime tre generazioni. L'ar­ ticolo di Zanardi che apre il primo numero di questa nuova formula (almeno per l'Italia) di rivista-catalogo-strumento di lavoro e di colle­ gamento, analizza e propugna una nuova concezione del lavoro arti­ stico nella quale, in qualche misura, trovano riscontro le nostre consi­ derazioni anche se affrontate da un altro punto di vista. • Roo1;1no P1NTO (a cura di). La c:ittà degli interventi. Milano 1997. p. 6. Il libro raccoglie i diversi contributi della 111 serie di incontri sul tema «La Generazione delle immagini» curata da Pinto nel corso del 1997 per il Progetto Giovani del Comune di Milano. li libro raccoglie testi di artisti (come Vito Acconci e Hans Haacke) e di studiosi (come Mare Augé e Mary Jane Jacob) che mettono a fuoco la nuova filosofia della dimensione pubblica dell'arte. Sempre a Roberto Pinto si deve l'ideazione e la cura della manifestazione Subway che ha avuto luogo negli spazi della metropolitana milanese nella primavera del '98: «Subway è un tentativo di portare l'arte in una zona di «pericolo». senza rete di protezione. senza l'aiuto di spazi bianchi alle spalle e senza riferirsi soltanto agli addetti ai lavori. Gli artisti si sono confron­ tati con un luogo di transito, in cui difficilmente ci troviamo a nostro agio e in cui difficilmente si riesce a cogliere l'attenzione di persone sempre più in corsa e sempre più indifferenti ai tanti stimoli visivi cui vengono sottoposte». RooEKn> P1NT<>, Arti \lìsive, in Subway, catalogo della mostra, Milano 1998, p. 12. � MAUKl)'.IO 2ANARl>I, <l(J. C:Ìt., p. 6.

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niera positiva: si pensi alle teorizzazioni di Gianni Yattimo sul pensiero debole4 • alla crisi della ragione proposta da Aldo Gargani\ alla decostruzione derridianar,_ Lo spaesa­ mento per la mancanza di riferimenti certi, pur essendo già avvertito in poche menti più sensibili, rimane ancora un at­ teggiamento minoritario. Come rileva Christopher Lasch, tale condizione ha profonde ripercussioni anche sulla figura dell'intellettuale e sulla sua funzione all'interno della società: abbandonalo il ruolo di «voce della coscienza», e assumendo, sempre più frequentemente. quello di «voce dell'immaginazione» 7 • l'intellettuale diviene sempre più un esteta, poco allento ai problemi del mondo, purtroppo non immune da slanci auto­ ritari. Pensiamo a Shelley- I poeti sono i legislatori dell'u­ niverso-, a Dostoieskji- La bellezza salverà il mondo- e, ancor più, a Josif Brodskij - L'estetica è la madre dell'e­ ticaK, ma anche alle tante. troppe, figure di (pseudo)intellet­ tuali che in questi anni hanno calcalo le platee televisive. Anche sul piano sociale le conseguenze della caduta di impegno civile sono evidenti. Efficacemente Francesco Morace definiva la società degli anni '80 «società dell'ap­ parire» - citando fenomeni quali lo yuppismo trionfante, il successo del body-building, ma anche la particolare con­ giuntura politica con l'affermazione del reaganismo9 • li design non poteva rimanere immune di fronte a tali trasformazioni. Nella cultura del progetto la caduta dei «Grandi Racconti» è la fine del «Grande Racconto» del Mo­ derno con il suo sogno di emancipazione della società attra­ verso la produzione industriale. La caduta di tensione mo­ rale è evidente. Così Barbara Radice a proposito dell'espe­ rienza Memphis: Non esiste un manifesto (...) un po' per­ ché non è sembrato fondamentale mettere le cose nero su bianco, un po'perché è sembrato più importante fare

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che dire, ma soprattutto perché le radici, la spinta, l'ac­ celerazione di Memphis sono antiideologiche per eccel­ lenza 111. Mentre i Bolidisti: Il Bolide verace teorizza alla rinfusa, ovvero, prima agisce e poi pensa. (... ) Il Bolide verace ritiene l'ideologia un freno inutile e dannoso. (...)



recentemente, Vittoria Franco si è soffermata sulla inevita­ bilità di una convivenza tra più «eliche possibili» in grado di tenere insieme intersoggettività e autonomia, norme universalizzate e contesti 15•

Accettala la pluralità degli approcci, rimane da interro­ garsi sulla presenza o meno di un fondamento comune a queste etiche e cioè sulla esistenza di un principio univer­ salmente valido. Una risposta a tale domanda è fornita da Umberto Eco che, in un interessante colloquio con il Cardi­ nale di Milano Carlo Maria Martini, individua tale principio nel concetto di «Altro in noi»: dobbiamo innanzitutto ri­ spettare i diritti della corporalità altrui, tra i quali anche

il diritto di parlare e di pensare. Se i nostri simili aves­

sero rispettato questi diritti del corpo non avremmo

avuto la strage degli innocenti, i cristiani nel circo, la

notte di San Bartolomeo, il rogo per gli eretici, i campi di sterminio, la censura, i bambini in miniera, gli stupri in

Bosnia 16 • li rispetto dell'altro, inteso non solo come il vi­

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cino ma anche come natura, pianeta in cui viviamo, genera­ zioni future, appare dunque fondamento comune. Franco parla, in proposito, di sfida creativa verso l'altro nell'ol­ lica di comportamenti che devono necessariamente fare i conti con una sovranità relativa 17 • In un tale contesto anche il ruolo dell'intellettuale deve mutare, recuperando quella funzione di «voce della co­ scienza»•x che, per lungo tempo, lo aveva contraddistinto. Un intellettuale che, scrive Eco, per sua stessa natura, ha il compito di scavare le ambiguità e di portarle alla luce, ed il dovere di criticare i propri compagni di strada 19 • È quell'atteggiamento nei confronti della verità che, molli anni prima, Montaigne aveva definito di «indagatore impe­ nitente», ben diverso da quello dei «nichilisti» che hanno smesso di cercarla e dei «dogmatici» che pensano di averla già trovata 20• A testimonianza di questa rinnovata attenzione nei confronti del ruolo sociale dell'intellettuale, il dibattito che - stimolato anche da avvenimenti contingenti: su tutti la repressione degli integralisti islamici - si è sviluppato recentemente sulle pagine di importanti quotidiani e riviste



l'impegno verso i paesi del Terzo Mondo e per la salvaguar­ dia del nostro pianeta profuso da personaggi quali Vietar Papanek che, nei primi anni '70, per superare l'impasse del design - fra tutte le professioni, una delle più dannose (...) una fra le più false - proponeva di bussare a porte

mai aperte prima(...) l'Unesco, l'Unicef e molte altre or­ ganizzazioni (di diverso colore politico) in centinaia di aree che si interessano del problema delle necessità otti­ mali di sopravvivenza umana al fine di rendere finalmente la professione strumento, non più nelle mani della pro­ duzione, ma della popolazioneJ0 ; Gui Bonsiepe, con la sua

proposta di design come strumento di decolonizzazione dei paesi della periferia contro gli eccessi del capitalismo. con­ cretizzatasi nella breve esperienza didattica nel Cile di Uni­ tad PopularJ '; Lina Bo Bardi con le sue ricerche nel Nord Est del Brasile, mosse dal disperato tentativo di dire no, di proteggere la cultura popolare - un contributo indigesto, secco, duro da digerire - dall'industriai izzazione e dal I' a­ mericanizzazione selvaggia-' 2• Quanto di tali esperienze è possibile recuperare? Quali etiche si aprono al design contemporaneo? Aiutiamoci ancora con alcune considerazioni di Wei­ schedel. Il filosofo tedesco dedica la parte conclusiva del suo saggio agli atteggiamenti etici fondamentali (... ) per il pensatore odierno che prenda sul serio tanto la situa­ zione del tempo, determinata dallo scetticismo, quanto il compito eticoJJ _ li primo atteggiamento, scrive Weischedel, è quello dell'apertura intesa come disponibilità di fondo nei confronti degli altri. figlia della consapevolezza di non essere aproblematicamente giusto; un atteggiamento che si concretizza in singoli predisposizioni: la veracità e cioè

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l'essere aperti per la cosa com'è in verità e esporla aper­ tamente; l'obiettività che si esprime in particolare nel dia­ logo e nella discussione; l'accettazione che equivale a ri­ nunciare a voler disporre dell'altro; la tolleranza che si­ gnifica accettare l'opinione e il comportamento altrui; la compassione, intesa come com-partecipazione al doloré'. Il secondo atteggiamento derivante dall'imposta-



degli oggetti, in una relazione con culture diverse3K. An­ che dal punto di vista produttivo il tema è al centro di inte­ resse. Si pensi, ad esempio, alle esperienze condotte da Ugo La Pietra ad Abitare il Tempo con le mostre Genius Loci e, poi, Progetti e Territori; al successo della linea Mondo di Cappellini con il suo mischiare insieme metodi di lavora­ zioni artigianali anche antichissimi (...), materiali de­ sueti ma recuperati con valenze formali diverse, e poi re­ ferenti storici, etnici, vernacolari·w. Ma una sfida che è an­ cora ben lungi dall'essere vinta sul piano più concreto delle scelte tipologiche e funzionali: il problema si manifesta in tutta la sua evidenza soprattutto nei luoghi pubblici, dalle scuole con l'ora di religione che, inevitabilmente tenderà sempre più a configurarsi come ora di religioni con inevita­ bili implicazioni non solo spaziali ma coinvolgenti anche gli oggetti che tali spazi determinano; agli ospedali (si pensi al problema della realizzazione di luoghi per il culto di reli­ gioni diverse); ai posti di lavoro dove sarà necessario ade­ guarsi alle esigenze dettate dai nuovi ritmi ed orari. Altri sono ancora i settori in cui questo impegno deve concretizzarsi. Si pensi a quanto poco finora il design si sia confrontato con le tematiche della disabilità e, più in gene­ rale, della diversità non solo etnica - siamo di fronte a quella che Weischedel definisce com-partecipazione al dolore dell'altro, ma anche responsabilità verso gli altri, solidarietà. Tematiche che, purtroppo, nel migliore dei casi, rimangono interessante terreno di esercitazioni didatti­ che, magari pluripremiate nei concorsi internazionali, senza produrre però applicazioni concrete. Lodevoli, in tal senso, le iniziative promosse dall'Istituto Italiano per il Design e la Disabilità nell'intento di sensibilizzare pubblico e progetti­ sti alla condizione di nuova normalità che caratterizza la so­ cietà contemporanea; o l'interessante mostra Kid size. Mo­ bel und Objekte fiir Kinder recentemente organizzata dal Vitra Museum accompagnata da un esauriente catalogo40• Come non pensare, poi, riflettendo sul concetto di «di­ stacco», proposto da Weischedel - che si concretizza, tra 32 l'altro, nella «rinuncia», nel cambiare cioè l'intimo modo di



tesa, non come «squallida uniformità», ma come «l'arte di dare a ciascuno il suo», ci piace richiamare la necessità im­ pellente di una nuova etica delle forme che, basandosi su una riduzione linguistica, contrasti l'ancora diffusa ipertro­ fia comunicativa. Non parliamo di quel Minimalismo che talvolta pare vincente - si pensi a quanto visto all'ultimo Salone del Mobile di Milano, - l'ennesimo stile, un appiat­ timento generalizzato, un semplice velo steso a nascondere una preoccupante mancanza di ricerca. La riduzione, scri­ vevamo ne Le parole de/l'Ecodesign, deve essere rag­ giunta agendo sui significanti senza perdere la valenza

simbolica dell'oggetto che, per colpire l'osservatore di­

stratto e frettoloso e vincere il rumore che ci circonda, ha bisogno di caricarsi di significati più profondi, quasi

archetipi e primordiali che lascino grande spazio alla li­

bera interpretazione di ognuno. Per prodotti allo stesso tempo semplici e complessi, contemporaneamente più 'lievi' e più 'densi' 44•

Queste le possibili strade che si presentano ad un pro­ gettista di nuovo attento alla sua funzione sociale. Sappiamo che nell'esprimere tali considerazioni ri­ schiamo, inevitabilmente, di essere accusati di quella che Arnold Gehlen definisce tirannia dell'ipertrofia morale, propria di chi, non avendo alcuna responsabilità, può svi­ luppare 4

ethos

rigogliosamente fino all'eccesso

il proprio

�.

Alla nostra attività di progettisti il compito di smontare tale accusa. 1 I contenuti es pressi in questo articolo - oltreché presenti in li

pmge110 possibile. Verso 111w nuova erica del design, Edicom, Monfal­

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cone (Gz ) 1998 - sono frullo delle discussioni emerse in un seminario sul Design Sociale tenuto presso r I sia di Firenze con gli studenti del terzo e quarto anno di corso. A loro il merito di avere stimolato ed ac­ cresciuto, allravcrso continui suggerimenti ed indicazioni, la consa!)(!­ volczza di tali tematiche. 2 Cfr. J.F. LvoTA1m. La condirion posrmodeme, Les editions dc Minuit. Paris 1979; trad. il. a cura di C. F<>RMENTI, La c:ondiz.im1e po.wno-



citato in M. B1sT01.l'I, La HfG di Ulm: ,çperanze, sviluppo e c:risi. in «Rassegna» n. 19, 1984 2" Per il concetto di «creati viti\ di massa» cfr .• tra l'altro, E. Sorr­ SI\SS, Come disegnare 11110 Yanrra, 1969. in F. D1 CI\STRo (a cura di), Sorr.ms.ç'.ç ,çc:rap book, Documenti di Casabella. Milano 1976. 2'> C. 81\RTOJ.1, P. B1n-nN1, Ci-rc:uiro d'oggerri - il design inreso c:ome sen•i:'.io f1er la c:omunirà, «Cnsnbclla» nn. '.B9-340, 1969. :,e, Cfr. V. P/\1'1\NEK, Design _{or rhe Real W(}r/d. 1970; trad. it. a cura di G. Morbelli. Progerrare per il m(}ndo reale, Mondadori, Milano 1973. ·" Cfr. G. BoNSIEl'E, Teoria e prarica del disegno indusrriale. E/e­ menri per una manualisric:a c:riric:a, Fcltrinelli, Milano 1975. ·'2 Cfr. L. Bo 81\Rlll, L'impa.çse del design. L'esf1erienza del Nordesr del Brasile, Charta. Milano 1995. )) W. WEJSCHEDEI., Of'. C:Ìf., p. 193. "'lvi, pp. 195-197 e 206-212. )� lvi, pp. 199-201 e 213-219. :,,, lvi. pp. 201-206 e 220-223. 7 ) L. Prn.JNORO, La c:reoliz.zazione, in F. MOJ{I\CE (a cura di), Le er­ nie domesric:he: ma c:he ra;:.za di spazio!, in «Interni» n. 422, 1992. )K F. Bu1{Kl·JI\IU>T, Regionalismo e culrura dell'idenrirà, in «Interni Annual», 1993. )'' P. NI\VONE, Cirradini del mondo, in F. MoRI\CE (a cura di), op. c:it. •u Kid size. Miibel ,md Objekre.fùr Kinder, Skira, Milano 1997. •• Editoriale, Pop11/ar design, in «Casab_ella» n. 329. 1968. •2 A. UDElffl\ZZI. Pmgeuare la qualirà degli spazi pubblici in In., Il derraglio urbano. Pmgerrare la qualirà de/i Sf'OZÌ f'Ubblici, Maggioli. Rimini 1998, p. 22. •) G. Luni, De.çign: anc:(}ra sullo sviluppo .msrenibile, in «Op. cit.» n. 98, 1997. .. G. Luni (a cura di), Le parole del/'ec:odesign. Un glossario per navigare la c:omplessirà del progerto .wsrenibile, Edicom, Monfalcone (Gz) 1998. p. 20. •� Citato in W. WE1scHE1JE1., op. c:ir., p. 103.

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