Op. cit., 105, maggio 1999

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica ct¡arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Alessandra de Martini Marina Montuori, Livio Sacchi Segretaria di redazione: Rosa Lolito Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2-Tel. 7690783 Ammi11isirazio11e: 80122 Napoli, Via Francesco Caracciolo, 13 - Tel. 7614682 Un fascicolo separato L. 8.000 (compresa IVA) - Estero L. 9.000 Redattori:

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Electa Napoli


A. CASTAGNARO, E. VOLPATO, S. MACCHIA,

L'euroarchitetto

Il video d'artista nello spazio del museo Design e ergonomia oggi Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Paolo Bellini, Maria

Vittoria Capitanucci, Domitilla Dardi, Alessio J. D'Auria, Alessandra de Martini.


La rivista si avvale del contributo economico dei seguemi Istituti e Aziende: Alessi Camera di Commercio di Napoli Driade



formazione dell'architetto nella società contemporanea - è richiesta con urgenza: l'architettura e il mestiere di architetto attraversano una crisi dovuta alla rapida tra­ sformazione sociale, alle nuove esigenze del mercato del lavoro, al concetto di «villaggio globale» all'interno del quale siamo chiamati a confrontarci con nuove condi­ zioni materiali e culturali 1• Senza dubbio la formazione de1l'architelto deve subire, come già in parte sta avvenendo, modifiche che vanno attuate anche nella fase di transizione tra il conseguimento della laurea e l'inserimento nel mondo lavorativo. Le principali modifiche riguardano: i corsi di laurea e post-laurea, il tirocinio; l'esercizio professionale, gli ordini.

La formazione

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Sostanziali differenze esistono attualmente tra i vari paesi sull'iter formativo universitario, per le diversità di cul­ tura, di tradizione e di esperienze. Secondo una visuale, per così dire, minimalista, basterebbero soli tre anni per la for­ mazione essenziale di un architetto europeo senza un suc­ cessivo tirocinio; secondo altre prospettive non solo i. tre anni risultano insufficienti, ma anche le materie che in essi si studiano. Grosso modo si possono individuare due schie­ ramenti, quello dei paesi mediterranei - Italia, Spagna, Por­ togallo e Gre.cia - che dà maggior peso alla valorizzazione del patrimonio storico-artistico, alla cultura de11a salvaguar. dia dell'antico, ali'importanza della coesione tra antico e nuovo; e quello dei paesi nordici, capeggiati dalla Germa­ nia, che, limitandosi alla sola «tradizione del nuovo», si orientano verso una più sbrigativa, e quindi superficiale, formazione professionale. Alla fine, proprio quest'ultimo schieramento, più compatto, sembra prevalere, con conse­ guenze, a nostro avviso, assai preoccupanti. Monica Baldi, vice presidente della Commissione Cultura, Giovani, Edu­ cazione e Media del Parlamento Europeo osserva: in Europa si parla di cultura, di integrazione culturale, di co-


noscenza delle proprie origini e tradizioni. Poi, incredi­ bilmente, il parlamento se ne dimentica. Perché margi­ nalizza la professione che in questo momento può com­

piere la missione più importante sul patrimonio euro­

peo, quella dell'architetto. Proprio ora che nell'Unione Europea si stanno rivedendo i fondi strutturali ed un'at­ tenzione particolare viene dedicata ai centri storici2.

Le facoltà italiane, nonostante le continue riforme per

adeguarsi alle norme europee, sembrano lontane da aver

raggiunto questo come altri ob !ettivi. Purtroppo molti cam­ biamenti, già a poco tempo dall'attuazione, hanno rivelato i loro limiti per una molteplicità di motivi: carenza di strut­

ture adeguate, di attrezzature didattiche, di supporti infor­ matici, resistenza dei docenti ad affrontare nuove sperimen­

tazioni, di ffìcol Là economiche che rappresentano ovvia­

mente il fattore più determinante. Anche in altre nazioni si stanno tentando riforme, come in Francia ove recentemente

è stato approvato il nuovo piano di studi articolato in tre ci­

cli di due anni ciascuno: il primo per avviare lo studente allo studio degli elementi basilari dell'architettura; il secondo per fornirgli le conoscenze atte alla elaborazione del pro­ getto architettonico ed urbano; il terzo per prepararlo agli aspetti più operativi dèll 'àttività professionale.

Un problema di fondo sugli studi universitari è stato po­ sto da Kenneth Frampton. In un suo recente intervento nel

Convegno di Napoli dell'ottobre I 998, intitolato «L'archi- • tetto in Europa», egli sostiene che, nel mondo universitario,

la facoltà di architettura oggi assume una collocazione equi­

voca: non viene ritenuta disciplina umanistica né scienza di ricerca, né scienza applicata. A conferma delle ambiguità

che accompagnano l'idea di architettura stanno i profondi

contrasti tra i responsabili della docenza e infatti Frampton

cita il caso limite della Pennsylvania University, in cui tali

contrasti hanno indotto gli organi superiori a dare l'ingiun­

zione al preside di presentare le dimissioni. Come nota an­

cora Frampton, non si tratta di personali prese di posizione,

bensì di problemi strutturali più profondi. Inutile dire che è

potenzialn1ente impossibile dedicarsi al futuro della for-

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mazione architettonica e della professione dell'archi­ tetto nello stesso momento. Si viene presi tra il tentativo di ricambiare la formazione architettonica in base a ciò che può essere la domanda presente e futura della pro­ fessione di architetto e il tentativo di riformulare i me­ todi di istruzione correnti in base alla propria espe­ rienza di insegnamento. Data la legittimazione dell'ar­ chitettura da parte dell'università, gli architetti dete­ stano ammettere quanto il loro campo occupi una posi­ zione scomoda all'interno dcli' Accademia, senza consi­ derare se la base pedagogica è umanistica o scientifico­ tecnologica\ Nel proseguire la sue considerazioni, Framp­ ton giunge alla conclusione che l'architettura non è scienza, né arte, ma un mestiere. E si chiede: come si può insegnare un mestiere all'interno dell'università? Una risposta a tale quesito e una radicale posizione di fronte alla conciliabilità fra fonnazione e professione si possono trovare in un articolo di De Fusco. Poiché, almeno nella realtà italiana, la domanda di architellura è assai infe­ riore all'offerta (come vedremo più avanti), l'autore citato sottolinea le due esigenze che sono presenti nelle nostre fa­ coltà: un conto è il diritto allo studio, un altro è il diritto all'occupazione al termine degli studi; la loro coesi­ stenza in alcune facoltà, è una delle principali cause della disfunzione di quest'ultime. Infatti, coesistendo le due istanze non si agevola né l'una, né l'altra: insegnarf ed apprendere in vista di una finalità professionale, mentre depauperano ogni impostazione teorica e meto­ dologica, al tempo stesso non sono attività tanto pratiche «furbe» e scaltrite quanto occorre per affrontare le «lo­ giche» del mercato del lavoro. All'obiezione su chi abiliterà all'esercizio della profes­ sione, l'autore risponde: se esistesse come automatica la possibilità di un posto dopo la laurea, che ragion d'es­ sere avrebbero le scuole di specializzazione? quale magi­ strato è uscito direttamente dalla facoltà di giurispru­ denza e dalla stessa quale notaio, la professione che pare più redditizia? infine quale azienda privata assume un


laureato se non formandolo, dopo il conseguimento del diploma, alle proprie esigenze? Tutto ciò conferma la mia tesi di tenere separati gli studi dal lavoro4• A conclusione di questo paragrafo dedicato alla forma­ zione, notiamo che nel dibattito universitario le tematiche più frequenti riguardano la riduzione della durata del corso e l'insegnamento di discipline meramente pratiche orientate alla graficizzazione computerizzata ed alla «pratica di can­ tiere». Questo orientamento tuttavia sembra in contraddi­ zione, come s'è appena visto, con i dati statistici occupazio­ nali, in quanto la scarsa domanda di lavoro non va combat­ tuta con la svalutazione del titolo, bensì con un accresci­ mento culturale generalizzato e con il rafforzamento degli elementi fondamentali. già basilari delle facoltà di architet­ tura; quegli stessi elementi che De Fusco nel suo intervento al convegno di Napoli definisce «il tripode» formativo: area storica, area scientifica. area progettuale. In assenza di uno solo dei tre, sicuramente la facoltà di architettura non può non vacillare. Altro punto preoccupante del percorso forma­ tivo, ma post laurea, è quello della eccessiva specializza­ zione settoriale che, in un'epoca così influenzata dal rapido progresso tecnologico, è soggetta a continui mutamenti e passaggi di moda, sì da lasciare enormi lacune nello «spe­ cialista».

La professione

Da quanto emerge dai convegni sulla riforma delle li­ bere professioni e da quanto viene pubblicato sulle riviste specializzate è molto sentita l'esigenza di trovare un de­ nominatore comune europeo, tra le specifiche culture e tradizioni, in grado di attualizzare una uniformità di in­ dirizzi che - superando le consuetudini locali - apra alla nuova stagione di una tradizione comune�. In particolare si cerca di raggiungere un accordo sui principi di base della professione, in modo da limitare i più stridenti squilibri tra i paesi forti e quelli in via di sviluppo. L'unione internazio-

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nate degli architetti è l'organismo che da tempo ha tentato di raggiungere questo obiettivo, ma non è il solo, poiché ve ne sono altri con gli stessi intenti tra cui il Consiglio d'Europa, costituito da varie commissioni che cercano posizioni co­ muni tra i paesi membri con tematiche affini, in quanto l'e­ sperienza degli accordi bilaterali fra stati ha rivelato le profonde differenze degli standard educativi, del tirocinio e dei codici deontologici. La bozza di accordo UIA sugli stan­ dard professionali parte da una delìnizione dei principi del professionismo e quindi delle responsabilità e dell'autono­ mia dell'architetto. Questa bozza mira a definire le capacità e le competenze richieste, l'iter educativo universitario, i criteri minimi per l'accreditamento ed il riconoscimento in­ ternazionale del titolo, l'obbligatorietà e le modalità del ti­ rocinio professionale, la certificazione ufficiale e legale del titolo, un codice etico di comportamento, gli scopi e le mo­ dalità della pratica professionale anche in relazione allo svolgimento di quest'ultima per il rispetto delle locali con­ dizioni nom1ative, culturali e sociali. Ma porsi interrogativi sugli esiti di tali proposte e direttive diventa quasi obbliga­ torio perché esse riguardano indiscriminatamente paesi e realtà in cui non solo queste problematiche restano tuttora irrisolte, ma molto spesso sono affrontate e studiate in modo totalmente diverso per le differenti realtà di vita. Il citato intervento di Frampton tocca anche gli aspetti più organizzativi e professionali. Egli imputa molte disfun­ zioni al fenomeno della deregulation. A suo avviso, la Co­

munità europea ha già cominciato ad assumere un atteg­

giamento piuttosto ambivalente nei confronti dell'archi­ tettura, soprattutto attraverso il suo appoggio deregola­ mentare come mezzo per incoraggiare la competitività del libero mercato tra diversi stati membri''. In base a que­

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sto programma, l'autore americano passa in rassegna i vari cambiamenti avvenuti negli ultimi trent'anni, a cominciare dalla Spagna in cui il vecchio sistema decentrato dei Collegi - che ha avuto un ruolo produttivo nel mantenimento degli standard professionali nell'intero Paese e nel patronato della cultura architettonica su un piano locale - oggi è stato prati-


camente eliminato a seguito delle forti pressioni da parte della Comunità Europea. Si possono citare altre situazioni in cui la tradizione, la politica culturale contemporanea ed il maggior nu­ mero di professionisti si sono intersecati in modo tale da creare un clima architettonico che differisce totalmente da Paese a Paese. Mi riferisco in particolare alla Francia e alla Finlandia. Nel primo caso, mi vengono in mente le sovvenzioni statali elargite finora, a partire dalla gara d'appalto del 1972 per la costruzione del Centre Pompi­ dou. Nel secondo caso, faccio riferimento all'unica forma di patronato architettonico della Finlandia ed in particolare al suo sistema di gara d'appalto. Così, per contrasto, si può notare che nei Paesi anglosassoni non è mai esistito un sistema di gara d'appalto, tranne che in particolari occasioni casuali. Un fenomeno altrettanto deludente ci è fornito dall'Italia dove, nonostante l'esi­ stenza di un sistema di gare d'appalto, solo pochissimi progetti vincenti sono poi effettivamente utilizzati per costruzioni7. In una recente intervista il ministro dei Beni e delle At­ tività culturali Giovanna Melandri, partecipando ad una ma­ nifestazione denominata «Festa dell'architettura», ha soste­ nuto: sono fermamente convinta che sia necessario sce­ gliere la cultura come uno dei principali settori per co­ struire un nuovo armonico duraturo sviluppo per il no­ stro Paese. Non possiamo permettere ulteriormente che ad una lunghissima stagione creativa che per secoli ha proposto i massimi livelli dell'arte, segua una stagione come quella odierna spesso incapace di comunicare con la natura e con quanto già costruito. Non dobbiamo per­ mettere che le generazioni future ricevano in eredità dal presente solo brutte periferie urbane o gli edifici non finiti tipici del costruire abusivo incurante delle regole dell'alfabeto m1mmo del progettare. Per almeno trent'anni l'architettura è uscita dal radar delle politiche pubbliche: il risultato è che abbiamo perso intere ge­ nerazioni di architetti, non possiamo permetterci di per-

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derne un'altra. Si difende l'antico anche migliorando la qualità del nuovo, permettendo cioè al nuovo di presen­ tarsi nelle forme migliori e dialogare intelligentemente con ciò che già c'è, con la natura, con l'ambiente. Dob­ biamo far sì che l'architettura torni ad essere un segno della civiltàx. Come non concordare con questi sani propo­ siti? Ma vediamo, per dir così, di attraversare quel mare che sta in mezzo tra il dire e il fare. Anzitutto ci tocca prendere atto di un paradosso tipico della situazione professionale italiana. Da un lato infatti, mentre il rapporto fra i laureati in architettura e la popola­ zione è con il suo O, 14% il più allo in Europa, al tempo stesso, un'indagine statistica del 1974 dimostrò che i metri cubi realizzati in Italia dagli architetti oscillavano tra il 2% e il 3% dell'edificato totale. Come si vede, con buona pace delle statistiche e ad aggravare la situazione, non è la cate­ goria degli architetti quella che effettivamente costruisce. Né confortanti sono gli altri dati statistici. In paesi quali la Francia, la Gran Bretagna, l'Olanda, la Svezia, l'Austria e il Portogallo si registra un rapporto fra architetti e popola­ zione di circa lo O, 05%. Se ne deduce che in ogni caso in Italia l'offerta di lavoro professionale è di gran lunga mag­ giore della domanda. La contraddizione si aggrava se si considerano i provvedimenti e le riforme universitarie che si vanno proponendo, nonostante il citato divario fra domanda ed offerta: ad imitazione di altri paesi dove la prima sembra prevalere sulla seconda già si è istitutita la «laurea breve» e si prevede anche la riduzione degli anni per gli stessi corsi regolari, fortunatamente rifiutata dagli ordini professionali. Con tutto l'ottimismo possibile non riusciamo a capire non solo questa logica della quantificazione, ma anche come una più razionale organizzazione europea possa contribuire a risolvere i nostri problemi e le relative contraddizioni. Una cosa sembra certa, queste non possono trovare soluzioni ac­ celerando i tempi di formazione professionale, imitando istituzioni che ci sono estranee e in definitiva quantificando i laureati, bensì qualificando quei pochi che effettivamente sono utilizzabili nella produzione edilizia, nel restauro,


nella tutela dei beni culturali e in quant'altro pertiene al no­ stro mestiere. Un'altra considerazione da fare prendendo lo spunto dal concetto che la «cultura» costituisca oltre un valore in sé an­ che una risorsa economica sta nel seguente chiarimento. Sono anni che sentiamo ripetere questa duplice valenza at­ tribuita al nostro patrimonio storico-artistico, al punto che oggi è divenuto un leitmotiv consolatorio ma niente affatto operante. Quale risorsa economica è venuta da esso? Poco contano gli introiti dei biglietti d'ingresso ai musei, tant'è che in alcune altre città d'arte europee essi sono stati addi­ rittura aboliti; certo. il turismo è un'industria nazionale, ma quanto effellivamente ricaviamo dalla «cultura» e quanto invece dal patrimonio naturale? In breve ai fini turistici non contano, poniamo, più i faraglioni che il succorpo del duomo di Napoli, un capolavoro che solo pochi conoscono e nessun turista visita? In sintesi, a nostro avviso, per le opere d'arte e i monumenti è più opportuno e realistico spendere, investire, pubblicizzare che ricavare utili finan: ziari. Lo dimostra il fatto che si sono inventati concorsi e lotterie per sostenere gli oneri della conservazione del no­ stro patrimonio. Un altro motivo di rinessione è l'assunto che l'Italia possiede più della metà dei beni culturali di tutto il resto del mondo. Ammesso che ciò sia vero, in quella percentuale che po­ sto occupano tra reperti archeologici, capolavori di pittura, scultura, alto artigianato, ecc. le opere puramente architetto­ niche? Inoltre, se è vero che siamo circondati da tanta ric­ chezza storico-artistica, è altrettanto vero che forse in nes­ sun altro paese d'Europa si è perpetrata tanta distruzione di ambienti storici e soprattutto naturali. Non arriviamo a ·so­ stenere che l'orgoglio debba essere mitigato dalla mortifica­ zione; non è questo il problema, bensì quello di una politica culturale tendente ad equilibrare beni e mali culturali, a ren­ dere i primi modelli degli altri; valga per tutti il caso del ri­ sanamento delle periferie.

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L'Italia in Europa

In una collana di testi dal titolo L'Italia e la formazione della cultura europea, edita pochi anni or sono, figurava un

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volume dedicato all'architettura e alle arti applicate. In esso si tentava un excursus storico dei vari stili, dall'eta romanica a quella contemporanea, di riconoscere, per così dire, non tanto l'influenza dell'architettura italiana sul resto d'Eu­ ropa, quanto soprattutto di cogliere, periodo per periodo, gli scambievoli apporti, per così dire, il dare e l'avere. Ne sca­ turiva un quadro assai utile, peraltro associahile anche agli effetti delle diverse politiche culturali, fino all'egemonia di qualcuna sulle altre. Ma se questo valeva per il passato, oggi la situazione è o sembra camhiata. La tendenza verso l'unione degli stati eu­ ropei richiede un opportuna parilìcazione sia politica che culturale, almeno per gli aspetti più pragmatici e professio­ nali di quest'ultima. Tuttavia, fino a che punto la tendenza all'unificazione, il denominatore comune, la validità del ti­ tolo di studio per tutti i paesi della Comunità e quant'altro concerne almeno gli aspetti pratici del problema, non im­ plica il rischio di un livellamento e di una omologazione dei linguaggi e delle produzioni nazionali? A questo punto il discorso va fatto soprattutto sul piano della tanto invocata «cultura». Le vie non possono essere che due: o si tende senza ipocrisie ed infingimenti proprio ad uno «stile europeo» -e i precedenti, come vedremo, non mancano - oppure si tende ad una ulteriore caratterizza­ zione degli apporti nazionali. Quanto alla prima yia, a proposito dell'origine del Ro­ manico, Cesare Brandi scrive: hanno ragione o torto tutti, da chi lo vuole nato in Francia, o in Germania dall'ar­ chitettura carolingia, o anche in Spagna: dovunque, le sue origini sono radicate nella tarda romanità, nei mo­ numenti superstiti dell'Impero romano, nelle tecniche romane[...]. L'architettura lombarda precedP. !!,icnrA­ mente il Romanico francese, che però si diffonde subito anche in Italia per una osmosi quasi irrefrenabile, attra-


verso quelle arterie costituite dal propagarsi degli ordini religiosi e delle strade dei pellegrinaggi. Donde un asse­ stamento di livelli quasi immediato nell'ambito della Romania, sicché i monumenti più determinanti sono poi come a contatto di gomito nel tempo, sia in Italia che in Provenza e in Spagna9 •

Quanto alla più complessa seconda via, quella che ac­ centua le caratterizzazioni nazionali - si ricordi il termine E11g/ish11ess usato da Pevsner per designare i caratteri arti­ stico-architettonici inglesi - essa richiederebbe una ricerca di specificità diversa da quella tradizionale e impostata ad

hoc.

Ritornando ali' alta percentuale di opere ed ambienti monumentali italiani, il posto del nostro paese nel contesto delle culture architettoniche europee dovrebbe essere quello di curare maggiormente tale patrimonio, privilegiando la modificazione dell'esistente, la conservazione, il restauro rispetto alle fabbriche da costruire ex novo. Ma questa tesi, senza dubbio ragionevole, non può esau­ rire il proposito di individuare l'italianità dell'architettura italiana; quindi è solo in parte convincente. Che forse gli al­ tri paesi europei non siano altrettanto ricchi di monumenti ed ambienti? Non è evidentemente su un rapporto percen­ tuale che può basarsi la nostra partecipazione con caratteri­ stiche specifiche al concerto della cultura architettonico-ur­ banistica europea. Si tratta piuttosto di individuare sia la no­ stra che le altre specificità al fine di stare sì nel concerto, ma suonando al meglio ognuno il proprio strumento. Né tale compito può affidarsi alle ottimistiche previsioni di mobi­ lità, di scambi, di consolanti luoghi comuni sul nostro po­ tenziale creativo. In un saggio di Ferdinando Bologna, si pone l'alterna­ tiva se da Giotto in poi, si possa parlare di una unità, sia pure tendenziale, dell'arte italiana oppure si debba sostenere la prevalenza del pluralismo nella nostra produzione artistica. La risposta a questa alternativa, analoga all'altra formulata da Giuseppe Galasso per la generale storiografia italiana, è che il carattere unitario dell'arte d'Italia vada individuato

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nel sistema della sua diversità. Già trattando del Medioevo, Bologna scrive: «l'italianità insomma, si vien sin d'ora de­ finendo come policentrismo sistematico» 10• Il giudizio con la relativa indicazione critica ci sembra attualmente mutatis mutandis applicabile ad ogni paese e alla Comunità intera nel suo insieme. Del resto, ciò che un tempo poteva sostenersi quale realtà o quale tendenza ri­ scontrabile in una singola nazione, oggi va pensato almeno per un intero continente. L'idea di un policentrismo siste­ matico infatti, da un lato garantisce l'unità e dall'altro la pluralità dei singoli apporti architettonici. Il che ha un ri­ scontro anche pratico: ciò che serve ad unificare va perse­ guito; ciò che può portare al livellamento e all'omologa­ zione va combattuto. Con tutto il rispetto per i geniali casi d'eccezione, è assai probabile che la Comunità europea ren­ derà più facile l'azione dello «star system» così come si sta verificando sempre più spesso, il che vanifica l'intera pro­ blematica finora discussa.

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1998.

Introduzione a Un c:mll'egno a Napoli, in «L'Architetto». n. I3 I,

2 M. BALDI. Valoriu.are l'an:hitetto per l'alori::.are il patrimonio culturale. in «L'Architetto». n. 133, 1999. ) K. FRAMPTON, Osserva::.ioni sull'attuale crisi nella pn,(essim1e; il ruolo della forma::.ione e i limiti di pmc:edura (intervento al citato

Convegno di Napoli). 4 R.DE Fusco, Università e oc:c:upaz.ione, ne «Il Mattino» del 3/3/99. � Introduzione a U11 ,:onveg110 a Napoli. cit. � K. FRAMPTON, op. cit. 1 Ibidem.

x G. MELANDRI, Una legge per /'architettura. in «L'Architetto», n. 133, 1999. '' C. BRANDI, Disegno dell'an.:hitettura italiana. Einaudi. Torino 1985. pp. 8-9. w F. BOLOGNA. La coscienza ,çtorica dell'arte d'Italia. introdu­ zione alla Storia dell'arte in Italia, UTET. Torino 1982. p. 14.

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guarsi ai differenti allestimenti ma, mentre nel caso delle in­ stallazioni e delle diverse forme di a_rte site specijic la possi­ bilità di modificazione è una scelta programmatica in cui si esplica gran parte del senso dell'opera, nel caso del video si tratta di una possibilità indipendente dalla scelta dell'artista perché inerente alla flessibilità del prodotto tecnologico, e spesso gestita con leggerezza dagli spazi espositivi che uti­ lizzano il proprio potere di modificazione come se le scelte a disposizione (monitor, proiezione, installazione, luci) fos­ sero perfettamente intercambiabili. Questo pone il museo in una situazione di co-autorialità che per essere realmente si­ gnificativa deve innanzitutto divenire consapevole, deve cioè comporsi di scelte basate su un puntuale studio filolo­ gico delle opere da cui trarre le indicazioni per un'esposi­ zione non falsificante. Diventa allora necessario ricostruire le ragioni storiche della conflittualità del video con il museo per sciogliere i nodi pregiudiziali delle pratiche curatoriali e fornire delle indicazioni di massima per una esposizione il più possibile corretta delle opere, soprattutto quelle dei decenni passati poiché la correttezza della scelta del curatore dipende da un'analisi filologica delle caratteristiche dell'opera. Con­ temporaneamente a questo lavoro storico si apre però lo spazio per un'indagine sugli attuali orientamenti dell'espo­ sizione del video nel museo nei quali, credo, ci sia lo spazio per ravvisare importanti indicazioni non solo sul senso delle modificazioni del video come mezzo d'espressione, ma an­ che sul generale processo di modificazione che si sta verifi­ cando nei musei e negli spazi espositivi. La storia del rapporto conllittuale tra le diverse forme artistiche del video e lo spazio museale è alquanto com­ plessa. La molteplicità degli aspetti teorici e pratici che en­ trano in gioco fanno sì che tale storia si riveli come una delle migliori strade alternative per individuare alcuni dei temi e delle problematiche fondamentali di questa forma d'arte. Alla luce dei deludenti tentativi che si sono compiuti in que­ sta direzione si comprende che vi sia la necessità di trovare I 8 un percorso diverso per ricostruire la storia del video d'arti-


sta. Non esistono trattazioni esaustive di questa materia né per la produzione europea, né per quella statunitense. Ciò

che abbiamo non è molto più di un racconto mitico fatto di

pochi personaggi ed eventi 1 • I mille differenti aspetti della

video arte e le diverse esperienze artistiche che ne hanno fatto parte si ritrovano semplificate in scarne genealogie di

artisti e in sbrigative cronologie di mostre e festival.

Ricostruirne la storia per percorsi differenti significa

cercare di distogliere l'attenzione dall'ingombrante pre­ senza del mezzo tecnologico che ha spesso trasformato il di­

scorso critico in un continuo annuncio di nuovi mondi futuri

senza che ci sia stata una sincera volontà di guardare al pre­ sente e alle sue connessioni con la più ampia ricerca arti­ stica contemporanea. Ma, ancor più, la centralità della tec­ nologia è stata determinante nell'impoverire una parte im­

portante della sperimentazione degli artisti, rendendola

espressione dei significati e delle retoriche che il mezzo

portava con sé dalla fabbrica e dalla sua utilizzazione mass­ mediologica. Nonostante all'inizio degli anni '70, nei cosiddetti anni

eroici della sperimentazione pionieristica del video, una

delle principali ragioni che potevano spingere un artista a cimentarsi con il portapack2 fosse la volontà di affrancare il

proprio lavoro dalla mediazione degli spazi e dei ruoli isti­ tuzionali, sta di fatto che proprio nei musei, nelle scuole d'arte e attraverso le sovvenzioni pubbliche la video arte

trovò negli Stati Uniti e in molti centri europei le condizioni

di libertà e supporto necessarie per il suo sviluppo. Del re­

sto, se è vero che il video d'artista fu a lungo l'arte anti-isti­

tuzionale per eccellenza, il vero bersaglio degli artisti nel

connivenza tra mu­ art world a cui si doveva la trasformazione

criticare le istituzioni era il rapporto di

sei, mercato e

dell'opera in prodotto d'élite. Gli artisti nel condurre questa loro protesta trovarono dei sostenitori proprio all'interno di

alcune istituzioni sperimentali che misero a disposizione i

loro spazi e i loro mezzi svolgendo un indispensabile ruolo

di coordinamento e collegamento tra i primi centri.

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Le ragioni storiche della c.onflittualità L a prima occasione d'inserimento del video all'interno dei musei non fu però di natura propriamente artistica e non riguardò neppure gli spazi espositivi del percorso museale. Fu infatti utilizzato a partire dalla fine degli anni '50 da al­ cuni musei statunitensi come strumento didattico J . Alcuni incominciarono a girare documentari e lezioni sulle proprie collezioni, incoraggiati anche dall'interessamento che nei primi anni della televisione alcune emittenti dimostravano per i servizi a taglio culturale. Il video nell'avvicinarsi alla sfera artistica percorse in­ somma tappe molto simili a quelle che la fotografia e il film avevano a loro volta attraversato. In questa prima forma di utilizzazione si nasconde però la prima ambiguità del video a metà fra il documento e l'opera d'arte. Questo apparve chiaro alla fine degli anni '60 a contatto con espressioni ar­ tistiche performative e amhientali4 per le quali la video-re­ f gistrazione of riva al museo la possihilità di una parziale 'ri­ materializzazione' dell'opera d'arte. Restituiva cioè alla storia dell'arte la possibilità di analisi che è imprescindibil­ mente legata alla possibilità di rivedere l'opera nella cui permanenza s'incapsulano i diversi aspetti del concetto di valore. Allo stesso tempo sopperiva all'impossibilità del . collezionismo diretto dell'atto artistico con il feticcio della videocassetta. E in questo risiede il peccato originale del vi­ deo che portò artisti come Allan Kaprow� che si erano avvi­ cinati a questo mezzo per breve tempo a condannarlo come un deludente ritorno dell'arte al prodotto. Così a metà degli anni '70 il nuovo interesse attorno a questa forma d'arte

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sembrò trasformare per un attimo l'arte anti-istituzionale per eccellenza nell'ultima trovata commerciale delle galle­ rie newyorkesi, ma fu presto chiaro che le caratteristiche del video non lasciavano troppo spazio ai diversi tentativi di commerciai izzazione. L'aspetto più interessante del primo assistelltato del vi­ deo all'interno del museo va ricercato nella sua capacità di affiancare, e per certi aspetti sostituire, lo spazio espositivo;


in altre parole, il suo utilizzo documentario e didattico muove dal presupposto di una compatibilità e somiglianza tra i meccanismi elementari di storicizzazione propri del percorso museale (sequenza e giustapposizione delle opere, corredo esplicativo ecc.) e la natura temporale e sinestetica del video. Una supposta compatibilità che si dimostra sin da subito problematica poiché eredita tutti i difetti di presenta­ zione che già si erano notali per il film documentario e il cri­ tofilm6, anche se questi cosiddetti difetti, alla luce di una considerazione dei risultati in grado di andare oltre una mera verifica di funzionalità, sono i primi indici della capa­ cità di trasformazione espressiva che l'immagine video possiede. È una trasformazione che agisce sul materiale ar­ tistico nel momento stesso in cui viene catturato dal video all'interno del proprio flusso temporale. Attorno a questa capacità del video di costituire uno spa­ zio per certi aspetti alternativo all'esperienza della visita . museale, si sviluppò il sogno del museum without walls, un museo nuovo, proiettato oltre il confine dell'edificio, pronto a spendersi nello spazio sociale attraverso un medium di massa come la televisione. Anèhe se ben presto ci si rese conto che il video sarebbe potuto essere soltanto uno spazio aggiunto e non sostitutivo, alcune istituzioni sperimentali coltivarono questo sogno, mosse dal desiderio di affiancare le neo-avanguardie, e di creare un contesto d'azione più che d'esposizione per un'arte che desiderava respirare nel tempo presente della vita. Il mezzo televisivo sembrava poter trasformare il museo in uno spazio fatto solo di tempo e di idee. Lo scopo era quello di restituire all'artista e al suo lavoro quel potere politico di comunicazione che la natura elitaria e conservativa del museo annullava a favore di una risemantizzazione esclusivamente estetica del messaggio. È questo un dibattito che offre indicazioni di estrema impor­ tanza, non tanto dal punto di vista delle effettive realizza­ zioni, che anzi vennero a mancare, ma per le evidenti affinità con l'attuale dibaltito museografico sull'utilizzo delle risorse digitali e informatiche. Ripercorrere le discussioni di allora, per quanto non ci sia lo spazio per farlo in questo ar- 21


licolo, credo potrebbe evitare molle illusioni e molte paure di oggi. Il nucleo del rapporto di conflittualità tra video e museo ha luogo quando il video diventa nelle mani degli artisti un mezzo dirello d'espressione, un elemento costituente e non più semplice supporto dell'opera d'arte. A rendere estremamente problematico il suo status di oggetto artistico è in primo luogo la sua lontananza dai ca­ noni di autenticità dell'arte. Un evidente fattore di esclu­ sione risiede nella facilità di duplicazione che elimina l'uni­ cità dell'opera e con essa il suo primo nucleo di autenticità, poiché, all'inlerno di un'ottica collezionistica, la copia e il multiplo possono avere un senso solo se la loro distanza dal­ l'originale è quantitativamente, e dunque economicamente misurabile. Ma, sempre in termini di autenticità, l'elemento di maggior peso nella mancata accettazione del video come linguaggio artistico fu senza dubbio la sua natura tecnolo­ gica. La tecnologia si distanzia dalle tradizionali tecniche di pittura e scultura (la cui evoluzione è del tutto coincidente col percorso dell'arte, perché sviluppatesi all'interno di quel percorso), per una capacità di parola in più che lo stesso termine tecnologia rivela nella propria composi­ zione. Capacità di parola che è portatrice di significati au­ tonomi rispetto a quelli dell'arte, legati al progresso delle conoscenze scientifiche e alle sue utilizzazioni pratiche. Nel caso del video, molto più di quanto non accada per la foto­ grafia, l'aspetto tecnologico invade tanto la composizione dell'opera quanto lo spazio espositivo che la ospita. Mi rife­ risco all'ingombrante presenza fisica del monitor e del proiettore che altera gli equilibri del museo introducendovi prodotti di origine industriale7 • Quanto questo fosse contra­ rio alle regole implicite del museo alla fine degli anni ses­ santa lo si comprende pensando a quale peso avesse nelle teorie moderniste la convinzione che l'arte fosse l'ultimo baluardo di resistenza al diffondersi della spersonalizza­ zione di una realtà sociale invasa dagli oggetti di produzione 22 di massa. Negli Stati Uniti, il primo paese in cui la video


arte abbia avuto una vasta sperimentazione, il modello mu­ seale principe era offerto dal Museum of Modem Art di New York, tempio, come si usa dire, della pittura moderni­ sta in cui critici come Meyer Shapiro vedevano l'ultimo esempio di espressione vera di un individuo, ultimo rifugio della creazione manuale 8• L'oggetto fatto a mano porta la traccia, il segno individuante di coloro che l'hanno creato, in altre parole conserva gli elementi fondanti dell'espe­ rienza artistica autentica: la cifra e la firma dell'artista. Ap­ pare chiaro come il monitor introduces�e nel museo moder­ nista un'eco intollerabile di fabbrica e di televisione. Nelle opere video dunque all'inautenticità della copia si univa l'i­ nautenticità spersonalizzante del prodotto industriale. Nonostante il ruolo del prodotto industriale sia innega­ bile nello sviluppo della video arte e soprattutto in determi­ nate fasi del ricambio tecnologico, soltanto il pregiudizio del determinismo tecnologico poteva portare a pensare che la cifra dell'artista fosse destinata ad annullarsi nell'u­ niforme righettatura �el monitor. Del resto, il sentimento d'intimità, e dunque il senso di verità, che Shapiro voleva trovare nell'opera di pittori e scultori del suo tempo tornerà prepotente nella storia della video arte, a partire dalle pri­ missime performance vicine alla body art fino ai video diari degli anni '90. Proprio l'intimità e la solitudine dell'indivi­ duo di fronte alla macchina da presa fu una di quelle carat­ teristiche qualificanti che il dibattito formalista individuò nella sua ricerca di definizione della natura del video, ma anche quest'aspetto andava contro il museo-rifugio moder­ nista poiché la scoperta dell'individuo all'interno dell'opera non passava attraverso la mediazione del segno, ma inve­ stiva l'osservatore senza bisogno di decodificazioni. Quella dei videoartisti, soprattutto negli anni settanta, era un• inti­ mità scoperta ed aggressiva, fastidiosamente espressa nello stesso registro di realtà del notiziario televisivo. Una terza accusa d'inautenticità dell'opera video deri­ vava alla critica e ai musei dal legato rigidamente normativo di Clement Greenberg. Al suo formalismo critico si era ri­ fatta la stessa video arte e i primi critici che ne tentarono l'a- 23


nalisi, perché in esso la ricerca artistica poteva trovare da un lato un percorso chiaro d'indagine sulla natura del mezzo video, mutuando le indicazioni che Greenberg aveva dato per la pittura, dall'altro un linguaggio comune di confronto con l'arte e le sue istituzioni. Il video però non poteva sod­ disfare fino in fondo il dogma modernista. Certo si trattava di un'arte innovativa e d'avanguardia, e Greenberg aveva in­ dividuato proprio nel continuo avanzamento dell'arte il compito dell'avanguardia, ma aveva anche negato con forza che quell'avanzamento potesse essere ottenuto a forza di sperimentazioni9• L'autenticità di un'opera prevedeva la compiutezza del significato estetico e questo il video non era realmente in grado di offrirlo, al contrario, il senso di gran parte della video arte degli anni '70 andava ricercato proprio nel concetto di sperimentazione. La novità dello strumento faceva sì che non ci fosse alcun tipo di parametro critico di selezione. La prima esigenza era quella di scoprire tutto ciò che si poteva fare col video senza chiudere prema­ turamente i confini della ricerca. Questa era l'altitudine non solo degli artisti, ma anche dei curatori che si trovavano di fronte a due possibilità: dare credito soltanto a quegli artisti che godevano già di una certa autorevolezza per il loro pre­ cedente lavoro in altre forme artistiche (fu la scelta di molti dei musei d'importanza internazionale), o dare ampio spa­ zio ai più diversi tipi di ricerca (fu la scelta delle istituzioni sperimentali e, in alcuni paesi, del finanziamento pubblico per mezzo di premi e borse di studio). La situazione attuale: le raccolte di video cassette

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Se è problematico riconoscere in un video un oggetto ar­ tistico o persino un'opera d'arte, lo è conseguentemente an­ che definire una raccolta di video cassette come una colle­ zione. Esistono tuttavia alcune collezioni di video e sono quelle che si andarono formando in quei centri sperimen­ taliw che sin dai primissimi anni '70, in Europa come negli Stati Uniti, andarono raccogliendo quei lavori che spesso si


producevano al loro interno e quelli che di volta in volta ve­ nivano esposti nelle mostre e nei festival a cui prestavano i loro spazi. La possibilità di definirsi come collezioni deriva loro dalla storia che lega le opere raccolte, storia in cui si ri­ specchia il lavoro di intere comunità artistiche che si riuni­ rono e si svilupparono attorno a quei centri, dando real­ mente vita ad una nuova forma d'arte. Poche sono le colle­ zioni che possono vantare questo valore storico ed anche fra queste la mancanza di una cultura conservativa ha creato ne­ gli anni passati una situazione per cui l'organicità dell'in­ sieme non è stata dovutamente valorizzata e protetta, cos1 come non si è messa a frullo la quantità di dati che queste raccolte potrehhero offrire ai fini di un'analisi più approfon­ dita dei primi anni del video d'artista. Tolte queste poche eccezioni, il resto delle raccolte di vi­ deocassette sono maggiormente assimilahili allo schema dell'archivio, così come archivi e banche dati possono dirsi anche le raccolte dei principali distributori di opere video che detengono i diritti di vendita e masterizzazione dei na­ stri. La volontà di distinguere tra collezioni e archivi non deriva da una semplice esigenza di classilìcazione. Questa si­ tuazione ha avuto rilevanti conseguenze sul piano della lettura storica della video arte. Le caratteristiche che queste vi­ deoteche tendono ad assumere sono, in altre parole, un'altra causa del ritardo nella ricostruzione storica di questa espe­ rienza artistica. La creazione di archivi risponde ad esigenze di tipo informativo e didattico che devono sopperire all'im­ possibilità di avere conoscenza delle opere video attraverso libri e cataloghi. Questo fa sì che le raccolte debbano conte­ nere il più elevato numero di opere principali da offrire al pubblico. Se durante gli anni '80 ci si è trovati a constatare tristemente i danni di un progressivo fenomeno di omologa­ zione delle raccolte artistiche dei musei d'arte moderna e contemporanea, si può ben immaginare quale possa essere il risultato nel caso di raccolte che non solo contengono quasi esclusivamente lavori degli artisti più noti, ma spesso sol­ tanto l'opera più nota degli artisti più noti. Qui appare con 25


più chiarezza la necessità di insistere su percorsi alternativi di studio per allontanarsi dai miti della video arte.

LA diffusione di video installazioni e video proiezioni

Dal punto di vista della mera pratica espositiva il punto di conflitto essenziale tra video e museo è dato dalla dimen­ sione della durata che era propria di tulle le opere video del primo decennio e che continua ad essere la struttura più dif­ fusa anche per gli attuali single channel. L'estensione tem­ porale del video destabilizza gli equilibri degli spazi esposi­ tivi, se è possibile, ancor più della sua natura tecnologica. li video richiede che il tempo della visione si uniformi alla sua durata. Non ammettendo altra cornice temporale al di fuori del proprio accadere, annulla la funzione del conte­ sto. Il tempo del videotape e quello del museo si escludono a vicenda. La ritualità del museo e il procedere storico del suo per­ corso costituiscono due dimensioni temporali all'interno delle quali l'opera viene compresa, nel duplice significato di capita e inserita. Le opere video prevedono un inizio ed una fine perciò aprono all'interno del percorso museale un segmento temporale all'interno del quale costruiscono i propri significati. Nel farlo, richiedono allo spettatore un 'at­ tenzione esclusiva che nega la presenza delle altre opere presenti nella sala. Il video detta il proprio ritmo di visione slegandosi da quei rimandi e collegamenti che il museo len­ tamente imbastisce fra opera ed opera. Un video è dunque un materiale alquanto avverso al lavoro dei curatori che non a caso hanno generalmente preferito creare per questo tipo di opere degli spazi di visione separati dal resto dell'allesti­ mento, come video gallerie, salette di proiezione o posta­ zioni con monitor. I video artisti, da parte loro, dopo una iniziale stagione di video dalla lunghezza estenuante pensati per negare al pubblico la facilità dei ritmi televisivi, si sono progressiva26 mente orientati verso una utilizzazione più agile del video e


sempre più spesso sciolgono la durata del video nella cicli­ cità del nastro mostrato in loop. Questa scelta è andata di pari passo con la creazione di video installazioni dove nel carattere fortemente scultoreo dell'opera la natura teatrale del video si modifica in termini sostanziali. Vito Acconci ha scritto: La video installazione è la congiunzione degli op­

posti (o per dirla in un altro modo la video installazione è come avere il dolce e contemporaneamente averlo mangiato). Da un lato, l'installazione situa un'opera d'arte in un luogo, per un arco di tempo determinato (per un periodo di tempo specifico e anche, forse, in un tempo storico specifico). Dall'altro lato, il video (con le conseguenze che seguono alla trasmissione televisiva) è qualcosa privo di luogo: quanto meno il luogo non può essere determinato. [ ...] La video installazione dunque, fissa un luogo per qualcosa di non localizzabile; la video installazione è un tentativo di fermare il tempo 11•

A differenza della installazione, la video proiezione non implica necessariamente il loop, è infatti spesso utilizzata nelle video gallerie dei musei per dare visione di opere sto­ riche e recenti che prevedono una determinata durata; ciò nonostante la sua diffusione è coincisa negli anni '80 con una decisa scelta da parte degli artisti per la temporalità cir­ colare. Mare Mayer, curatore di una mostra dedicata proprio alla diffusione della video proiezione, ha scritto: .Attra­

verso il real time o una accentuata slow motion, attra­ verso la ripetizione, o la rapida variazione e ricombina­ zione pittorica, attraverso il montaggio, la video proie­ zione assomiglia all'arte non temporale senza realmente compromettere la sua dimensione temporale.[ ... ] Anche se l'attenzfone dedicata a queste opere è relativamente breve, l'apprezzamento da parte dell'osservatore può essere aumentato da una riflessione prolungata su quanto visto, piuttosto che dal rimanere nella sala per l'intera registrazione 12•

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Il ritorno della magia ali 'interno del museo

Risolto il problema del tempo, il video eliminò progres­ sivamente anche la diffidenza per il tecnologico. li pannello della video proiezione elimina infatli l'ingombrante pre­ senza del monitor riportando le immagini alla familiare bi­ dimensionalità della pittura e del c.inema, mentre nelle in­ stallazioni la presenza degli eventuali monitor (resi anche più leggeri nel design 13) si pone come voluto elemento scul­ toreo e non più come oggetto estraneo. Inoltre la necessaria presenza di proiettori e cavi di collegamento viene resa meno invadente dall'assenza di luce. Proiezioni ed installa­ zioni hanno fatto propria la condizione di visione tipica del cinema, ma inserendola in un percorso di sale in cui è il vi­ sitatore a muoversi verso le immagini e al loro interno. Tullo questo ha modificato non solo i significati del video all'in­ terno del museo, ma ha modificato sostanzialmente anche i significati del museo stesso. Alla sua nascita il museo era un luogo di studio e di con­ templazione. Entrambi questi aspetti erano simbolicamente racchiusi nella sua luce, una luce diffusa e uniforme che pioveva sulle opere d'arte dai grandi lucernari che si apri­ vano sul soffitto delle sale e sulle volte delle lunghe gallerie. Era la luce positivista del museo d'inizio ottocento, la stessa che si ,ritrovava nelle opere dell'arte contemporanea. I pit­ tori neoclassici vi avevano immerso i corpi all'interno dei loro quadri, uno scultore e commissario come Canova vi aveva immerso le opere d'arte antica e le proprie all'interno del museo. A quel tempo il museo era un luogo sacro e chi vi avesse cercato l'epifania del divino, l'avrebbe trovata nel valore dell'arte, nel prodigio dell'atto creativo eccezionale, nella magia di un'esecuzione altissima. Da allora sono passati due secoli durante i quali gli artisti hanno voluto far emer­ gere lentamente alla luce del museo e dell'indagine estetica il segreto procedimento di quella magia. Hanno portato alla luce dello sguardo critico la struttura dell'opera. Hanno reso 28 visibile la sua composizione e il segno che la originava,


hanno mostrato i I gesto di cui quel segno era traccia, hanno isolato il gesto liberandolo dalla permanenza del segno, sono risalili dal gesto alla sua intenzione, dall'intenzione al­ l'idea e dall'idea alla teoria e poi ancora hanno incalzato la magia dell'opera andandola a stanare tra i suoi strumenti, nella trama della tela, nella composizione dei colori, indie­ tro fino alle setole dei pennelli, all'aria del loro studio. La luce diffusa e uniforme si è fatta sempre più aggressiva come quella di una torcia elettrica, ma gli artisti hanno con­ tinuato l'inseguimento dentro il loro corpo, sempre più in profondità, finché hanno incominciato ad udire il loro re­ spiro nel quale si percepivano alt' unisono il loro affanno e l'affanno della magia in fuga, dispersa in una confusione metropolitana fatta di pubblicità, video clip, cultura pop, co­ municazione e informazione. Come si è visto il museo che era stato capace di metabo­ lizzare in rito perfino l'arguta irriverenza degli artisti; rifiutò di seguirli in questa loro indagine quando fra i loro stru­ menti ne apparve uno, il portapack, che sembrava frapporre tra artista e arte una presenza minacciosamente oggettiva quanto la lente di un microscopio, ma già nel 1984 nella mostra di Amsterdam The Luminous lmage erano presenti molte anticipazioni degli attuali allestimenti nei quali lo strumento che aveva portato al culmine ultimo l'impietosa indagine degli artisti e la precipitosa fuga del magico, si fa primo regista della riconciliazione dell'arte con la sacralità, trasformandosi da simbolo di utopiche oggettività a veicolo di una nuova magia. Il museo nel frattempo non aveva assistito passivamente alla battuta di caccia all'arte. Molte istituzioni avevano rea­ gito circondando le opere dei simboli esteriori di quella sa­ cralità che molte di esse non accoglievano più al loro in­ terno. Avevano progressivamente drammatizzato la loro esposizione. Avevano disteso più ampi spazi tra le opere ot­ tenendo un forte effetto ieratico, avevano gradualmente mo­ dificato le sÙddivisioni tematiche delle sale, e partendo dalla vasta trattazione per scuole e movimenti, si era arrivati a spazi dedicati all'unità d'ispirazione del lavoro di un solo 29


artista. Il museo aveva minimizzato il disturbo visivo del corredo didascalico e infine aveva modificato la modulazione della luce che non proveniva più dall'alto, ma avvol­ geva la superficie dei dipinti e delle sculture in contrasto con la zona centrale della sala, separando lo spazio dell'o­ pera da quello del visitatore che si ritrovava immerso nella penombra e allontanato dall'opera per la necessità di co­ gliere con lo sguardo dipinti sempre più grandi, estesi quanto le pareti. Tutto questo era già successo nella prima metà degli anni '80, nel prosieguo del decennio il video abbandonò la sua posizione di centralità enfatizzando e, in un certo senso, portando a compimento tale processo di modificazione dalle pratiche espositive. Tutto, si è detto, era incominciato con quella luce positi­ vista e analitica che si era spinta indiscreta dentro ai mecca­ nismi di composizione dell'opera, dalla materia all'idea, ma il video sembra aver disteso nuovamente tra sguardo e arte il velo di una chiusa tecnica, gelosa dei suoi segreti por­ tando al grado massimo il contrasto tra opera e ambiente, poiché l'unica illuminazione presente nella stanza coincide con la superficie luminosa dell'opera. Le opere video (sia sotto forma di installazione che di proiezione) hanno con­ quistato lo spazio dell'intera sala portando così a termine il processo di nuclearizzazione tematica del percorso mu­ seale. Le dimensioni dei pannelli sono alquanto simili a quelli dei dipinti-parete degli anni '80. Il punto di osserva­ zione è interamente detenninato e gestito dalla struttura del­ l'opera nella quale si creano spesso delle aree di visione che sono dei veri e propri punti panottici. Infine al buio, non solo non si può inserire alcun corredo infonnativo, ma an­ che i cartellini con titolo e autore spariscono dal campo vi­ sivo. Tutto ciò che è estraneo ali'opera rimane al di fuori del suo spazio. L'opera fronteggia o avvolge l'osservatore in una dimensione estetica 'pura' che sembra rifiutare ogni fil, tro e ogni intrusione. Il museo, inserendo il video nei propri spazi rinuncia a 30 spiegare e ad interpretare trasformandosi nel luogo della ri-


velazione dell'arte, e forse in alcuni casi di una sorta di ri­ velazione vera e propria, dai contenuti effettivamente rituali e religiosi. Il visitatore può conoscere l'opera senza prelet­ ture critiche, ma deve sottostare al suo potere immaginifico, lasciandosi attraversare mentre l'attraversa. Deve accettare di abbandonare l'attitudine dello studio e della contempla­ zione ed entrare nello spazio del museo come si entrerebbe nei corridoi di una casa degli specchi, temendo e deside­ rando di essere sorpresi.

1 Una delle frasi più citate nei saggi di video arte è quella che Bill Viola scrisse nel 1984 in occasione di una retrospettiva storica: «Il vi­ deo potrebbe essere runica forma d'arte ad aver avuto una storia prima di averla realmente avuta. Il video fu inventato, e contemporaneamente furono inventati i suoi miti e i suoi eroi». Qualche anno dopo Martha Rosler e Marita Sturken espressero in modo diverso, ma consonante, il disappunto per quei miti ormai cristallizatisi dietro cui si andava per­ dendo la vera storia del video (i due saggi sono raccolti in HALL, D. e FIFi::R. S.J. /llu111iiwting Video: w1 essential guide to Video Art, Aper­ ture, 1990) 2 Il portapack fu la prima telecamera portatile della Sony, immessa sul mercato statunitense nel 1965. Il suo prezzo contenuto e le sue di­ mensioni relativamente ridotte rendevano per la prima volta la tecno­ logia video uno strumento accessibile per gli artisti. ·' Il primato spetta al Museum of Fine Arts di Boston che nel 1954 diede vita ad una regolare programmazione televisiva di documentari trasmessi dalla WGBH, la emittente che un decennio più tardi avrebbe messo i propri studi a disposizione di alcuni artisti per la produzione di opere video in senso stretto. 4 Si fa qui particolare riferimento alla Land Art che fu al centro di una fra le più note esperienze europee del periodo pionieristico, la prima 'video gallery' di Gerry Schum «Land Art» del 1969. 'Cfr. KAPROW, A. Video Art: Old Vine, New Bottle, in Essays on the Blurri11g <�{ Art and L(fe. University ofCalifomia Press, 1993. " Il termine è invenzione di Carlo L. Ragghianti. Cfr. COSTA, A. Carlo L. Ragghianti e i Critojilm d'Arte, Udine, 1995. 7 Circa la minaccia che poteva nascondersi nell'aspetto della tele­ visione e del monitor si veda il saggio di VtTO ACCONCI Television. Furniture, and Sc:ulpture: the mom with the American view, in cata­ logo della mostra The Luminous /mage, Amsterdam, Stedelijk Mu­ seum, 1984. " Nel saggio Rec:elll Abstrac:t Pai111i11g del 1957 Greenberg scri­ veva: «Painting and sculptures are the last hand-made, persona!

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objects within our culture. Almost everything else is produced indu­ slrially in mass and through a high division of labor. Few people are fortunale enough lo make something thai represenl themselves. thai is­ sues entire from their honds and mind, and 10 which they can aftìx their names». GREENDERG, C. Modem Art: Selec:ted Papers, New York, 1978. p. 217). '' Greenbcrg scrive in Avam-Garde a,rd Kitsch, p. 5: «The revolu­ tion wos letf inside society, a port of 1h01 welter of ideologico! slruggle wich art and poelry find so unpropilious as soon as il begins to involve those prec:ious axiomatic beliefs upon which culture thus far has hod lo resi. Hence il developed thai the true and mosl importont function of the avont-gorde was noi lo experiment, bui lo find a palh along which il would be possible 10 keep culture moving in the midsl of ideologica! confusion and violence». GREENDERG, C. Art a,rd Culture. Boston, 1961. 111 Negli Srnti Uniti possono definirsi collezioni video quelle di The Kitchen a New York. quella dcll"Evcrson Museum di Syracuse (ora conservata all"Università di Syracuse) e quella del Long Beach Mu­ seum of Art. 11 ACCONCI, V. Telei>isio11, Fumiture wul Sculpture, cii.. pp. 19-20. La traduzione è di chi scrive. 12 MAYER. M. Being & Ttme: the emergenc:e <?f video pmjec:tio11, catalogo della mostra, Buffalo, Al brighi Knox Art Gallery, 1996, p. 29. La traduzione è di chi scrive. 1� Si vedano ad esempio quelli spesso utilizzali da Gory Hill, privi di strullura esterna con schermo e tubo catodico visibili.

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Si intuisce, quindi, che uno dei maggiori risultati conse­ guiti in seguito all',introduzione della disciplina ergonomica è stato quello di aver sottratto il lavoro dell'uomo alla vec­ chia organizzazione scientifica del taylorismo, che preve­ deva l'adattamento dell'uomo all'ambiente di lavoro e con­ seguentemente alle macchine. Viceversa� in un'ottica ergo­ nomica, l'uomo è posto in una condizione paritaria o supe­ riore rispetto alla macchina. Sono, quindi, i mezzi di lavoro ad essere l'oggetto dell'adauamento e no_n più l'uomo. Per dirla alla maniera di E. Mc Cormick è opportuno proget­ tare il lavoro, l'abitazione, l'organizzazione in termini umani2. Movimenti quali I'Arts and Crafts, il Werkbund, il Bauhaus avevano già segnato questo avanzamento in dire­ zione dell'umanizzazione della qualità della vita, anche se con preoccupazioni d'ordine più funzionalistico poiché an­ cora ancorati a momenti operativi che prescindevano dal funzionamento globale dell'organismo umano con tutte le sue implicazioni anche di stampo psichico. Oggi in Italia, in concomitanza con la rivoluzione infor­ matica in atto, l'interesse dell'ergonomia si è spostato dal settore industriale, al quale rivolse la sua attenzione tra gli anni sessanta e settanta, a quello terziario e dei servizi. Per­ tanto, all'approccio ergonomico attualmente si chiede sem­ pre meno di intervenire sulla fatica fisica, ma sempre più su quella mentale, sullo stress e sulla qualità dell'informazione e dell'immagine percepita. L'utenza, infatti, in un prodotto immesso sul mercato, non verifica più le prestazioni tecno­ logiche che sono date per acquisite, ma si aspetta che ri­ sponda a dei requisiti qualitativi fondamentali quali l'usabi­ lità, il comfort, la gradevolezza. In tal senso il testo di Ban­ dini Buti è più che attuale perché punta a coniugare in un percorso progettuale il rapporto tra tecnologia ed estetica, fra l'utile ed il piacere. Nasce, quindi, una nuova area di riflessione per l'ergo­ nomia che riguarda la gradevolezza, la sua valutazione e la 34

sua ripetibilità. Oggi, infatti, nella progettazione di un oggetto ci si deve poter avvalere di metodi che consentano di


prevedere la domanda futura degli utenti sia in termini di prestazioni che di piacevolezza. Ciò è tanto più vero se si pensa che l'essenza del design odierno sta non solo nell'attribuzione di una forma alla ma­ teria, ma soprallulto nell'informazione, nel logotipo, nel1' immagine, cioè nelle modalità di trasmissione della forma scelta. In una tale ollica è possibile attualmente avvalersi del­ l'aiuto della grafica computerizzala che è ormai parte attiva della strumentazione di ogni progettista. Il computer inter­ viene in tutte le fasi del lavoro in uno studio: da quelle

strettamente rappresentative a quelle più propriamente progettuali, da quelle amministrative a quelle gestionali. (... ) L'adozione di programmi tridimensionali incorag­

gia senza dubbio l'uso della rappresentazione prospet­ tica e assonometrica. L'immediata modificabilità di un modello tridimensionale computerizzato e il fatto che la

sua progressiva definizione segua di pari passo la stessa elaborazione progettuale, consentendo la visualizza­

zione di tutte le fasi intermedie, lo rende evidentemente competitivo rispetto a un tradizionale modello fisico�. li

vantaggio che se ne ricava è quindi grandissimo: tramite l'e­ laborazione di un modello grafico tridimensionale che si­ mula il prototipo reale finale, è possibile infatti una verifica costante in tutte le fasi di progettazione, contenendo così i danni di una cattiva valutazione del prodotto, una volta im­ messo sul mercato, sia sul piano estetico che su quello più strettamente funzionale. L'ergonomia, proponendosi come disciplina adalla a va­ lutare il rapporto tra l'oggetto progettato e l'uomo che lo userà, ha suscitalo l'interesse dei produttori e dei designer che hanno però frainteso, o meglio equiparato, il termine er­ gonomia a quello di antropometria: l'approccio ergonomico si rilevava spesso solo un'appendice, un'opzione finale mi­ rata ad incrementare la qualità dell'immagine dell'oggetto d_isegnato. Al contrario, l'intervento ergonomico deve essere parte integrante del progetto; un intervento di «concezione» a

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priori e non di «correzione» a posteriori, quando ormai non

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è più possibile contenere i danni di un prodotto finito. In questa prospettiva il designer ha il compito di trasfor­ mare una sommatoria di input incoerenti - usabilità, qualità sensoriali, tecnologie estetiche, marketing, produzione - in una immagine globale coerente utilizzando la sua creatività. Ancora una volta il progettista è chiamato a confrontarsi con il consumato binomio forma - funzione. Il rapporto tra i due termini è uno di quei principi esistiti da sempre nella «logica» dell'architettura e del design. La maggior parte dei critici ritiene che il primato dell'introduzione del motto «la forma segue la funzione», divenuto poi .il dogma del Fun­ zionalismo imperante nel Movimento Moderno, spetti allo scultore Horatio Greenough. L'autore americano asseriva che invece di costringere le funzioni di ogni sorta di edi­ ficio in una forma generica adottando una foggia esterna per amore dell'occhio o dell'associazione, senza riferi­ mento alla distribuzione interna, si cominci dal cuore, come da un nucleo, e si proceda verso l'esterno. ( ... ) Per bellezza io intendo la promessa della funzione, per azione io intendo la presenza della funzione, per carat­ tere io intendo la traccia della funzione4• Ma al di là del primato del critico o del letterato che in­ ventò l'espressione che poneva l'aspelto formale in un ruolo subalterno rispetto a quello funzionale, è importante sottoli­ neare che pur variando storicamente il significato dei due termini, forma e funzione, essi hanno comunque sempre mantenuto un rapporto dialettico costante che ha condizio­ nato l'evoluzione dell'approccio metodologico sia nell'am­ bito architeltonico che in quello del design. In un'ottica strumentale al nostro discorso, quindi. se si equipara il termine «fonna» a quello di «estetica» e il ter­ mine «funzione» a quello di «ergonomia», è facile verifi­ care che quasi sempre avviene che un oggelto ergonomica­ mente valido sia antiestetico. Pertanto, oggi, si stanno svi­ luppando nuovi modelli organizzativi che puntano alla in­ terdisciplinarietà ed al lavoro di gruppo mirando al raggiungimento di un obiettivo comune: la qualità. In tal modo ven-



per citare un autore più moderno, all'idea di Lionello Venturi che, riconoscendo nella realizzazione dell'og­ getto artistico la presenza di molte componenti di varia ed eterogenea natura, parlava di gusto come l'insieme degli «elementi costruttivi» dell'opera d'arte. Le impli­ cazioni del gusto con l'arte e l'estetica impongono al­ cune precisazioni che costituiscono ulteriore premessa al presente saggio7 • È nel gusto, quindi, e nel concello di estetica, implicante

a sua volta quello di piacevolezza e gradevolezza, che en­

trambi gli autori, De Fusco prima e Bandini Buti poi, hanno

riconosciuto uno di quei parametri fondamentali, anche se

non univoci, che sanciscono definitivamente il successo del

prodotto per il pubblico che dovrà fruirne. È intuibile che in un immediato futuro, in cui prevar­

ranno l'automazione dei processi di produzione e la compu­ terizzazione di quelli di progettazione, le competenze del designer muteranno profondamente. Al designer, infatti,

verrà richiesta sempre maggiormente una capacità di sintesi creativa di più complessi aspetti tecnologici. Pertanto sa­ ranno necessarie conoscenze più allargate a metodi espres­

sivi più specifici e meno estemporanei della creatività, a

fronte del rischio di vedere ridotta negli oggetti di grande

serie la forza propositiva ed innovativa del design.

Quanto fin qui esposto si basa sui tre principi dell'ergo­

nomia: la globalità degli interventi, I' interdisciplinarietà de­

gli approcci, la partecipazione a lutti i livelli. Tutti e tre mi­ _ rano alla definizione di un prodotto industriale che risponda ai reali bisogni dell'utilizzatore con il minor «costo» fisico e psichico. A tal fine Bandini Buti definisce il feed-back un

processo di verifica continuo che interagisce ciclicamente

nelle fasi di ideazione, realizzazione e utilizzo del prodotto.

Nel testo, infatti, ad una prima parte teorica, l'autore ne

affianca una seconda di tipo metodologico, in cui analizza i criteri pratici di valutazione della qualità, dell'usabilità e della gradevolezza di un progetto ergonomico. Lo studio

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della qualità, spiega Buti, implica ovviamente quello del

tipo di utenza che usufruirà del prodotto e dei suoi bisogni


primari, funzionali, estetici e futuri. Questo perché la qua­ lità ergonomica di un prodotto è un attributo legato al suo uso e non al prodotto stesso. In fase di progettazione si do­ vranno quindi soddisfare i bisogni reali dell'utenza all'atto dell'immissione del prodotto sul mercato. L'usabilità di un prodotto è valutata invece in termini di utilità, facilità d'uso, apprendibilità, flessibilità e corrispon­ denza al compito. L e tecniche di indagine previste per la va­ lutazione di tali parametri prevedono il coinvolgimento di­ retto in prove soggellive di un campione più o meno vasto di utenti e di esperti. Poiché tali prove possono essere conse­ guite solo a prodotto finito, è auspicabile anticipare il più possibile il momento della verifica con gli utenti prima del1' immissione del prodotto sul mercato al fine di evitare danni psico-fisici altrimenti irreversibili. lnline, è particolarmente interessante lo studio condotto dall'autore sull'aspetto della gradevolezza di un prodotto. Quest'ultimo, infatti, è uno dei requisiti che maggiormente interessano il designer e che spesso influiscono sulla scelta finale che poi opererà l'utente, sempre più influenzato dal concetto di estetica che gli viene offerto dai mass-media tecnologici. Il divario oggi esistente tra artistico ed estetico è palesemente diverso da quello che sussisteva nel passato tra arti pure ed arti applicate. Ricordando, infatti, che per estetica si intende tutto quanto concerne la bellezza intesa come piacere o gusto e per artistico tutto ciò che riguarda un'attività conoscitiva particolare, non accessibile senza studio o preparazione poiché ha insito in sé il concetto di tecnica, è lecito affermare che la cultura di massa odierna è certo più sensibile all'aspetto estetico di un prodotto che non a quello artistico, perché facilitata dalle tante gratifica­ zioni immediate che la tecnologia odierna le mette a dispo­ sizione. A parità di «efficienza ergonomica», quindi, aspetti come il comfort, ad esempio, diventano piuttosto rilevanti nella ricerca della qualità. Inoltre la gradevolezza è un aspetto mutevole che sfugge a misurazioni assolute. Sensa­ zioni di tipo soggettivo possono infatti variare a secondo 39


della cultura del gruppo sociale di appartenenza, degli aspetti sensoriali e temporali dell'utente. Ma affrontare solo i diversi tipi di indagine sulla valutazione della gradevo­ lezza non basta. È opportuno, infatti, sottolineare anche l'importanza della trasmissibilità dei risultati conseguiti su dati obiettivi tra fornitori, progettisti e designer, al fine di poter apportare delle modifiche in tempo reale sul prodotto. L'esaustività del testo affrontato, infine, è completata da un'ultima parte in cui sono illustrati in concreto i risultati degli assunti teorici e metodologici fin qui esposti, applicati in dicci esperienze di progetto, svolte negli ullimi quindici anni sull'usabilità e la gradevolezza dei prodotti e sulla vi­ vibilità degli ambienti. Partire, quindi, dalle linee guida del libro su citato è stato utile per confrontarci in modo chiaro con un argo­ mento più che attuale, ma di non facile comprensione dato il suo carattere ancora oggi di elevata sperimentalità. Non a caso la letteratura italiana del settore è ancora inadeguata verso questi contenuti che saranno invece la molla propul­ siva della progettazione futura .

E. PISANO, Progettare, stare.fare. Milano. 1987, p. 40. L. 8ANDINI BuTr, Ergonomia e progetto dell'utile e del piacere, Santarcangelo di Romagna. 1998, p. 14. � L. SACCHI, Disegnare con il computer, in «Op. cii. » , n ° 89. 1994. .1 2

• H. GREENOUGH, The Travels. Observarion an Experiem:es <�fa Yankee Sro11ec:urter ( 1852), cii. in F. O. Matthienssen. Rìnasc.:imellfo americano. Milano. 1961. p. 214. � L. BANDINI BUTI. op. cìt., p. 37. � R. DE Fusco. Storia del design, Ba1i, 1985. p. VII. 1 Ibidem.

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