Op. cit., 109, settembre 2000

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnara, Alessandra de Martini Marina Montuori, Livio Sacchi

Segretaria di redazione: Rosa Losito Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 -Tel. 7690783 Amministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Caracciolo, 13 - Tel. 7614682 Un fascicolo separato L. 8.000 (compresa IVA) -Estero L. 9.000

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Electa Napoli


c. ROSETI, A. MAGLIO, V. TRJONE,

Architettura come paesaggio Note sulla Stillehre Il protodesignfuturista Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Gaetano Amodio, Ma­ ria Vittoria Capitanucci, Imma Forino. Massimiliano Savorra.


La rivista si avvale del colltributo economico dei seguenti Istituti e Aziende: Alessi Driade



Rammentiamo brevissimamente, data la notorietà del tema, l'evoluzione storica della nozione di paesaggio. È re­ lativamente giovane essendosi delineata intorno al '600 nel­ !' ambiente pittorico-letterario di matrice romantica. So­ speso tra estetica e scienza il paesaggio come insieme di pa­ norami e di vedute si trasmette nell'equivoco di una suppo­ sta dipendenza da uno «sguardo» che lo riveli e ne sanzioni l'esistenza che resta spesso inscritta tra gli scorci prospettici stereotipi e altre oleografie. Nel '900 l'iconografia urbana si sposta dalla lirica gioiosa (ed edulcorata) delle arcadiche composizioni canalettiane alla dialettica (mai del tutto ri­ composta) tra metafisica e futurismo dove l'insondabile cu­ pezza delle stranianti periferie sironiane si alterna all'enig­ matica visionarietà delle trasognate piazze dechirichiane. Le due leggi del 1939 ratificano il paesaggio come quadro naturale con i relativi punti di vista unitamente ai monu­ menti, i manoscritti e gli incunaboli sottoponendolo a tutela vincolistica; negli ultimi anni il vincolo paesistico ha as­ sunto portata ecologica ed ambientale investendo vastis­ sime porzioni di territorio inedificato ed urbano Collocabile nell'ambito ecologico/ambientale, ma con implicazioni più estese e profonde, è la geo.filosofia che co­ stituisce un filone non secondario del pensiero filosofico contemporaneo2 e potrebbe dare un utile apporto interdisci­ plinare allo sviluppo del terna ma che per ovvi motivi di spazio ci limiteremo a citare in questa sede. Partendo dall'eziologia della formulazione in argo­ mento si può rilevare che tra i principali fattori causali vi è la decostruzione, già da tempo in atto, di alcune fondamen­ tali opposizioni dialettiche sulle quali si è finora basata l'or­ ganizzazione territoriale e urbana a partire da: naturale/ar­

tificiale, città/campagna, centro/periferia, interno/esterno.

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È infatti ad uno stadio avanzato l'artificializzazione gene­ rale del territorio il cui esito è la montante «città diffusa»; la progressione inarrestabile della periferia, promossa da non­ luogo (la negazione, com'è noto, rafforza l'identità) a neo­ luogo ed ormai largamente maggioritaria rispetto al centro, ha contribuito all'esautorazione del centro storico la cui col-



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tato al consumo mediatico. Entro l'invaso concettuale del­ !' architettura equiparata al paesaggio possono essere me­ glio recuperate quelle componenti che, per scalarità, collo­ cazione e concezione, presentano qualità interstiziali e che, pur entro la costituzionale apertura e intotalizzabilità del­ l'insieme, possono attuare delle connessioni anche di tipo disgiuntivo. Il paesaggio è al tempo stesso palinsesto della stratifica­ zione delle culture dei luoghi che l'hanno attraversato e ne costituiscono l'identità inevitabilmente plurale, molteplice, complessa; il superamento postmoderno dei valori e dei ri­ ferimenti universali ed unitari e la secolarizzazione dei luo­ ghi convenzionali inducono alla messa in valore delle diffe­ renze quali portatrici di identità evitando al contempo l'e­ saltazione delle diversità; ciò si rapporta a quanto è indicato dal pensiero geofilosofico che invita a cogliere l'universale nel particolare e le differenze come separazione che di­ viene rapporto4• Dalla ricerca attivatasi intorno a questo nuovo tema sono emerse suggestioni e indicazioni interdisciplinari pro­ venienti da altre arti visive. L'arte filmica, per la disincan­ tata capacità di esprimere il reale nella sua complessità, am­ biguità e contraddizione, più dell'architettura e come la paesaggistica appare capace di interpretare luoghi e di svelare trame operando poeticamente sui materiali of­ ferti dall'esistente e riconducendoli a narrazione5, prero­ gativa chiaramente ascrivibile a questo binomio. E tale pa­ rallelo accomuna i due ambiti cui la diversa sostanza urbana e architettonica suggerisce l'alternanza di altre forme del progetto dove la composizione classica, storicamente volta all'unità e all'armonia, potrebbe essere sostituita o integrata dal montaggio6• Questo infatti, assolto da ruoli totalizzanti e catartici, si pone a latere della dialettica composizione/pro­ getto costituendo una strategia di tipo compositivo che si ri­ volge ad elementi in sé già composti; è una sorta di «ricom­ posizione» con evidenti implicazioni tettoniche, di compo­ sizione seconda, derivata, vicaria che appare ben riferibile sia alle tematiche compositive attuali, frammentarie, deco-



malista è subito smentita dal successivo riferimento al de­ costruttivismo e alla vocazione all'impuro, al contami­ nato, all'angosciato8 ; l'azzeramento linguistico è pertanto configurato come rifiuto dei codici riconoscibili e consoli­ dati, delle regole in sé, a favore della diversità, dell'incodi­ ficabilità, dell'invenzione sempre rinnovata e con l'evi­ dente finalità di un ricominciamento (più che una rifonda­ zione) dell'espressione architettonica. Mentre su questo in­ vito ad una deregulation (peraltro già in atto) abbiamo delle riserve, condividiamo pienamente il rilancio dell'architet­ tura vs. urbanistica dove, riferendosi a Broadacre City, an­ tesignana dell'attuale città diffusa, la tecnica polivalente propria della scala paesistica viene indicata come elemento di mediazione e di catalisi nella riappropriazione della città da parte dell'architettura affinché gli assetti territoriali scaturiscano dal basso, democraticamente9 ; e concor­ diamo anche sulla difesa delle minoranze attraverso I'advo­ cacy planning, dell'edilizia delle derelict lands, anonima, dialettale, vernacolare, gergale, della Pop-art e dell'arte contemporanea in genere. L'istanza zeviana del superamento dell'urbanistica da parte dell'architettura sta avendo in parte il suo compimento incentivato dal generale fallimento della pianificazione ur­ banistica; Purini rileva infatti come l'architettura si sia af­ francata dalle previsioni di piano giacché è ormai la stessa architettura che riveste direttamente un ruolo urbano, un ruolo che si potrebbe dire colonizzatore degli spazi metropolitani. Il posto della responsabilità, attributo della previsione urbanistica, è stato preso dal piacere della soluzione esatta di un problema estremamente spe­ cifico e per questo unico ... L'architettura guadagna così un primato che le conferisce un rilievo assoluto nella de­ terminazione dell'immagine della città, e che ne brucia i residui contenuti urbanistici, nei quali spesso aveva tro­ vato un limite consistente. Non c'è più un'architettura della città, né per la città o nella città, ma un'architet­ tura/città... 10 In tale contingenza, essendo decaduti per inefficienza e 10



miato neanche il paesaggio, oppone un'architettura votata all'assolvimento della sua vera e principale funzione: l'abi­ tare dell'uomo su questa terra; un'architettura che non può essere ridotta ad ordini precostituiti essendo costituzional­ mente eterogenea e contraddittoria, composta anche di quel caos, ormai categorizzato come ordine altro; con cui si dovrà relazionare e cooperare per una razionalità vera, intesa cioè in senso olistico e non meramente formale. Per raggiungere tali obiettivi Kroll ha messo in atto il più autentico ed intensivo advocacy planning, giungendo a variare i progetti anche in contrasto con la committenza e tenendo in considerazione finanche le variazioni operabili successivamente dagli abitanti. Contrario ali'high tech quale adesione all'ordine industriale delle cose, al gusto dominante 13 ed alla religione del «costantemente nuovo» 14 rifiuta un linguaggio precostituito offrendo una corretta esemplificazione dell'azzeramento zeviano della scrittura architettonica. Kroll realizza infatti architetture proteiformi adottando sincreticamente linguaggi diversi de­ rivanti in parte dai contesti d'intervento (come in alcuni progetti residenziali), altre volte assunti liberamente dai temi e dalle figurazioni contemporanee che trasforma in or­ dine alle vocazioni e alle istanze del luogo. Definisce que­ sto atteggiamento «etnologico» (orientato alla comples­ sità sociale), in opposizione all'atteggiamento oggettivo (orientato all'oggetto) 15 proprio del modernismo, alla cui

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astrazione oppone un'intensa narratività. L'organizzazione urbana è fatta derivare da posizionamenti empatici e con­ taminazione soggettive, sensibili, emozionali indotti dalla pedagogia del territorio da cui scaturiscono le giuste forme di ideazione e dove le differenze locali sono assunte come l'insieme di valori che compone il complessivo paesaggio sociale. Kroll usa materiali sentimentali e circostanziali, con cui poetizza gli spazi e trasforma le funzioni e i relativi luoghi in cerimonie arricchendoli di valori relazionali e simbolici ed elevandoli ad opera d'arte attiva. Delle numerose realizzazioni citiamo per tutte la Maison de l'Environnement di Belfort forse la più interessante



preesistenze arboree, prosegue in forma ipogea. Attorno al vuoto centrale, un'assenza di costruito a favore di una pre­ senza di verde, si articola un insieme complesso di barre tra­ pezie e di quinte frammentate e decomposte dove, nel sim­ biotico rapporto col sito, è stata decostruita l'opposizione interno/esterno dalché il Museo appare piuttosto un paesag­ gio terrazzato. Dichiara infatti lo stesso Hecker: È un pae­ saggio nel senso che ci si trova sempre al suo interno e mai all'esterno. È impossibile camminare intorno al Museo del Palmach: si è sempre dentro anche quando si sta fuori l9 . L e barre trapezie, inclinate sia nel piano verti­

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cale che orizzontale, decostruiscono inoltre la dialettica sto­ rica tra queste due qualità geometriche dando all'insieme la forma di montagne raffrontantesi come ha osservato lo scul­ tore israeliano Michi Ullman. Un rapporto materico col contesto è inoltre attuato attraverso il kurkar, una pietra stratificata dalla grana sabbiosa (tra l'arenaria e l'ardesia) che costituisce il sedime del Museo e con cui è stata attuata su alcune pareti esterne una forma particolare e atipica di ri­ vestimento discontinuo. L'evocazione montana, che nel Museo di Te! Aviv com­ pone una metafora discreta, è riproposta in altri tre progetti tendenti ali'impossibile decostruzione dell'opposizione na­ turale/artificiale attraverso dei sistemi residenziali a forma di montagne. Il primo progetto riguarda la località di Achtkamp in Olanda ed è finalizzato al raccordo tra il pae­ saggio urbano del Randstad e il Cuore verde, un parco na­ turale di grande rilevanza ecologica. Hecker disegna degli edifici lamellari a forma di montagna destinati a residenze e attività commerciali utilizzando il triangolo mistilineo (ri­ corrente nel suo abaco morfologico) attraversato da lunghi tagli sinusoidali. Questi edifici/paesaggio tuttavia trascen­ dono la metafora attuando piuttosto un'anamorfosi troppo esplicita, più copia che mimesis, quasi un' architecture par­ lante. Il disegno varia nel progetto delle montagne berli­ nesi per Hellensdorf a Berlino Est dove il profilo, meno na­ turalistico e più spigoloso, ricorda il paesaggio alpino con cui Hecker tende ad incorporare l'architettura nel qua-



cave di Montericco di Franco Purini e Laura Thermes (1973), tematizzazione e sublimazione del muro, segno ar­ chetipico e misuratore della collina divisa e unita al tempo stesso. Un'avvertenza infine. Al di là delle concrete strumenta­ zioni attuative, che si presentano di non facile definizione specie alla scala alta del progetto urbano, l'equazione archi­ tettura come paesaggio si pone anzitutto come un luogo mentale; e poiché gli aspetti ecologici del tema investono la conservazione dello stesso pianeta, in questa specifica forma del pensiero dovrà essere necessariamente compresa quella componente etica che, già definita come il modo di abitare il mondo (Heidegger), non può mai essere di­ sgiunta dall'architettura.

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1 J. L. BoRGES, Storia del guerriero e della prigioniera, in L"Aleph, Feltrinelli, Milano 1996, p. 48. 2 La filosofia, se vuole essere all'altezza della domanda che il nostro tempo le ha riservato, non può che essere geo-filosofia, os­ sia, in primo luogo, radicale interrogazione sul luogo del nostro abitare. Da: AA. VV., Geofi/osojia, a cura di M. Baldino, L. Bonesio, C. Resta, Edizioni Lyasis, Sondrio 1996. Cfr. anche su tale argo­ mento: W. BENJAMIN, Immagini di ciuà, Einaudi, Torino 1980; L. Bo­ nesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 1997; AA.VV. , Appartenenza e località. L'uomo e il territorio, Atti degli incontri di geofilosofia, a cura di L. Bonesio, SEB, Milano 1996. 3 Qui intesa nel senso paradossale assegnatole dalla decostruzione derridiana di unione e divisione al tempo stesso, di «società di disso­ ciazione». Cfr. a tal proposito C. RosET1, La decostruizone e il deco­ struuivismo. Pensiero e forma dell'arclziteuura, Gangemi, Roma 1997, cap. II§ 3 e cap. VII§ I. 4 C. RESTA, l11trod11zione, in Geofilosofia, cit., p. 10. 5 L. ALTARELLI, Paesaggi come inversione dello sguardo, in «Are Architettura Ricerca Composizione», n. 5, luglio 1999, p. 22. 6 Cfr. a tal proposito «Are - Architettura Ricerca Composizione», n. 5, luglio 99 e n. 6, maggio 2000. 7 B. ZEv1, Paesaggistica e grado zero della scriuura arclziteuonica, in «L'architettura- cronache e storia», n. 503-506, p. 382. 8 Ibidem, p. 392. 9 Ibidem, p. 394. 10 F. PuR1N1, Novità auese da qualche tempo, in «Lotus», n. 104, marzo 2000.


p. 5.

11 L. KROLL, Tutto

è paesaggio,

Testo & Immagine, Torino 1999,

12 lbidem, p. 15. 13 Ibidem, p. 38. 14 Ibidem, p. 33. 15 Ibidem, p. 42. 16 Hecker adotta la figura della spirale nelle residenze di Ramar Gum portandola poi ad alti livelli di complessità e di articolazione nella scuola ebraica di Berlino 17 M. BoTTERO, Zvi Hecher. Scuola ebraica, Berlino, Testo&lmma­ gine, Torino 1997, p. 60. 18 Ibidem, p. 66. 19 R. HOLLENSTEIN, Museo di Storia del Palmach, Te/ Aviv, in «Do­ mus», n° 813, marzo 1999, p. 11. 20 Z . HECKER, I monti berlinesi a Hellensdorf. in «Paesaggio Ur­ bano», n. 5-6, sett. dic. 1999, p. 24. 21 Ibidem, p. 26.

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di un'epoca· va ricercata nelle arti applicate, nelle decora­ zioni e nei caratteri dell'alfabeto; è qui - scrive Wolfflin -

che il sentimento della forma viene appagato nel modo più puro, cd è qui che va ricercata la nascita di un nuovo stile. Si tratta di un fatto di grande rilievo per combat­ tere l'eccesso materialistico secondo il quale la storia delle forme dell'architettura si potrebbe chiarire a par­ tire dai limiti costituiti dal materiale, dal clima, dalla funzione. Lungi dal misconoscere tali fattori e il loro si­ gnificato, devo insistere che la fantasia formale propria di un popolo non si lascia per questo influcnzare5 •

In queste parole va colto un riferimento al meccanici­ smo semperiano, oggetto di numerosi equivoci poiché spesso inteso come dottrina esaustiva, e da considerare in­ vece come necessaria premessa di ogni Stillehre. La stessa parola di cui al titolo di queste note viene usata da Semper nel 1853 per il saggio Entwurf eines Systems der verglei­ chenden Stillehre6, sebbene solo nella sua opera principale Der Stil in den technischen und tektonischen Kiinsten l'autore elabori una vera e propria teoria dello stile7: appli­ cando i metodi propri delle scienze naturali, egli spiega la nascita delle forme architettoniche attraverso le tecniche costruttive ed i condizionamenti materiali. Nella conferenza intitolata Uber Baustile (1869) egli af­ ferma: gli stili architettonici non sono frutto di inven­ zione, ma derivano da pochi tipi originari (Vrtypen), svi­

luppandosi poi in diverse direzioni in base alle leggi della riproduzione naturale, dell'ereditarietà e dell'a­ dattamento: qualcosa di simile insomma a quanto si suppone accada per l'origine delle specie nei regni della creazione organica8•

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Il tentativo di ricondurre la varietà degli stili ad una ra­ dice comune, riconoscendo l'esistenza di processi etero­ nomi, conduce fino ad Alois Riegl, il cui pensiero non sem­ pre differisce da quello del critico amburghese: solo con esitazione - lamenta Riegl - si è osato affermare l'esi­

stenza di rapporti e influenze reciproche, e solo per periodi di tempo strettamente delimitati e tra territori



sificazioni provvisorie, modi d'intendersi. E come tali esercitano la loro funzione precisamente in quel periodo preparatorio del giudizio critico, che corrisponde alla interpretazione dell'opera d'arte giudicanda 13 •

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Erwin Panofsky accoglie l'interpretazione generaliz­ zante di Wolfflin, sottolineando l'importanza delle catego­ rie sul piano metodologico, negando però che possano co­ stituire una spiegazione dei fenomeni stilistici: il fatto che un'epoca 'veda' in modo lineare e che un'altra 'veda' in modo pittorico non è la radice o la causa di uno stile, bensì un fenomeno stilistico che non costituisce una spie­ gazione, che bensì l'esige. Certo non si può negare che per manifestazioni culturali di tale portata e vastità non sarà mai possibile una vera spiegazione, che consista nella scoperta di una relazione causale 14 • A Panofsky non interessa mettere in dubbio la validità delle categorie, quanto suggerire la necessità di un'indagine metastorica e metapsicologica, ossia allargare l'ambito di studio ad un campo ancora più generale. Al di là degli esiti di queste posizioni e delle critiche ad­ dotte, l'uso consapevole delle categorie come metodologia storiografica non può ignorare il criterio della selettività: per quanto riguarda rispettivamente i campi della storia e della storiografia, vanno considerate da un lato le scelte compiute da uno o più artisti sul piano estetico e dall'altro quelle dello storico attraverso la sua opera «ordinatrice». Per quanto riguarda il primo aspetto, il problema della selettività va connesso al rifiuto, in alcune epoche storiche, dello stile di periodi precedenti. Da questo punto di vista, il concetto di scelta si avvicina a quello di poetica. Wilhelm Dilthey, professore di Wolfflin a Berlino, ha posto in rela­ zione fenomeni quali la poesia e le arti figurative, analiz­ zando proprio la quesione della scelta. Egli considera «ti­ pico» il concetto di Weltanschauung, cui viene affiancato quello di Erlebnis (il vissuto) per distinguere il momento complessivo della comprensione storica da quello indivi­ duale. L' Erlebnis riguarda strettamente l'esperienza psicologica personale e può essere comunicato nella maniera mi-



lo stesso Weber 18 • Arnold Hauser riprende questa defini­ zione weberiana, sottolineando come uno stile è una strut­ tura che non si può ottenere dalle qualità dei suoi porta­ tori né mediante addizione né mediante astrazione. Lo stile del rinascimento è al tempo stesso più e meno di ciò che trova espressione nelle opere del rinascimento 19 • Il concetto di stile può essere inteso quale strumento, o «artificio», storiografico proprio in quanto tipo-ideale nella definizione weberiana. In questo senso appare legittimo ravvisare uno stile anche nel caso esso venga esplicitamente negato, come avviene per molti architetti del neues Bauen tedesco, e in particolare nel caso di Walter Gropius. Per quanto già detto, il rifiuto dell'architettura eclettica corri­ sponde ad una scelta di carattere estetico-ideologico, ossia ad una precisa «poetica». In secondo luogo, la predilezione per la serialità e per la standardizzazione implica necessa­ riamente un minor peso degli accenti individuali. Eppure, come emerge anche dalle note introduttive a ln­ ternationale Architektur, del 1925, la difficoltà, da parte dell'architetto berlinese, a definire i «valori di forma» della sua didattica si riflette inevitabilmente nell'imbarazzo di fronte alla questione dello Stil: egli evita di usare tale ter­ mine, preferendo servirsi di Baugeist (spirito costruttivo), Gestaltungsgeist (spirito di forma), Baugesinnwig (attitu­ dine costruttiva) e Baugestalt (forma costruttiva)20• Tale idiosincrasia pervade anche la sua guida del Bauhaus, pro­ grammaticamente lontano dalla creazione di uno «stile», sebbene la sua produzione sia talmente caratterizzata da co­ stringere nel 1926 il Bauhausmeister Georg Muche a con­ statare come la direzione intrapresa dall'istituto conduca proprio alla formazione di uno Stil21 • Analogamente, Ludwig Hilberseimer si riferisce al «carattere» del neues Bauen, sostenendo che la nuova architettura non si basa su nessuno schema stilistico, ma è l'espressione attuale della reciproca compenetrazione di tutti gli elementi sotto il dominio di una volontà di forma. Alla base non vi sono problemi di stile, ma problemi costruttivi (Baupro24 bleme )22•



fatti osservato come l'idea di un «codice» architettonico si avvicini senza dubbio alla nozione di stile, tanto da potersi accostare il binomio stile-fabbrica a quelli langue-parole e codice-messaggio28• Non è perciò errato sostenere che il problema dello stile risulta determinante nella costruzione di sistemi da utilizzare come strumenti storiografici per de­ cifrare l'oggetto-evento, ossia l'edificio stesso. In altri termini, una volta accertato il valore linguistico dell'architettura, non si può non condividere l'operazione dei due autori americani. Gropius, insieme ad altri suoi col­ leghi, è probabilmente cosciente di tale valore ma, per la ne­ cessità di affrancare la prop1;a opera dall'eclettismo otto­ centesco, contribuisce al tempo stesso alla nascita di una sorta di idiosincrasia nei confronti della parola «stile», per molti versi diffusa ancora ai giorni nostri. Dopo venti anni lo stesso Henry-Russell Hitchcock dovrà constatare come gli equivoci e le banalizzazioni abbiano in parte inficiato i risultati dell'operazione compiuta nel 193229• Tuttavia, da un altro punto di vista le posizioni di Gro­ pius e di Hilberseimer costituiscono una premessa essen­ ziale del lavoro di Hitchcock e Johnson: affermando di li­ mitarsi a rilevare a posteriori la «somiglianza» (Uberein­ stimmung) nell'aspetto e nelle caratteristiche della «nuova architettura internazionale», Hilberseimer implicitamente già riconosce in re la formazione spontanea di uno stile, sebbene non lo definisca come tale30; le rassegne fotografi­ che presentate con lnternationale Architektur e con lnterna­ tionale neue Baukunst delineano senza dubbio un modello idealtipico, per usare un'espressione di Weber, da cui deriva direttamente l'operazione compiuta pochi anni dopo dai due autori americani, come scrive lo stesso Hitchcock31 • Solo questi rendono però manifesta la necessità della no­ zione di stile quale strumento critico indispensabile e, seb­ bene ciò appaia per certi versi paradossale, non è forse un caso se tale esigenza sia infine avvertita in territorio ameri­ cano, ossia proprio laddove molti dei maestri tedeschi si tra­ sferiranno prima della guerra32• Se da un lato la formula utilizzata da Hitchcock e John26



6 E11twmf eines Systems der vergleichenden Stillehre è il titolo di una conferenza tenuta a Londra nel 1853, il cui testo verrà pubblicato nei Klei11e Scl1rifte11, Mtiander Kunstverlag, Mittenwald I 977. 7 Il titolo complelo dell'opera è Der Stil i11 den teclmischen 1111d

tekto11ische11 Kiinsten oder praktische Asthetik. Ei11 Ha11db11ch fiir Te­ chnike1; Kiinstler 1111d K1111stfre11nde; il primo volume appare nel 1860

a Francofor1e sul Meno e il secondo tre anni più tardi a Monaco presso la Friedrich Bruckmann Verlag, dove entrambi i tomi sono ripubblicati rispettivamente nel 1879 e nel 1880; una selezione di brani dell'opera di Semper è stata tradotta in italiano in Lo stile nelle arti tecniche e tet­ toniche o estetica pratica. Manuale per tecnici, artisti e amatori, La­ terza, Roma-Bari 1992, a cura di A. R. Burelli, C. Cresti, B. Grava­ gnuolo, F. Tentori. 8 G. SEMPER, Ober Baustile, conferenza tenuta a Zurigo il 4 marzo 1869, poi in Wisse11schaft, Industrie 1111d K1111st. Und a11dere Schrifte11 iiber Architekt111; K1111sthandwerk 1111d K1111s11111terricht, raccolla di scritti curala nel 1966 da H. M. Wingler per Florian Kupferberg Ver­ lag; si cita dall'ed. it. a cura di B. Gravagnuolo: Architettura, arte e scienza. Scriui scelti, 1834-1869, Clean, Napoli 1987, pp. 97-98.

9 A. RIEGL, Stilfragen. Gn111dleg1111ge11 zu ei11er Geschiclrte der Ornamemik, Verlag von Georg Siemens, Berlino 1893; si cita dall'ed. il. a cura di A. C. Quintavalle: Problemi di stile. Fondame/lii di 111,a storia dell'arte ornamemale, Feltrinelli, Milano I 963, Introduzione,

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G. SEMPER, Ober Ba11stile, cii., p. 98. 11 Ivi, p. 99. 12 Cfr. G. SEMPER, Wisse11schaft, Industrie 1111d Kunst, pp. 111-114 dell'ed. it., cit., e anche il saggio di B. Gravagnuolo, Semper e lo stile, in G. Semper, Lo stile, cii., pp. 355-376. 13 L. VENTURI, Gli schemi del Wol.ff1i11 (1922), in Saggi di critica, Bocca, Milano I 956, pp. 86-87. 14 E. PANOFSKY, Das Problem des Stils in der bildenden K1111st, «Zeitschrift filr Aesthetik und allgemeine Kunstwissenschaft», X, 1915; trad. it. a cura di Guido D. Neri, li problema dello stile nelle arti figurative, in La prospeuiva come "forma simbolica" e altri scritti, Feltrinelli, Milano I 961; si cita dall'ed. del 1985, per la collana "i Campi del sapere", p. 155. 15 W. DILTHEY, Die Einbild1mgskraft des Dicluers. Bausteine fiir ei11e Poetik, 1887; si cita dalla trad. il. in Estetica e poetica. Materiali editi e inediti ( /886-1909), Franco Angeli, Milano I 992, a cura di G. Matteucci, p. 165. 16 R. DE Fusco, Storia e struttura. Teoria della storiografia archi­ tettonica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1970, pp. 120-121. 17 M. WEBER, Gesammelte Aufsiin:.e zur Wisse11schaftslehre, Mohr, Tubinga I 922; ed. it. Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958, p. 94, ripreso da R. DE Fusco, Storia e struttura. Teoria della storiografia architettonica, cii., p.175. 18 Ibidem. 19 A. HAUSER, op. cii., p. 176.





adoperati e dalla presenza di colori che rivestono le pareti e i piani degli ambienti, saturando, in senso ottico, ogni an­ golo. Alla ricerca di una diversa vitalità, i futuristi - ha os­ servato Celant - propongono, cosl, un salto scalare, che in­ crina le strutture monolitiche di quadri e sculture, per inclu­ dere nelle loro "camere tattili" ciò che è attorno. Dinanzi al mondo, assumono un atteggiamento "inglobante"; ne col­ gono l'energia che lo fa vibrare. L'inventio e le forme dell'esistenza non sono poste in antitesi. Viene valorizzata la molteplicità simultanea della materia energetica3• Si cerca, all'interno della scatola mu­ raria, la reciprocità tra gli elementi che sono contenuti in essa. Le opposizioni tra "stati" diversi sono attenuate; si sta­ bilisce una reciprocità che vuole rendere gli oggetti permea­ bili a ogni tipo di infiltrazione. Pieno e vuoto convergono in un topos sconfinato, in cui sono inclusi anche gli spettatori e alcuni frammenti architettonici. I futuristi - come ha rilevato Branzi - si muovono in due ambiti. Sottolineano l'autonomia e l'alterità cromatica degli elementi dell'arredamento rispetto all'ambiente, lambito da linee di forza che attraversano la stanza, provenendo dall'esterno urbano; e, al tempo stesso, progettano uno spazio relazionale, il cui perimetro è solo accidentalmente chiuso dalle pareti della stanza, ma tende a coincidere con quello ben più vasto della metropoli meccanica4 . Giacomo Balla

· Al 1912 risale anche il primo esempio di sintesi ambien­ tale futurista. Ne è autore Giacomo Balla. Si tratta della ca­ mera da pranzo della casa Lowenstein a Diisseldorf: un ar­ redamento la cui omogeneità è favorita dall'esplosione di veri e propri lampi cromatici. La progettazione dei mobili è semplificata. Si assegna un ruolo centrale a una serie di se­ gni triangolari e diagonali. Pur celebrando la varietà dei toni, Balla - il quale, nel 32 1904, aveva realizzato i mobili del proprio appartamento



L'artista perviene a questa astrazione non seguendo le indicazioni del cubismo, ma attraverso una diversa "linea evolutiva", che muove dal post-impressionismo e giunge al­ i' Art Nouveau. I motivi decorativi - iscritti sulla figura del triangolo -, invece, possono essere accostati alle scelte ec­ centriche di Morris e di Heal e alle soluzioni adottate nel­ l'ambito della secessione viennese da Hoffman nei suoi di­ segni per la Weiner Werkstatte. Per verificare queste asso­ nanze, basta soffermarsi sui comodini che imprimono un certo ritmo all'insieme, sulla spalliera del letto e sull'arma­ dio - elementi che, ricoperti da sfaccettature geometriche, sembrano seguire una crescita organica, una espansione va­ gamente vandeveldiana. Dall'Art Nouveau, Balla recupera, soprattutto, l'aspira­ zione a unire le diverse operazioni creative in un'unica esperienza. Vuole imprimere una cifra distintiva al micro­ cosmo in cui l'uomo vive. Propone una gioiosa trasfigura­ zione. Adottando lo schema della scacchiera, sottopone a una cadenza centripeta la struttura della sala, cui dà un "senso svettante". I suoi oggetti, che rivelano un geometri­ smo "inamidato e un po' astruso", ricordano le sedie di Mackintosh e i mobili di Franz, di Frommel e di Moser. Il pittore romano, tuttavia, è molto più rigoroso degli artigiani vicini allo Jugendstil nello studiare i colori, nel dotare le sue sagome di una strana, precisa, modernità, che è più vi­ cina a noi del Liberty 6 • Tale modernità può essere colta anche nei progetti rea­ lizzati dal 1918 al 1922, tra i quali colpisce quello di un ar­ redamento ideato nel 1918. Nel disegno, compaiono un mo­ noblocco esagonale e uno studio, con scrittoio e sedile. Le luci, disposte a parete e sulla scrivania, sono appena indi­ cate, con lievi grafie, quasi che la modificazione di colore e di linee dipendesse totalmente da esse7 • La decorazione muraria è riempita di rami, ispirati alle tele di Klimt, di O1brist e di Schmithals. I mobili e le suppellettili sembrano adeguarsi al comportamento degli individui. Tale connubio sarà meravigliosamente raggiunto da Balla nei mobili realizzati tra il 1914 e il 1920, resi "veloci" 34



pongono non solo di "cantare" il mondo, ma di ricrearlo in­ teramente. Non si limitano più a costruire il reale; lo «sosti­ tuiscono». Immaginano un'arte che parifichi la vita. Inneg­ giano alle gioie dell'universo colorato, luminoso e polima­ terico. L'universo - dicono, rivelando una sicura sintonia con quanto aveva scritto Palazzeschi nel manifesto del Con­ trodolore del 1914-va rallegrato. Il piano unico e bidimen­ sionale della tela non consente più di esprimere la velocità della vita moderna. Bisogna dare uno scheletro ali' invisi­ bile, all'impalpabile e all'impercettibileJè giunta l'epoca di complessi plastici, nati dalla combinazione tra gli «equiva­ lenti astratti» di tutte le forme, caratterizzati da una notevole autonomia, da una rara forza drammatica8 Balla e Depero rompono definitivamente le pertinenze settoriali del futurismo. Estendono all'infinito l'intervento dell'arte; mirano ad un cambiamento totale della società. Portandosi al di là delle «limitazioni» dei singoli linguaggi, avvertono il bisogno di misurarsi con il «concreto vissuto». Si muovono entro una dimensione artistica globale; so­ gnano un'opera «poliespressiva», capace di parlare a tutti i sensi. Suoni, rumori e odori devono entrare definitivamente a far parte del!' arte. Il pittore non può limitarsi a rappresentare gli oggetti; non deve solo contemplarli, ma situarli nello "spazio della funzione". L'arte è azione, volontà, ottimismo, gioia, nuovo oggetto, nuova realtà creata cogli elementi astratti del­ l'universo. Il tradizionale campo di pittura e scultura va su­ perato attraverso una totalità d'intervento. Bisogna valicare le competenze settoriali, uscire dall'ambito circoscritto del quadro, per elaborare manifestazioni, in grado di favorire il coinvolgimento dell'individuo, secondo la linea di inte­ grazione totale delle arti con la realtà9. Soppresso ogni margine di scarto tra arte ed esistenza, l'opera si configura come disposizione verso il futuro. Gli artisti devono andare all'assalto delle città per ri­ farle a propria immagine e somiglianza; puntano ad un rin­ novamento integrale della cultura; rivendicano il diritto di 36 penetrare in ogni settore dell'attività umana, facendo cadere

d



elastica; rifiuta la decorazione; il suo valore nasce soltanto dall'impiego originale dei materiali e dei colori; trae ispira­ zione dal mondo meccanico; cerca di armonizzare, con li­ bertà, ambiente e uomo 11 • Queste affermazioni di Sant'Elia trovano un riscontro nelle parole di Marinetti, il quale, in Guerra sola igiene del mondo, sogna una città fatta di pareti di ferro, con mobili di acciaio, venti volte più leggieri e meno costosi dei nostri, lontani dalle fugacità e dalle mollezze debilitanti del legno e delle stoffe, con i loro ornamenti agresti. Il medesimo tono accompagna L'atmosferastruttura, il manifesto pubblicato su "Noi" nel febbraio del 1918 da Prampolini, che ipotizza un'architettura diretta a rispec­ chiare la vita intensa di moto, luce, aria, di cui l'uomo fu­ turista è nutrito. L'abitazione del futuro dovrà essere la

conseguenza astratta degli elementi atmosferici delle forme dello spazio, organizzate per evoluzioni di neces­ sità intrinseche alla vita umana 12• La linea fantastica e quella funzionale

Nella complessa geografia delle arti applicate futuriste è possibile individuare due linee: una fantastica e una funzio­ nalista. Vi è, innanzitutto, la tendenza "fantastica", in cui si in­ seriscono le opere di Balla, di Depero, di Tato e di Marchi. Quest'ultimo, nei suoi bozzetti scenografici, esibisce una notevole predilezione per le bizzarrie alla Finsterlin. Nel teatro e nel bar della Casa d'Arte Bragaglia a Roma, crea eleganti strutture d'atmosfera; servendosi di materiali come il ferro e il cemento, che si prestano alla piegatura in mille foglie e si adattano ai giuochi della nostra inventiva. Il suo intento è quello di realizzare, per la prima volta in Italia, una solida e pratica architettura futurista ( ... ) rispon­ 38

dente alla suggestività del luogo notturno 13 •

Una più cauta gioia percorre gli arabeschi di Depero, che è animato da un sotterraneo pessimismo, da un senti-



sgabelli (dei primi anni Venti), basati su montaggi e scom­ posizioni, su ricomposizioni e incastri di forme e di colori accesi (come il verde e il giallo). Oppure si pensi alle tova­ glie, ai tappeti e agli arazzi (cuciti dalla figlia, Luce), tesi a infondere una nota di allegria nella quotidianità. Di grande effetto anche il paravento (eseguito nel 1932), occupato da fiori che si compenetrano con grazia - una scatenata pro­ posta pop 15 , debitrice delle schematizzazioni art déco, ve­ lata, su un fondo grigio, da rosa soffusi. Interessanti anche i paralumi (datati 1918-1926), arricchiti da colori allegri e da icone vibranti - manufatti artigianali ed estrosi, dotati di una misteriosa eleganza già colpiti dal presentimento (li­ rico) dell'effimero sociale e industriale 16, percorsi da co­ stellazioni ascensionali, simili a nervature infiammate, che si contrappongono alle cromie in un 'agile ginnastica. Le medesime costellazioni ritornano in altri lavori di Balla. La decorazione - andata perduta - di un soffitto lu­ minoso della Casa d'Arte Bragaglia di Roma (inaugurata nel gennaio del 1922); e l'allestimento del Bai Tic-Tac (an­ ch'·esso oggi perduto), di cui restano i bozzetti preparatori e alcune riproduzioni di particolari (nel numero del febbraio del 1922 de "Il Futurismo"). Il Bai Tic-Tac doveva consi­ stere in alcuni grandi murales astratti, con vari spunti figu­ rativi; erano previsti, inoltre, arredi fissi e mobili dipinti con evidenti contrasti tonali, pieni di forme racchiuse da sobri contorni. L'allestimento è descritto da Caillot in un articolo su "Les Tablettes" del 1921. Vi si legge: Gli stessi muri sembrano danzare: grandi linee architettoniche si com­ penetrano nelle tonalità franche dei blu chiari e profondi(...). Una ballerina con un ventaglio scompone i suoi movimenti e simultaneamente ne imprime nello spazio il ricordo ritmico. Tra i manufatti di Balla, colpiscono anche le lanterne e le lampade (esposte nella galleria di Bragaglia nel 1918); i paraventi, ricchi di motivi stilizzati; la maquette dello spet­ tacolo Feu d'artifice ideato nel 1917 per i Ballets Russes di Diaghilev, efficace sintesi tra la danza dei ballerini e i ritmi 40 della luce; e il «fiore» (risalente al 1918) - un manufatto es-





aveva affermato Nicola Galante in un intervento giornali­ stico apparso nel 1917 sul primo numero di "Noi", la rivista di Prampolini e di Sanminiatelli. Le cose - aveva dichiarato Galante - devono riuscire a comprendere in se stesse tutto ciò che fa parte del!'ambiente quotidiano, dal palazzo alla forchetta da tavola. Il rapporto tra forma e funzione è in­ dissolubile. Gli effetti decorativi di un manufatto devono essere raggiunti sviluppando le caratteristiche già insite nei materiali adoperati, dei quali bisogna sviluppare le tonalità naturali. Il colore va usato senza timidezza, in modo che esso non plasmi rappresentazioni, neanche geometriche, né intacchi l'arte pura (...) che sta e vive per sé. Un giu­ dizio che sembra risentire di ciò che aveva sostenuto Sant'Elia nel quarto punto del suo manifesto sull'architet­ tura, in cui si dice che la decorazione, come qualcosa di sovrapposto( ... ), è un assurdo, e che soltanto dall'uso e dalla disposizione originale del materiale greggio e nudo o violentemente colorato dipende il valore decorativo dell'architettura futurista. Igiene e benessere, invenzione e rigore, devono essere posti sullo stesso piano. Bisogna integrare la varietà for­ male ricercata dai protagonisti della linea fantastica con l'e­ quilibrio caro ai «funzionalisti». Il dialogo tra queste due diverse declinazioni della poe­ tica futurista è perseguito con ostinazione da Prampolini, il quale, nelle sue suppellettili, sembra risentire dell'insegna­ mento di Cambellotti, suo maestro ali'Accademia, che aveva esercitato su di lui un importante influsso, non tanto per il tramite diretto della sua opera, quanto con l'esem­ pio della sua personalità di artista poliedrico, interes­ sato al problema della pittura e della scultura, così come a quelli della grafica, dell'architettura e dell'arreda­ mento22 . Sulle orme di Cambellotti, Prampolini, nelle sue crea­ zioni di arte applicata, costruisce oggetti influenzati dal se­ cessionismo, filtrato attraverso la lezione di Sant'Elia e la rustica manualità di Rietveld, assottigliando - fin quasi a arlo sparire - il limite di demarcazione tra oggetto d'uso e f 44



mente, confinati nell'ambito di un lussuoso artigianato di piccola serie. Si rivolgono al mondo della macchina come a una fonte mitica di ispirazione; non colgono i problemi le­ gati alla produzione ampia. A differenza dei protagonisti del Werkbund e del Bauhaus, concepiscono la tecnologia non come uno strumento in grado di imporre nuovi sistemi di certezza. Essa - per loro - è sinonimo di instabilità perma­ nente, di un progresso discontinuo che acuisce squilibri, trasformazioni veloci, scandali e fratture, di una perma­ nente crescita nella crisi e nell'incertezza dei valori24•

Non si confrontano con le regole imposte dalla filosofia della serialità. Quando l'esecuzione è affidata alla mac­ china, il creatore non può modificare la forma nel corso del processo realizzativo; deve prevedere e compiere il pro­ getto sin dalla fase dell'ideazione; valutare, dall'inizio, le possibilità insite nelle materie; essere in possesso di una na­ turale tensione «concettuale", che può essere acquisita solo dopo un lungo tirocinio pratico. Distanti da questa consapevolezza, i protodesigners fu­ turisti vogliono sempre conservare la possibilità di alterare, nel corso della lavorazione, i loro oggetti, rendendoli sensi­ bili al loro mondo affettivo. Condensano, in essi, un ampio numero di esperienze. Pur teorizzando lo sconfinamento dell'arte al di là dei generi classici, essi restano nel recinto della pittura e della scultura. Concepiscono i loro utensili non come cose da adoperare quotidianamente, ma come «attrezzi» dotati di una misteriosa eccezionalità. Non ne va­ lorizzano fino in fondo l'utilità - li trattano come se fossero quadri: dipingono non solo sulla tela, ma anche su stoffe, ceramiche, legni. .. Apportano escamotages stilistici dinamici, modulati at­ traverso la compenetrazione tra i colori in iridi composite. Lontani dalle rigidità bauhausiane, gettano le basi per una progettazione adeguata ai ritmi della contemporaneità, de­ bole e flessibile; disegnano oggetti - si pensi a quelli pre­ sentati nella Grande Esposizione Nazionale Futurista (che si tiene a Milano nel 1919)- ricchi di una sottile carica lu46 dica, sottoposti a ininterrotte mutazioni, in bilico tra slancio



che sovvertono, senza riuscire a definire, però, nuove solu­ zioni tecnico-espressive. Sognano l'avvento di una nuova metropoli; ma non hanno la forza di edificarla. Profetizzano un assetto urbano legato alle mutate esigenze della popolazione, ma restano in una dimensione utopistica: i loro progetti (soprattutto quelli di Sant'Elia) hanno, essenzialmente, il valore di stimolanti provocazioni intellettuali. Riescono a cogliere l'importanza del cinema - arte sin­ tetica per eccellenza, straordinaria nella rappresentazione della dinamicità del reale -; ma non sanno confrontarsi con le regole proprie del mondo dell'industria del film. Il ci­ nema, per loro, è un linguaggio che affascina e incuriosisce; resta, sostanzialmente, un termine di riferimento gene­ rico, un argomento cui ricorrono nelle loro battaglie per una pittura simultanea; fornisce stimoli fecondi da utilizzare in altri territori, per esaltare l'immaginazione letteraria e quella pittorica27• Questa incapacità di confrontarsi davvero con il nuovo accompagna anche le ricerche nell'ambito delle arti appli­ cate compiute dai futuristi, che hanno avuto certamente il merito di aver intessuto il clima nel quale affondano le ra­ dici del disegno industriale italiano28 . Le loro innovazioni cromatiche e i loro incastri saranno assunti da molti proget­ tisti delle generazioni successive (da Nizzoli a Munari) ne­ gli utensili disegnati dopo il 1930, quando il pubblico me­ dio sembrerà accettare più naturalmente soluzioni d'a­ vanguardia29 .

48

Al di là dei limiti e delle cautele che ne segnano la poe­ tica, i futuristi riescono ad elaborare una originale idea del disegnare cose, ambienti e città. Accantonato il superomi­ smo tipico della cultura italiana primonovecentesca, met­ tono in risalto la funzione sociale e civile dell'artista, che deve concepire il proprio lavoro come un esercizio anti-in­ dividualistico. Richiamandosi alla filosofia di De Stijl, ritengono che l'arte debba trovare la propria ragione unica di esistenza in quanto è espressione di esigenze pluripersonali. Repu-



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· • A. BRANZI, Introduzione al design italiano, Baldini & Cas1oldi, Milano 1999, p. 76. 5 M. CALVESI, Le due avanguardie, Laterza, Roma-Bari 199 I (III ed.), pp. 102-104. 6 lvi, p. 104. 7 G. CELANT, op. cit., p. 523. 8 G. BALLA - F. DEPERO, Ricostruzione futurista dell'universo, 11 marzo 1915 (in L. SCRIVO, op. cit., pp. 124-127). 9 lbidem. 10 Ibidem. 11 A. SANT'ELIA, L'architettura futurista, l l luglio 1914 (in L. SCRIVO, op. cit., pp. 105-106). Su questi temi, vedi E. Gooou, ll futu­ rismo, Laterza, Roma-Bari 1997 (III ed.). 12 E. PRAMPOLINI, L'atmosferastruttura - Basi per un 'architettura futurista, in "Noi", febbraio 1918. 13 La cit., tratta dal libro Architettura futurista di Marchi, è in F. MENNA, La regola e il caso, Ennesse Editrice, Roma 1970, pp. 70-71. 14 F. CANGIULLO, I mobili a sorpresa parlanti e paro/iberi, in "Roma Futurista", 7 I, 22 febbraio I 920. 15 M. FAGIOLO DELL'ARCO, Oggetti e arredamemo, scheda n. 51, in AA.VV., Casa Balla, a cura di M. Fagiolo dell 'Arco, catalogo della mostra, Marsilio, Venezia 1997, p. 97. 16 Ibidem. Sulla ricerca di Balla nell'ambito delle arti applicate, vedi G. DE MARCHIS, Giacomo Balla. L'aura futurista, Einaudi, To­ rino 1977, p. 63 e sgg. 17 G. CELANT, op. cit., p. 524. 18 Commentando il progetto per la Casa Zampini a Esanatoglia che può essere confrontato a quello (non portato a termine) per l'abi­ tazione di Eura Pannaggi Benigni -, Pannaggi scrive: "Esistono già molti ambienti futuristi, sale di ritrovo, hall di alberghi, etc., ma il vero appartamento di abitazione, dove gli ambienti servano ad uno scopo determinato e dove si abiti in permanenza, non era stato, prima di oggi, costruito. Chiamo questo lavoro 'Architettura interna' perché non vi sono sovrapposizioni pittoriche decorative su mobili già esistenti o su pareti comuni; tutto è stato espressamente costruito con linee e forme nuove, determinate da necessità pratiche, e la sistemazione dei muri, delle porte e finestre, dell'illuminazione etc. è stata dettata da una vo­ lontà unica" (I. PANNAGGI, Casa futurista Zampini, in "La Fiera Let­ teraria", 24 luglio 1927). 19 E. CRISPOLTI, Un arredamento futurista di Pannaggi, in AA.V V., Pannaggi e l'arte meccanicafuturista, a cura di E. Crispolti, catalogo della mostra, Mazzotta, Milano I 995, p. 294. Il saggio di Cri­ spolti era stato precedentemente pubblicato su "Arte Illustrata", Il, 2223-24, ottobre-novembre-dicembre I 969, pp. 72-8 l . 20 Spiegando il senso della propria ricerca sulle sedie, Pannaggi di­ chiara: "La mia prima sedia risale al 1947 ( ... ). La sua caratteristica è costituita dall'impiego di un materiale unico (legno laminato) che, op­ portunamente curvato, assume la forma di una sedia con bracciuoli in un solo pezzo, senza operazioni di montaggio, senza viti, chiodi e bui-




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