Op. cit., 112, settembre 2001

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Alessandra de Martini

Marina Montuori, Livio Sacchi

Segretaria di redazione: Rosa Losito Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 -Tel. 7690783 mministrazione: 80122 Napoli, Via Francesco Caracciolo, 13 - Tel. 7614682 Un fascicolo separato L. 12.000 (compresa IVA) - Estero L. 13.000

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Electa Napoli


R.DEFusco, A. SAGGIO, A. SANDONÀ, L. PIETRONI,

Internet non s'addice all'architettura Nuova Soggettività. L'architettura tra comunicazione e informazione La creatività nel teno millennio Il dibattito italiano su design e ambiente Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Angelo Capasso, Ales­

sandro Castagnaro, Imma Forino, Claudio Roseti.


I.A rivista si avvale del contributo economico delle seguenti Aziende:

Alessi Driade Heller


Internet non s'addice all'architettura RENATO DE FUSCO

Che la tecnologia digitale sia cosa di grande rilievo, tale da modificare l'economia, il lavoro, i rapporti sociali, il co­ stume, il nostro stesso modo di pensare, è idea universal­ mente diffusa ed accettata. Chi non impara, utilizza, svi­ luppa le nozioni e i concetti di questa tecnologia si pone fuori del mondo; a chi pensa male dell'informatica si può applicare, mutatis mutandis, il famoso motto dell'Ordine della Giarrettiera, Honi soit qui mal y pense. Tutto ciò rico­ nosciuto, la tecno-ideologia oggi imperante si presta ad al­ cuni equivoci che vanno chiariti. Qui ne discuterò due: quello che riguarda il concetto di «informazione» e l'altro che associa indiscriminatamente l'architettura all'informa­ tica ovvero ad Internet, qui scelta come emblema dell'intero corpus disciplinare. Al centro della teoria digitale è il concetto di «informa­ zione» che è stato ipostatizzato, ovvero esagerato oltre le sue effettive possibilità, specie per quanto riguarda la nostra disciplina. Nel linguaggio cibernetico, un'informazione è

un elemento di conoscenza recato da un messaggio che ne è il supporto e di cui essa costituisce il significato. Quando i messaggi sono redatti secondo un codice de­ terminato, si può valutare l'informazione che trasmette un messaggio in caratteristiche date, introducendo delle

unità d'informazione [S. LALANDE, Dizionario critico di

filosofia, !SEDI, Milano 1971, p. 424]. Da questa definì-

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zione emergono tre cose: l'informazione è un elemento di conoscenza; può variare da codice a codice ed è misurabile come vuole un'apposita teoria, quella appunto dell'infor­ mazione. L'informazione pertanto non è materia o energia (Norbert Wiener), né spirito o soggettività (Gotthard Gi.in­ ter) ma solo e semplice informazione, notizia, fattore di co­ noscenza da trasmettere ad altri. Secondo Maldonado, la natura dell'informazione è rimasta un problema teorico relativamente aperto. Non c'è da stupirsi dunque che in una società come l'attuale, in cui l'informazione sta as­ sumendo un ruolo fondamentale, alcuni tendano a ve­ dere nel processo di informatizzazione in corso una sorta di globale dematerializzazione e persino di spiri­ tualizzazione del mondo in cui viviamo [T. MALDONADO, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1992, p. 13]. A mio avviso, tale processo non riguarda una «so­ stanza», altrimenti anch'esso diventa un'ipostasi, bensì una tecnologia che, tra le altre numerose sue potenzialità - in­ terconnessione, abbattimento delle distanze, virtualità, ecc. - comprende anche la capacità di trasmettere in «tempo reale» non l'unica e metafisica «informazione», ma le nu­ merose altre pertinenti ad ogni reale e specifico campo: le notizie economico-finanziarie, quelle politiche, i fatti di cronaca, gli ordinativi commerciali, ecc. Il passaggio dal singolare al plurale delle informazioni è il primo punto per ridimensionare l'assunto centrale di al­ cuni teorici dell'architettura digitale che pretendono essere l'informazione la «materia prima dell'architettura», espres­ sione assolutamente priva di ogni significato. Invece Gerhard Schrnitt scrive: poiché sono sempre più sottili i confini che dividono realtà e astrazione, e la tendenza dell'architettura è quella di allontanarsi dall'arte di co­ struire edifici per rivolgersi all'arte di creare strutture virtuali, la realtà virtuale diventa il mezzo perfetto per simulare la nuova architettura. Tutto ciò alla fine potrà addirittura avere come risultato la smaterializzazione dell'architettura, che diventerà una sorta di campo di applicazione naturale della realtà virtuale [G. ScHMITT,









Nuova Soggettività. L'architettura tra comunicazione e informazione ANTONINO SAGGIO

In questo scritto intendiamo porci una domanda: «Quali sono gli auspicabili sviluppi dell'architettura nei prossimi anni?». E, per ragionare in termini concreti, diciamo nei prossimi cinque anni in modo tale che nel 2006 verifiche­ remo quello che avremo effettivamente raggiunto. La domanda fa scivolare via come se fosse un fatto tra­ scurabile quello che è invece fondamentale. Parliamo di Ar­ chitettura digitale o di Computer e architettura solo come strumenti per arrivare ad una nuova fase di tutta l'architet­ tura. La formula «La Rivoluzione Informatica» (che è anche il nome di una collana di volumi di cui chi scrive porta la re­ sponsabilità) pone l'accento sulla accelerazione che stiamo vivendo in questi anni. Si tratta di una rivoluzione nella crea­ zione di ogni bene del mondo contemporaneo di cui sono chiare le ricadute economiche e sociali e che è ormai matura per essere oggetto di riflessione per tutti gli architetti. Naturalmente, per iniziare a rispondere alla domanda sugli auspicabili sviluppi dobbiamo fare un passo indietro e prendere un poco di ossigeno. La rincorsa che propongo ha solo due tappe. L'una è il 1997, l 'altra il 1926.

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La riscoperta della narrazione - Nel 1926 si inaugura la nuova sede del Bauhaus. A Dessau tutti i ponti con l'edilizia del passato vengono drasticamente eliminati. In particolare il nuovo edificio cancella ogni idea di tipologia edilizia, di







largata, adoperarla non solo come è oggi nelle case dei ric­ ·chissimi ma anche e sempre di più negli edifici pubblici, nei musei, in alcune parti di città è appunto uno degli esiti au­ spicabili dell'architettura nei prossimi cinque anni. E sono quasi certo che nel 2006 vedremo qualcosa di maturo anche come coscienza «estetica» su questo terreno. Ma Interattività, oltre alla mutazione effettiva dell'ar­ chitettura, ha appunto altri due livelli più bassi e più sem­ plici da praticare. L'uno consiste nel fatto che oggi si pos­ sono combinare in maniera una volta impensata il reale e il virtuale. Si tratta dell'avanzamento di sistemi di proiezione quasi dentro la stessa pelle dell'edificio che consentono an­ che di intervenire con una sorta di nuovo illusionismo me­ diatico che può permettere di dare vitalità a situazioni de­ gradate o in cui è impossibile intervenire. Nei siti archeolo­ gici o nelle periferie degradate o in alcune parti dei centri antichi si possono prevedere alcuni interventi di questo tipo. Si tratta di compiere un passo decisivo per la presenza del­ l'informatica nella scena e nella scenografia della città. Au­ spichiamo «un barocco informatico»: delle nuove Piazze Navona, delle nuove Fontane di Trevi e delle nuove Trinità dei Monti del 2006. Ci stiamo lavorando. Infine vi è il terzo livello, che è quello che potrà essere ancora più diffuso. Si tratta dell'interattività dentro il pro­ cesso stesso della progettazione architettonica. Oggi, anche se pochi ne fanno effettivamente uso, ci si può muovere con velocità e facilità dentro la nuvola di dati interconnessi che abbiamo descritto, per decidere, di volta in volta, la forma che a quella nuvola vogliamo dare. Il processo stesso del concepire prima, costruire poi, e gestire infine l'architettura consente un flusso di interattività enorme. Ci stiamo avvici­ nando al vecchio sogno di Chuck Eastman e di altri scien­ ziati del Cad negli anni Settanta. Avere un unico database di informazioni tridimensionali su un edificio, organizzato ge­ rarchicamente (quindi dinanùcamente, come se rappresen­ tasse un'equazione matematica), legato ai cataloghi esterni, ai prezziari, ai modelli tridimensionali delle componenti e 20 connesso a sistemi esperti per le verifiche specialistiche. E



La creatività nel terzo millennio ANNAMARIA SANDONÀ

Harald Szeemann, riconfermato direttore della Biennale di Venezia per la seconda volta consecutiva, ha improntato la manifestazione ad uno spirito ecumenico, titolandola la Platea dell'umanità, tema questo che sta ad indicare nelle sue dichiarazioni una dimensione... un luogo verso il quale si guarda e da dove si è guardati, un luogo nel quale il pubblico è spettatore, protagonista e misura delle cose, un luogo d'incontro tra artista, opera ed os­ servatore... La Biennale come specchio e piattaforma dell'umanità ... poiché in questi anni si vive un clima di attesa nei confronti dell'interesse per il comportamento umano, per l'esistenza umana 1• Per la verità, da storica dell'arte, mi sembra che questo sia sempre stato l'intento prioritario degli artisti, la logica conseguenza del farsi portavoce di personali riflessioni sul proprio mondo e sui rapporti con ciò che li circonda. Del re­ sto gli inizi del terzo millennio sono all'insegna della cosid­ detta globalizzazione per cui il tentativo di Szeemann è stato quello di dar voce ad una molteplicità di linguaggi, al­ l'espressione di autori la cui produzione non è generalmente classificata all'interno dell'elitario e ristretto mondo del­ l'arte. Scorrendo l'elenco delle presenze si rimane colpiti dall'eterogeneità dei paese d'origine; se nella precedente Biennale (dAPERTutto) avevano fatto la loro comparsa i 22 nuovi artisti cinesi con opere che dimostravano la totale



pubblicitarie, per mostrare con uno humor nero le sconfitte umane della guerra, o le parate militari del guatemalteco A 1-53167, o i soldati israeliani di Rineke Dijkstra, giovani donne e uomini fotografati prima in abiti civili poi in tenuta da guerra a voler ricordare come in quel paese la normalità sia data dal convivere quotidiano con una sordida guerri­ glia. Anche la religione è presentata nell'accostamento fra sacro e pagano nelle foto documentarie dei 'riti woodoo di Cristina Garcia Rodero, per arrivare poi ad un ponte so­ speso pieno di piccoli animali di plastica, una nuova arca di Noè, fra una Bibbia e un Corano della finlandese Maaria Wirkkala, o nella figura del Papa colpito da un meteorite nell'ennesima caustica provocazione di Maurizio Cattelan. Non manca neppure una spettacolarizzazione della morte per omicidio nel bel video di Georgina Starr in cui delle bambine travestite da candide, innocenti conigliette, spa­ rano in un tripudio di sangue a delle modelle che stanno sfi­ lando. Il dibattito sociale e ideologico sul diritto dell'uomo di uccidere per punire fa da sfondo alle foto di Lucinda Dev­ lin, nelle fredde, quasi scientifiche immagini delle camere della morte delle prigioni americane. A ben guardare non sembra che i temi affrontati siano molto diversi da quelli del millennio precedente. L'umanità, globalizzata o no, ha sempre le stesse paure e gli incubi ri­ cotrenti si manifestano in una diffusa perdita di confini dal sé individuale. È sintomatico come in questi anni la capil­ lare diffusione dei mezzi di comunicazione e di informa­ zione, inprimis internet, il massiccio ricorso al tempo reale, abbiano di fatto abbattuto frontiere oltre che fisiche, econo­ miche e sociali anche psicologiche. Se da un lato tutto que­ sto è una conquista fondamentale e positiva, dall'altro si sono smarrite peculiarità etniche; tutto si è reso più uniforme in una specie di cyberspazio in cui questa umanità si muove confusa e gli artisti danno voce appunto ad una realtà solo apparentemente a dimensione umana, soffocata da troppi stimoli soprattutto visivi. Le immagini, anche le più consuete e banali, non sono mai rassicuranti, c'è talvolta 24 una certa leggerezza quasi poetica che tuttavia sembra falsa,



siva fa venire in mente il bel video di Gary Hill Wall Piece, in cui l'artista vestito di nero continua ad andare violente­ mente a cozzare con un rumore sordo contro una parete nera, nel tentativo sempre fallito di abbatterla o di oltrepas­ sarla. La parossistica condizione di essere imprigionati in modo demenziale in ruoli da cui non si può uscire emerge anche nell'opera video di John Pilson che, avendo lavorato come impiegato in uno studio di Manhattan, ha filmato in Mr. Pickup la comica, caustica ed amara tragedia di un av­ vocato in lotta con molte cartelle di documenti che conti­ nuano a cadergli di mano e a sparpagliarsi sul pavimento. La massiccia invasione di immagini all'interno della ca­ tegoria del documento presente in questa Biennale ha fatto di diritto superare l'ormai obsoleta distinzione fra artista che usa la macchina fotografica o la cinepresa e fotografo, fra colui che costruisce immagini e colui che le coglie nel suo farsi. Lo stesso dicasi per molti video che talvolta hanno l'aspetto di reportage di viaggio carpiti al vivere quotidiano altrui con una telecamera. Allora Kathmandu e la Finlandia (Tuomo Manninen) o la scuola in India (Tiong Ang) o i pae­ saggi di Heli Rekula, ma anche la sorella di Vanessa Bee­ croft, algida immagine da calendario dei mesi dell'anno, hanno lo stesso valore di curiosità antropologica in quanto si consumano nel loro apparire, come è inevitabile ad un fe­ nomeno puramente visivo. Molti degli artisti presenti, al contrario, nelle loro opere hanno volutamente puntato l'at­ tenzione su contenuti di denuncia sociale come emergenze su cui non è possibile chiudere gli occhi. (Gianfranco) Botto e (Roberta) Bruno ad esempio hanno riprodotto su carta da parati, tappezzando l'ingresso delle Corderie dell'Arsenale, le immagini di paesaggi del disordine, ambienti anonimi nella tematica dell'apocalisse del suburbio, in cui la rara presenza umana e i colori innaturali, lividi da ecchimosi, sottolineano come le periferie siano i margini opposti, ma altrettanto invivibili, di una civiltà metropolitana. Sono i ri­ fugi dell'emarginazione, di quell'esclusione dal vivere so­ ciale che si reincontra anche nel video Uomoduomo dell'albanese Anri Sala, in cui un vecchio barbone trova rifugio in 26



lasciarsi tatuare una linea sul corpo è più remunerativo di un lavoro vero. Il cinese Hai Bo guarda alla storia del suo popolo propo­ nendo foto vecchie di trent'anni di militari o di gruppi di giovani nei vestiti-divisa tutti uguali dell'epoca, con ac­ canto, nello stesso luogo e nella stessa posa, una foto re­ cente di chi fra essi è stato possibile recuperare. Le prime erano state scattate negli anni della Liberazione, l'età di Mao Tse Tung, e poi in quelli bui della Rivoluzione Cultu­ rale; un passato, quello dell'omologazione ideologica, che ritorna oggi solo sui libri di storia e nelle vecchie foto d' ar­ chivio, nel tentativo della nuova Cina di recuperare il tempo dell'isolamento, sostituendo all'ideologia i più biechi ste­ reotipi sociali del modello consumistico occidentale. Hai Bo sembra dire: nessun rimpianto per quei tempi, ma forse neanche per questi. Nella vita di ogni uomo avvengono talvolta eventi che cambiano radicalmente il suo comportamento e di riflesso quello delle perso�e che gli stanno accanto. Questi eventi imprevisti ed imponderabili fanno parte del mondo creativo di due artisti la cui malattia è diventata salvifico strumento di denuncia e di riscatto dall'handicap fisico. Magnus Wallin realizza al computer dei video che asso­ migliano molto ad un crudele videogioco. Exit presenta in un allucinante, claustrofobico paesaggio metropolitano dei corpi di storpi con sul volto i segni dell'orrore e della paura che si muovono con difficoltà incalzanti ed intrappolati dal fuoco di un incendio. È l'ennesima esclusione del corpo difforme dai canoni della bellezza e dell'efficienza; infatti nella società contemporanea è solo apparentemente con­ templata una vita condizionata dall'handicap. In Skyline, corpi palestrati di atleti volteggiano altissimi sui grattacieli facendo perfette evoluzioni con gli attrezzi ginnici, poi si la­ sciano andare piroettando nell'aria, ma vanno a sbattere su un filo o contro la parete di un edificio e cadono a terra rotti come statuette di creta. La malattia è presentata come il vi­ colo chiuso dell'emarginazione, vista la mancata funziona28 lità del corpo, handicap che talvolta può essere determinato



esaustivo delle problematiche più frequentemente fonte di discussione per questa Nuova Umanità emergente nei per­ corsi della Biennale. Nell'installazione Living Rooms lo spettatore è in una stanza buia sulle cui pareti scorrono parole luminose che si rincorrono, nascono, si cancellano in un incessante caro­ sello immateriale. Le parole indicano un livello di esi­ stenza basilare: Maschio, Femmina, Cibo, Padre, Ma­ dre, Bambino, Vecchio e Morte. ...si nota che le parole stanno agendo e reagendo, vivendo la propria vita, rac­ contandoci delle storie: i Maschi competono per il cibo,

le femmine evitano i Maschi fino a quando non hanno mangiato il Cibo; i Maschi danno la caccia alle Femmine per riprodursi e i Padri rimpiazzano il Cibo consumato. Un virus mortale inizia a diffondersi quando il tasso di crescita demografica sale troppo. Ogni cosa invecchia diventando alla fine Vecchia e Morta5 •

Una Nuova Umanità che continua da sempre a riflettere sugli stessi meccanismi vitali di relazione e di sopravvi­ venza, fra l'io dell'individuo e gli altri, ma che può anche diventare un WhoAm We? (Chi sono noi?) come nell'opera inquietante ed originale del coreano Do-Ho Suh che ha tap­ pezzato le pareti di una sala ai Giardini con migliaia di pic­ colissime foto di facce che sembrano fissare come massa in­ distinta lo spettatore mentre cammina su un'altra opera, Floor, dello stesso autore formata da un pavimento di vetro sorretto dalle mani alzate di innumerevoli figurine di uo­ mini di plastica. Un effetto spiazzante che torna a far riflet­ tere sul tema della globalizzazione, del problema demogra­ fico, del progresso mediatico, della tecnologia avanzata, sorretta in ogni caso da migliaia di piccoli sconosciuti lavo­ ratori, a meditare, se mai ce ne fossimo dimenticati, sulla necessità per i pochi calpestatori dell'anonimo impegno di una indistinta massa umana. Un'opera questa che sarebbe piaciuta al Charlie Chaplin di Tempi moderni. Viene spontanea una riflessione sulla proliferazione in­ vadente in questa Biennale della cosiddetta videoarte, sulla 30 dimensione linguistica del mezzo tecpologico in alternativa



sti sperimentatori interessati alle potenzialità espressive dei media, usano il mezzo che più direttamente ed incisiva­ mente mette in contatto lo spettatore con i contenuti di poe­ tica individuale, lasciando tuttavia un certo margine alle personali rielaborazioni del fruitore. Tutto questo è perfetta­ mente coerente con l'espansione della cultura e dei lin­ guaggi televisivi, del computer e del cinema che ingloba il sistema dell'arte e favorisce le contaminazioni fra creatività artistica e cultura popolare. Non a caso viviamo in una società che si nutre di imma­ gine come di cibo. Il valore assoluto della cultura del vedere influenza il quotidiano e le strutture cognitive che permet­ tono di percepire il mondo, ecco perché l'arte elettronica, e quindi tutte quelle espressioni che si pongono fra la vi­ deoarte e la net art, diventano luogo privilegiato della crea­ tività odierna sempre pronta ad esplorare nuovi generi, fare nuove ibridazioni. Ma l'ottimismo modernista delle arti

elettroniche, con le sue luminosità e progettualità non può non scontrarsi con l'area delle arti plastiche intenta ora a indagare con feroce pessimismo lo spazio di rico­ noscimento del corpo. Corpo che l'arte plastica rappre­ senta minacciato dalla tecnologia e dagli sviluppi della biologia...L'incontro non può essere che scontro. Lo è già per i più noti e gestibili strumenti della videoarte coinvolti oggi da molti giovani artisti in un processo di sporcamento, ibridazione, opacizzazione e riduzione per fargli partecipare del clima tormentato ed estremo dei linguaggi plastici8•

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Le resistenze sono tuttavia intimamente connesse al mezzo stesso o meglio alla sua fruibilità: tempi di visione necessariamente lunghi, strumentazioni tecniche appro­ priate, deperibilità del materiale, sono solo alcuni degli ostacoli più comuni alla diffusione della videoarte. Inoltre anche l'interazione attiva dello spettatore con l'opera nella rielaborazione dei contenuti, nella loro analisi ed interpreta­ zione, non è sempre semplice, poiché una volta eliminato il rapporto tra la mano ed il fare, e anche il rapporto tra mano e macchina, subentra - data la complessità, la ver-



Alessandro Gianvenuti, il percorso si snoda in modo da evi­ denziare passo dopo passo, anche allo spettatore più sprov­ veduto, l'evoluzione negli anni del lavoro di artisti impe­ gnati ad esplorare le risorse insite nelle nuove tecnologie. Ci si rende conto in questo modo della diversificazione delle esperienze e di quante variabili nella comunicazione poe­ tica possano dare i mezzi utilizzati, sia che siano in una struttura come parte integrante dell'opera, come nel caso dell'acqua elettronica di Fabrizio Plessi o nella quasi scul­ tura di Maurizio Camerini, sia che divengano proiezioni di un volto sfaccettato su un assemblaggio formato da 23 bloc­ chi di legno in Digitai di Tony Oursler. I materiali della tradizione sono stati sostituiti da let­ tori dvd, videoregistratori, laserdisk, monitor, computer, centraline e la lettura di queste opere non tiene general­ mente conto delle definizioni della forma, della prospet­ tiva, del colore quanto piuttosto di termini che hanno a che fare con le iperboli di un immaginario formatosi attraverso la pubblicità televisiva del messaggio in trenta secondi, o delle invenzioni della playstation. Accanto al tempo fermo della contemplazione del quadro, per quanto denso di si­ gnificati metaforici e di suggestioni pittoriche, vi è il tempo mobile del video che concede lo spazio per la ri­ flessione solo alla fine, quando l'immagine si è dissolta. E se nel passato il monitor era all'interno di videoinstalla­ zioni di cui faceva parte come oggetto fra gli oggetti, ora gli viene sottratta questa configurazione per cui, lasciando che le immagini scorrano libere su uno schermo o sulle pa­ reti, si accentua l'aspetto di immaterialità invasiva dell'o­ pera. Da un punto di vista dei contenuti c'è da osservare che se la maggior parte dei video degli anni Settanta deri­ vano dal clima tautologico dell'arte concettuale, risul­ tando spesso noiosi, ora dimostrano parentele più dichia­ rate con il film d'artista, con certo cinema sperimentale, con i videoclip musicali, per cui si assiste ad una specie di Mittelmaessigkeit, un livello medio di comunicazione, né troppo alto da risultare di difficile comprensione, né 34 troppo basso da essere banale.



Il dibattito italiano su design e ambiente LUCIA PIETRONI

Se la necessità di una riconversione ecologica del mo­ dello di sviluppo economico delle società industriali mature

è un argomento entrato di recente nel dibattitto scientifico

internazionale, tanto più la riflessione sul ruolo e le respon­ sabilità del design, all'interno di questa riconversione, è ap­

pena iniziata ed ancora del tutto aperta. In particolare, la

questione ambientale - intesa come l'insieme delle proble­

matiche legate alla scoperta consapevole, da parte del­

l'uomo, della limitatezza delle risorse ambientali del pro­ prio Pianeta-è entrata nel dibattito italiano della cultura del

design un po' in ritardo rispetto ad altri paesi europei e ha

avuto sviluppo soprattutto sul piano teorico, con punte

molto avanzate anche in relazione al dibattito internazio­ nale, mentre tuttora sono meno esplicite e generalizzate le

implicazioni e le ricadute progettuali. Pertanto questo

scritto è un tentativo di ricostruire il dibattito su design e ambiente, sviluppatosi nel contesto culturale italiano, riper­

correndone le tappe fondamentali e delineandone alcune specificità: un percorso costituito di contributi teorici e pro­

gettuali, che, dai primi segnali di riconoscimento dei pro­

blemi ambientali, nella seconda metà degli anni '60 e negli anni '70, attraverso l'affermazione di una cultura del limite,

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negli anni '80, evolve, negli anni '90, verso una cultura

della sostenibilità ambientale.



a sacrificare troppo globalmente e troppo frettolosa­ mente la speranza progettuale 1 • Maldonado esprime, quindi, la sua sentita preoccupazione che dalla critica al consumismo, in cui è implicita un'accusa contro la proget­ tazione responsabile dell'ideazione e della produzione di una realtà ambientale tanto degradata, derivi un atteggia­ mento generalizzato di «nihilismo progettuale». Tale com­ portamento è controproducente e non aiuta ad uscire dalla crisi, superabile viceversa con un ulteriore atto di «speranza progettuale». Il senso rivoluzionario del dissenso, politi­ camente parlando, è raggiungibile in fondo solo tramite la progettazione; il dissenso che rinuncia alla speranza progettuale non è che una forma più sottile di con­ senso •.. un dissenso sprovvisto di progetti, un dissenso a mani vuote, non è particolarmente pericoloso per le forze del consenso2• Dorfles, con toni non dissimili da Maldonado, definisce il consumismo come condizione entropica che tende a do­ minare l'economia e la mentalità stessa dell'uomo occi­ dentale e denuncia il fatto che i tentativi degli stessi desi­ gners, dei più coscienti e maturi, di opporsi alla marea consumistica, di ribellarsi alla sfrenata ricerca del nuovo per il nuovo, sono stati frustrati il più delle volte dalla situazione del mercato, che, ovviamente, è sempre più ferreamente legata all'establishment dominante. Egli auspica, quindi, una maggiore riflessione e maturazione nell'opera del designer e una minor caccia al nuovo da parte del consumatore e afferma, infine, che la situazione richiede anche importanti modificazioni nella conce­

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zione dell'oggetto industriale, nella sua progettazione e distribuzione3 • Queste posizioni teoriche vanno viste come risposta al movimento di contestazione che nel '68 ha investito pure l'Italia e che ha avuto ripercussioni anche nella cultura del progetto, portando, tra le altre cose, alla occupazione e poi alla chiusura della Triennale di Milano, luogo simbolico per il design italiano. Infatti proprio in questi anni, tra il '66 e il '69, si formano gruppi di giovani progettisti, come Super-



stra ltaly: The New Domestic La.ndscape, tenutasi al MOMA di New York nel 1972 e curata da Emilio Ambasz.

Pur non entrando nel merito di questo evento di grande rile. vanza per il design italiano6, è importante sottolineare un'attenzione e una sensibilità verso le tematiche ambien­ tali, con accentuazioni diverse, sia nel progetto della Kar-A­ Sutra di Mario Bellini, considerato da Ambasz uno dei pro­ gettisti della corrente riformista, sia in alcuni dei progetti utopici dei «gruppi della contestazione», da quello dei Su­ perstudio, a quello di Gaetano Pesce, a quello dei giovanis­ simi 9999. Pertanto, i primi anni '70 rappresentano il momento della presa di coscienza dei problemi e dei limiti ambientali e della crisi del modello di sviluppo delle società più indu­ strializzate, fondato sulla crescita illimitata. Nel '72, infatti, viene pubblicato il rapporto del Massachusetts Institute of Technology (MIT) per il Club di Roma, intitolato I limiti dello sviluppo. Le conclusioni di questo studio indicano come i limiti naturali del nostro pianeta siano forte­ mente minacciati da uno sviluppo materiale e tecnolo­ gico incontrollato e dal continuo aumento della popola­ zione mondiale7 • Tale rapporto suscita un importante dibat­ tito, a livello internazionale, sull'esaurimento delle risorse ambientali, sugli effetti indesiderati dello sviluppo indu­ striale e più in generale sulle sorti del pianeta e dell'uma­ nità. Nello stesso anno viene tradotto in Italia il libro di Barry Commoner Il cerchio da chiudere, che affronta il tema del rapporto uomo, natura e tecnologia in un'ottica meno allarmistica del rapporto del MIT. Commoner inter­ preta la crisi ambientale come un progressivo alterarsi dei legami tra gli esseri viventi e il proprio ambiente, come un venir meno delle interazioni dinamiche che so­ stengono gli equilibri vitali e ritiene che la conoscenza delle molteplici cause di questa crisi e degli "atti umani che hanno interrotto il cerchio della vita" possano aiu­ tarci a sopravvivere e a sostituire il modello quantitativo di sviluppo con un modello qualitativo8• 40 Nel mondo scientifico e nell'opinione pubblica si con-



sociale,, che definiscono una sorta di «poetica del pauperi­ smo» e si .fondano sul principio della «partecipazione so­ ciale al progetto». Tra questi, ricordiamo l'esperienza com­ piuta da Riccardo Dalisi nel quartiere popolare Traiano a Napoli: gli oggetti realizzati dai ragazzi di uno dei quartieri più disagiati della città rappresentano l'interessante risul­ tato dell'»imparare facendo» senza alcuna conoscenza co­ dificata. Questo metodo di sperimentazione sociale, più che didattica, è chiamato da Dalisi «Tecnica povera», non per-· ché ha-a-che fare con la miseria e con i figli del sottoprole­ tariato, ·ma perché riscopre l'immaginazione creativa che ognuno possiede, attraverso l'impiego di mezzi poveri (ma­ teriali, attrezzature, tecniche) e rappresenta un addestra­ mento a-trasformare-i-limiti materiali, economici, ambien­ tali, in strumenti ed1opportunità. La tecnica povera,• so­ stiene Dalisi, contesta la sottrazione progressiva ed ine­

luttabile della partempazione attiva dell'uomo alla mo­ dellazione,- alla· cosll"uzione dei propri oggetti, del pro­ prio spazio 10• Altro episodio è la Proposta per un 'autopro­

gettazione di Enzo Mari, che nel 1974 pubblica un manua­

letto con •le istruzioni ·e alcuni modelli per l' autocostruzione di mobili, semplici ed economici, da realizzarsi con poche assi di legno e chiodi. Con un atteggiamento maieutico-pro­ vocatorio, Mari interpreta-il tema della partecipazione come coinvolgimento direno dell'utente nella progettazione del proprio ambiente domestico ed esprime la sua critica alla società dei consumi attraverso una visione spartana, priva di ridondanza, ma fortetnente creativa dell'habitat e della vita. Dichiara infatti di proporre una tecnica elementare perché

ognuno possa porsi di fronte alla produzione attuale con capacità critica"; l'obiettivo è quello di far riflettere sulla

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repressione del pensiero creativo, assoggettato ai condizio­ namenti, degli status symbols prodotti dalla società delle merci.· Stimolare la capacità creativa negli utenti vuol dire aiutarli ·•a - compiere •scelte autonome, e non eterodirette, come primo passo v.erso una costruzione partecipata della società. Certamente questi due esempi di «design povero» e di



2. Il passaggio «dalla quantità alla qualità» e la cultura del limite: gli anni della rivoluzione dei materiali e del dibattito sulla dematerializzazione

Gli anni '80 rappresentano per la cultura del design un decennio di grande pluralismo linguistico-formale, con di­ rezioni di sperimentazione e ricerca anche molto diverse tra loro. Come afferma Vanni Pasca, gli anni '80 si aprono, per larga parte della cultura del progetto, con il defini­ tivo abbandono del "grande racconto" del design razio­ nalista: più esattamente, con la contrapposizione a quel funzionalismo meccanicistico che, dal Bauhaus degli ul­ timi anni '20 alla scuola di Ulm, ha mirato ad un lin­ guaggio fondato su una "regola" scientifica, con l'espul­ sione della componente estetica. A quel paradigma scientista si è tentato di sostituirne uno opposto, fondato sull'assunzione totalizzante dell"'estetico", · sull'arte come modello 14• - ··· ··-· · · Questo processo di estetizzazione diffusa coincide con «il tramonto dell'era meccanica» e l'inizio di quella infor­ matica o post-industriale, cioè con un cambiamento gene­ rale del contesto tecnico-culturale. Sono gli anni della pub­ blicazione del libro di Jean-Francois Lyotard sulla «condi­ zione postmodema» 15, della diffusione del pensiero deco­ struttivista di Jacques Derrida, della denuncia della «crisi della ragione» da parte di Aldo Gargani 16, delle riflessioni sul «pensiero debole» di Gianni Vattimo 17 , della scoperta della «complessità» come nuova dimensione esistenziale e conoscitiva 18 • Sono anni, dunque, di grande trasformazione del quadro epistemologico.di riferimento che non lasciano indifferente la cultura italiana del design. In questo quadro complesso ed eterogeneo tenteremo di identificare le ricer­ che e i temi più significativi per proseguire il percorso del design italiano nella direzione della sostenibilità ambien­ tale. Nella prima metà degli anni '80 prendono avvio una se­ rie di sperimentazioni sulla «materialità delle cose», di 44 grande interesse anche dal punto di vista ambientale: si



il libro di Manzini, che presenta un quadro dei nuovi mate­ riali, sintetici, compositi, intelligenti e «su misura», la cui caratteristica generale è «fare di più con meno», ovvero es­ sere in grado di incorporare quantità crescenti di informa­ zione, diminuendo la propria massa, il proprio peso, coin­ volti in un processo di superficializzazione, miniaturizza­ zione, dematerializzazione della fisicità degli oggetti. Lo scenario di dematerializzazione non è privo di inter­ rogativi, anche dal punto di vista dei suoi riflessi ambien­ tali. Manzini infatti sostiene che, se in linea di principio l'aumento di intensità dell'informazione contenuta nei nuovi materiali riduce i consumi e gli sprechi per unità di prestazione resa, va considerato però che questi materiali generalmente, proprio perché derivati da un più profondo processo di artificializzazione della materia, sono più difficilmente reinseribili nei cicli naturali, cioè riciclabili. Quindi occorre elaborare una cultura ecolo­ gica in grado di affiancare alle problematiche più evi­ denti della quantità quelle più sottili della qualità20. Il dibattito sulla dematerializzazione trova un'occasione di approfondimento multidisciplinare nel 1988, in un sup­ plemento di Alfabeta, intitolato Metamorfosi delle materie. Da questa riflessione emergono fondamentalmente due po­ sizioni: quella di Manzini, condivisa da A. Petrillo, A. Branzi, F. Morace, tutti legati a diverso titolo alla Domus Academy, e quella di Maldonado. Il pensiero critico di que­ st'ultimo è già implicito nel titolo del suo intervento: Cosa c'è di vero nella dematerializzazione? Maldonado ricono­ sce che, nelle società industriali avanzate, i prodotti hanno un ciclo di vita sempre più breve, ma questo non corri­ sponde certo ad un processo di dematerializzazione. La pre­ visione di un mondo privo di materialità e fisicità è poco realistica, soprattutto perché solitamente l'innovazione che investe un prodotto fa scaturire un processo di ramifica­ zione, proliferazione, diversificazione che dà, come risul­ tato, la sostituzione di quell'oggetto con un• intera nuova fa­ miglia di prodotti. In un primo momento, l'informatizza46 zione si identifica con la cosiddetta dematerializzazione.



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nale sulla questione ambientale si fa più acceso e consape­ vole, non solo per il maggior attivismo da parte delle asso­ ciazioni ambientaliste, ma soprattutto per l'emanazione da parte della Comunità Europea di una serie di politiche e nor­ mative ambientali che riguardano le attività produttive e i prodotti industriali. Nel 1986 si tiene proprio in Italia, a Firenze, un conve­ gno internazionale Physis: Abitare La terra, curato da Mauro Ceruti e Ervin Laszlo, nel quale filosofi, scienziati, sociologi ed economisti sono chiamati a confrontarsi sui temi dell'ecologia e sulla necessità di un nuovo equilibrio tra l'uomo e la natura25• Nel 1987, inoltre, una Commis­ sione ONU su Sviluppo e Ambiente redige uno studio per dare indicazioni sul futuro dell'umanità. Questo rapporto, noto come «Rapporto Brundtland»26, contiene una prima definizione di «sviluppo sostenibile»: un concetto di sostan­ ziale importanza per l'ulteriore evoluzione della problema­ tica ambientale. In questo processo di approfondimento del dibattito am­ bientale è coinvolta anche la cultura del design: nasce e si consolida una «cultura del limite». Infatti, proprio nel mo­ mento in cui le possibilità e le libertà progettuali, offerte dalla tecno-scienza, sembrano ormai illimitate, emergono con più forza i limiti ambientali, quelli fisici della biosfera e quelli semiotici della semiosfera. La competizione del mer­ cato, la flessibilità dei sistemi produttivi, la riduzione dei costi e dei tempi di produzione hanno spinto verso la molti­ plicazione delle forme e delle prestazioni, verso la prolife­ razione dei linguaggi e l'accelerazione dei ritmi nell'intro­ duzione del nuovo, verso la riduzione della durata dei pro­ dotti, trascinando nel «mondo dell'usa e getta» intere fami­ glie di oggetti. I prodotti si trasformano rapidamente in ri­ fiuti che vanno a saturare l'ambiente di cui oramai si cono­ scono i limiti. Inoltre i prodotti diventano sempre più sup­ porti di immagini che si moltiplicano in modo incontrollato e che, invece di veicolare significati e informazione, produ­ cono «rumore». Come sostiene Ugo Volli, immettere una quantità incontrollata di segnali, immagini ed informa-



zionali, come riferimento principale per la riconversione ecologica dei modelli di sviluppo sociale e produttivo delle società industriali avanzate. In questi anni la tematica ambientale è ormai entrata a pieno titolo anche nella cultura italiana del design. Il dibat­ tito si apre, agli inizi del decennio, con la pubblicazione del libro Artefatti, in cui Manzini delinea lo scenario di una nuova ecologia: un'ecologia dell'ambiente artificiale che, al di là dei problemi oramai universalmente ricono­ sciuti, relativi agli squilibri dell'ambiente fisico, metta in luce nuovi problemi culturali, legati al carattere "ipe­ rartificiale" dell'ambiente semiotico e sensoriale in cui ci troviamo a vivere. Inoltre, l'autore auspica lo svilupparsi di una nuova cultura del progetto in grado di realizzare de­ gli artefatti che siano davvero "fatti-ad-arte": prodotti nati dall'attenzione per il particolare, dall'amore per la vita delle cose nel loro rapporto con quella degli uomini e con l'ambiente; espressioni dell'ingegno, della creati­ vità e anche della saggezza umana29 •

Nella prima metà degli anni '90 le occasioni di incontro tra analisi teorica (mondo accademico e scientifico) e pra­ tica progettuale e produttiva (mondo tecnico-industriale) sono sostanzialmente legate ad alcuni eventi e iniziative che funzionano da catalizzatori di innovazione, sia sul piano tecnico-operativo, che culturale, promuovendo una serie di prime sperimentazioni progettuali. Queste manifestazioni­ evento sono dunque tasselli utili per delineare e compren­ dere l'articolazione del pensiero e della prassi della cultura _del progetto. Nel 1990 al Politecnico di Milano si tiene il convegno Chiudere il cerchio (titolo emblematico che ricorda quello del libro di Commoner degli anni '70), in cui esponenti della cultura del progetto si confrontano su possibilità, ruoli, linee guida e responsabilità del fare progettuale in re­ lazione alla sfida ambientale. In questa occasione emergono due principali linee di pensiero: una più incline a conside­ rare la gestione responsabile dell'evoluzione tecnologica 50 come la via maestra per la soluzione della questione am-



dice di valori non aggressivo, rispettoso dell'uomo e della sua delicata natura32 • Un altro tema cardine per la questione ambientale, quello del superamento della «cultura dell'usa e getta», viene inda­ gato in profondità nella sezione Il giardino delle cose della Diciottesima Triennale di Milano del 1992, intitolata La vita tra cose e natura: il progetto e la sfida ambientale. Qui Ful­ vio Carmagnola, Frida Doveil, Ezio Manzini, Francesco Morace· e Antonio Petrillo, con la metafora del «giardino delle cose», vogliono enfatizzare la necessità di riorientare il sistema di produzione e consumo dominante, caratterizzato da prodotti effimeri e transitori, che attraversano troppo ve­ locemente l'ambiente fisico e sensoriale senza depositi di valore, producendo, come sola conseguenza, grandi quantità di rifiuti. La transizione verso la sostenibilità ha bisogno, per questi autori, di nuovi criteri di qualità che valorizzino la «cura per le cose» che ci circondano nella loro relazione con noi e con il mondo che le accoglie. Quello che viene propo­ sto è quindi il superamento della «cultura dell'usa e getta» attraverso un fare progettuale che sappia favorire l'allungamento della vita utile degli artefatti e la loro du­ rata nel tempo... Aver cura per le cose significa aver cura per quella "cosa" più grande che è il nostro Pianeta33 . A partire anche dalla riflessione sulla «cura per le cose», diversi esponenti della cultura del design tornano a riflettere sulla funzionalità dei prodotti in relazione ad un contesto ambientale limitato, sia dal punto di vista fisico che semio­ tico. Branzi si interroga sull'eventualità e il significato di un «neo-funzionalismo»34, così come aveva fatto Abraham Moles in un articolo di poco precedente alla sua morte35. Enzo Frateili parla di «nuova funzionalità», come condi­ zione necessaria per superare l'emergenza economica e am­ bientale36; Manzini discute la crisi della dicotomia «forma­ funzione» in favore della definizione di nuovi criteri di qua­ lità dei prodotti e argomenta poi il passaggio dall'idea di «funzione locale» a quella di «funzione globale», in rela­ zione ad un approccio sistemico al progetto necessario per 52 affrontare la sfida ambientale37•



per la costruzione di una società effettivamente sostenibile: le condizioni di sostenibilità sono raggiungibili solo ridu­ cendo drasticamente (del 75-90%) il consumo di risorse ambientali, per unità di servizio reso, rispetto al consumo caratteristico delle società industriali mature. Diventa, in al­ tri termini, chiaro che ciò che viene richiesto è una profonda trasformazione, una discontinuità sistemica nel nostro mo­ dello di sviluppo. Queste evidenze a livello scientifico por­ tano il dibattito politico e sociale sulla questione ambientale a mettere in discussione non solo i processi produttivi e i prodotti, ma anche gli attuali modelli di consumo e gli stili di vita. Risulta sempre più evidente che il raggiungimento degli obiettivi della sostenibilità ambientale richiede una partecipazione attiva e consapevole di tutti gli attori sociali coinvolti nel sistema di produzione e consumo. In Italia il riflesso di questo dibattito produce, all'in­ terno della cultura del progetto, un approfondimento sulle responsabilità del design: emergono posizioni che, pur con toni differenti, attribuiscono al design un ruolo determi­ nante nei termini di un rinnovamento sociale e culturale. Manzini afferma che la cultura del progetto deve confron­ tarsi con una dimensione ben più innovativa e radicale ri­ spetto a quelle operazioni di redesign tecnico-ambientale dei pro?otti esistenti finora praticate. Propone un design strategico capace di trovare soluzioni di rottura e intravede nel passaggio dalla progettazione di prodotti fisici alla pro­ gettazione di un mix integrato di prodotti, servizi e comuni­ cazione, un significativo luogo di innovazione che può cre­ dibilmente contribuire alla sostenibilità ambientale. Contemporaneamente, il ruolo della tecnologia, o me­ glio l'uso che l'uomo può fame, per recuperare il suo equi­ librio con gli artefatti che produce e con le risorse naturali che servono a fabbricarli e usarli, viene interpretato da Al­ berto Meda, attraverso molti dei suoi progetti. Per questo designer, la tecnologia è un mezzo per produrre cose semplici, e quindi dà al design il compito di addomesti­ carla, rifiutando la logica soltanto tecnica che vorrebbe 54 imporre all'utente un comportamento meccanico e cau-



mondo in trasformazione", sulla dimensione materiale della nostra esperienza e sulla durata delle cose, dei luo­ ghi, delle relazioni, in un mondo in cui la velocità delle trasformazioni logora il senso delle cose e produce quan­ tità crescenti di rifiuti fisici e semiotici42 . Alla metà degli anni '90, un altro tema su cui si accende il dibattito è quello della ricerca di una nuova estetica della sostenibilità ambientale, capace di veicolare nuovi sistemi di valori e di rendere socialmente apprezzabili e cultural­ mente attraenti le soluzioni progettuali ambientalmente compatibili. Il senso di radicalità del cambiamento, insito nel con­ cetto di sostenibilità, viene espresso da Cristina Morozzi, che attribuisce al design il compito di creare una nuova estetica compatibile con un'attitudine progettuale "ri­ voluzionaria", che deve ·saper immaginare nuovi pro­ dotti densi di contenuto, ricchi di valori simbolici e af­ fettivi, portatori di informazioni innovative43. Toni simili usa Andrea Branzi, che ritiene che uno sviluppo sosteni­ bile necessiti di una risposta estetica radicale che azzeri il problema della qualità e torni a toccare le cose come esse sono, organizzandole per relazioni nuove, non per forme nuove44 • PitJ declinata sulla questione delle qualità profonde dei materiali è la posizione di Clino Trini Castelli, che propone e sperimenta una nuova dignità linguistica dei materiali ri­ ciclati, preoccupandosi di trovare una dimensione estetica che esprima in primo luogo il loro valore etico. Questa ri­ cerca lo porta alla definizione del linguaggio figurativo Na­ tive, cioè di un'estetica dello «stato nascente», che per­ mette di superare la tradizionale opposizione tra natura e artificio e il luogo comune che solo i materiali naturali sono eco-compatibili45• Infine, ancora diverso è il pensiero di Manzini, che con­ sidera l'estetica un fattore fondamentale di cambiamento, un «attrattore sociale» capace di contribuire ad orientare le scelte nell'attuale fase di transizione verso la sostenibilità. 56 Infatti il compito dei designer è quello di coniugare etica



1 D. H. MEADOWS, D. L. MEADOWS, J. RANDERS, W. W. BEHRENS,

I limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano 1972, p. 163. 9 B. COMMONER, Il cerchio da chiudere. La natura, l'uomo e la tecnologia, Garzanti, Milano 1972, p. 28. 10 A. BRANZI, Sporco e pulito, in «Casabella», n. 382, 1973, p. 8. 11 R. DALISI, La tecnica povera in rivolta, in «Casabella», n. 365,

1972, p. 28. 12 E. MARI, Proposta per un 'autoprogettazione, Centro Duchamp, Bologna 1974. 13 Progettare contro lo sperpero, intervista di A. Branzi a T. Mal­ donado, in «Modo», n. 6, 1978, pp. 15-16. 14 Il IO luglio del 1976 a Seveso un guasto ad un reattore dello sta­ bilimento ICMESA, che produceva triclorofenolo, ha provocato la formazione di una nube chimica estremamente tossica, contenente in alte percentuali diossina, che si è diffusa velocemente sul territorio cir­ costante. Questo incidente, senza precedenti per l'Italia, ha reso co­ scienti del fatto che gli effetti di un disastro ambientale hanno una di­ mensione sistemica e non locale. 15 V. PASCA, Gli anni '80, in A. DE ANGELIS (a cura di), Design Storia e Storie - Le Storie Parallele, Ne Edizioni, Napoli 1994, p. 39. 16 J. F. LYOTARD, La condizione postmoderna: rapporto sul sa­ pere, Feltrinelli, Milano 198 I. 17 A. GARGANI (a cura di), Crisi della ragione, Einaudi, Torino 1979. 18 G. VATTIMO, Lafine della modernità, Garzanti, Milano 1985; e ancora G. VATTIMO, P. A. ROVATTI (a cura di), Il pensiero debole, Fel­ trinelli, Milano I 990. 19 Per il dibattito sulla complessità si veda un libro che ne ha rap­ presentato un punto di avvio in Italia: G. BoccHI, M. CERUTI (a cura di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1985. 20 Scuola post-universitaria di design, fondata nel 1983 a Milano per iniziativa di Andrea Branzi, che la definisce, insieme al Centro Ri­ cerche sorto al suo interno alcuni anni dopo l'apertura, un incubator per molti di quei temi attorno ai quali si è sviluppato il Nuovo Design Italiano. 21 E. MANZINI, La materia dell'invenzione, Arcadia Edizioni, Mi­ lano 1986, p. 45. 22 T. MALDONADO, Che cosa c'è di vero nella dematerializza­ zione?, in AA.Vv., Metamorfosi delle materie, in «Alfa bis. 2», Sup­ plemento al n. 106 di «Alfabeta», 1988, p. m. 23 Cfr. E. MANZINI, M. SUSANI (a cura di ), The Solid Side. Il Lato solido in un mondo che cambia, V+ K Publishing, Naarden 1995. 24 Cfr. T. MALDONADO, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1992; e ancora T. MALDONADO, Critica della ragione infonnatica, Feltri­ nelli, Milano 1997. 25 AA.Vv ., Neolite. Metamorfosi delle plastiche, Domus Academy Ed., Milano 1991, p. 7. 26 Cfr. M. CERUTI, E. LASZLO (a cura di), Physis: abitare la terra, 58 Feltrinelli, Milano 1988.




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