Op. cit., 115, settembre 2002

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Op.cii. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Alessandra de Martini Marina Montuori, Livio Sacchi

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Electa Napoli


A. DE MARTINI,

L'architettura ÂŤpiccolaÂť 5 L. PIETRONI, Donne e design: il contributo dei Gender Studies 15 A. BAUCKNENT, Il punto di rottura dell'arte tra il XIX e il XX secolo 36 Libri, riviste e mostre 54 Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Gaetano Amodio, Francesca Bruni, Arcangelo Casillo, Lucia Pagano, Dario Russo, Maria Luisa Scalvini.


w rivista si avvale del contributo economico delle seguenti Aziende:

Alessi Driade



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Settecento ad oggi, nonostante la considerevole crescita ur­ bana, la dimensione architettonica del piccolo rimane una costante e lo skyline delle città d'Italia continua ad avere un andamento essenzialmente orizzontale con rari picchi di verticalità: le cupole e le torri italiane non sono sufficiente­ mente svettanti da raggiungere guglie, pinnacoli e tiburii nordici e la sporadica presenza nel tessuto urbano di gratta­ cieli è percepita da sempre come nota stonata, come un fuori scala, e mai come elemento caratterizzante e innovativo da un punto di vista linguistico. Il grattacielo Pirelli di Gio Ponti, ad esempio, è stato etichettato "Pirellone", un accre­ scitivo tanto ridicolo quanto indicativo dell'esistenza nella cultura percettiva italiana di un parametro dimensionale ri­ dotto, di una unità di misura "piccola" ed ormai consolidata. Rudolf Arnheim, che alla Gestaltpsychologie ha dedi­ cato tutta la sua ricerca in campo artistico, in merito alla di­ mensione degli oggetti nei processi di percezione visiva, os­ serva: Un oggetto è visto immediatamente nella sua par­ ticolare dimensione, nel suo essere cioè in qualche punto della scala di misure che vanno dal grano di sale alla montagna. [...) Nessun oggetto viene percepito come unico o isolato dal resto. Veder qualcosa significa asse­ gnargli il suo posto nel tutto. Esiste poi una differenza tra la misurazione col metro e il giudizio visivo: noi non rileviamo dimensioni, distanze, direzioni una ad una per poi confrontarle pezzo per pezzo, bensì è nostra prero­ gativa vedere queste caratteristiche come proprietà del­ l'intero campo visivo2 • Quanto precede vale soprattutto a rendere meno vago il concetto di dimensione e di conse­ guenza quello di "piccolo", che Amheim implicitamente re­ lativizza. Coscienti pertanto che la dimensione è un con­ cetto relativo, per comprendere quanto la· tèndenza al "pic­ colo" domini la cultura italiana da sempre, è interessante leggere in senso diacronico la vicenda architettonica nazio­ nale in rapporto a quella europea. Già in età medievale l'architettura italiana si presenta di dimensioni più contenute rispetto alle grandi fabbriche d'oltralpe. L'Italia costituì sempre un'unità a sé stante di



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generalmente il committente è unico; unico è il suo proget­ tista, interessato quanto il primo a lasciare un segno auto­ biografico che sottolinei sinteticamente sia un impegno in­ tellettuale per il proprio riscatto sociale, sia l'aderenza agli ideali dell'Umanesimo e del Neoplatonismo, nonché all'an­ tropomorfismo vitruviano diffusosi con la trattatistica quat­ tro e cinquecentesca. Il fatto che la dimensione del piccolo rimane una co­ stante anche in epoche successive, quando cioè il contesto storico-culturale cambia, lascia intuire che esistono nella concezione spaziale italiana fattori di natura antropologica non trascurabili e tra questi sicuramente l'atteggiamento individualista che da sempre ha caratterizzato la nostra cul­ tura. D'altra parte è proprio sugli studi di natura antropolo­ gica di Worringer che si basa la nota opposizione che vede da una parte il mondo gotico, storicamente caratterizzato da gigantismi e slanci verticali e dall'altra il mondo clas­ sico e mediterraneo caratterizzato dall'orizzontalità e dal­ l'ortogonalità. È bene precisare, però, che la dimensione del piccolo in architettura, non va associata necessaria­ mente al concetto di classicità, perché piccole furono anche le opere anticlassiche del Barocco la cui spettacolarità, al­ meno nella nostra area geografica, è ottenuta giocando sulla forma e non sulle dimensioni, le quali si mantengono essenzialmente piccole. Si pensi al San Carlo alle Quattro Fontane, non a caso conosciuto con il diminutivo di S. Car­ lino, opera che riesce a rendere tutta la forza dirompente e dinamica del linguaggio borrominiano entro un volume es­ senzialmente piccolo. Che la modestia di misura sia una caratteristica domi­ nante della nostra architettura lo dimostra tra l'altro il fatto che tutte le macrostrutture passate e recenti si sono rivelate fallimentari. La grande dimensione, intesa sia in senso vèr­ ticale che orizzontale, non ha mai trovato terreno fertile in Italia dove l'idea di città rimane ancorata a criteri tradizio­ nali - la città per parti di Aldo Rossi si oppone certamente all'idea di metropoli costellata da contenitori polifunzionali - ed il dibattito architettonico si concentra sui temi della







gani elettronici che si trovano in prossimità 15, con la con­ seguenza più immediata che la nostra casa diventerà parte di noi e noi parte di essa. La miniaturizzazione nel nostro campo disciplinare non va intesa materialmente, ma come riduzione teleologica; cosicché il nuovo concetto di exi­ stenzminimum non è più assimilabile ad una caratteristica distributiva, bensì ad un tipo ideale.

1 J. HoFFMANN, Architektonisches von der Insel Capri, in «Der Architekt», III, 1987; trad. it. L'architettura dell'isola di Capri in B.Gravagnuolo, Il mito mediterraneo nell'architettura contempora­ nea, Electa, Napoli 1994, pp. 57-58. 2 R. ARNHEIM, Art and visual perception: a psychology of the creative eye, 1954, trad. it., Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Mi­ lano 2000, p. 3 I. 3 J. VON SCHLOSSER, Die Kunst des Mittelalters (1923), trad. it., L'arte del Medioevo, Einaudi, Torino 1989, p. 31. 4 R. DE Fusco, Quattrocento, in AA.VV., Topocronologia dell 'ar­ chitettura europea, Zanichelli, Bologna 1999, p. 6. 5 B. SECCHI, Le condizioni sono cambiate, in «Casabella», n. 498/9, 1984. 6 R. DE Fusco, Storia dell'architettura contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 369. 7 F. BRAUDEL, Il Mediterraneo (1985), Bompiani, Milano 1997, p. 7. 8 S. VERONESI, New York. Fine delle piramidi, in «Corriere della Sera», 18 settembre 2001. 9 R. KooLHAAS, Delirious New York (1978), Electa, Milano 2002, p. 8. 10 J. NOUVEL, Progettare la modernità, in Le schegge di Vitruvio. L'architettura come professionalità critica, a cura di L. Centi e G. Lotti, Edicom edizioni, Monfalcone 1999, p. 57. 11 R. DE Fusco, op. cit., p. 621. 12 I. FORINO, Il design percepibile, in R. DE Fusco, Storia del de­ sign, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 353. 13 E. MANZINI, Nuove scale dimensionali, in Artefatti, edizioni DA, Milano 1990, pp. 41- 42. 14 A. DELL'ACQUA BELLAVITIS, Piccolo è bello, in «Ottagono», n. 104, 1992, p. 34. 15 W.J. MITCHELL, La città dei bits, Electa, Milano 1997, p. 23.

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turale anglosassone, sono emersi lavori teorici che inda­ gano, dalla prospettiva femminista, i rapporti tra gender e design: attraverso un'attenta analisi investigativa del mondo dei segni, delle immagini e delle rappresentazioni utilizzati nell'arte, nel design dei prodotti di largo consumo, nella pubblicità, si mettono in discussione il ruolo subordi­ nato della donna e gli stereotipi di genere imposti dalla so­ cietà dei consu!'Tli, evidenziando l'importanza del design nella costruzione dell'identità di genere. Questo percorso teorico descrive l'evoluzione dell'ap­ proccio al tema del rapporto tra donne e design, a lungo sot­ tostimato dalla critica e dalla storiografia. Tale evoluzione può essere definita, secondo Judy Attfield, come il passag­ gio da un women-designer approach a un feminist ap­ proach 11, cioè da un approccio finalizzato alla ricerca e al­ l'affermazione dell'uguaglianza di genere tra uomini e donne, attraverso il riconoscimento dell'importanza del contributo artistico delle donne nel design, ad un approccio finalizzato alla valorizzazione della differenza di genere, at­ traverso la riscoperta dell'identità femminile e l'esaltazione delle specificità della produzione artistica e della creatività delle donne. Questo cambiamento di prospettiva sulla diffe­ renza di genere implica una radicale messa in discussione dei paradigmi culturali e degli stereotipi di genere, attra­ verso i quali la cultura moderna ha escluso le donne dalla sfera pubblica della "produzione" - e quindi, anche, dal de­ sign - relegandole nella sfera privata della "riproduzione", e la società dei consumi le ha destinate al ruolo passivo di consumatori dei prodotti disegnati dagli uomini, come desi­ gner professionisti. Proprio in questo cambiamento di prospettiva critica al quale corrisponde un'"emancipazione" del ruolo femmi­ nile all'interno della disciplina del disegno industriale, da "secondo sesso" ad "altra metà dell'avanguardia" 18 - si col­ loca il contributo dei Gender Studies alla teoria e alla storia. del design. Secondo Judy Attfield, che con Cheryl Buckley e Pat 24 Kirkham è tra le principali teoriche inglesi del design nel-


l'area dei Gender Studies, la storia del design soffre an­ cora della sua provenienza dal Movimento Moderno, che considera la forma (femmina) come effetto della funzione (maschio) e il design come il prodotto di desi­ gner professionisti, della produzione industriale e della divisione del lavoro che assegna alle donne il proprio po­ sto nella casa. La prospettiva femminista o feminist ap­ proach offre un range di metodi storico-critici che sfi­ dano il modo canonico con cui si definiscono il design come pratica, i parametri con i quali indagare gli oggetti di design, i valori con i quali valutarli, e anche la stessa definizione di designer.... L'obiettivo del feminist ap­ proach è di spiazzare le definizioni dominanti per tro­ vare spazio per quelle dimensioni del design solitamente nascoste, taciute o omesse nella letteratura e negli studi convenzionali 19• Analogamente, Cheryl BuckJey dichiara che il design, come attività socio-culturale, è stata formata dalle ideo­ logie del ventesimo secolo - capitalismo, patriarcato e colonialismo - che sono state filtrate attraverso il mo­ dernismo e la storia del design ha operato al fine di rafforzarle e legittimarle......Solo negli ultimi venti anni si sta cercando di dare un contributo per una storia del design che sia inclusiva invece che esclusiva, e che si con­ fronti con temi e aspetti considerati finora marginali o poco rappresentati, come le relazioni tra donne e de­ sign20. Nell'obiettivo di "trovare spazio per nuove dimensioni del design finora inesplorate" e nel concetto di "inclusività" della storia del design stanno le principali differenze tra lo women-designer approach e il feminist approach. Per rag. giungere quell'obiettivo e contribuire a sviluppare una storia del design "inclusiva", infatti, non è sufficiente rivendi­ care l'assenza di nomi femminili negli indici dei «testi sacri» o dedicare libri e mostre al design delle donne, come ha fatto Rubino e come avviene sempre più spesso, ma è ne­ cessario, secondo la Attfield, demolire le gerarchie della storia convenzionale che posiziona le donne nell'area 25




prospettiva femminista, le caratteristiche di quell"'alterità" ormai riconosciuta come un valore e una ricchezza. Nella sintesi di una sua ricerca sulla specificità del con­ tributo delle donne nell'architettura e nelle arti applicate, Laura Castagno sostiene che il lavoro delle donne - nel campo della.soluzione dei problemi della quotidianità la casa, gli strumenti d'uso, la decorazione - è sempre una visione dall'interno del problema, una conoscenza strutturale e mai sovrastrutturale, ricevuta da altri, come è molte volte per l'uomo. È la conseguenza del doppio ruolo che svolge la donna intellettuale, che sem­ pre pensa a se stessa e moltissime volte deve pensare an­ che agli altri29. Inoltre l'esclusione che la donna ha subito nel tempo in molti aspetti della vita lavorativa e sociale non le ha impedito di sviluppare una propria sensibilità nei confronti dello spazio e degli oggetti, sensibilità dovuta a secolari abitudini domestiche, che però si differenzia da quella ma�chile. La donna infatti, secondo Daniela Grassi, tende ad una spazialità più minuta, legata al quo­ tidiano, molto più interiore, il suo rapporto con la na­ tura non è di dominio ma di fusione. L'uomo invece pre­ dilige una spazialità monumentale, meno legata alla di­ mensione umana, espressione della forza dominatrice e carica di tensione verso l'immortalità ... .la donna inoltre sembra essere più attenta ai bisogni sociali e meno desi­ derosa di imporre la propria personalità30 . Ed infine in un recente numero di Ottagono, dedicato a "Donne e De­ sign", Claudia Donà esalta le peculiari capacità delle donne come designer, sottolineando che la differenza di gender non è determinata biologicamente ma costruita cultural­ mente: una donna è sempre una grandissima designer non perché ha la facoltà di progettare e portare dentro di sé la vita, ma perché possiede infinite e straordinarie capacità per sopportare e trasformare il mondo31 • La rivalutazione della differenza di genere, questa volta in favore delle donne, è un'operazione critica molto delicata in quanto rischia di riproporre, ribaltati gerarchicamente, gli 28 stereotipi sociali di gender prodotti dalla cultura occiden-


tale, che associavano la "femminilità" al concetto di «na­ tura» e la "mascolinità" a quello di "cultura", innescando quindi un processo di "auto-discriminazione" dovuto alla convenzionale logica duale attraverso la quale si costruisce l'identità femminile in contrapposizione a quella maschile. Recentemente si sono tenute due mostre su donne e de­ sign, una negli Stati Uniti (novembre 2000) e una in Italia (marzo 2002), che sono significativi esempi di come si può riflettere sull'identità femminile nel design senza cadere nel suddetto processo di "auto-discriminazione", lavorando sulla differenza di genere come la principale ma non esclu­ siva categoria di analisi. La mostra Women Designers in the USA, 1900-2000: Diversity and Dijference, tenutasi al Bard Graduate Center for Studies in the Decorative Arts di New York e curata dal1' inglese Pat Kirkham, è il risultato di un'ampia ricerca che aveva l'obiettivo di analizzare il lavoro delle donne desi­ gner che hanno operato negli USA nel XX secolo, definito da alcuni come "Il secolo delle donne". La mostra e i saggi del relativo catalogo32, scritti da teoriche, critiche d'arte, de­ signer, hanno messo a fuoco una definizione di design am­ pia ed "inclusiva", non solo perché hanno preso in esame tutti i campi della produzione artistica e di oggetti d'uso dal ricamo, alle carte da parati, alla ceramica, al cinema, al product design - ma soprattutto perché alla differenza di ge­ nere, come prima categoria di analisi, hanno intersecato le diversità culturali ed etniche, includendo progettiste ameri­ cane, afro-americane ed europee, proponendo quindi una ri­ flessione complessa sul confronto tra le diverse aree del de­ sign e sulle relazioni tra razza e gender. L'obiettivo ultimo era quello di mettere a nudo i meccanismi insiti nei processi di emarginazione culturale e sociale, rivalutando l'impor­ tanza e la ricchezza della diversità culturale e di pensiero e superando gli stereotipi, le gerarchie, i dualismi, legati alla differenza di genere e di razza. In modo analogo, la mostra Dal merletto alla motoci­ cletta. Artigiane/artiste e designer nell'Italia del Nove­ cento33, tenutasi alla X Biennale Donna di Ferrara e curata

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lvi, p. 17. lvi, p. 12. 16 lvi, p. 18. 14

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17 Cfr. J. ATTFIELD, Fomvfemale followsfunction/male: Feminist Critiques of Design, in J. A. WALKER, Design History and the History of Design, Pluto Press, London 1989, pp. 199-225.

18 La definizione è presa a prestito dal titolo di una mostra, curata da Lea Vergine, sulle pittrici e scultrici appartenenti ai movimenti delle avanguardie storiche; cfr. L. VERGINE, L'altra metà dell'avan­ guardia 1910-1940, Gabriele Mazzotta, Milano 1980. 19 lvi, p. 200. 2° C. BUCKLEY, History, theory, and gender: researching women 's relationship to the history of design, in SILVIA PlZZOCARO et al (ed.), Design Plus Research, Proceedings of the Politecnico di Milano Con­ ference, May 18-20, 2000, pp. 38-39. 21 J . ATTFIELD, op. cit., p. 201. 22 c. BuCKLEY, op. cit., p. 42. 23 M. BRANDT, Letter to the younger generation, in E. NEUMANN, Bauhaus and Bauhaus People, Van Nostrand Reinhold Company, New York 1970, p. 98. 24 s. WORTMANN WELTGE, / tessuti del Bauhaus. L'arte e l'arti­ gianato di un laboratorio femminile, Garzanti, Milano 1993. 25 lvi, p. 9. 26 I. ANSCOMBE, A Woman '.r Touch: Women in Design/rom 1860 to the Present Day, Virago, London 1984. 27 Cfr. N. PEVSNER, Pioneers of Modem Design. From William Morris lo Walter Gropius, Faber & Faber, London 1936 (trad. it. I pio­

nieri del Movimento Modenw. Da William Morris a Walter Gropius,

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Garzanti, Milano 1983). •8 J. ATTFIELD, op. cit., p. 204. 29 L. CASTAGNO, Profili di donne nell'architettura internazionale e nelle arti applicate, in «Gli occhi dello stupa», n. 4, novembre 1983, p. 34. 30 AA.VV., Il Design delle donne, Arnoldo Mondadori Arte, Mi­ lano 1991, p. 29. 31 C.· DoNÀ, Il lungo viaggio delle donne designer, in «Ottagono», n. 148, febbraio-marzo 2002, p. 35. 32 Cfr. P. KIRKHAM (ed.), Women Designers in the USA 1900-2000: Diversiry and Dijference, Yale University Press, New Haven 2000. 33 Cfr. A. PANSERA (a cura di), Dal merletto alla motocicletta. Ar­ tigiane/artiste e designer nell'Italia del Novecento, Silvana Editoriale, Milano 2002. 34 E. LUPTON, Mechanical Brides. Women and Machines from Ho­ mes to Office, Princeton Architectural Press, New York 1993, p. 7 e p. 12. 35 M . ZARZA, op. cit., p. 1. In questo saggio Martha Zarza sostiene la sua teoria dei gendered objects analizzando, come caso studio, il de­ sign dei rasoi. 36 P. K.iRKHAM (ed.), The gendered object, Manchester University Press, Manchester and New York 1996, pp. 1-2.


37 M. ZARZA, op. cit., p. 11. 38 /vi, p. 4. 39 lvi, p. 4. •0 J. ATTFIELD, op. cit., p. 209. •• M. ZARZA, op. cit., p. 12.

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venerazione si carica di poteri mistici. La riproducibilità in­ vece ruba la statua dal giardino del tempio, trasfigura l' i­ cona, rompe il mosaico, parcellizza l'essenza dell'opera e spezza i confini del sacro. Il simbolo, riprodotto in ogni dove e in ogni tempo, si ritrova, privato delle costellazioni di connotazioni che lo incoronano, senza il suo originario valore d'uso. La riproducibilità garantisce all'opera delle potenzialità espositive che non possono essere racchiuse al­ l'interno della sacralità; in questo senso la ruba alla tradi­ zione, la trasporta in territori nuovi e fa in modo che acqui­ sisca altri significati. La riproducibilità tecnica, e la conseguente distruzione dell'aura, appare come un processo ineluttabile, lontano dalla volontà delle masse, dominato dal mercato. Benjamin giudica tutto questo e riflette sulle conseguenze che il pub­ blico subisce. Per quanto altri scritti precedenti lascereb­ bero intendere il contrario, è evidente nel testo del 1936, il tentativo di oltrepassare le problematiche marxiste, di giu­ dicare quindi le conseguenze della riproducibilità, senza ca­ dere nelle, apparentemente inevitabili, deduzioni relative ai concetti di sovrastruttura, di alienazione, di proprietà dei beni di produzione industriale. Non è sostenibile attribuire al lavoro di Benjamin marche ideologiche di alcun tipo; no­ nostante il materialismo storico faccia parte della forma mentis del sociologo, le esperienze determinanti nella for­ mulazione del pensiero devono essere cercate piuttosto nella forza rivoluzionaria delle avanguardie, del Dadaismo e del Futurismo in particolare. È per questo che il giudizio finale sugli effetti della riproducibilità risulta positivo, fon­ damentale prima di tutto per quelle masse che, prima della riproducibilità, venivano escluse a priori dai circuiti di frui­ zione dell'arte. Perciò, per quanto il pensiero di Benjamin si riveli pressoché inutile ai fini del pensiero marxista, ecco che contemporaneamente riemerge il peso fondamentale del lavoro non solo per la Sociologia ma anche per la Storia e la Critica dell'Arte: Benjamin infatti isola, con il concetto di riproducibilità, il punto di rottura tra l'arte del XIX secolo 40 e quella del XX, seguendo parallelamente l'esplosione poe-


tica delle avanguardie, che cercano di restituire l'arte alle masse e alla società. Effettivamente le conseguenze della riproducibilità sono quanto di più vicino la realtà e la quotidianità abbiano saputo dare ai manifesti di Dada e alle grida dei futuristi; la libertà dell'arte attraverso la distruzione dell'arte stessa, l'e­ saltazione della tecnica, il coinvolgimento delle masse e la conseguente rotture dei primati borghesi, sembrano quasi il riflesso poetico del discorso di Benjamin. Gli anni in cui Benjamin scrive sono ancora lontani da­ gli eccessi comunicativi di oggi. Ancora eccitati dall'imma­ gine, corrono verso il definitivo assestamento dato dalla te­ levisione: la saturazione visiva sembra un obiettivo da rag­ giungere piuttosto che un limite da tenere lontano. Le im­ magini che da secoli andavano sedimentandosi, una dopo l'altra, nell'immaginario collettivo, insegnano via via, ai fruitori, i linguaggi iconici, in tutta la loro varietà, in tutta la loro complessità; la grande rivoluzione dell'immagine in movimento, che spaventa, che sorprende, fa superare un nuovo gradino, ma la normalizzazione della percezione è ancora lontana. La riproduzione è da sempre la dinamo che alimenta tutto ciò, ma il movimento che genera si espande in tutte le direzioni, in maniera troppo caotica, veloce, schizofrenica, perché le varie immagini non si mischino fra di loro. È in questo turbinio esplosivo che la riproduzione dell'imma­ gine inizia a nutrirsi di ogni iconografia possibile, fonden­ dola con quelle artistiche di tutti i tempi; la contaminazione diviene sempre più - normalità - e si sviluppano tutte quelle aree grigie, nutrimento delle culture pop che decennio dopo decennio andranno maturando nel cuore della post-moder­ nità. Il concetto di riproducibilità deve infatti essere traslato all'intera industria culturale; l'inedita capacità comunica­ tiva trasmette improvvisamente una inaspettata quantità di informazioni, tale da permettere in poco tempo la nascita di un nuovo immaginario fondato sul consumo contempora­ neo di una serie infinita di contenuti.

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bito rivoluzionario: la costellazione di fascinazioni, stili, tradizioni e magie che aleggia attorno agli splendidi ebani africani è infatti il frutto di una cultura tribale, pre-guten­ berghi�na, lontana dalla sequenziale razionalità occiden­ tale. L'incontro tra l'arte pre-verbale africana e una cultura assolutamente verbale, lineare, come quella occidentale non poteva infatti che generare qualcosa di nuovo, post-verbale, sintesi positiva di entrambe, anche se pur sempre esplosiva e dirompente. L'arte del Novecento esce così dall'era di Gu­ tenberg, e dal XIX secolo, grazie a tensioni inconsce che esplodono in mille pezzi di fronte al potere catartico del to­ tem o della maschera primitiva; quello che succederà poi sarà la sistematica costante riproposizione simultanea di questi frammenti. Se pertanto Les Demoiselles d'Avignon possono diven­ tare la metafora del passaggio da modernità a post-moder­ nità, dal XIX secolo al XX, è evidente che è la vista ad es­ sere la pietra di volta di questo processo. Coerentemente con quanto asserito sulla Terza Fase e sulla fine della Galas­ sia Gutenberg, la vista assurge infatti ad organo protagoni­ sta del Novecento, senso primigenio di una importante tra­ sformazione antropologica che coinvolge tutte le genera­ zioni del secolo. Il punto di rottura tra l'immaginario del XIX e del XX secolo trova quindi nella storia delle avanguardie un deci­ sivo punto di partenza oltre che un fondamentale motore per gli sviluppi conseguenti; la fine del XIX secolo segna infatti la nascita di una nuova cultura del vedere, trainata contem­ poraneamente dall'arte e dall'industria culturale, in un con­ tinuo scambio di tecnologie e contenuti, ostilità e rispetti, fino ad arrivare, sessanta, settanta anni dopo, in quella coin­ cidenza perfetta che è la Pop Art. Solo da qui in poi, il volto di questa post-modernità fondata sul visibile, assumerà i contorni maturi di un'era, capace di generare nuove energie votate alla ricerca di altri orizzonti. Il punto di arrivo della ricerca artistica, l'arte Concettuale, sembra infatti aprirsi, grazie a nuove generazioni, generazioni più giovani, verso 52 la poetica delle reti, fondata sull'atto comunitario e non più,


ecco la novità che potrebbe far uscire dalla post-modernità del XX secolo, sull'opera. Se questo sarà effettivamente possibile, se effettiva­ mente l'arte tornerà a catalizzare il suo contemporaneo, ag­ gregandolo e rivoi uzionandolo nell'immaginario collettivo come nella prassi quotidiana, questo sarà possibile grazie ad una generazione che nelle tecnologie della riproducibilità e nel melting pot dell'industria culturale, ha trovato gli sti­ moli per la formazione di una nuova identità.

1 W. BENJAMIN, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibi­ lità tecnica, Einaudi, Torino 2000 (Das kunstwek im zeitalter seiner te­ chnichen reproduzierbarkeit, 1936).

Il rapporto tra presenza e assenza, in relazione alle tecnologie della comunicazione, è ben definito da E. MoRIN in L'industria cultu­ rale - saggio sulla cultura di massa, Il Mulino, Bologna, 1963 (L'e­ sprit du temps, 1962). 3 M. McLUHAN, Gli strumenti del comunicare, Est, Milano 1999 (Understanding Media, 1964). 4 R. SIMONE, La Terza Fase - /onne di sapere che stiamo per­ dendo, Laterza, Roma 2000. 5 M. McLUHAN, La galassia Gutenberg: nascita dell'uomo tipo­ grafico, Armando, Roma 1998 (The Gurenberg Galaxy. The making of Typographic man, 1962). 6 Ibidem, p. 325. 7 Ibidem, p. 332 8 La prima memoria sulla relatività di Einstein, datata 1905, tro­ verà la stesura definitiva nel 1916 con il titolo Teoria della relatività 2

generale.

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