Op. cit., 116, gennaio 2003

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Op.cii. rivista quadrimestrale dì selezione della critica d'arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnara, Alessandra de Martinì

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Electa Napoli


R. DE Fusco, L. SACCHI, R. PASINI,

Design e crisi dell'auto Case Study Houses: colonialismo modernista Fautrier e l'Informale in Europa Libri, riviste e mostre

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Gaetano Amodio, Imma Forino, Nicola Galvan, Claudio Roseti, Maria Luisa Scalvini.




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fatto che proprio il design, così ampiamente inteso, sia la principale causa dell'attuale crisi dell'industria tori­ nese. Viceversa, il design - e non solo da quest'ultima ma in tutto il settore dell'automobile - è ridotto alla mera conformazione stilistica del prodotto. II che genera una grande confusione sia presso i fabbricanti, che risultano disorientati, sia verso il pubblico, sistematicamente di­ sinformato. La conferma dell'equivoco sta nello stesso lin­ guaggio pubblicitario: quando i media presentano un'auto, dopo averne decantata ogni caratteristica tecnica ed ogni prestazione, aggiungono che poi «ha anche un bel design», ovvero una sorta di valore aggiunto, tanto più pregevole quanto più alto è il prezzo del modello. Che non si tratti solo di una semplificazione - nulla esiste nell'intelletto che non sia prima pas·sato per i sensi, secondo l'antica massima - si evince dal fatto che nessuno parla dei quat­ tro momenti:- la progettazione è sempre un processo «in­ terno» ali'azienda ed estraneo alla pubblica opinione; la produzione è a maggior ragione tenuta segreta ai futu1; clienti; la vendita è praticata secondo sistemi imposti uni­ camente dall'impresa; lo stesso consumo, ovvero il mo­ mento del design più vicino all'interesse del pubblico, ri­ sulta confuso dal rapido succedersi dei modelli immessi nel mercato. D'altro canto, l'equivoco della riduzione del design al mero stilismo, come accennavo, nuoce alla stessa azienda; per essa il parametro di riferimento è l'indagine di mer­ . cato, ma che valore può avere quando questa si basa sulla volontà di un pubblico così disinformato? Siamo in pre­ senza di un vero e proprio circolo vizioso. Una ulteriore conferma del malinteso concetto di de­ sign è data dalla professione del «carrozziere», oggi pro­ pria di uno stilista che sovrappone ad un preesistente con­ gegno meccanico una veste esteriore, in ciò mortificando il nobile mestiere originario, di cui si occuparono persino scienziati eclettici, come Fausto Veranzio .e Leonardo da Vinci.


Ricordiamo che le carrozze a cavalli non erano sol­ tanto quelle belle macchine lignee barocche che vediamo nei musei, ma il prodotto di una lavorazione niente af­ fatto limitata alla dimensione estetica. Dal punto di vista tecnico, già il nome del carro romano carpentum ci dice che le carrozze non erano costruite da un artista ma da un carpentiere; inoltre sin da allora entrò in uso lo sterzo che si trova nella carruca dormitoria, la tipica carrozza da viaggio di quell'epoca. Dal XV I secolo i veicoli in esame presentavano sospensioni della cassa a molla me­ diante cinghie di cuoio o catene; nello stesso periodo, l'industria delle carrozze, fiorente a Milano, introdusse i vetri agli sportelli, apribili a cerniera. In Germania ven­ nero costruiti i primi veicoli muniti di un avantreno gire­ vole, una specie di carrello a due ruote, indipendente dal telaio e libero di muoversi su un perno verticale. Quanto alla tipologia delle carrozze, essa era assai più ricca di quella delle odierne automobili: «In Francia entrò in uso il calesse. una vettura elegante a quattro ruote, con l'at­ tacco per due o quattro cavalli. Si cominciarono a co­ struire anche carrozze di gran gala e da cerimonia per le corti dei regnanti e i dignitari della Chiesa. Le portantine medievali si trasformarono in carrozze dette alla francese vinaigrette. Verso la metà del XVIII sec. entrò in uso in Germania la berlina, cosf chiamata dal nome dell'omo­ nima città. Alla fine del secolo vennero costruiti per la prima volta il coupé, di origine francese, il landau o landò, realizzato appositamente nel 1784 per_ il viaggio dell'imperatore Giuseppe Il da Vienna a Londra, e l'in­ glese tilbury. Nel XIX sec. si realizzarono i più diversi tipi di carrozze, la maggior parte delle quali aveva nomi di origine anglosassone, imposti dalla moda, che perdu­ rarono fino alla nostra epoca. Nel 1834, il Cancelliere in­ glese dello scacchiere, Lord Brougham, fece costruire una piccola carrozza, che si diffuse in tutto il mondo col nome, appunto, di brougham. Tra il 1840 e il 1850 ap­ parvero il cabriolet, il mylord, e il clarence dal nome del. Duca inglese di Clarence. Sul finire del XIX sec. entra-

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rono in uso il phaeton, il break, il vis-à-vis. Per il tra­ sporto di più persone, le vecchie diligenze assunsero la forma del postale, inventato da John Pahuer» [L'affascinante storia delle invenzioni, Selezione del Reader's Digest, Milano 1983, p. 97]. Se, come dicevo, la tipologia delle carrozze era più ricca di quella delle nostre automobili, altrettanto dicasi, in un certo senso, per l'indotto. In questa nozione pos­ siamo addirittura includere il sistema stradale indotto ap­ punto dall'uso delle carrozze. Senza risalire all'età romana quando tale sistema, ancora oggi parzialmente sfruttato, si sviluppò enormemente, stabilendo le prime leggi cono­ sciute di circolazione urbana e suburbana, è tra la fine del XVII e il principio del XVIII sec. che la rete stradale eu­ ropea divenne quella moderna, soprattutto a opera dell'in­ gegnere scozzese John Loudon Macadam e del francese Pierre Trésaguet. In breve, l'arte e la tecnica delle carrozze anticipano in ogni senso quelle delle nostre automobili, la differenza fra l'artigianato e l'industria risolvendosi, come in altri casi, soprattutto in senso quantitativo e seriale. E se il costruttore e progettista di carrozze poteva limitarsi legittimamente alla cura della forma dei veicoli e non a quella dei cavalli, viceversa, il designer cli auto, deve o dovrebbe, per così dire, badare anche ad essi. Certo, poiché sono anch'io convinto che il design, pur avendo ancora alcuni capisaldi comuni ad ogni settore merceologico - la quantità, la qualità e il giusto prezzo presenti delle notevoli differenze da un campo ali'altro. L'idea che la «sostanza» di un prodotto arrivi a coincidere con la sua forma si attua più facilmente con oggetti o mac­ chine semplici, piuttosto che progettando e costruendo complessi congegni qual è quello di un'auto. Sono altresì consapevole che la divisione del lavoro e la conseguente specializzazione richiedano il concorso di più tecnici per realizzare un'automobile; tuttavia anche altre organizza­ zioni produttive, grazie alla nozione di regia, riescono a fondere i vari e diversi apporti in un prodotto che alla fine risulta unitario.


Ma, al di là del malinteso concetto di design nel campo dell'auto, c'è un punto per me inspiegabile nella produzione della FIAT: perché quest'azienda che ha fatto la sua fortuna con la 500 e la 600, non ha più riproposto una minivettura? Era da aspettarsi - visto e considerato anche il successo di altri settori affini dell'industria ita­ liana, specie quello dei motoscooter Vespa e L ambretta, diffusi in tutto il mondo - che dai suoi stabilimenti uscis­ sero almeno idee di auto piccolissime, componibili come le carrozze di un trenino elettrico, azionate da energie non inquinanti, parcheggiabili come una motoretta, tutte in plastica onde evitare ogni sorta di vecchie lamiere am­ maccate, persino nella linea dell'usa-e-getta, per cui sa­ rebbe risultato più economico rottamare l'auto danneg­ giata che farla riparare da un meccanico artigiano o da una officina di carrozzeria. Al posto di una via che le sa­ rebbe stata storicamente congeniale, la FIAT prima ha puntato sulla vettura destinata al ceto medio, poi all'auto di gran lusso, mettendosi in concorrenza con aziende stra­ niere che da sempre hanno trattato un simile tipo di pro­ dotto. Da questa concorrenza è uscita perdente: nessun modello italiano, negli anni più recenti, si è rivelato su­ periore a quelli stranieri; né si è capito che la competi­ zione andava effettuata sulla diversità tipologico-econo­ mica e non su quella della stessa tipologia diversamente stilizzata. A difesa della politica dell'auto dall'alta cilindrata sta il fatto che molti la usano per grandi viaggi, tutti dimen­ ticando che se le piccole vetture da città producono in ge­ nerale il danno di qualche ammaccatura, quelle costruite per strade e super-strade comportano le stragi di ogni week-end e delle grandi migrazioni vacanziere. Comun­ que, a mio avviso e almeno in Italia,· non regge una pro­ duzione unicamente affidata alle grandi auto da viaggio. Si dice che la vettura di lusso sia quella maggiormente richiesta dal mercato, confermando la_ generale teoria di Veblen: «L'utilità degli articoli valutati per la bellezza.dipende strettamente dalla loro costosità [ ... ] la maggiore

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o se appena ferma uno soltanto dei suoi stabilimenti. NÊ s'invochi, a giustificazione delle campagne proibizioniste, la vecchia e malintesa questione del consumismo, perchÊ, come ho notato altrove, il vero male del consumismo sta in ciò che solo una piccola parte del mondo ne gode, tutta le altre rimanendone escluse.

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mentazioni più recenti (anche e soprattutto in campo resi­ denziale) ne fanno emergere, a oltre mezzo secolo di di­ stanza, le straordinarie qualità paradigmatiche, in grado cioè di dar vita a lunghe serie di declinazioni architetto­ niche. Più in generale la modernità entra da quel momento stabilmente a far parte del patrimonio genetico della crea­ tività architettonica americana, dando l'avvio a linguaggi segnati da qualità estetica diffusa molto alta, spesso diffi­ cilmente eguagliabile. E il valore "iconico" di queste case, nel senso escatologico del termine, finalizzato cioè non tanto a essere contemplate da un punto di vista estetico quanto piuttosto a suscitare l'entusiasmo "religioso" degli adepti del modernismo, non solo è chiaramente presente, ma sopravanza anche tutti gli altri. In quegli anni, a Los Angeles, il modernismo assume insomma tutte le caratte­ ristiche di una vera e propria fede, divenendo critica alla società, esortazione al riformismo, processo di psicote­ rapia culturale, reintegrazione della normalità e profe­ tico affondo nel futuro6 .

1 Announcement, the case study house program, in «Arts &

Architecture», gennaio 194 5 , p. 39.

2 Cfr. Built in USA: Post-war Architecture, a cura di H.-R. Hitchcock e A. Drexler, The Museum of Modem Art, New York 1952, p. 8. 3 E. McCov, Arts & Architecture Case Study Houses, in

Blueprints for Modem Living: History and Legacy of the Case Study Houses, MIT Press, Museum of Contemporary Arts, Cambridge-Los Angeles 1989, p. 17. • Cfr. J. SHULMAN, Epilogue, in Case Study House, The com­ plete CSH Program, 1945-1966, a cura di P. Goessel, Taschen, Koln, London, Madrid, Paris, Tokyo 2002, p. 436.

5 Ibidem.

6 C. RowE, The Architecture of good intentions, Towards a possible retrospect, Academy, London 1994, p. 40 .

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fenomenologia. Accanto a Fautrier sono stati posti dieci artisti (Dubuffet, Wols, Soulages, Tàpies, De Stael; Fontana, Burri, Merlotti, Moreni, Leoncillo) in un con­ fronto inteso a cogliere soprattutto le sinergie di una poe­ tica che attraversa gli anni Quaranta e Cinquanta con i ca­ ratteri dell'esistenzialità più coinvolgente e bruciante, del tuffo dentro la voragine della materia in un palpito conti­ nuo di immedesimazione e distacco, del rapporto di amore e odio per una realtà che può essere fonte di incanto come di irrisarcibile deiezione. E dunque non tanto o non solo di Fautrier qui si in­ tende discutere, rinviando per questo al saggio in cata­ logo', quanto delle similarità e differenze con gli altri dieci, presi a campione di una situazione conflittuale della ricerca artistica quale fu l'Informale, dilaniato fra l'ato­ mica e la rivolta d'Ungheria, fra una concezione tardoro­ mantica della natura-mondo e i primi lanci spaziali, fra il desiderio· di credere fino in fondo al ruolo creativo e il senso dell'inutilità cosmica.

I. I due "cavalli di razza" Così li definisce opportunamente Barilli nel suo testo, ricco e stimolante come sempre2 , alludendo a Fautrier e Dubuffet. Uniti da intense motivazioni, ma anche assai differenti per intrinseche concezioni creative e operative, i due sono innanzitutto accomunati dal fatto di non rien­ trare né nella logica dell'informale segnico, né in quella dell'informale materico, ma di assommare entrambe le va. lenze. O meglio: Fautrier rivela già nei travagliati e fram­ mentati Trenta un segno rapido ed ellittico, che in certe tempere su carta si mostra anticipatore della stagione che verrà, liberandosi in ghirigori di una leggerezza strabi­ liante, già in antitesi al regime sombre del periodo "nero"; poi convertirà il segno nei primi anni informali ad un re­ gistro puramente contornativo delle paste, come mem26 brana cellulare e niente più: orrendo e dolce al tempo





ma con un intimo bisogno di risposte, alla "leggerezza". Wols · non chiede risposte: le ha, da par suo, superate.

3. Fautrier e Tàpies

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Altra analisi interessante concerne il confronto fra la materia di Fautrier e quella di Tàpies. Entrambi sono sen­ sibili ad una matericità densa e impregnata di esistenzia­ lità, ma il francese è, come si è detto, il portatore di una concezione esistenzialista che si imparenta con la nausea, mentre lo spagnolo demanda il senso refrattario delle cose e il loro impenetrabile mistero al muro. In altri termini, al primo peniene la dimensione carnale, testimoniata da corpi e soprattutto teste di giustiziati, come "parti" di un "tutto" che è il corpo stesso del mondo, dilaniato e. barbarizzato dalla storia e dall'assurdità dell'esistenza; il secondo invece ci propone una materia minerale, priva di vita, densa e co­ riacea, invalicabile, impoetica, sorda, vile. Su di essa si ac­ campano a volte segni che alludono a tracce vitali o a og­ getti, ma nulla arriva a farsi presenza. Tàpies è nichilista in modi irreversibili, non lascia alcuna speranza. In mostra era presente, fra l'altro, Tabula rasa, 1958 (della GNAM, Roma): un pezzo di insuperabile bellezza, chiuso come una tomba, fermo e inamovibile come un macigno. Il senso della morte, che percorre l'opera di Tàpies, alleggerendosi con gli anni in un'oggettualità che ne allevia in parte la tensione, è qui totale: una specie di finestra cieca, con l'im­ pronta dei quattro possibili infissi, ci si presenta davanti come una sentenza inappellabile, nel grigio cementizio che ai margini si screpola in una craque/ure d'altre ere. Mentre Fautrier partecipa allo straziante spettacolo di "sangue e arena", Tàpies ci propone, come ho scritto al­ trove, una "cosmogonia laterizia". L'uno coglie in diretta il "male di vivere" e lo canta con un epos ruvido e inti­ mamente indignato, l'altro lo ha superato nella concezione di una pittura che si fa "giardino di pietra" e non giudica la storia, l'uomo, le sue efferatezze, ma si limita a con-



Fontana. In realtà sia il quadro di Fautrier, sia la produ­ zione di Fontana sono accomunati da una sottile metafora erogena. Nel francese non sussiste l'intenzionalità sadica e terminale del "bucare" e del "tagliare" la tela, che pone al tempo stesso quest'ultima nella condizione nuova di rappresentare una parte integrante dell'opera, ossia di non essere relegata al ruolo di superficie neutra adibita passi­ vamente alla ricezione del "dipinto" tradizionalmente in­ teso, ma di essere portata in primo piano, facendo del suo "corpo" una realtà costitutiva dell'esito finale. Grande in­ tuizione, foriera di pregevoli sviluppi negli anni Sessanta e Settanta (come dimostra, tra l'altro, la problematica della shaped canvas). In Fautrier tutto questo non c'è: egli è al di qua della poetica del supporto: la tela per lui è ancora un ricettacolo della materia dolente che sgorga dalla vita, non più "quadro" per esercitazioni rappresentative, ma nemmeno oggetto acquisito a protagonista. Del resto, Fontana nutre una profonda relazione con la materia, che rende "duale" la sua_ opera come quella del francese: una dualità che appunto vive all'insegna del rapporto fra ma­ teria e gesto (nel suo caso non si può più parlare di "se­ gno" perché questo arriva a ledere "fisicamente" il sup­ porto): i Concetti spaziali caratterizzati dai fori, che ini­ ziano nel '49, sono spesso solcati da agglomerati materici, con aggiunta anche di pietruzze, in un recupero di appa­ rente decorativismo: al di là delle sinergie con il barocco, grande amore di Fontana, vige nella sua opera un senso ricco e opulento della materia, che non ha la dimensione tragica né degli Otages, né dei Partisans Budapest: Fontana è in sintonia con la storia delle scienze e della tecnologia (ambienti spaziali, uso del neon, interesse per il mezzo televisivo) più che con quella politico-sociale. Ma al di là di questa differenza di fondo, un ciclo come quello delle Nature, 1959-60, opportunamente presenti in mostra, accomuna per certi versi Fontana a Fautrier. Queste porzioni di materia in bronzo, poste a terra, e aperte centralmente da un inquietante orifizio, sono lì a te32 stimoniare che la materia è corpo, il corpo è natura e il


mondo è un grande amplesso fisiologico da cui tutti pro­ veniamo. Indubbiamente Fautrier non esprime la dimen­ sione della natura-vita-femmina come Fontana, che cele­ bra in senso positivo la questione, ma condivide con .l'i­ taliano il bisogno di dare alla materia un esito di "aper­ tura", che ne estrofletta l'intrinseca dignità: Fontana Io fa in un ambito ginomorfico, Fautrier senza prerogative ses­ suali ma con l'attenzione costante al senso del dolore che emana dalla condizione esistenziale, incrociata con quella storica.

6. Fautrier e Burri Il dualismo di Fautrier, fra materia e segno, produzione figurativa e produzione informale, deiezione esistenziale e flnesse (quando nei secondi Cinquanta la materia si "ag­ ghinda" di tocchi cromatici raffinati), trova in Burri una ricca corrispondenza. L'italiano rivela un'anima "doppia" per l'attenzione sia ad una materia, negli anni dell'Informale, catramosa, vischiosa, nera, che poi si fa "sacco", "legno", "ferro" infine "plastica", trasformandosi così in "materiale", sia ad una forma di matrice geome­ trica, sebbene si tratti di una geometria morbida a sfondo erogeno, negli anni Settanta e Ottanta. Del resto Burri già nel periodo dei "sacchi" dimostra l'ambivalenza del rap­ porto fra la materia grezza del sacco, metafora bellica e religiosa al tempo stesso, e l'intervento di cucitura, di rat­ toppo, che rispetta in campo artistico le sue prerogative di . medico-chirurgo. Proprio le campiture scaturenti da quella sorta di taglia-e-cuci soddisfano già la sindrome ordina­ tivo-razionale dell'artista umbro, che così unisce in esem­ plare dualismo la dimensione iletica, di ricerca di un pri­ mordio dell'essere legato alla terra e ai suoi derivati, e quella noetica, in cui una mente attenta cerca di dirimere il caos per far affiorare porzioni di mondo leggibile. Allo stesso modo anche in Fautrier troviamo una va­ lenza razionale, sebbene meno sviluppata che in Burri e

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di "tempesta e assalto" e la sua è un 'energia reboante che non guarda a nessun argine, mentre Fautrier reprime a lungo la sua, impaniandola in paste morenti, finché non la lascia esplodere, ma sempre con una certa vocazione al controllo, nella fase finale del suo percorso.

9. Fautrier e Leoncillo

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Il caso di Leoncillo, anche se non vi è il tema della te­ sta e il dramma esistenziale ha le tinte angosciose di un'in­ sonnia privata, è quello forse di maggior consonanza con Fautrier. Lo scultore possiede infatti una sorta di poten­ ziale materico che trasmette allo spazio creando concre­ zioni in terracotta che hanno il sapore di un tormento esi­ stenziale totale e irrisarcibile. I "torsi", scissi da aperture eloquenti, i "San Sebastiani" feriti da qualcosa che va al di là della lettera, gli agglomerati di materia libera che si ostende come un grumo di dolore universale sono in un certo senso la trasformazione della poetica fautrieriana, le­ gata alla superficie, in espressione plastica. La "pasta alta" di Fautrier, segnata da un destino di morte, si trasforma, con Leoncillo, in "pasta tridimensio­ nale". La vocazione al senso di vuoto che pervade l 'esi­ stenza è analogo, come simile è la concezione dell'uomo quale corporeità corrosa da una "coscienza infelice" che non dà tregua. In definitiva, quest'ulteriore excursus tra le sponde dell'Informale, conferma in Fautrier sia un artista "duale", sia un maestro del "due" nell'accezione arcangeliana di rapporto uomo-mondo. Ma anche, in fondo, che ogni ar­ tista informale lo è. Materia lavica o cosmica, vegetale o corporea, poco cambia alla fine: la poetica dell'Informale è sempre e comunque in relazione a. Occorre ribadire que­ sto punto, perché la sua incomprensione può portare a fal­ sare i piani, nettamente distinti e irreciproci, tra Informale e Astrattismo. Due situazioni artistiche, due poetiche, due


logiche espressive non solo cronologicamente e geografi­ camente distinte (essendo l'Astrattismo nato negli anni Dieci in Europa, mentre l'Informale è nato alla metà de­ gli anni Quaranta e si è sviluppato sia in Europa, sia ne­ gli Stati Uniti), ma in qualche modo agli antipodi: l'uno è tuffo dentro il mondo, plesso esperienziale, adesione alla terra, mentre l'altro è concezione ideale, espressione geo­ metrica, allontanamento razionale da tutto ciò che è ma­ teriale. Fautrier sta dentro, Mondrian sta fuori.

1 R. PASINI, Jean Fawrier: la "carne del mondo", in Jean Fautrier e l'Informale in Europa, a cura di R. Barilli, testi di R. Barilli e R. Pasini, apparati di F. Fabbri, cat. Fondazione Magnani­ Rocca, Mariano di Traversatolo (PR), 2002 (ed.Mazzotta). 2 R. BARILLI, Fautrier; l'anista come demiurgo, ibidem. 3 Cfr. J. PAULHAN, Grace et atrocité de Fautrier, in «XX• Siécle», Natale 1958. 4 Cfr. G. LIMBOUR, Jean Dubuffet ou l'imagination de la ma­ tière, in «Servir», n. 24, maggio 1945. 5 Gli aforismi di Wols si trovano tradotti in italiano in Wols. Aforismi, a cura di S. Pegoraro, Pendragon, Bologna 1996 e sono una lettura straordinaria per ironia, delicatezza e intensità, oltre che un prezioso vademecum per capire ancora più in profondità l'opera del pittore. 6 Sull"'Ultimo naturalismo": F. ARCANGELI, Gli ultimi naturali­ sti, in "Paragone", nov. I 954. Per una sua discussione approfondita rinvio a L'Informale. Stati Uniti, Europa. Italia, CLUEB, Bologna 1995, pp. 300-306.

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