Op. cit., 125, gennaio 2006

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Alessandra de Martini,

Emma Labruna, Livio Sacchi Segretaria di redazione: Rosa Losito Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 081/7690783 Amministrazione: 80123 Napoli, Via Capurro, I - Tel. 081/5756654

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Electa Napoli






cose o concetti, b) esistono le frontiere linguistiche: uno stesso oggetto o concetto si nomina diversamente da una lingua all'altra; quindi l'arbitrarietà sarebbe una delJe prin­ cipali caratteristiche della lingua. Secondo altri autori, in­ vece, in origine le parole sarebbero sempre motivate, così come ogni nuova creazione verbale (si pensi a quanti ter­ mini sono oggi legati all'informatica, addirittura in senso onomatopeico) e conserverebbero questa motivazione più o meno a lungo, a seconda dei casi, sino al momento in cui finirebbero per cadere nell'arbitrarietà, poiché la mo­ tivazione cessa di essere percepita. Questi concetti furono chiaramente espressi da Guiraud: In primo luogo, buona parte delle parole che impieghiamo è effettivamente motivata, e tale motivazione, più o meno cosciente a se­ conda dei casi, determina l'impiego di queste parole e la loro evoluzione. In secondo luogo, ogni nuova crea­ zione verbale è necessariamente motivata: ogni parola è originariamente sempre motivata e conserva questa motivazione più o meno a lungo, a seconda dei casi, sino al momento in cui finisce per cadere nell'arbitra­ rietà, poiché la motivazione cessa di essere percepita. È questa la grande differenza fra i codici e i linguaggi. In un codice, infatti, ogni nuovo termine è dato con la sua definizione (le lingue scientifiche come l'algebra e la fisica sono, almeno in una certa misura, dei codici). Nella lingua di comunicazione, invece, la convenzione non è mai esplicita: il senso del termine nuovo è im­ plicato nella situazione che permette all'interlocutore di riconoscerlo e di interpretarlo; ed è nella misura in cui questa nuova parola è riconosciuta, accettata e ri­ petuta che una convenzione si istituisce: convenzione tacita a partire dalla quale la motivazione iniziale perde la sua funzione etimologica e tende ormai a of­ fuscarsi. [ ... ] Ma inizialmente tutte le parole sono mo­ tivate e molte lo rimangono più o meno a lungo. La motivazione costituisce quindi uno dei caratteri fonda­ mentali del segno linguistico. [ ...] D'altra parte la mo­ tivazione non è determinante, non è necessaria al senso,

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che è attualizzato da una associazione convenzionale. Ne consegue che la si dimentica; si cessa di vedere l'as­ sociazione etimologica [ ...]. Questo eclissamento della motivazione è tanto più generale in quanto è spesso ne­ cessario; infatti, se si imponessero, queste associazioni potrebbero determinare una restrizione del senso [ ... ] La motivazione deve quindi eclissarsi a beneficio del senso, altrimenti rischia di restringerlo e persino di al­ terano. Ecco perché l'arbitrarietà del segno è una con­ dizione del suo buon funzionamento; e i linguaggi "puri", come l'algebra, approntano dei sistemi di sim­ boli liberi da qualsiasi associazione extraconvenzionale. Ma la motivazione è una forza creatrice inerente al lin­ guaggio sociale, che è un organismo vivente di origine empirica; è solo quando la parola è stata creata e mo­ tivata (naturalmente o intralinguisticamente) che le esi­ genze della funzione semantica determinano un offu­ scamento della motivazione etimologica, la quale, eclis­ sandosi, può del resto determinare una alterazione del senso. [P. GUIRAUD, La semantica, Bompiani, Milano 1966, pp. 28-33]. Trasferiamo lo stesso ragionamento nei sistemi formati da segni-funzione, tra i quali è l'architettura e il design. Qual è in essi la originaria motivazione? Generalmente un feno­ meno mimetico-funzionale: i.I più elementare contenitore, una coppa, deriva evidentemente dalle mani accostate; i mo­ tivi della decorazione geometrica, per esempio la «greca», hanno origine, secondo Semper, dalla trama tissulare, dal di­ verso colore e ritmo dei fili d'erba intrecciati; la figurazione architettonica, il sistema trilitico, i cinque ordini, gli elementi decorativi discendono dalla mitica capanna o comunque da un primitivo sistema costruttivo ligneo. Ma esiste veramente una mimesi architettonica? Que­ sta, sin dai tempi antichi, trovò il suo modello nella citata capanna lignea. Tale ingenua credenza ha riempito ma­ nuali e trattati dal Rinascimento fino ai nostri giorni, quando ancora qualche autore si attarda a considerare l'imitazione della natura quale genesi della nostra disciplina.


Nel Settecento il mito della capanna lignea come fonte mi­ metica dell'architettura raggiunge il suo culmine, tant'è che il frontespizio dell'Essai sur l'architecture dell'abate Marc-Antoine Laugier ne ritrae l'effige. Notiamo però che, nella versione di Laugier, l'architettura mimetizza in un modo particolare: imita la natura solo al secondo grado, attraverso un modello che è già di per sé una costruzione [G. TEvssoT, Mimesis dell'architettura, in A. C. QuATREMÈRE DE QUINCY, Dizionario storico di archi­ tettura, Marsilio Editori, Venezia 1985, p.16). Lo stesso autore spiega altresì i diversi gradi che nel Settecento si attribuivano all'imitazione: per riassumere, si isola il grado zero, dove l'arte è prodotta come pura imita­ zione. Si definisce poi il primo grado, dove si afferma che l'imitazione non deve essere perfetta. Infine appare un secondo grado, dove ciò che si imita non è la na­ tura in tutti i suoi aspetti, ma la natura "scelta" in fun­ zione di un ideale invisibile. Vediamo che nella teoria di Laugier il modello non riesce ad essere veramente originario. La capanna non è un prodotto naturale. E già di per sé un manufatto, seppur "primitivo" [lbid.]. Sul tema della mimesi è fondata tutta l'opera trattatistica di Quatremère de Quincy che ne fornisce una originale versione: Bisogna dire che l'architettura imita la na­ tura, non in un oggetto dato, non in un modello posi­ tivo, ma trasponendo nelle sue opere le leggi che la na­ tura segue nelle sue. Quell'arte non copia un oggetto particolare, non ripete alcuna opera [ma] imita l'ope­ raio e si regola su di lui. Imita infine, non come il pit­ tore riproduce il modello, ma come l'allievo che coglie la maniera del suo maestro, che fa non ciò che vede, ma come vede fare [A.C. QUATREMÈRE DE QUINCY, De l'architecture égyptienne ecc., Barrois, Paris 1803, p.42]. Benché si possa dimostrare che anche l'architettura moderna abbia un referente, è tuttavia incontestabile che essa non imita la natura, se non per quel tanto che c'è di naturale nell'uomo, ma è opera dell'artificio e della cul­ tura umana.

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La questione dell'arbitrarietà riceve nuova luce in rap­ porto alla valenza funzionale dell'architettura. Se, come abbiamo visto, è necessario perdere, dimenticare la moti­ vazione del segno linguistico a vantaggio del senso, della semanticità, trasferendo anche quest'assunto nel nostro campo, si dovrebbe dedurre che in esso, oltre alla natura, anche la funzione stessa, ovvero la motivazione sia «eti­ mologica» che attuale, sta in un rapporto inverso alla se­ manticità: quanto più è ingente la presenza funzionale, tanto meno un oggetto di architettura è espressivo. Per­ tanto l'eclissi della funzione a vantaggio del senso, o me­ glio il suo innuclearsi nelle componenti del segno, è con­ dizione necessaria affinché questo abbia la caratteristica dell'immotivazione o arbitrarietà, che costituisce a sua volta, come s'è detto, una condizione indispensabile per­ ché si possa parlare di architettura come linguaggio. Il passaggio logico sopra descritto trova conferma an­ che alla luce del senso comune. Certo, uno dei principali significati del segno architettonico è la funzione, ma non possiamo limitarci a quella più rozza ed evidente (cui pure dobbiamo molto perché lega l'architettura alla fruizione e le impedisce il non-senso che oggi domina nel campo delle arti visive), ma cercare altre forme di funzioni di tipo connotativo, associativo, concettuale, simbolico e simili, ovvero quelle più sottili contrassegnanti più profonde va­ lenze che vanno dalla presunta motivazione originaria al­ l'arbitrarietà attuale, generalmente intesa come conven­ zione. Ma cli quale convenzione si tratta? Come la lingua non è una nomenclatura, così i segni iconici non sono ri­ ducibili, poniamo, alla serie della segnaletica stradale. An­ che nel nostro campo si tratta di una convenzione parti­ colare, derivata ancora una volta dalla linguistica. Dall'oblio delle motivazioni formative delle parole e da quello relativo alla costruzione delle fabbriche discende che il legame fra parole e cose e tra segni architettonici e loro significato è convenzionale, non una convenzione ba­ nale come la citata segnaletica stradale, ma una più sottile IO del tipo di quella indicata da Cesare Brandi: un monema



dell'arbitrarietà e quello della funzione che sembrano ine­ vitabilmente condannati a produrre un'aporia. Questa si ri­ solve, come vedremo, associando dialetticamente arbitra­ rietà e norma. Una dicotomia seguita spesso inconsape­ volmente dai migliori maestri. Tale dicotomia presenta analogie con l'altra individuata anni or sono da Anceschi in ordine al rapporto autonomia-eteronomia. Dalla visuale estetica di questo autore, nelle opere d'arte e d'architet­ tura, esistono due momenti: quello «autonomo», incentrato su caratteri espressivi, liberi, inediti, affrancati da ogni aspetto pratico, e quello «eteronomo», reso tale dai con­ dizionamenti sociali, economici, pratico-culturali, ecc. La loro specifica esistenza è innegabile, come pure l'esigenza della critica, della storia, della sociologia di approfondire le particolarità di ciascuno di essi ai fini conoscitivi. La teoria di Anceschi, in sostanza, nega la pretesa che cia­ scuno dei due momenti, l'autonomo e l'eteronomo, esau­ risca la riflessione e l'attività concreta della vita dell'arte stessa; la loro separatezza fa sì che l'uno assuma valore dogmatico e l'altro passivamente pragmatico. Affinché ciò non si verifichi, l'autore avverte che tali momenti vadano intesi come una polarità, una tensione propria della feno­ menologia e della critica artistica, donde una legge inva­ riante, basata sull'interna dialetti.ca di tali componenti: va­ lide ambedue, dunque, nel loro significato polare, se non nella loro arbitraria estensione, esse rimandano alla fine ad una legge trascendentale, che nella sua pu­ rezza resta invariabile pur nel mutare delle situazioni concrete stesse, dell'attività storico-culturale, delle in­ tenzionalità particolari che attraversano i singoli piani dell'attualità, unificandoli: l'antitesi autonomia-etero­ nomia è essa stessa questa legge, che domina e regge, regolandolo, il momento teorico-pragmatico della ri­ flessione sul campo estetico dell'arte nelle sue espres­ sioni più individuate [L. ANCESCHI, Autonomia ed etero­ nomia dell'arte, Vallecchi, Firenze 1959, p. 281). Come la dialettica fra autonomia ed eteronomia, riconosciuta quale una invariante strutturale insita nell'espe12



è data dai «vincoli» che condizionano la costruenda fab­ brica. È totalmente utopico immaginare una fabbrica che sia nata immune da ogni vincolo. Con questo termine non ci riferiamo soltanto alle esigenze del programma costrut­ tivo, alle istanze della committenza, a quello che Chri­ stopher Alexander chiama il «contesto», bensì soprattutto a quei condizionamenti materiali, orografici, idrico-geolo­ gici che nella maggioranza dei casi sono presenti nel pro­ grammare e costruire un edificio. I vincoli non solo ci sono, ma vanno addirittura ricercati anche come fattori che suggeriscono la stessa conformazione di un'opera. Per estensione, si deve supporre che laddove manchino questi vincoli materiali l'architetto, per non costruire nel vuoto, debba addirittura ipotizzarli in senso virtuale. Inoltre, già l'opzione della convenzionalità fondata su norme - ovvero su un rapporto tacitamente accolto da una comunità contro il disordine naturale - costituisce un vin­ colo contro il potenziale infinito dell'arbitrarietà. A que­ sto va aggiunto una esame specifico di ciò che si defini­ sce norma. Ho più volte citato Mukarovsky, tanto che qui posso riassumere il suo contributo in base a due fonda­ mentali assunti: anzitutto, egli distingue la nozione di norma da quella di legge, giudicando quest'ultima solo pertinente ai fenomeni di natura - nascita, crescita, morte - negandole legittimità in tutte le altre accezioni - la legge dello Stato, quella della Magistratura e quant'altro regola la convivenza civile, per le quali basterebbe il concetto di norma. In secondo luogo, a suo dire, lo specifico della norma sta nella «pensabilità della sua violazione». Il che sta a significare che, se da un lato la norma svolge il suo ruolo moderatore, dall'altro, presenta una duttilità che la rende funzionale a numerose altre esperienze. Nel campo dell'architettura e del design vale soltanto come guida , orientativa, ma non obbligatoria. Come tale avverte dei li­ miti dell'arbitrarietà e contemporaneamente riceve da que­ st'ultima il grado della sua flessibilità, quella pensabilità della sua violazione. Insegnare e imparare l'architettura si 14 avvalgono principalmente di queste due possibilità.



motivo di un discepolato ideale che rasenta i limiti del1'innamoramento. La diagnosi principia dal Settecento nel nome di Winckelmann, Lanzi e Diderot: tre lingue, tre autori di as­ sai diversa competenza, che rappresentano magnifica­ mente allo stesso tempo tre inclinazioni stilistiche non af­ fatto omogenee. Il corno primo che viene affrontato è quello del1' ékphrasis, cioè la descrizione verbale di opere d'arte fi­ gurative da parte di scrittori che, a vario titolo o con spe­ cializzazioni contigue, a questi temi si sono dedicati. Ora conviene dire che l'autore suona questa tastiera con grande agilità e competenza, forte di una dimestichezza consu­ mata con critici d'arte, amateur, storici dell'arte in un va­ sto arco cronologico (il più antico mi pare Leon Battista Alberti) e, giustamente, senza badare alla nazionalità: giacché il descrivere si pone allo stesso modo per qua­ lunque lingua si adoperi. Sin dal primo tema (possono es­ ser spiegate le opere d'arte?) e poi nel secondo (è possi­ bile narrarle in un testo?) Mengaldo si avvale per l'intero saggio di un registro metodico che è costituito da un breve e sempre succoso in.troibo, a cui segue la figura o il pro­ blema che s'intende esplicitare, con un'incalzante serie di esempi tratti dalle sue vaste letture. Si tratta di fitte mi­ crocitazioni che non superano mediamente le due righe, in assai rari casi si distendono in passi: con una tale proce­ dura Mengaldo assai poco concede al plaisir du texte, dra­ sticamente immolato sull'altare degli exempla sventagliati sulla nostra coccia. La lettura non è dunque agevole, anzi diciamo che esige un'attenzione spasmodica anche da parte di chi non è del tutto estraneo a tale letteratura: essa - dico la lettura - esige (o esigerebbe) altresì un confronto con le fonti che diventa impresa da far tremare e una pa­ zienza da monaco certosino. Gli introibo hanno questo andamento: Chi scrive 16

pensa che in sostanza la critica d'arte moderna si muove nella forcella che s'apre fra la ritenutezza classica e obiettiva di Lanzi e la geniale, quasi spudorata,



dell'estetica romantica, di certo in antitesi alla sobrietà og­ gettiva di Winckelmann o di Lanzi, il che non vuol dire che tale disposizione non sia parte di autori contempora­ nei: mi viene a mente Octavio Paz che è un Diderot del nostro tempo o Gadda e Arbasino. Per non dire di Miche} Foucault che nella lettura di Las Meninas tocca vertici ine­ guagliati per l'intelligenza e la qualità della scrittura: cosa di cui è convinto anche Mengaldo che tuttavia la esclude dalla sua analisi con una motivazione (la brevità del testo) che non capisco. E il testo su Manet? E Ceci n 'est pas une pipe dedicato a Magritte? Ma le figure stilistiche regine dell'ékplzrasis nei cri­ tici d'arte sono certamente l'elencazione/accumula­ zione e l'analogia, necessità vitale e imprescindibile da Ruskin al suo emulo Longhi che dell'analogia è un vir­ tuoso senza pari. L'analogia e la similitudine prendono forza quando tra pieno e fine Ottocento si affermano concettualmente visione "analogiche" del mondo, e non solo sulla linea Baudelaire-simbolismo e oltre, ma an­ che ad esempio con Balzac (p. 39). E qui compare un ri­ ferimento - raro in queste pagine - ad un movimento ar­ tistico (il simbolismo), essenziale se si vuol capire il nesso, ad esempio - aggiungo io - tra la scoperta del Ma­ nierismo ed il contemporaneo espressionismo in area au­ stro-tedesca, magistralmente indagato da Ezio Raimondi: facce di una stessa medaglia che mi piacerebbe vedere più frequentemente chiamate in causa, visto che il linguaggio dell'arte è figlio del suo tempo, vive le sue contamina­ zioni, le sue «salvezze e cadute», avrebbe detto Argan. Di qui il nesso tra l'evoluzione della ricerca storico-artistica e l'evoluzione del linguaggio. Alla sobrietà anglosassone e germanica (da Blunt maturo a Wittkower, da Riegl a Sedlmayr, autori mai citati, una sola volta di striscio si ri­ corda Blunt), corrisponde l'inventiva lessicale franco-ita­ liana (da Diderot a Baudelaire - a Yves Bonnefoy, ag­ giungo io, - da Longhi a Brandi, da Arcangeli ad Arba­ sino a Luigi Baldacci, pour cause dico io). Ovviamente ci sono slittamenti da una cultura all'altra, non gabbie rigide 18







Con l'avvento dell'economia dei servizi nasce una nuova categoria di impresa condotta da un nuovo tipo di imprenditore che contribuisce allo spostamento dell'asse su cui ruota l'intero sistema dai luoghi di produzione al mercato. L'impresa produttrice di servizi sopravanza e mette progressivamente in ombra l'impresa produttrice di prodotti, aumentando il livello di complessità dell'offerta, nello sforzo costante di assecondare, orientare, influenzare e gestire una domanda sempre più esigente, in un mercato sempre più globale e pertanto sempre più competitivo. Produrre e fornire servizi richiede la capacità di «an­ dare oltre», imponendo all'impresa produttrice di prodotti non soltanto di produrre, ma di imparare anche a pro­ muovere e vendere ciò che produce. Ciò implica la ne­ cessità di uscire dalle mura che delimitano i luoghi dove si produce aprendosi al mercato, dotandosi di efficienti ap­ parati di promozione e comunicazione, aprendo luoghi di esposizione e di vendita diretti attraverso i quali riuscire a interagire e dialogare «direttamente» con il mercato; ma anche con l'apertura di negozi diretti e con la messa in scena di tutti quei meccanismi commerciali capaci di con­ quistare gli acquirenti, offrendo loro non più soltanto pro­ dotti bensì una vasta gamma di convenienze aggiuntive, di servizi, appunto. La crescente domanda di servizi, alla quale l'impresa produttiva non riesce a dare risposte soddisfacenti, ha cer­ tamente favorito lo sviluppo dell'impresa distributiva che ha imparato ad organizzare la propria offerta di prodotti industriali, integrandola ed arricchendola con l'aggiunta di vantaggi intangibili consulenza finanziaria, progettazione, montaggio, quando e dove richiesto, assistenza post ven­ dita - volti a trasformare l'offerta di prodotto in un'offerta di servizi capace talvolta di far vivere esperienze di ac­ quisto inconsuete e, per questo, difficilmente dimentica­ bili. Due autori americani, impegnati professionalmente con una loro società di consulenze a sviluppare modelli 24 per la concezione e la progettazione di nuove attività im-











gli interlocutori una vera e propria esperienza, originata da messaggi portatori di elementi coordinati di software e di hardware, a suggerire una nuova complessità, definibile appunto come esperienziale. Come ha detto non ricordo più quale famoso designer italiano, dopo secoli e secoli di dittatura di elementi di ar­ redo francesi, in stile Louis XIJI, Louis XIV, Louis XV e Louis XVI, finalmente noi italiani siamo riusciti a dotarci di uno stile autenticamente nazionale, uno stile rapida­ mente divenuto internazionale: lo stile Louis Design.

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cietà come nel mondo della produzione, che traeva, a sua volta, origine da una pregressa, quanto feconda, intera­ zione Stati Uniti-Europa. Pensiamo, in particolare, ali' in­ fluenza di Siegfried Giedion, narratore dell'evoluzione e importanza del nucleo meccanizzato dell' architettura22 , al noto articolo di Reyner Banham «A Home is not a House»23 , alla mostra Ideai Home Exhibition presso l 'Olympia Stadium di Londra nel 1956. In questa, Alison e Peter Smithson avevano presentato la House of the Fu­ ture, una concezione dell'interno del tutto artificial izzata e riproducibile in serie, in cui quasi tutti gli arredi, oltre gli elettrodomestici e i sanitari, sono sviluppati da una su­ perficie plastica continua. Dagli studi di Giedion così come dalle precedenti sperimentazioni di Paul Nelson (la non realizzata Maison Sospendue) 24 e di R. Buckminster Fuller (la cellula bagno prefabbricata)25 - pionieristiche rispetto a quella smithso­ niana -, deriva la concezione di un'abitazione disgregata in parti, o meglio in nuclei attivi26 • E, quindi, l'idea del montaggio/smontaggio della casa se non, addirittura, di un' «architettura moderna fatta di Lego»27 • Mentre i Meta­ bolisti si limiteranno a «riproporre in termini diversi al­ cuni tradizionali parametri architettonici»28 - pur partend o dall'idea del ricambio necessario rispetto ad alcuni ele­ menti strutturali costanti -, gli Archigram visualizzeranno invece la trasformazione concettuale e linguistica negli utopici progetti Plug-ln. D'altro canto, Banham promuoveva una rivoluzione domestica in cui, alla predeterminazione progettuale e alla realizzazione seriale, facessero da controparte libertà e variabilità29• La tesi conclusiva cui egli arriva è che una macchina per abitare [...] che funzionasse davvero po­ trebbe, come tante invenzioni raffinate, riavvicinare l'uomo a uno stato di natura nonostante le complessità culturali3°. Portato alle estreme conseguenze, è «il sogno della non-casa», di un Eden ritrovato, che l'autore dovrà in seguito sostituire con quello, più fattibile, della casa31 42 nomade • Si tratta, comunque, di un invito da parte di più





- trasforma gli esseri m eremiti digitali, in proscritti del cyberspazio. La rete crea nuove opportunità; es­ serne esclusi è un nuovo tipo di emarginazione37.

L'avvento prepotente della connettività sembra attua­ lizzare, d'altra parte, l'utopia degli anni Settanta, se si as­ simila lo Scape con la rete globale di comunicazione. L'i­ dea di spazio esteso può, cioè, essere identificata nell'il­ lusoria, ma sicuramente infinita, apertura che la Rete of­ fre. Ne discendono, riproposte e attuate, quell'impenna­ nenza di valori e di mobilità perenne, predicate dal movi­ mento Radical, ma che oggi sembrano concretizzarsi soprattutto nella costante necessità della riconversione di spazi obsoleti, in particolare infrastrutturali o terziari, e di parti urbane. Aree e strutture dismesse da trasformare nel­ l'uso e da riqualificare a partire dal loro invaso. Dalla me­ tamorfosi interna sarà, poi, possibile sviluppare la neces­ saria dialettica con la cornice urbana, dove l'involucro po­ trà porsi come medium che relazioni il privato con il pub­ blico. Di fronte al palesarsi di questo nuovo «panorama», tutto da progettare, il problema sarà quello di risemantiz­ zare la sua aggettivazione domestica.

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1 Museum of Modem Art, New York 26.05-11.09.1972. Cfr. E. AMBAZS, a cura di, ltaly: The New Domestic La11dscape. Achie­ vements and Problems of Italia11 Desig11, The Museum of Modem Art, New York, Centro Di, Firenze 1972 (cat.). 2 Cfr. R. DE Fusco, L'architettura delle quattro avanguardi e, Arte Tipografica Editrice, Napoli 2005 (lectio magistralis). 3 Laurea conseguita all'Universidad Cat61ica di Santiago del Cile. 4 Pubblica la Morphologie Psycologique 37, in «Minotaure», n. 12-13, anno VI, 1939 (ora in riproduz. anastatica a cura di A. Slcira, Amo Press, New York 1968), p. 22. 5 Cfr. A. GNOLI, Intervista a Roberto Matta, «La Repubblica», 08.02.2002. 6 A. BIRO, R. PASSÉRON, a cura di, voce Matta, Dictionnaire Généra/ du Surréalism et des ses environs, Presses Universitaries de France, Paris 1982. 1 G. FANELLI, R. GARGIANI, Ornamento e nudità. Gli interni della casa in Francia, /918-1939, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 43 e 108.



BANHAM, op. cit., p. 151. 28 G. PETTENA, Congruenze e consonanze tra architettura e arte, in G. Celant, a cura di, Arti & architettura, 1900-2000, Skira, Mi­ lano 2004, voi. II (cat.), p. 422. 29 R. BANHAM, Un 'architettura 'a clip', «Architectural Design», n. 35, November, ora in Architettura... cit., p. 138. 30 Io., A Home is 1101 a House, cit., p. 151. 31 ID., Neo-nomadismo e nomadismo chic, in ll progetto dome­ stico. La casa dell'uomo: archetipi e prototipi, a cura di G. Teyssot, Electa, XVII Triennale di Milano, Milano 1986, voi. I (cat.), pp. 240244. Cfr. anche C. GAMBARDELLA, La casa mobile. Nomadismo e residenza dall'architettura al disegno industriale, Electa, Napoli 1995. 32 Nel 1974 fonda con altri artisti, fra cui Laurie Anderson, il collettivo Anarchitecture. 33 G. MATTA-CLARK, Intervista con L. Bear, «Avalanche». De­ cember 1974, cit. in L. PRESTINENZA PUGLIESI, op. cit., p. 205. 34 A. ZEVJ, Arte USA del Novecento, Carocci, Roma 2000, p. 36. Cfr. anche lo., Gli artisti e l'architettura, «Lotus lntemational», n. 113, giugno 2002, pp. 226-230. 35 Cfr. G. TEYSSOT, 'Acqua e gas a tutti i piani'. Appunti sull'e­ straneità della casa, «Lotus lntemational», n. 44, 1984; lo., a cura di, ll progetto domestico. La. casa dell'uomo: archetipi e prototipi, Electa, XVII Triennale di Milano, Milano, 2 voli, I 986; lo., Pae­ saggio d'interni, Electa, Milano 1987. 36 Redazionale, Meglio dentro che fuori, «Magazine Futurshow», aprile 2001, p. 7. 37 W.J. MITCHELL, Agorà elettronica, «Casabella», n. 638, otto­ bre 1996, pp. 79-80. 27

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