Op. cit., 128, gennaio 2007

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Alessandra de Martini,

Emma Labruna, Livio Sacchi

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Electa Napoli


L. SACCHI,

A. CAPASSO, M.A. SBORDONE,

Vema Design e ready made Human Design, alias della moda e dintorni Libri, riviste e mostre Le pagine dell'ADI

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Antonio Capasso, Alessandro Castagnara, Angela De Marco, Alessandra de Martini, Nicola Galvan, Michele Sbacchi.




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meno ampia e inclusiva, vetrina della scena contempora­ nea. In un'epoca in cui la comunicazione avviene in tempo reale sulla rete, è peraltro difficile offrire novità in una mostra che, per sua natura, ha tempi organizzativi neces­ sariamente lunghi. Ce ne eravamo accorti nelle precedenti edizioni della Biennale, in cui gran parte dei progetti espo­ sti finivano con l'essere già noti, almeno al pubblico più avvertito. Si è così iniziato a lavorare sull'ipotesi di una mostra di ricerca, che riportasse l'esposizione veneziana a ciò che era stata in alcune passate edizioni (si pensi a quelle curate da Vittorio Gregotti, Aldo Rossi, Paolo Por­ toghesi o Francesco Dal Co): un laboratorio della speri­ mentazione progettuale. Questa decima edizione aveva come tema generale la città contemporanea: anche la mo­ stra del Padiglione Italiano si sarebbe misurata dunque con la questione. Purini ha così rapidamente messo su un la­ boratorio in grado di proporre una città di nuova fonda­ zione che si collocasse all'interno di quella lunga, per molti aspetti sorprendente, genealogia di città nuove del Novecento italiano, a partire da Sant'Elia, i cui disegni si sono nel tempo confermati come la più straordinaria pre­ figurazione di ciò che sarebbe divenuta la città contem­ poranea, soprattutto fuori dall'Italia. Sulla scia di un'an­ tica tradizione coloniale, che parte con il ruolo di fonda­ tori di città mirabilmente svolto dagli architetti romani, passando per i grandi complessi monastici medievali, veri e propri simulacri terreni della Gerusalemme celeste e rag­ giungendo altissimi livelli di idealizzazione concettuale con le città delle utopie rinascimentali, da Filarete in poi, gli italiani sono sempre stati grandi progettisti e costrut­ tori di città. Una tradizione che continua nel corso del­ l'intero Novecento, attraversando le molte, diverse sta­ gioni culturali che si sono susseguite. La sequenza delle Città Nuove avrebbe alla fine occupato un'intera, lun­ ghissima parete del Padiglione Italiano. A partire dalle ci­ tate ipotesi futuriste del 1914, passando per la Città giar­ dino Aniene di Gustavo Giovannoni a Roma, Sabaudia, la Ivrea di Figini e Pollini, Aprilia (con i piani di Adalberto


Libera e Saverio Muratori), episodi coloniali quali Harar e Addis Abeba, l'E42, Milano verde, le Barene di S. Giu­ liano, la Porto Cervo di Vietti, attraversando una serie di proposte come quelle di Maurizio Sacripanti a Napoli (ISES), del gruppo Metamorph, dello stesso Purini (La città compatta, progettata con Laura Therrnes nel 1968 e La città uguale del 2000), di Portoghesi (Dicaia del 1968 e la città policentrica del Vallo di Diano del 1981), di An­ drea Branzi - Archizoom (No-Stop City), di Franz Di Salvo (La città nolana), di Luigi Pellegrin, di Superstudio, di Aldo Rossi (La Città analoga), di Aldo Loris Rossi, ma anche per una serie di realizzazioni significative quali lo ZEN a Palermo, Gibellina, Monteruscello, si giunge fino alla recente esperienza di Gregotti per Jiangwan in Cina e alla stessa Verna. Una esemplificazione lunga e inclusiva (comunque meno di quanto avrebbe potuto), che restitui­ sce un quadro di straordinaria ricchezza e complessità, quasi un omaggio, al di là di pregiudizievoli chiusure e di­ stinzioni stilistiche, alla qualità del lavoro italiano alla scala urbana nel corso degli ultimi cento anni. Dopo una serie di analisi, portate avanti con l'assi­ stenza di Nomisma, la nuova città è stata localizzata sul confine fra Lombardia e Veneto, a metà strada fra Verona e Mantova, ed è stata quindi chiamata Verna. La colloca­ zione geografica non è casuale: si tratta di una delle aree più produttive del continente, in cui s'incrociano due im­ portanti «corridoi» europei: il Lisbona-Kiev e il Palerrno­ Berlino; una zona pianeggiante e poco segnata della Val Padana, un po' defilata rispetto alle grandi aree metropo­ litane, ma anche particolarmente interessata a porsi come nodo di scambio fra le complesse (ma per lo più nazio­ nali) dinamiche del nord-est e una delle principali porte del nostro paese verso l'Europa: il Brennero. È stato così redatto un modello direttore pensato per 30/50.000 abi­ tanti, un impianto urbano semplice, per certi aspetti «forte» e chiaramente riconducibile alla creatività proget­ tuale di Purini, per altri invece «debole» e altamente ri­ cettivo.

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Venti giovani architetti italiani, accomunati dall'aver orientato la propria attività prevalentemente sulla ricerca ma comunque molto diversi per provenienza geografica e formazione linguistica, sono stati così invitati a disegnare le diverse parti di tale città, destinata a essere realizzata nell'arco di venti anni: si tratta di Avatar (i mercati: Total Integrated Market Experience), Dogma Office/Pier Vitto­ rio Aureli (il cimitero e la città dei «Nuovi Giacobini»), Lorenzo Capobianco (Sottobosco, 5 punti per la città del futuro), Elastico spa+3 (Le vie della speculazione sono in­ finite), Giuseppe Fallacara (Lago-Rgone), Santo Giunta (Gli orti dell'ozio creativo), lotti e Pavarani (Slow town), Moreno-Santarnaria-Laezzi (Sacred You, Multireligious urban space), Liverani e Molteni (La città-fabbrica), Ma0 (Continuicity), Antonella Mari (Campi di turbolenza psi­ cologica, l'ospedale), Masstudio (Il parco e la residenza delle risorse), Stefano Milani (Insieme vuoto), Modulo 4 (Layers), Tomaso Monestiroli e Massimo Ferrari (Un tea­ tro), OBR-Open Building Research (Il paesaggio dello sport), Gianfranco Sanna (Dimensione ambientale e future forme dell'abitare), Andrea Stipa (Paesaggio sonoro), stu­ dio.eu (Flower Power), Alberto Ulisse (Velo.City). Un gruppo eterogeneo, fra i quali appaiono alcuni «emigrati» all'estero (Aureli a Rotterdam e lo studio.eu a Berlino), «figli d'arte» (Capobianco e Monestiroli), alcuni nomi già noti e affermati, altri meno, altri ancora alla loro prima «uscita» pubblica. Tutti sono stati coordinati da Francesco Menegatti, il City Manager che ha avuto il compito di «collocare» i singoli progetti all'interno del piano con tutte le prevedibili difficoltà insite in una simile, complessa operazione. Ciascun progettista ha avuto la possibilità di invitare a sua volta un artista e un architetto esterno. In molti casi si tratta di maestri (da Clorindo Testa a Yona Friedman, da Elia Zenghelis a Peter Eisenman a Mecanoo, per quanto riguarda gli architetti); in altri di alcuni fra gli artisti più interessanti sulla scena d'oggi (Atelier Van Lie­ shout, Botto & Bruno, Franco Scognamiglio, Sissi); tutti hanno offerto il proprio riconoscibile contributo creativo, 8


in un quadro plurale e diversificato posto a garanzia della stessa qualità urbana. Ali' interno della mostra, ciascun progettista ha poi avuto a disposizione una grande super­ ficie espositiva riservata, mentre a un colossale plastico eseguito da un laboratorio specializzato dell'Università di Ferrara in scala 1:500, un po' più grande di quello realiz­ zato da Frank Lloyd Wright per Broadacre City, veniva af­ fidata la presentazione complessiv.t del progetto, e la pos­ sibilità di costituire, come sempre avviene ai plastici, il vero fulcro della mostra. Ai venti giovani è stato chiesto di ripensare i fondamenti tipologici dell'architettura, rein­ terpretandone i contenuti storici alla luce delle esigenze e della sensibilità contemporanee; ma anche di ricucire, per quanto possibile, lo «strappo» verificatosi fra i linguaggi oggi internazionalmente (e talvolta superficialmente) dif­ fusi e quanto di meglio ci è stato lasciato dalla cultura ar­ chitettonica e urbana del Novecento italiano. Le risposte sono ovviamente diverse non solo sul piano dei contenuti funzionali, ma soprattutto dal punto di vista linguistico. Molte di esse sono allineate a quanto di meglio la scena progettuale contemporanea possa offrire. I loro autori, fra i più promettenti di tale generazione, si sono positi ;·a­ mente segnalati in una serie di occasioni notevoli in Italia e all'estero: ci riferiamo, in particolare, ad Aureli, Avatar, Mari, lotti e Pavarani, Liverani e Molteni, Masstudio, OBR, Stipa, Ma0, studio.eu, Altre sono riconoscibilmente vicine alle ipotesi di lavoro del curatore (Milani, Modulo 4). Altre ancora ne sono invece molto lontane, ma la loro stessa presenza garantisce quella diversità propria di ogni articolata realtà urbana: è il caso, per esempio, di Falla­ cara, che ha prodotto un progetto (a nostro giudizio, fuori da ogni dibattito contemporaneo) dichiaratamente frutto della scuola barese di Claudio D'Amato, ma che tuttavia s'impone per la forza comunicativa extra-temporale delle immagini. Resta da vedere se e in che misura le diverse parti si integrano fra loro. La dialettica fra la generalità del piano e la particolarità delle risposte fomite dai singoli proget-

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tisti è di notevole interesse: il piano regge e assimila con disinvoltura la diversità progettuale; ma i singoli progetti si muovono all'interno delle linee guida con analoga di­ sinvoltura e modificano, con un creativo processo di feed­ back, il piano. Si tratta di un gioco riconducibile a ciò che avviene nella teoria dell'interpretazione, alla circolarità er­ meneutica come a-gerarchica, ciclica interazione fra gene­ rale e particolare. La qualità e la varietà che si determina nei fatti ci lascia pensare che tutti abbiano svolto seria­ mente il proprio lavoro. E, proprio come in un gioco di simulazione di ciò che avviene nella realtà urbana, tra i diversi progetti si determinano talvolta sinergie visuali e linguistiche che producono una crescita della qualità com­ plessiva, in altri casi si verificano invece frizioni e irrisolte lacerazioni. Ma nell'insieme tout se tient e la città c'è. La mostra offriva anche ai visitatori una grande sala ellittica al cui interno, in multiproiezione a 360° , girava un film realizzato da Marta Francocci con la regia di Gior­ gio de Finis, la consulenza scientifica dello stesso Purini e di chi scrive e la collaborazione di RAI Sat. Dedicato al panorama architettonico italiano contemporaneo, si tratta di un prodotto ricco di vertiginose quanto sintetiche profondità, non facile da vedere (proprio a causa della complessità della multiproiezione) né da comprendere. Il testo portante, scritto dallo stesso Purini, costituisce un ammirevole quadro d'insieme della «condizione italiana» dagli inizi del Novecento a oggi, un rapido volo su di una vicenda piena di ombre, ma a tratti luminosissima, alla co­ stante, faticosa ricerca di una identità moderna sempre dif­ ficile da contrattare. L'obiettivo, forse irrealizzabile, era raccontare, in pochi minuti, cento anni di storia dell'ar­ chitettura italiana da un punto di vista inedito e fortemente divulgativo: una sorta di «romanzo popolare», in grado di organizzare una narrazione tematica, emotivamente coin­ volgente e con i tempi rapidi e i ritmi frammentari di uno spot pubblicitario; un racconto che non ha un inizio e non ha una fine, consentendo al pubblico una fruizione ancora 10 una volta «circolare» e, per certi versi, interattiva e sem-


pre diversa. Il presente è protagonista. Di esso, tuttavia, si indagano le radici, che vengono rintracciate fino agli inizi del secolo scorso, proponendo continui e creativi rimandi fra presente e passato. Vi si ritrovano i personaggi, le idee, i contrasti, le battaglie culturali, i successi, le utopie, le amarezze, le delusioni, i fallimenti, le teorie, le mostre, i libri, le riviste, le scuole, i gruppi e, soprattutto, i progetti, le architetture e le città italiane. Molte, anche, le citazioni extra disciplinari in genere, nella convinzione che il terri­ torio, la città e l'architettura funzionino da supporto im­ prescindibile per la vicenda umana e ne costituiscano la presente, fisica testimonianza storica. Il catalogo, a cura ancora di Purini, Marzot e di chi scrive, è un volume di più di 500 pagine che, oltre a illu­ strare i progetti esposti, costituisce anche l'ambizioso ten­ tativo di «risarcire», in qualche modo e insieme al film, la scena architettonica contemporanea italiana, che, per ovvi motivi, all'interno della mostra non è rappresentata. Dopo la sezione introduttiva (in cui compaiono testi di Pio Baldi, Margherita Guccione e Davide Croff) e la prima parte de­ stinata specificamente a Verna, al suo master pian e ai venti progetti, segue una seconda dedicata alle Città Nuove del nostro Novecento e alle Prospettive italiane, saggi di storici e critici quali Vittorio Gregotti, Renato De Fusco, Laura Thermes, Pippo Ciorra e Luca Molinari. C'è poi una terza parte dedicata alle città, agli architetti, al­ l'insegnamento dell'architettura e al DAI, Dizionario Ar­ chitettonico Italiano, un esteso lemmario tematico che comprende voci brevi, dal tono giornalistico, scritte da un gran numero di redattori diversi: da Abitare ad Ambiente, da Architettura a Bellezza, da Centralità a Comunicazione, da Criminalità a Degrado, da Europa a Internet, da Mo­ bilità a Restauro, da Sostenibilità a Utopia. Nella quarta e ultima parte del volume si trova infine il Dizionario Bio­ grafico Illustrato, un inclusivo elenco di biografie che, per esplicita dichiarazione degli autori, non vuole in alcun modo porsi come una ricognizione sistematica ed esau­ riente delle figure più significative dell'architettura ita- 11


liana contemporanea quanto rappresentare l'orizzonte di riferimento del curatore e dei suoi collaboratori nel corso del lavoro preparatorio e dello sviluppo della mo­ stra 1. Nel complesso, al catalogo hanno contribuito una gran parte dei nomi ricorrenti sulla scena critica nazionale. Fra i tanti, oltre a quelli già citati: Marco Biraghi, Mauri­ zio Bradaschia, Gianni Braghieri, Umberto Cao, Alessan­ dra Capuano, Marco Casamonti, Alberto Clementi, Pa­ squale Culatta (con un testo su Palermo che è probabil­ mente il suo ultimo scritto), Claudio D 'Amato, Paolo De­ ganello, Roberto de Rubertis, Cesare De Seta, Paolo De­ sideri, Alberto Ferlenga, Cherubino Gambardella, Franco Karrer, Fabio Mangone, Mario Manieri Elia, Paolo Mar­ coni, Francesco Moschini, Pierluigi Nicolin, Renato Nico­ lini, Tonino Paris, Rosario Pavia, Mario Pisani, Sergio Pone, Luigi Prestinenza Puglisi, Vieri Quilici, Carlo Quin­ telli, Renato Rizzi, Antonino Saggio, Carlo Severati, Fran­ cesco Tentori, Antonino Terranova, Maurizio Unali. Molti anche i nomi provenienti da sfere contigue ma esterne alla specificità disciplinare: Maurizio Cascavilla, Massimo Ilardi, Teresa Macrì, Giuseppe Pullara, Gualtiero Tambu­ rini, Sandro Veronesi. Non manca uno scritto - l'unico affidato a uno straniero, nascosto dietro uno pseudonimo: Ernesto di Casarotta, alias Peter Eisenman. Il Padiglione Italiano, che da un sondaggio è risultato di gran lunga il più gradito e votato fra i padiglioni na­ zionali2, ha infine promosso una serie di premi, «Leoni» in ceramica faentina opera di Luigi Ontani: il premio «Giancarlo De Carlo», destinato a uno dei venti giovani invitati, è stato assegnato ad Andrea Stipa; il premio «Manfredo Tafuri», per un teorico o uno storico dell'ar­ chitettura, a Vittorio Gregotti; il premio «Ernesto Nathan Rogers» per un critico/comunicatore, è andato infine a Luca Molinari3 • L'articolazione della mostra e la qualità dei progetti ci spingerebbe a continuare a lungo. Ma non è questo il punto. Ciò che è più importante è che Verna pone una se12 rie di problemi di notevole portata al dibattito italiano sul-


l'architettura e sulla città e certamente in maniera proble­ matica è stata recepita da chi abbia visionato la mostra e il film, letto il catalogo e avuto modo di ragionare sul tema. Prima di tutto si tratta di una città compatta, para­ gonabile ai nostri centri storici, anche se ricca di verde, canali e laghi. Una città che si pone all'interno della nostra tradizione e in costruttiva, dialettica contrapposizione con quella città diffusa nel territorio, teorizzata da Rem Koolhaas, di cui si è frettolosamente e superficialmente appropriata una parte della cultura urbanistica italiana (si pensi al cosiddetto «corridoio adriatico», una conurba­ zione che si svolge lungo l'intera costa orientale della pe­ nisola). Verna si pone come possibile alternativa all'uti­ lizzo che del nostro territorio è stato fatto negli ultimi cin­ que/sei decenni, da quando cioè la diffusione di massa del­ l'automobile e un malinteso senso dello ius aedificandi hanno vanificato millenni di cultura storica; che prova molto semplicemente, in una parola, a essere città, nel­ l'accezione europea e in particolare italiana del termine, e non anti-città; che si contrappone alla passiva e acquie­ scente rassegnazione allo spreco territoriale. Verna è una dichiarazione contro l'incontrollabilità, prima di tutto pro­ gettuale, della città contemporanea. La questione è più complessa di quanto appaia. Da una parte saremmo d'i­ stinto portati a dire che la diffusione della città nel terri­ torio è un fatto. Ma la constatazione di un fatto non im­ plica automaticamente la sua accettazione né il consenso critico (il pensiero debole non è questo e la provincia ita­ liana non è Los Angeles). Dall'altra non è affatto chiaro se la compattezza e, di conseguenza, le concentrazioni ur­ bane siano più o meno sostenibili dell'edificazione diffusa. Ciò che è certo è che il modello diffuso resta indubitabil­ mente basato sull'uso dell'auto privata e che, fatti salvi casi abbastanza eccezionali, come appunto Los Angeles, molto difficilmente appare in grado di raggiungere quei li­ velli di interazione fisica e psicologica che, nonostante In­ ternet e tutto il resto, solo le forti e concluse concentra­ zioni urbane garantiscono. Verna prova a muoversi all'in- 13


temo delle due polarità di cui sopra (città compatta vs città diffusa), a porsi come nuova centralità, aggregata e ag­ gregante, di un territorio già diffusamente urbanizzato e interconnesso; prova a essere sostenibile, ecologica, bella, esplicitamente pensata per gli abitanti del nuovo millen­ nio, quella creative c/ass cui fa riferimento Richard Flo­ rida nei suoi recenti libri. Una città che funziona come polo d'attrazione del lavoro creativo, diventando un vero e proprio think tank, un serbatoio di pensiero, un mo­ tore mentale della società, in controtendenza con quanto purtroppo accade nella maggior parte delle città italiane, tutte indietro, rispetto alle medie europee, soprattutto nei confronti delle tre T teorizzate da Florida: talento, tec­ nologia e tolleranza. La prima intesa in senso evidente­ mente creativo; la seconda in senso prevalentemente informatico; la terza in senso sociale e, specificamente, di apertura alla diversità. Una città, infine, che «rischia» di essere meno utopica di quanto appaia a molti super­ ficiali detrattori, se solo si pensa all'interesse, molto concreto e reale, suscitato, in Italia, fra gli amministra­ tori, gli abitanti e i costruttori delle province di Verona e Mantova e anche all'estero, per esempio in Cina. Verna, come si augura Franco Purini, potrebbe forse es­ sere la prima nuova città del terzo millennio; ma è cer­ tamente un buon punto di partenza per immaginare un possibile futuro per la città e l'architettura fuori da quella banale, reiterata spettacolarizzazione che, più di ogni altra cosa, sembra segnare oggi la scena. In un si­ mile contesto - scrive Eisenman - il soggetto contem­ poraneo, ora reso passivo, è realmente in pericolo di perdere la capacità di una lettura approfondita. ( ...) La crisi prodotta dallo spettacolare richiede una nuova soggettività, quella di un soggetto rimosso dalla passività indotta dall'immagine superficiale e impegnato dalla forma in una lettura approfondita4 • Verna ci sembra insomma una utopia che esce dal do­ minio dell'astrazione progettuale, nel segno di una rin14 novata, rogersiana «utopia della realtà».


' La città nuova, ltalia-y-26, Invito a Vema, a cura di F. Purini, N. Marzot e L. Sacchi, Editrice Compositori, Bologna 2006, p. 434. 2 Cfr. Biennale di Architettura di Venezia: così è se vi piace, in «Il giornale dell'architettura», n. 46, dicembre 2006, p. 31. 3 La giuria, presieduta da Franco Purini, era composta da Pio Baldi (direttore della DARC}, Richard Burdett (curatore della 10. Mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia), Claudia Clemente, Nicola Marzot (con funzione di segretario), Mar­ gherita Petranzan e Livio Sacchi. 4 E. DI CASAROTTA, Contro lo spettacolo, in La città nuova, lta­ lia-y-26, Invito a Vema, cit., p. 25.

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un principio di industrializzazione della vita (di cui i me­ dia sono lo specchio e il motore), ma non dell'arte, che invece, attraverso la figura dell'artista si propone come resistenza individualizzante e singolare all'apparente ri­ producibilità tecnica e tecnologica dell'opera d'arte. Più che un progettista designer, l'artista è una persona che produce cose di cui la gente non ha bisogno, ma che lui, per qualche motivo, pensa che dare loro sia una bella idea6 • Warhol, in altre parole, recupera il senso dell'ottimi­ smo del lavoro collettivo delle Industrie d'arte, in un'idea orizzontale che fonde lo spirito dell'artista in quello della Factory stessa, dove secondo una gioia di partecipazione collettiva Warhol & Co. rispondevano a principi intuitivi, creativi, o naif, del fare arte proprio per celebrare l'arte nella sua vitalità naturale e selvaggia: Facevamo tutto male, ma cercavamo di farlo nel migliore dei modi so­ stiene Andy Warhol, e questo Manifesto si presenta con un 'idea di lavoro lontana miglia da quella della Bauhaus, non solo nei precetti e negli intenti, ma anche negli ideali razionalistici. La Factory è un'industria con un marchio destinato a diventare famosissimo: il marchio è Warhol. Alla Factory vige un principio di democrazia totalitaria che si identifica nella figura dell'uno e unico artista. Lì si gestiscono le commesse industriali, molto diverse tra di loro: è il supporto produttivo per la collaborazione appena stretta con la Galleria di Leo Castelli; è l'ufficio tecnico e lo stage per le sue sperimentazioni nel Cinema (Sleep, 1963, ed Empire, 1964 - e poi le collaborazioni con Paul Morrison); è il luogo d'ispirazione per le esperienze mu­ sicali, quando Andy tenta di fondare un gruppo musicale con La Monte Young e Walter De Maria, (due artisti della controtendenza rispetto alla Pop Art, ovvero la Land Art e il Minimalismo) e vi riesce nel 1967 con i Velvet Un­ derground, di cui finanzia il primo disco. La celeberrima copertina del disco - la banana gialla su fondo bianco - è un lavoro che nasce da Andy Warhol e si presenta come uno dei marchi elaborati nella Factory, ancora oggi rac- 21


colti al Design Museum di Londra7 • Per proseguire la sua incursione nel mondo dei media, nel 1969 dà vita alla ri­ vista lnterview, che da strumento di riflessione sul cinema amplia le sue tematiche a moda, arte, cultura e vita mon­ dana. Nel 1980 diventa produttore della Andy Warhol's TV. I party degli anni ottanta rappresentano il maggiore sfogo, le collaborazioni portano a realizzare opere a più mani con Francesco Clemente e Jean-Michel Basquiat. La Factory, in definitiva, è un luogo dove il lavoro nasce sulla base del principio ottimista della meraviglia, dove ciascuno porta la propria disponibilità a guardare all'arte con occhi nuovi: è un'azienda «a conduzione famigliare», dove le passioni interne al gruppo rappresentano una componente sostanziale del lavoro nell'arte, tanto che nel 1968 Warhol rischia la morte, per l'attentato di una delle frequentatrici della Factory, Valerie Solanas8 • Quindi, più che in un pro­ getto tecnico, le qualità del lavoro della Factory si ritro­ vano nei diari di Warhol, nel suo romanzo conviviale A: a nove[, nelle sue riflessioni pragmatiche e negli aforismi di Lafilosofia di Andy Warhol (Dalla A alla Be ritorno). Warhol è l'autorità che dà forma ad una creatività collet­ tiva. La sua firma è il marchio di qualità che contraddi­ stingue il lavoro svolto all'interno della Factory, di cui egli è, a volte, semplicemente spettatore. Il contesto del lavoro quindi, dal principio evolutivo e progressivo della Bauhaus, si sgretola con la Factory, dove il modo di lavoro indiretto (l'artista firma le opere fatte da altri) ricorda il sistema postmoderno del lavoro «deloca­ lizzato», in cui Warhol, come egli stesso ha più volte di­ chiarato, si limita ad «aprire la porta» della sua Factory e ad amministrare il flusso di energia creatrice che da quel gesto consegue, veicolando ogni idea ed entusiasmo verso forme produttive, proponendo una versione dell'artista quale catalizzatore, termoregolatore, isolante e trasforma­ tore alchemico di un processo che è in atto nella società, ma che normalmente scompare nel flusso del quotidiano. Siamo in questo ambito, quindi, di un'idea che torna al22 l'arte, secondo i principi sostanziali del Moderno, quelli


che Baudelaire indicava nella fusione perfetta tra lo spi­ rito eterno della creazione e il suo assumere i tratti della caducità fallibile del quotidiano: tra tecnologia e biologia. Andy Warhol ha compreso come l'arte, nell'epoca delle comunicazioni multimediali, viva in una sfera interumana, come forma di relazione tra persone, comunità, individui, gruppi, reti sociali. Il proliferare di oggetti raggiunge il suo parossismo dagli anni novanta ad oggi, grazie alla spinta tecnologica prodotta dal fiorire delle applicazioni del digitale. Artisti come Jean-Marc Bustamante (i suoi tavoli scomposti), Ro­ bert Grober (il suo letto distorto), l'ex pubblicitaria Bar­ bara Krueger (i suoi lavori sull'Advertisement), e soprat­ tutto Jeff Koons, fino all'esplosione del neopop inglese de­ gli artisti della Frieze Generation (generazione fredda, ap­ punto, dominata dal progetto freddo nell'Arte) inseriscono l'high tech in un contesto che torna ad essere drammati­ camente e animalisticamente umanizzato (le mucche o lo squalo di Damien Hirst sezionati e raccolti in teche con la formaldeide, oppure le cicche di sigarette esposte in teche luminose come reperti archeologici). In questo nuovo con­ testo di efficientismo pop la perfezione dell'oggetto di­ viene quasi una necessità, ovvero la conditio sine qua non imposta dall'evoluzione rapidissima della tecnologia che avvolge l'arte di un nuovo fiorente ottimismo produttivo. Così è per Cattelan, nel cui lavoro le piccole favole del presente (che cita i reperti egiziani o sumeri di De Domi­ nicis e i giochi di Alighiero Boetti) sono narrabili fin tanto che hanno una perfetta somiglianza con la realtà _(testi­ moniata dal frequente ricorso alla tassidermia delle sue opere, quali la Ballata di Trozsky, ad esempio) e agiscono in relazione ai tempi e alla capacità di interagire con i me­ dia: i tre bambini "impiccati" in Piazza Cinque Giornate a Milano, hanno come risposta l'innalzamento rapidissimo delle sue quotazioni e la vendita di una sua opera da Sotheby's alla cifra di un miliardo di lire. La condizione di oggetto, dell'opera d'arte, è quindi la condizione di massima perfezione (si dice che Cattelan 23


stia realizzando una riproduzione della Nona Ora in dieci esemplari in oro, e Damien Hirst un teschio con brillanti incastonati). Questa sembianza perfetta potenzia il princi­ pio di somiglianza, presentato da Duchamp nel ready made, e contemporaneamente innalza un muro irreversi­ bile tra Arte e Design proprio perché sebbene i due pro­ dotti possano presentare dei tratti in comune sempre più marcati, è il fondamento su cui nascono a distinguersi in modo sempre più radicale, quello della progettazione (de­ sign): che da una parte si declina nella forma (involucro ad alta fedeltà per l'arte), nell'altro in una forma-conte­ nuto che si giustifica soprattutto nella sua applicazione al contesto sociale: quell'utilità che ne giustifica l'esistenza. Non è un caso che l'arte ad alto valore aggiunto tecnolo­ gico convive perfettamente con altre espressioni d'arte, quali la pittura espressionista o le installazioni fatte con il recupero di materiali di scarto. Secondo Nicolas Baurriaud, una differenza sostanziale tra quanto succede oggi e gli anni della Pop Art. è che gli artisti Pop si sono trovati alle origini della produzione di massa e della nascita del marketing delle immagini. Quindi alle origini di una nuova estetica e di un nuovo si­ stema industriale, che oggi ha condotto al Persona! Marke­ ting, che regola le relazioni «industriali» tra le persone, in­ tendendole come forma di vendita. L'artista, dopo Warhol, lavora secondo un sistema che Baurriaud, ricorrendo al linguaggio del marketing cinematografico, definisce di Postproduzione, intendendo con tale definizione quanto nel marketing normalmente si definisce come «posiziona­ mento», ovvero il lavoro di collocazione del marchio al­ l'interno del mercato industriale. In altre parole, Baurriaud pensa che il lavoro creativo dell'artista si riduca oggi al prelievo di immagini e alla loro ricollocazione in un con­ testo diverso, attestando quindi ormai la totale estirpazione della distinzione che esiste tra "produzione e consumo, creazione e copia, ready-made e lavoro originale9 • In realtà quel principio di postproduzione coniato da Baurriaud non 24 fa che riproporre l'ennesimo aggiornamento del ready-



5 Il riconoscimento è una funzione sostanziale della mimesi per Aristotele che produce peripeteia e pathos. ARISTOTELE, Poetica, traduzione, introduzione e note di Alberto de Zoccoli, Principato Editore, Milano 1984, p. 45 e oltre. 6

An artist is someone who produces things that people don 't need to have but that he - for some reason - think.s it would be a good idea to give them. 7 La stessa esperienza di graphic designer, Warhol la ripeterà con i Rolling Stones nel 1970, in occasione del loro album Sticky Fingers, per il quale progettò una copertina degna della trasgressi­

vità del gruppo. 8 Unico membro della S.C.U.M., una società che si proponeva di eliminare gli uomini. 9 NtCOLAS BAURRIAUD, Postproduction, Lukas & Stemberg, New York 2002.

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