Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnara, Alessandra de Martini,
Emma Labruna, Livio Sacchi
Segretaria di redazione: Rosa Losito
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Electa Napoli
E. CARRERI, R. AMJRANTE,
Democrazia e architettura E.L. FRANCALANCI, Il futuro critico dell'arte Traslitterazioni (visive) per l'oggetto d'uso I. FORINO, e d'arredo C. MOROZZI, Moda e design: complicitĂ e antagonismi Libri, riviste e mostre le pagine dell'ADI
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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Nicola Galvan, Mario
Pisani, Francesca Rinaldi, Titti Rinaldi.
Democrazia e architettura EMANUELE CARRERI - ROBERTA AMIRANTE
Ev
yap 'tot 7tOÀÀOt evt "CCX7tClV'tCl - En gar toi polloi
eni ta panta
- Nel molto si trova ogni cosa Erodoto
Se esistesse un popolo mocraticamente
Jean -Jacques
,
di Dei, si governerebbe
Rousseau,
Du contrat socia[,
Storie de-
1762
Spesso abbiamo stampato la parola Democrazia. Eppure non mi stancherò di ripetere clze è una parola il cui senso reale è ancora dormiente , non è ancora stato risvegliato, nonostante la risonanza delle molte furiose tempeste da cui sono provenute le sue sillabe, da penne o lin g ue. È una grande parola, la cui storia, suppongo, non è ancora stata scritta , perché quella storia deve ancora essere messa in atto
Walt Whitman , Democratic
Vìstas, 1871
Abbiamo scelto dall 'intera storia del linguaggio umano questo unico sostantivo greco , a lungo così calpestato, per portare questo enorme peso di speranza e di impegno politico
John Dunn , Setting the People
Free, 2005
Architettura e democrazia 1 è il titolo di uno dei primi libri pubblicati in Italia nel 1945, dopo la Liberazione (era
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la prima edizione italiana di Modern Architecture, una serie di conferenze tenute da Frank Lloyd Wright a Princeton nel 1930). Da allora, in Italia non è uscito nessun libro con quelle due parole nel titolo. Democrazia e architettura. Il titolo di questo scritto capovolge il titolo del 1945 . La democrazia viene prima dell'architettura. In un'architettura democratica, ideali, ra gioni, teorie, modi, pratiche e forme della democrazia devono prevalere su quelle dell'architettura, che devono dissolversi in esse.
Democrazia
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ideale e democrazia
reale
Nel linguaggio comune usiamo la parola "democrazia" sia per indicare un ideale sia per designare una cosa reale che solo parzialmente realizza quell'ideale2. La "democrazia" di cui si parlerà qui sarà quella della prima accezione. Qui si parlerà di "democrazia ideale" e non di "democrazia reale". Qui non si cercherà di rispondere a domande come "Che cosa possiamo fare? Che alternative abbiamo?" e quindi non si forniranno dei "giudizi empirici". Si cercherà, invece, di rispondere a domande del tipo "Che cosa si dovrebbe fare? Qual è la cosa giusta da fare?" e quindi si forniranno dei "giudizi di valore", dei "giudizi morali" 3 • Il tutto avverrà, naturalmente, sub specie architettonica. Si parlerà, allora, di come dovrebbe essere l'architettura perché in essa risuonino gli ideali democratici, e non di democratica. Di come come può essere un'architettura dovrebbe essere l'architettura di una democrazia ideale, e non di come può essere l'architettura in una democrazia reale. Anche perché la democrazia è il sistema politico più diffuso nel mondo di oggi e quindi in molti abbiamo sotto gli occhi come sia l'architettura democratica, l'architettura in una democrazia. E non è sempre un gran bel vedere, almeno dal punto di vista della democrazia.
Di tutte le attività umane, infatti, l'architettura è quella in cui il passaggio dall' ancien régime alla democrazia sembra aver lasciato meno tracce. Un architetto, oggi, progetta più o meno come quando nel mondo di democrazia non ce n'era affatto. Continua a progettare da solo, o quasi. La democrazia ha profondamente cambiato le forme dell'architettura, ma solo quelle . Gli architetti cercano da due secoli di mettere in forma la democrazia. Questo sforzo ha prodotto un'incredibile quantità di vicissitudini stilistiche, e poco altro . Tutta la storia dell ' architettura moderna, dalla fine del '700 a oggi, si può leggere come una risposta affannosa, e tutta formale, degli architetti alle istanze poste dalla democrazia . Il potere passa da pochi a molti (almeno sulla carta). Che fare? Come trattare una moltitudine di committenti? All'inizio l'architetto (e molti altri con lui, e tutti poco raccomandabili) hanno provato a trasformare questa moltitudine in unità, l'uomo-massa , e invece di lavorare insieme a lui, di collaborare, hanno provato perfino a dirigerlo facendo finta di aiutarlo, di venire in suo soccorso. Dopo millenni di banausia, di duro e onesto lavoro manuale, all'improvviso l'architetto è diventato un intellettuale e un aristocratico, un tecnocrate e un "principe d'argento " 4 - è diventato persino professore univers itario -, si è illuso di poter "dirigere il processo " , di diventare il "filosofo-re" di una Repubblica di massa 5 • L'illusione - del tutto autoreferenziata - è durata poco ma è stata potente. Gli architetti non si sono ancora ripresi. Molti sono ancora convinti, contro ogni evidenza , di fare parte di una sorta di casta, impermeabili alla democrazia e a molte altre cose. Delle tante tracce mancanti di democrazia nel.l'architettura (e, soprattutto, delle poche rintracciabili) qui ci occuperemo solo di quelle legate alla responsabilità personale dell'architetto: ai suoi atteggiamenti, alla sua menta lità, al suo saper fare. Dalla fine del '700, poco , troppo poco è cambiato . E lo possiamo vedere in molti luoghi e modi. Nel rapporto con la committenza. Nel processo pro-
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gettuale. Nelle modalità espressive. Nella poetica. Nell'insegnamento. Persino negli esiti costruiti. Tracce di democrazia
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Un'architettura democratica può essere veramente tale solo se tutti i passaggi che vanno dal primo affacciarsi della necessità di una sua edificazione, fino alla sua realizzazione e, oltre, ai modi in cui viene effettivamente esperita... se tutti questi passaggi, insomma, avvengono in modo democratico. Qui, per noi, il passaggio essenziale è quello relativo alla sua progettazione: un'architettura democratica per essere tale deve essere progettata in modo democratico (qui non si fa riferimento a prassi partecipative realizzate ma solo a sforzi volontaristici fatti dagli architetti, sia che approdino a una effettiva progettazione partecipata, sia che si limitino a ipotizzarne gli effetti formali, mimandoli in perfetta solitudine). L'attenzione viene puntata su una sola di queste ricerche di corrispondenza tra democrazia e architettura. Quella che ruota intorno alla questione della forma, alla corrispondenza tra forma della democrazia e forma dell' architettura (per cui questo scritto potrebbe anche chiamarsi Democratic and Architectural Forms - per tutta una serie di motivi, in inglese suona molto, ma molto meglio). E, per quanto riguarda la forma, la forma architettonica, che è poi quello che qui più interessa, è nella trattatistica del '900 - un campo già di per sé molto piccolo - che vanno cercate le poche tracce che abbiamo di ricerca di democrazia in architettura. Le più importanti o, almeno, le più visibili ci sembrano le 13 che seguono (potrebbero essere molte di più e molte di meno). - Anche se siamo ancora in pieno '800, quasi tutta l'opera di William Morris, sotto il segno di una joy in Labour post-Ruskin, e, soprattutto, la sua celebre definizione, aperta e inclusiva (e, quindi, democratica), dell'architettura: È una concezione ampia perché abbraccia l'intero ambiente della vita umana; non possiamo sot-
trarci all'architettura finché facciamo parte della civiltà, poiché essa rappresenta l'insieme delle modifiche e delle alterazioni operate sulla superficie terrestre, in vista delle necessità umane, eccettuato il puro deserto. Né possiamo confidare i nostri interessi a una élite di uomini preparati, chiedendo loro di sondare, scoprire e creare l'ambiente destinato a ospitarci, meravigliandosi poi dinanzi all'opera compiuta; apprendendola come cosa bella e fatta; questo spetta invece a noi stessi; ciascuno è impegnato a sorvegliare e custodire il giusto ordinamento del paesaggio terrestre, ciascuno con il suo spirito, e le sue mani, nella porzione che gli spetta 6 ( 1881 ), parole che più "democrazia e architettura" di così non si può, che sembrano scritte l'altro ieri - anzi, dopodomani -, che hanno indicato una direzione a tutta l'architettura del movimento moderno ("dal cucchiaio alla città"). - Le infinite definizioni, date da Frank Lloyd Wright nelle sue infinite conferenze lungo tutta la prima metà del ' 900, di Organic Architecture . The Architecture of Democracy7: unico "stile moderno" organicamente legato dal suo creatore alla democrazia . - Les 5 points d'une architecture nouvelle 8 (1927), il più piccolo e più influente trattato di architettura mai scritto, in cui Le Corbusier riesce a inventare un'architettura tutta nuova come esatto contrario di quella vecchia, e quindi altamente comunicativa e comprensibile perché desunta (per estrazione del contrario) da quella vecchia; proprio come la democrazia che dovrebbe essere (nei fatti, purtroppo, non lo è) l'esatto contrario della monarchia e dell'aristocrazia: prima uno o pochissimi comandavano, ora comandano tutti o quasi . - Architettura rurale in ltalia 9 ( 1936) di Giuseppe Pagano Pogatschnig e Guamiero Daniel, il libro e la mostra di architettura più democratici e antifascisti di tutto il Ventennio. -Modern Building. Jts Nature, Problems, and Forms• 0 ( 1937) di Walter Curt Behrendt, dove la Modem Architec-
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ture lascia democraticamente il posto al Modem Building: è la prima e l'ultima volta che una considerazione di questa portata occupa quasi un intero libro, a partire dal titolo. - Verso un'architettura organica (1945) di Bruno Zevi, perché, per ragioni facilmente comprensibili, si potrebbe sostituire organica con democratica senza cambiare una virgola in tutto il resto del testo, e soprattutto perché la sinossi Architettura organica I Architettura inorganica che se ne sta al centro del libro (pp. 66-67) 11, e compendia le idee di Sullivan, Wright, Behrendt, Hitchcock, Giedion e Zevi sull'argomento, è la più bella prefigurazione dei caratteri di un'architettura democratica che sia mai stata scritta (se si eccettua quella del tutto involontaria che, incredibilmente, si può trovare in Platone, Politeia o La Repubblica, VIII, XI, - valla subito a leggere alla fine di questo articolo). - Architecture without architects 12 ( 1964) di Bernard Rudofsky, basta il titolo (della mostra e del libro per il MoMA): Architettura senza architetti. Una breve introdu(nei Ringraziazione alla architettura "non-blasonata" e le "entumenti, Rudofsky ringrazia per le "sovvenzioni" siastiche sollecitazioni", ben 6 architetti "blasonati": Walter Gropius, Pietro Belluschi, José Luis Sert, Richard Neutra, Giò Ponti, Kenzo Tange). - Complexity and Contradiction in Architecture 13 (1966) di Robert Venturi, che anticipa in architettura le tesi di Edgar Morin sulla "complessità" (e la democrazia, come ogni discorso su di essa dimostra, è il trionfo della complessità, dell'insufficienza di qualsiasi protocollo, della necessità di contaminare continuamente teoria e prassi), e trasforma figure retoriche a alto potenziale democratico (attingendo ai Seven Types of Ambiguity 14 di William Empson) in strategie progettuali, per produrre una raffinatissima current architecture comportandosi, cioè, come un pubblicitario e anticipando - in meglio - moltissima architettura di oggi. - An Architecture of Partecipation 15 (l 971 ) , ideologi1O
camente e praticamente (Villaggio Matteotti a Terni 16, 1969 sgg.) cercata con tutte le forze da Giancarlo De Carlo (non a caso, anarchico dichiarato e, quindi, contrario a ogni tipo di Stato come inevitabile portatore di coercizione) ma presente, almeno come opzione formale, in quasi tutti gli architetti del Team X. Ecco la "profezia", per ora ben lontana dall'inverarsi, di Giancarlo De Carlo: Gli architetti contemporanei dovrebbero fare di tutto perché l'architettura fosse sempre meno la rappresentazione di chi la progetta e sempre più la rappresentazione di chi la usa ... L'architettura del futuro sarà caratterizzata dalla partecipazione sempre maggiore dell'utente alla sua definizione organizzativa e formale . . . Cosa cambia dell'architettura se si passa dalla tradizionale pratica autoritaria a una nuova pratica fondata sulla partecipazione? La partecipazione implica la presenza Questo degli utenti lungo tutto il corso dell'operazione. fatto genera almeno tre fondamentali conseguenze: ogni momento della operazione diventa fase del progetto; anche l'uso diventa momento dell'operazione e quindi una fase del progetto; - i diversi momenti sfumano uno nell'altro e l'operazione cessa di essere lineare a senso unico e autosufficiente; - il momento della definizione del problema è parte del progetto nel senso che gli obiettivi dell'operazione e le risorse che all'operazione sono destinate diventano argomento di discussione con i futuri utenti (critiche e contributi creativi degli utenti). - Progettare un edificio. Otto lezioni di architettura ( 1977) un monumento al democratico understatement di Ludovico Quaroni, un trattato di architettura "con la a minuscola", un "manuale di progettazione verso la qualità diffusa"" (l'unico trattato dove su 178 immagini solo 7 sono di opere dell'autore: neanche il 4%), un libro di testo per i Laboratori di Progettazione, 15 anni prima che venissero istituiti nelle Università italiane. -Autobiografia scienti.fica' 8 ( 1981 ), un libro-ossimoro, un anti -trattato dove, democraticamente, Aldo Rossi dà
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conto a tutti di come e perché abbia progettato le sue opere: "razionalismo esaltato"; "addizione tra logica e biografia"; "un modo di esprimere la fondamentale ricerca della felicità" 19 • - Collage City 20 ( 1981) d i Col in Rowe e Fred Koetter , un'utopia di utopie, non al quadrato ma di secondo grado , un ' utopia depotenziata e felice, l'immagine urbana più aperta e democratica prodotta nel '900. - La Bigness 21 (1994) e il Junkspace 22 (2001) di Rem Koolhaas, con la "grande dimensione" che impone cambiamenti non solo quantitativi ma anche, e soprattutto , qualitativi a qualsiasi cosa tocchi; e lo "spazio-spazzatura" che sembra la più realistica e spiazzante riedizione possibile, all'altezza del 2000, dello spazio organico e democratico di Wright (e delle "valenze spaziali" di Bruno Zevi). Ma ora basta con le "tracce di democrazia" . Il '900 , secondo Eric J. Hobsbawm , è stato il secolo della gente comune, the common people 2 3 • Secondo Robert A . Dahl è stato il secolo del trionfo democratico 24 . È ora che arrivi un ' architettura della gente comune, un'architettura democratica . Ogni nuova creazione, se vuole essere veramente moderna, deve corrispondere alle esigenze del nostro tempo e ai nuovi materiali, deve esprimere nel migliore dei modi la nostra mentalità democratica e responsabile, deve tenere conto delle enormi conquiste tecniche e economiche dello spirito pratico tipico dell'uomo moderno. Sono cose fin troppo ovvie 25 . E, nonostante quanto scriveva Otto Wagner in Moderne Architektur nel lontano 1895, non c ' è proprio n iente di ovvio. Democracy
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& Archit ecture
Dal 1776 , al centro della Dichiarazione d ' Indipendenza americana ci sono queste parole: Riteniamo che queste verità si dimostrino da sole, che tutti gli uomini sono
stati creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di certi Diritti inalienabili, tra cui figurano la Vita, la Libertà e la ricerca della felicità. Al centro della democrazia (ideale), insomma, c'è il concetto di uguaglianza. Al centro dell'architettura, invece, non c'è ancora il concetto di uguaglianza . Bisogna mettercelo. È l'unico modo per produrre finalmente, dopo quasi due secoli di predicazioni (ha cominciato Schinkel al passo coi tempi: un'architetnel 1826) 26 , un'architettura tura democratica . Del resto, deve pur significare qualcosa che Thomas Jefferson, principale estensore della Dichiarazione d'indipendenza ( 1776), Governatore della Virginia (1779-8 I), Ambasciatore in Francia (1785-89), Segretario di Stato (I 790-93 ), secondo Vicepresidente con John Adams ( 1797180 I) e terzo Presidente, per due mandati consecutivi (l 80109) , prima, durante e dopo essere stato uno dei padri della patria e della democrazia americana, con il Campidoglio della Virginia a Richmond (l 785-96), la sua residenza a Monticello (1796-1809), l'Università della Virginia a Charlottesville (1817-26), sia stato anche uno dei padri dell'architettura americana: a lui si deve la diffusione negli Usa delle forme classiche, con intenti propagandistico-rappresentativi e significato ideologico repubblicano (come nella Francia rivoluzionaria) 27 . Ma Jefferson ha fatto molto di più. Con la Land Ordinance ( 1785) per la colonizzazione del West e la sua azione di progettista prima e di promoter poi della nuova capitale , Washington ( 179 l ), appone il gridiron, la "graticola", la maglia ortogonale indifferenziata di strade, alle città e al territorio, come manifestazione fisica del mondo aperto 28 , come celebrazione della Democratic Open Road poi cantata da Whitman, come simbolo della democrazia americana: poter offrire a ciascuno uguali possibilità 29 • Insomma, gli Usa, avendo sperimentato per 350 anni le possibilità e i problemi della libertà (specie dopo il 1776), hanno posto le fondamenta del mondo moderno: il mondo aperto 30 • Sono l'unico paese nel quale può sem13
brare normale passare a equivalenza "architettura moderna" e "architettura della democrazia". Solo un americano come Vincent Scully Jr. poteva scrivere una storia dell'architettura moderna lunga appena 100 pagine (per giunta ampliando una conferenza) e intitolarla Modem Architecture. The Architecture of Democracy 31 • Un libro che inizia: L'architettura moderna è un prodotto della civiltà occidentale. Ha cominciato a prendere forma nel tardo '700, insieme alla rivoluzione industriale e alla rivoluzione democratica che hanno segnato l'inizio dell'età moderna 32 ; e finisce: - Se vogliamo che, negli anni a venire, l'architettura, e infiniti altri aspetti dell'organizzazione globale di una società di massa, siano più rispondenti alle effettive necessità, e alle aspettative della gente, bisognerà che in futuro si riesca a sviluppare un 'integrazione più efficace fra le grandi scelte politiche generali e qualche forma di controllo e di responsabilità comunitarie a livello locale, in modo da ottenere meccanismi decisionali che sappiano essere nel complesso più democratici e più umani3 3 • E americano è Walt Whitman, l'unico poeta che abbia cantato la democrazia, in tutte le sue poesie, fino all'ultima, The Commonplace. Le cose qualsiasi lo canto; / Com'è cheap la salute! Com'è cheap la nobiltà! / Astinenza, niente falsità, ingordigia, lussuria;/ L'aria aperta Io canto, libertà, tolleranza, / Prendete da qui la lezione più importante - meno da libri - meno dalle scuole, / Il giorno e la notte qualsiasi - la terra e le acque qualsiasi, / I vostri campi - il vostro lavoro, commercio, occupazione, / E sotto, il buonsenso democratico, come solida base di tutto 34 • E americani sono Louis Sullivan, Frank Lloyd Wright, Robert Venturi, Charles Moore, Frank O . Gehry (ma tantissimi altri se ne dovrebbero citare): tutti architetti che della rappresentazione della democrazia in architettura, di un'architettura democratica - nei limiti delle loro possibilità di progettisti -, hanno fatto la loro principale preoccu14 pazione. Gli Usa, per essere contemporaneamente la prima
nazione nata democratica e quella col libero mercato più grande, sono stati, fino a qualche anno fa, il più importante, forse l'unico laboratorio al mondo di Democracy & Arch itecture. Oggi la situazione è cambiata . Buona parte di que llo che va succedendo nel mondo dell'architettura, diciamo dal 1991, da quando è finito "il secolo breve", The Age of Extremes di Hobsbawm, si potrebbe rubricare sotto la stessa etichetta, sempre in anglo-americano, ma non riguarda più gli Usa, non solo loro . Oggi ci sono mercati e democrazie più in crescita di quella Usa e dovunque gli studenti di architettura sono legioni , e il più povero di loro , nella più oscura Facoltà di Architettura di una nazione di secondo piano può quasi competere, per strumenti a sua disposizione, con gli studi più ricchi della terra . Anche se non lo vuole, anche se non se ne rende conto, non può fare altro che occuparsi di Democracy & Ar chitecture . Processo
d emocratico
e insegnamento
dell 'architettura
Nell'ambito di un ' associazione di persone, qualsiasi siano le caratteristiche quantitative e qualitative dell'associazione, per quanto riguard a la capacità di prendere decisioni buone, giuste e vincolanti per sé e per tutti gli altri membri dell'associazione , non ci sono differenze così rilevanti tra i membri dell'associazione da autorizzare un solo membro o un numero ristretto di membri a prenderle a nome degli altri membri . Tutti i membri devono poter esprimere il loro parere e partecipare alla decisione finale. Democrazia significa appunto questo. Data un ' associazione di persone, tutti i membri dell'associazione sono in grado di comandare, quindi tutti devono comandare, e allora non comanda nessuno: l'idea stessa di comando perde di significato, sostituita da una decisione collettiva e vincolante di e per tutti i membri dell'associazione. Perché tutti i membri dell'associazione possano far valere la loro quasi uguale capacità di prendere decisioni
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buone, giuste e vincolanti per sé e per tutti gli altri membri, è necessario che godano di una serie di diritti. Uno dei più celebri studiosi della democrazia, Robert A. Dahl, che identifica "democrazia" con "processo democratico", in On Democracy (1998), ne propone quattro . - Partecipazione effettiva. Prima che una strategia venga adottata dall'associazione, tutti i membri devono avere pari e effettive opportunità per comunicare agli altri le loro opinioni a riguardo. - Parità di voto. Al momento di prendere finalmente la decisione, ogni membro deve avere un'opportunità di voto effettiva e uguale agli altri, tutti i voti devono essere considerati pari. - Diritto all'informazione. Entro ragionevoli limiti di tempo, ciascun membro deve avere pari e effettive opportunità di conoscere le principali alternative strategiche e le loro probabili conseguenze. - Controllo dell'ordine del giorno. Tutti i membri devono avere l'opportunità di decidere le priorità e, se vogliono, gli argomenti da inserire all'ordine del giorno. In tal modo, il processo democratico che i tre precedenti criteri hanno impostato non ha mai fine. Le strategie dell'associazione sono sempre passibili di cambiamento se qualcuno dei membri lo desidera 35 • Perché un'architettura democratica sia tale deve essere progettata in modo democratico. Non è possibile progettare un'architettura in modo democratico se non si è ricevuta un'educazione democratica all'architettura. Quindi, qualunque movimento verso un'architettura democratica deve partire da un insègnamento democratico dell'architettura. I quattro criteri proposti da Dahl, con gli opportuni aggiustamenti, possono facilmente regolare il funzionamento di un corso universitario (purtroppo l'unico posto dove in Italia si educa alla e si insegna la architettura, una materia che dovrebbe essere presente in ogni ordine e grado di educazione e insegnamento), laddove lo si inten16 da come un gruppo di persone che camminino insieme -
è quanto significa, etimologicamente, "corso universitario" - e quello che li guida lo faccia rispettando le regole della democrazia: - I. tutti, docente e discenti , devono essere messi in condizione di partecipare al meglio al corso e di esprimere la loro opinione su di esso; - 2. i saperi, le culture e le opinioni di tutti, docente e discenti, vanno tenute da tutti in egual considerazione; - 3. tutti, docente e discenti, devono accedere ai saperi, alle culture e alle opinioni di altri docenti e discenti; - 4. tutti , docente e discenti, e in qualsiasi momento, devono poter sollevare delle questioni (e, quindi, riaprire la successione 12-3-4). Nel 431 a .C. Pericle - vale a dire l'inventore, se mai ne è esistito uno, della democrazia -, in una orazione per commemorare i caduti in battaglia, aveva sintetizzato in una sola frase questi quattro criteri: Non pensiamo che il dibattito arrechi danno all'azione; il pericolo risiede piuttosto nel non chiarirsi le idee discutendone, prima di affrontare le azioni che si impongono36. Allora, i contenuti dell'insegnamento non devono solo scendere dal docente ai discenti ma devono anche salire dai discenti al docente per poi riscendere ai discenti, e così via. Questo movimento verticale bidirezionale docente ~ discenti deve essere preceduto, seguito, accompagnato da due movimenti orizzontali bidirezionali: discente ~ discenti, docente ~ docenti. Ogni docente deve confrontare il proprio insegnamento con quello di tutti gli altri docenti e renderne partecipi i suoi discenti. Ogni discente deve confrontare il proprio apprendimento con quello di tutti gli altri discenti e renderne partecipe il suo docente . Questa procedura - più difficile da descrivere che da mettere in atto - è invocata non solo dalle ragioni della democrazia ma anche da quelle dell'architettura . Un insegnamento ex-cathedra, professore ➔ studente , non ha senso perché insegnare architettura non è insegnare un sapere ma un saper fare . Ugualmente un insegnamento da botte17
ga, maestro ➔ allievo, non ha senso perché insegnare architettura non è insegnare un fare ma un saper fare. Processo
democratico
e costruzione
dell'architettura
In una democrazia i committenti di un edificio, pubblico o privato che sia, sono tutti, ma proprio tutti: quelli che ci lavoreranno o ci abiteranno per tutta la vita; quelli che ci entreranno, anche una sola volta; quelli che non ci entreranno mai; quelli che lo avranno sempre davanti agli occhi e quelli che non lo vedranno mai, neanche in fotografia. In una democrazia ogni edificio, in qualche modo, è pagato da tutti e quindi deve essere fatto per tutti, deve . andare bene a tutti o, almeno, deve essere fatto in vista di o no applicare un questo scopo. Allora, è desiderabile processo democratico alla costruzione dell'architettura? Immaginiamo, per un momento, che non sia desiderabile. Che conseguenze produrrebbe sul livello complessivo di democraticità di una società questa scelta? Si può considerare democratico un ambito nel quale le persone che lo compongono non abbiano voce in capitolo per quanto riguarda l'aspetto degli edifici, delle città e dei paesaggi in cui vivono? Sicuramente no . Quindi, il problema è se il processo democratico, sicuramente desiderabile, porti a dei risultati altrettanto desiderabili o, perlomeno, a somma positiva e non a somma negativa o nulla. È la questione tra processo e sostanza capitale della contrapposizione nel contesto delle idee e delle pratiche democratiche 37 • Insomma un'architettura sarà più bella e funzionerà meglio se a decidere del suo aspetto e del suo funzionamento saranno chiamate tutte le persone interessate, come in linea teorica sarebbe senza dubbio auspicabile, o se a decidere saranno solo i tecnici? Oggi la questione è complicata dal fatto che le tecniche moderne permettono di realizzare qualsiasi configurazione di un edificio, per cui nessuno può antivedere un nuovo edificio prima che venga realizzato, nessuno può preveder18 ne la forma, come avveniva una volta, quando i tipi, le
forme, le tecniche, i materiali a disposizione erano pochi e la soluzione finale era quasi obbligata e quindi più o meno prevedibile . Oggi, fino a che non si smontano le impalcature, un passante può solo provare a indovinare a cosa assomiglierà il nuovo edificio: nuvola? collina? bu cranio? mare in tempesta? fiume? microrganismo? catasta di qualcosa? foglio piegato? Tutto questo amplia molto, troppo, la responsabilità dell'architetto. Una responsabilità troppo grande per assumertela da solo, a meno che non sei una star. Ecco, paradossalmente, oggi lo star-system in architettura ci sembra la prima risposta concreta alla domanda, al bisogno di architettura democratica che c'è in giro . Del resto, il mercato e la democrazia rappresentativa si somigliano. In entrambi ci sono due mondi perfettamente separati, élite (produttori e politici) da una parte, masse (consumatori e elettori) dall'altra. Due mondi che a lungo si scrutano e si studiano a distanza, poi, per un attimo (acquisto e voto), si toccano, per separarsi, subito, di nuo vo e cominciare da capo.
Effetto democrazia Se proviamo a individuare le principali strategie progettuali usate oggi in architettura, ci accorgiamo che tutte cercano un effetto-democrazia , un risultato accettabile per una società democratica - e non potrebbe essere altrimenti -, ma non tutte usano procedure democratiche. Progetto monarchico . L'architetto (Frank Owen Gehry) ha carta bianca e costruisce il sé: inventa da solo l'aspetto del suo progetto e Io fa a sua immagine e somiglianza. Il risultato è un microcosmo individuale che cerca di rappresentare il macrocosmo della società intesa come interazione complessa di identità individuali ➔ più arte, meno architettura, meno democrazia ➔ ricerca di un'immagine nuo va e originale, ma programma edilizio tradizionale . Progetto oligarchico. L'architetto (Renzo Piano) dialoga con esperti, tecnici, committenti per estrarne un'immagine
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di architettura aderente alle loro aspettative, un'architettura adatta a tradurre in forma il programma edilizio e a rappresentare le aspirazioni collettive ➔ meno arte, più architettura, più o meno democrazia ➔ immagine consolidata e programma moderatamente innovativo. Progetto democratico rappresentativo (progetto di massa). L'architetto (Rem Koolhaas) consulta il maggior numero di persone possibile per arrivare a un'immagine enciclopedica dell'edificio, tale da cercare di risolvere il maggior numero possibile di problemi, di soddisfare il maggior numero possibile di desideri, di rappresentare il maggior numero possibile di aspirazioni (l'edificio come prodotto), ➔ più non si riesce a rinunciare del tutto all'architettura arte, più o meno architettura, più democrazia ➔ ricerca volontaristica di una democrazia che non è espressa dal programma dell'edificio e non è presente nella società. Progetto democratico partecipativo (indiretto). L' architetto (MVRDV) trasforma il programma edilizio in edificio senza attingere all'architettura, lo pietrifica; la deformocrazia è espressa già nel programma dell'edificio mulato in modo democratico da una società democratica e quindi l'architettura non è chiamata per supplire con le forme a un vuoto di programma. Oppure l'architetto (SANAA) cerca, poeticamente, di inventare un edificio democratico tout court ➔ meno arte, meno architettura, più democrazia ➔ tettonica di programmi democratici / contenitori per uomini liberi. Più in generale, tre sono le strade che oggi sembrano più battute per andare verso un'architettura democratica. Tutte e tre vanno alla ricerca del consenso, ma in modi diversi. - 1. Architettura che produce edifici che sembrano oggetti artificiali molto grandi: una via di mezzo tra arte e design - il tutto a scala gigante. Insomma un'architettura che produce grosse merci e non edifici. Progettata per cercare il consenso su larga scala, di tutti, con metodi progettuali eh~ si ispirano alle strategie mediatiche con cui 20 le merci cercano consenso nel mercato e i partiti tra gli
elettori. Merci di massa, merci di grande consumo. Edifici che urlano. - 2. Architettura che produce edifici che sembrano frammenti di "natura" o di "cultura", che puntano a creare un'immediata adesione emotiva in chi li guarda, un effetto "di intrattenimento", concepiti in base a strategie generative, desunte dalle scienze naturali, o narrative, desunte dalla musica, dal teatro, dalla letteratura, dal cinema, dal fumetto, dalla pubblicità, dalla televisione, dai videogiochi. Ancora merci, ma che cercano di non sembrare tali. Che puntano a un consenso più intellettualistico e meditato. Merci di nicchia, merci che vogliono sembrare di élite. Edifici che recitano, cantano, danzano, mimano. - 3. Architettura che produce edifici che sembrano edifici, che non guardano né al consumo di massa né a quello di élite, che cercano il consenso solo delle persone che effettivamente li fruiranno, che spesso si nascondono, si chiudono in recinti, in enclavi, quasi si vergognassero del loro aspetto di edifici, delle loro carenze comunicative . Edifici silenziosi, al massimo sussurrano. Mancano, come si vede, Edifici che parlano. Manca un'architettura democratica sincera e performativa. Performative sono le prime due strade, in qualche modo simili, diciamo parallele, nel loro diverso guardare al mercato. Sincera è la terza, che però volge le spalle al mercato e, in una democrazia moderna, niente e nessuno si può permettere di farlo. Quello che si può fare sembra evidente: cercare un incrocio, creativo e virtuoso, tra le prime due, facili e parallele, e la terza, difficile e obliqua. Comunque, un punto di contatto tra le due strade gia c'è: la morte dell'edificio 38 . Un fenomeno di cui si è cominciato a parlare molti anni fa sotto forma di "morte dell'architettura" (esemplata sull'hegeliana "morte dell'arte"), di ceci tuera cela (sulla scia di Victor Hugo e della sua Notre Dame de Paris). Oggi si è ormai capito che se l'edificio muore non è affatto vero che debba morire anche l'architettura. L'edificio muore perché è il prodotto -principe, Io strumento 21
comunicativo prediletto di tutte le forme cli governo che hanno preceduto la democrazia. Un edificio, se sembra troppo tale, fa troppo ancien régime, non è democratico.
Allegria
allegria!
Ma basta con la tristezza . Ci vuole allegria. Anzi "allegria allegria!" (insomma , to enjoy e non to enjoin piacere e non imposizione) . La celebre esclamazione di Mike Bongiorno (l'italo-americano che ha esportato in Italia una delle tante invenzioni dell'American Democracy: il quiz televisivo) dovrebbe diventare lo slogan delle democrazie . La gioia, l'ottimismo, l'allegria, la festa, eccezionali nei regimi autoritari, sono (o almeno, dovrebbero essere) la regola in una democrazia. Per quanto riguarda l' architettura democratica ce lo conferma Ludovico Quaroni: L'architettura reale non ha la possibilità di esprimere totalmente il pieno sentimento umano, come possono fare liberamente le altre arti. L'architettura è una attività fatta più per mettere ordine e meno per esprimere un sentimento e uno stato d'animo personale: gli stati d'animo collettivi, quando c'è una committenza non possono che essere ottimistici ... L'architettura, bene o male, non può essere che una razionalizzazione, e non può non mettere ordine. Bisogna accettare, quindi, se si vuole fare architettura, una posizione ottimistica ( e le proporzioni dinamiche, come la assialità bilanciata, sono adatte, mi sembra, ad esprimere bene l'ottimismo ufficiale di una buona democrazia parlamentare) 39 . E, più in generale, per quanto riguarda la democrazia tout court, ce lo conferma addirittura Platone (che voleva con tutte le sue forze un "governo dei custodi", dei "filosofi-re", e era contrarissimo alla democrazia; ma la descrizione che ci ha lasciato ne La Repubblica è la più bella - e più allegra descrizione della democrazia che ci sia capitato di leggere; cambiando solo qualche parola potrebbe diventare la migliore descrizione possibile di un ' architettura della demo22 crazia): Innanzitutto i cittadini sono liberi, e lo Stato si
riempie di libertà e di franchezza, e ognuno può fare ciò che vuole ... Ma è evidente che, dove esiste questa licenza, ognuno può organizzare la propria vita come gli pare . . . Dunque soprattutto in questo regime si possono trovare persone di ogni risma . . . E forse è il regime migliore. Come una veste multicolore, così anch'esso, intessuto di tutti i caratteri, può sembrare il più bello. E forse esso può apparire tale a molti, per esempio alle donne e ai ragazzi, che guardano alla varietà . . . E lì è facile cercare un governo . . . Perché in grazia della libertà contiene ogni tipo di governo, e chi voglia fondare uno Stato, forse deve rivolgersi a uno Stato democratico, e scegliere qualunque forma di governo gli piaccia, come si scelgono gli oggetti al mercato, e poi riprodurlo . . . Questi e altri simili pregi può avere la democrazia; e sarebbe, a quanto pare, un regime piacevole, disordinato e vario, dispensatore di eguaglianza a ciò che è uguale e a ciò che non lo è40 •
I FRANK LL0YD WRIGHT, Architettura e democrazia, Rosa e Ballo Editori, Milano 1945, era a cura di Giuliana Baracco, con una nota introduttiva tratta da Profezia dell'architettura di Edoardo Persico, e faceva parte de Il pens iero: una delle tante collane colte e divulgative uscite in quegli anni, per la quale era già uscito Ceni 'anni di musica moderna di Massimo Mila e stava per uscire i Pioneers .. . di Pevsner. L'anno dopo , nel 1946, sempre a Milano, per Maggiani , esce anche, a cura di Alfonso Gatto e Giu lia Veronesi, Architettura organica, prima edizione italiana di Organic Architecture. The Architecture of Democracy che raccoglieva una serie di conferenze tenute a Londra nel 1939 da Frank Lloyd Wright. Ora, entrambe le serie di conferenze, più altri scritti, tutti ricchi di cenni al rapporto "architettura organica/democrazia " , sono raccolti in Frank Lloyd Wright, llfuturo dell 'architettura, Zanichelli, Milano 1985, edizione italiana di The Future of Architecture, Horizon Press, New York 1953. 2 RoBERT A. DAHL, Sulla democrazia (2000), Laterza, RomaBari 2002, p. 89 (si tratta della seconda edizione italiana di On Democracy, Yale University , 1998). 3 lvi, pp. 29-31 . 4 È il caustico soprannome affibbi ato a Gropius da Tom Wo lfe in Maledetti architetti, Bompiani, Milano 1982, prima edizion e italiana di From Bauhaus to our House, 1981.
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s L'allusione è, naturalmente, a La Repubblica di Platone. 6 WILLlAM MORRIS, The Prospect s of Architecture in Civilization (conferenza tenuta alla London lnstitution il IO Marzo I 88 I). in Architettura e socialismo, Laterza, Bari 1963. pp . 3-4, prima edizione italiana di 011 Art a11d Socialism, London 1947. 7 Cfr. nota I. 8 LE CORBUSIER, PIERRE JEANNERET, Fii11f P,mkte ZII ei11e r 11eue11 Architekt11r, in ALFRED RoTH (a cura di), Zwei Wol111hii11 ser vo11 Le Corb11sier und Pierre Jea1111eret, Akad. Verlag Dr. Fr. Wiedekind & Co ., Stuttgart 1927, pp . 5-7 ; una versione in francese. un po' diversa. sta sul primo volume dell'opera completa: LE CORBUSIER, PlERRE JEANNERET, Oe11vre complète de 1910-1929 . 9 Una mostra (e il relativo catalogo) per la VI Triennale del 1936. 10 Di cui è appena uscita (settant'anni dopo la prima doppia edizione . inglese - Martin Hopkinson, London - e americana Harcourt , Brace & Company. New York) la prima edizione italian a , a cura di Roberta Amirante e Emanuele Carreri: WALTER CuRT BEHRENDT, li costn,ire moderno. Natura , problemi e fon11e, Editrice Compositori , Bologna 2007. 11 A riprova dell'importanza annessa allo specchietto Fi11e Arti Formati ve Art . dopo Verso u11'architettura orga11ica, Bruno Zevi lo reinserisce. con lievi modifiche, in tutte le edizioni della sua Storia dell'architettura moderna , dal 1950 in poi. 12 Dopo l'edizione americana (Doubleday & Company. New York 1964) il libro ha la prima e ultima edizione italiana nel 1977 per i tipi della Editoriale Scientifica di Napoli . IJ Alle due edizioni del MoMA (1966 e 1977) segue la prima edizione italiana , Dedalo . Bari 1980. •• li libro ha tre edizioni (1930, 1947, 1953) da Chatto & Windus , London . La prima ediz ione ita liana è di Einaudi, Torino 1965. ,s È il ùtolo di una conferenza tenuta a Melbourne nel 1971 da Giancarlo De Carlo , organizzata dal Royal Australian lnstitute of Architects , a conclusion e di un ciclo trienn a le sul tema "I ' Architettura degli anni '70", iniziato nel ' 69 con A Cr itic 's Wiew di J.M. Richards e proseguito nel 1970 con The New Forces di Peter Blake. Subito dopo le edizioni in lingua inglese. curate dal Roy a l Australian lnstitute of Architects. nel 1971 e nel 1972 , esce un'edizione italiana : J.M. RICHARDS, PETER BLAKE, GIANCARLO DE CARLO, L 'architettura degli anni Settanta . I "papers" di Melbourne s ul f11turo delf'architem,ra e dell'11rba11istica, il Saggiatore. Mil ano 1973. nella quale il contributo di De Carlo (pp . 87-142). che oc c up a mezzo libro , si intitola: L'architettura della partecipazio11e (da qui sono tratt e le citazioni che seguono) . 16 Vedi almeno il n. 42 I. Gennaio 1977, di «Ca sabella», quasi il interamente dedicato al Villaggio Matteotti (è, significativamente, primo numero della direzione Maldonado, molto e11gagé) . 17 Dalla quarta di copertina di LUDOVICO QUARONI, Progettare un edific io. Otto le zioni di arcl1itett11ra, Mazzotta , Milano 1977 . " li libro di Aldo Rossi esce nel 1981 negli Usu. Dopo le edizio-
ni in spagnolo, giapponese, tedesco e francese, esce in Italia solo nel 1990, subito dopo il conferimento a Rossi del Pritzker Architecture Prize. 19 ALDO Rossi, Autobiografia scientifica, Pratiche Editrice, Par ma 1990, pp. 16, 77, ma anche molte altre. 20 Nel 1981 il libro esce contemporaneamente negli Usa (The MJT Press, Cambridge, Massachusetts) e in Italia (il Saggiatore, Milano). 21 Bigness or the Prohlem of Large, scritto nel 1994, è pubblicato in OMA, Rem Koolhaas, Bruce Mau, S, M, L, XL, a cura di Jennifer Sigler, The Monacelli Press, New York/ 010 Publishers, Rotterdam, 1995, pp. 1239-1257 (traduzione italiana in «Domus», n. 764, Otto bre 1994. pp. 87-90, ripresa in Rem Koolhaas, Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, a cura di Gabriele Ma strigli, Quodlibet, Macerata 2006, pp. 13-24). 22 Jzmkspace è pubblicato in Project on the City 2 / Harvard Design School. G11ide to Shopping, Taschen Koln 2001, pp. 408-421, e tradotto nel citato Rem Koolhaas, Junkspace, pp. 63-102. 23 ERIC J. HOBSBAWM, Intervista sul nuovo secolo, a cura di Antonio Polito, Laterza, Roma-Bari 1999. 2• ROBERT A. OAHL, op. cii., p. 153. 25 OTTO WAGNER, Moderne Architektur, Schroll, Wien 1895; trad it. a cura di G. Bernabei, H. Winter, in OTTO WAGNER, Architetlura moderna e altri scritti, Zanichelli. Bologna 1980, p. 45. 26 "Ogni epoca ha lasciato un segno di se stessa in uno stile architettonico; perché mai la nostra non dovrebbe elaborare un suo stile?". Schinkel annota sul suo diario questa frase durante il viaggio in Inghilterra nel 1826, a Manchester. davanù ai "giganteschi mulini che formavano un nuovo paesaggio urbano" (BRUNO ZEvl, Architet tura della modernità, Newton Compton, Milano I 994, p. 12). 27 ENRICO VALERIANI, Thomas Jefferson, in Dizionario enciclo pedico di architetlura e urbanistica, Jsùtuto editoriale romano, 1969, s.v. 28 CHRISTIAN NORBERG-SCHULZ, L'architetlura del Nuovo Mon do. Tradizione e sviluppo dell'architettura americana, Officina Edi zioni, Roma 1988, il concetto è ripetuto in Lutto il libro, particolar mente nell'Introduzione, pp. 9-14. 29 YINCENT SCULLY Jr., Architettura moderna, Jaca Book, Mila no 1985, p. 33 (trad. it. di Modem Architecture. The Architecture of Derrwcracy, George Braziller Inc., New York 1961 e 1974; nel '74 esce un'edizione ampliata di un capitolo, rispetto ai due del • 61:
Dodici anni dopo: l'età dell'ironia).
30 CHRISTIAN NORBERG-SCHULZ, op. cit., p. 9. �• Vedi nota 29. n YINCENT SCULLY Jr., op. cit., p. 23. 3' lvi, p. 103. 34 The Commonplace, pubblicata nel «Munson's Magazine» nel Marzo 1891, è la poesia che chiude la nona e ultima edizione di Leaves of Grass, detta "dal letto di morte", quella del 1892. La
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traduzione è tratta, con qualche variante personale, da quella di Ariodante Marianni in WALT WHITMAN, Foglie d'erba, Rizzoli, Milano 1988, pp. 479-481. 35 RoeERT A. DAHL, op. cit., pp. 41-42 . 36 TUCIDIDE, Le guerre del Peloponneso. 37 Cfr. in RoeERT A . DAHL, La democrazia e i suoi critici , Editori Riuniti, Roma I 990 , il cap . 12, Processo e sostanza, pp . 243-263 (trad. it. di Democracy and its Critics, Yale University Press, 1988). 38 Cfr. FRANCO PURINI, Comporre l 'architettura, Laterza, RomaBari 2001. 39 LUDOVICO QUARONI, op. cit ., pp . 155, 170. 40 PLATONE, La Repubblica, VIII, Xl.
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Il futuro critico dell'arte• ERNESTO L. FRANCALANCI
Gli incontri organizzati da Alberto Abruzzese e Paolo Fabbri alla !ULM di Milano e alla IUAV di Venezia, nel 2007, sul futuro della critica, hanno preso l'avvio soprattutto da una riflessione di Mario Lavagetto, secondo il quale per mantenere in vita la critica, dovremmo forse rinunciare a ogni pretesa di scientificità 2 • Il problema è di chiedersi - e mi pare questione obbligata per Abruzzese e per Fabbri - se discipline come quelle semiologiche o sociologiche possano essere ancora utilizzate come strumenti essenziali della critica : "spiegare di più" sarà sufficiente a salvare la funzione della critica e, nello stesso tempo, allontanare la morte dell'arte? È possibile scientificizzare la critica, contrastando l'opinione secondo cui essa è ormai solo un mestiere (mediologico e mediatore), che si attuerebbe come pratica discorsiva sull'arte, la quale sarebbe a sua volta niente di più che una pratica discorsiva sul mondo? 3 A mio giudizio, tuttavia, è tempo di conquistare un altro livello di discussione, mettendo al centro la grande tragedia economica, sociale e politica del nostro tempo, dentro cui si muovono insieme, come dirò, arti moderne, premodeme e postmoderne. Dovremmo, dunque, rovesciare la questione: dovrebbe essere innanzitutto il mondo - inteso come insieme politico dei fatti - a divenire il vero oggetto di analisi
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della cnt1ca odierna dell'arte, perché l'arte proprio di rappresentazione e simbolo. questo mondo è comunque Un mondo attraversato da un mostruoso intreccio di forze disgregatrici e distruttrici, che mettono in discussione la stessa sopravvivenza non solo culturale ma persino biologica dell'uomo. Se non abbiamo chiaro questo orizzonte mi pare difficile parlare di arte contemporanea: quale formula artistica indica oggi tale mondo? Se l'arte è la dimostrazione assoluta della libertà, quale arte riesce oggi a liberarsi dal ricatto capitalistico postmodenw, privo di senso morale, e quale arte riesce a opporsi ali' altro crimine, quello censorio, di carattere premodemo, che è costituito dal controllo politico e religioso di ogni espressione effettivamente dissidente e satirica e, in modo particolare, dalle ideologie fondamentaliste di tipo islamico, capaci di mandare a morte gli stessi artisti? Discutere oggi della critica d'arte significa, quindi, avere consapevolezza del contesto globale, culturale e politico di riferimento, il quale non è più quello della modernità, ma quello della cosiddetta postmodemità, la dimensione nella quale sono irreversibilmente scomparse le fondamentali illusioni politiche dell'epoca precedente, la principale delle quali si è dimostrata essere l'ingestibilità democratica (marginalità del dissenso critico e inattualità della minoranza). Dobbiamo avere ben presenti le conseguenze d'ordine pratico, determinate dalla caduta di queste illusioni. Dal punto di vista politico il quadro è a tutti noto, meno lo è quello specificatamente culturale e filosofico. Il fenome no più grave è certamente quello del progressivo annullamento, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, della differenza tra categorie di pensiero che per tanto tempo si erano percepite come distinte ed opposte. Come la contrapposizione, un tempo feconda, tra essenza e apparenza, tra vero e falso, tra realtà e simulazione; tra autentico 28 e inautentico, tra originale e imitazione, tra unicità e
copia. A tutto ciò si aggiungano altri fenomeni, partico larmente gravidi di effetti sulle arti, quali il predominio del significante sul significato, del mutante sul tipo, del processo sul finito, dell'imperfetto sul perfetto, della performance sull'opera , della combinazione sulla selezione, dell'artificiale sul naturale e, infine, del simulato sul reale? 4 Tutte questi elementi di trasformazione epocale s'accompagnano a un profondo «disincanto», quello che colpisce definitivamente ogni mito metafisico e salvifico, in una terra diventata ovunque invivibile: per la metà dell ' umanità a causa della povertà, per l'altra metà dell'umanità per la colonizzazione capitalistica dell'esistenza. È raro, tuttavia, veder assumere queste riflessioni come necessarie premesse a un'analisi sul ruolo attuale e futuro sia della critica sia dell'arte, se in questione è addirittura, per la prima volta, la stessa sopravvivenza della specie umana 5 • Quale enorme, dunque, responsabilità del- · l' arte, e della critica che l'accompagna, nel tacere questa condizione attuale, tardo-capitalistica, il cui carattere tragico non può non essere ancora cantato e narrato. Illustrato e commentato . Figurato e annotato . Se non sconfitto, almeno ero icamente affrontato: e già quanti morti artisti (Theo van Gogh), quanta perfetta letteratura minacciata (Roberto Saviano) , quanti poeti in esilio (Salman Rushdie). Nessuna riflessione sulla critica può, dunque, dimenticare questo contesto militare, contro il quale il potere moralmente salvifico dell'arte, del cinema, della musica, della poesia , della pittura, dimostrerebbe la potenza delle sue armi. Della sua possibilità di controinformazione : della possibilità di contrapporre a quella che per tanti secoli venne considerata la prerogativa essenziale dell ' arte, vale a dire la sua valenza estetica e la sua capacità di produrre bellezza, la forza laica di una moralità combattente. Perché la dimensione della vita sociale, trasformata dal tardo capitalismo in spettacolo (in esteticità diffusa) e in perfetta 29
coincidenza finale tra consumo e mercificazione , può e deve essere raffigurata e rianimata mediante segni di nuo va specie. Ma, nella postmodemità, tutto sfuma , tutto si definisce, tutto si amalgama. Tutto si smarrisce in quello che Slavoj Zizek ha definito il «deserto del reale» 6 , un deserto senza orizzonti, senza prospettive, senza progetto, illuminato dai mille miraggi prodotti dal desiderio di inutili merci. Se le cose stanno così, cosa possiamo fare per disegnare nuovamente confini , il che vuol dire ridare alla critica la sua funzione di «scienza dei bordi» e, nello stesso tempo, dare all'arte la sua finalità di abbordaggio alle varie emergenze che caratterizzano il nostro tempo? 7 Una ricognizione esplorativa tra le pieghe degli eventi e tra gli indizi più appariscenti della metamorfosi artisticoculturale della nostra epoca evidenzia alcuni fenomeni catastrofici: l'atomizzazione dell'arte per eccesso d'offerta, vale a dire la sua pervasività commerciale, pubblicitaria e mediatica, il proliferare internazionale di artisti, la deregue critico-professionale, la dilation accademico-didattica dell'arte, la derubricazione di movisavanguardizzazione menti, poetiche, tendenze, l' ipervalutazione del mercato, la bigness , ovvero il superamento di ogni «giusta misura», l' artisticizzazione progressiva così dell'architettura, per difetto di una visione globale urbanistica , come del design , a causa del fallimento dell'ideologia del Progetto, e, infine, la dimensione onnicomprensiva e fagocitante di un'estetica diffusa, immersa nell ' intreccio mostruoso tra politica e tecnica , tra dimensione dell'economico e del commerciale, tra mafistizzazione globale e bladerunnerietà urbana 8 • Con la medesima definizione di arte, infine, è ormai difficile se non impossibile comprendere unitariamente i seguenti inconciliabili fenomeni: un'arte materica , fisica, atomico-analogica (il quadro, la scultura, l'installazione, la 30 performance) e un'arte immateriale, simulativo-digitale
(l'arte elettronica e video); un'arte realizzata da un sogget to ancora fortemente antropologico o da un soggetto sem pre più «inorganico», che si sente ormai in simbiosi con un «oggetto» sempre più intelligente e «organico»•; un'arte comunicazionale, sociale, pubblica, una net art magari in open source, e un'arte che accentua la sua distanza dal mondo in maniera autoreferenziale e desemantizzata, sia come forma di una raggelata neo-oggettualità (in un arco esemplificativo che va da Koons a Cattelan, da Vanessa Beecroft ai fratelli Chapman, da Ron Mueck a Mare Quinn) o di un estremo concettualismo autoreferenziale, come di mostrano Joseph Kosuth o il suo corrispettivo metropoli tano, più acido e pop, Jenny Holzer, per fare due esempi immediati.
Possiamo prendere le mosse, per un approfondimento della questione politica dell'arte, proprio dal «caso» Kosuth, un artista - di cui è nota l'adesione filosofica alla logica wittgensteiniana - che viene costantemente citato come esempio di un possibile salvataggio dell'arte come atto già in sé critico, in quanto intrinsecamente riflessivo, analitico e concettuale, ma dobbiamo convincerci che già Wittgenstein non la diceva chiaramente sull'arte! Il motto schilleriano, citato da Wittgenstein nei suoi «Quaderni», Seria è la vita, allegra è l'arte'°, a conclusione del suo interrogativo se l'essenza del modo di vedere artistico non fosse che «vedere il mondo con occhio felice», me rita oggi una diversa riflessione: «seria dovrebbe essere l'arte, di fronte a una vita sempre più tragicamente al legra, sempre più esteticamente e irresponsabilmente vis suta». Questa costante relazione politica e morale dell'arte con le varie e drammatiche complessità sociali della vita assume oggi una rilevanza particolare. L'artista attuale si trova, infatti, per la prima volta, ad affrontare per lo meno due ordini di problemi gravissimi: il primo è lo scontro che ogni sua opera ha, automaticamente, con un mondo devastato dalla guerra, dalla crisi economica, dalla fine di 31
ogni democrazia, il secondo è il volto comunque spettacolare di questo mondo. Un mondo in cui è avvenuta l'irruzione, soprattutto a partire dagli anni Settanta, di una globale strategia politica di mistificazione orientativa, che si è avvalsa di uno scenario precostituito di eventi, spettacolari e simulativi, che si è depositato sopra l'orizzonte dei fatti «reali», nascondendoli e oscurandoli. Le anticipazioni di quei filosofi, che, a partire dagli anni Cinquanta, avevano elaborato la tesi di una progressiva e voluta separazione tra realtà e rappresentazione, giungono oggi alla prova e alle estreme conclusioni. Già per Daniel Boorstin, nel 1961 - e, in seguito per Guy Debord, nel famoso saggio La società dello spettacolo 11 la civiltà contemporanea era da considerare come una «società dell'immagine» 12 • La sopraffazione simulativa, dunque, non ci è nuova; il fatto è che fingiamo che non abbia avuto, da allora a oggi, anche enormi conseguenze critiche! Come, quindi, può un artista riuscire a opporre la sua «immagine» del mondo a un mondo già trasformato in immagine dalla tecnica persuasiva dei media sotto il controllo politico del tardo capitalismo? La rappresentazione artistica riesce a contrastare criticamente un mondo nel quale - per utilizzare la splendida parafrasi marxiana di Debord - tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni modenze di produzione si presenta come un 'immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto s'è allontanato in una rappresentazione?13
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Quella «Realtà Reale» ci manca, tant'è che ogni reality show e ogni flash sulla cronaca attraggono come epifanie di un evento raro e inquietante: l'apparizione improvvisa di un «dato di realtà» , che non fa che confermare il «deserto» del reale, la scomparsa del corpo del reale e l' apparente scomparsa del «corpo sociale», un tempo detto «classe». Ma anche la scomparsa del corpo biologico stesso, da
cui la sua ossessione "estetico-chirurgica". Come afferma consumista è in Zizek, il paradiso del tardo-capitalismo qualche modo irreale, privo del peso della materia, ragnatela delle apparenze, finché non irrompe il Reale come un «effetto speciale» 14 • Or bene, all'artista, a cui per secoli le varie culture e le più diverse civiltà avevano richiesto il compito di realizzare mondi immaginari, simbolici e fantastici, la società oggi richiede inconsciamente di dirci dove sta il reale . Un reale che nessuno più ha la capacità di indicare: qui si misura l'attuale impotenza del «politico», del «religioso» e dello «storico». Qui comprendiamo finalmente il senso della tragedia postmoderna e lo scotto epocale pagato dal soggetto, il quale , consapevole ormai della sua insignificanza, intuisce che, per comunicare, per recuperare l'Altro, il Reale, il Vero, deve usare qualsiasi strategia, anche dell'arte ~ necessario! Quasi offrendo all'arte stessa una funzione paradossalmente comunicante e definitivamente critica sul mondo. O realizzando, come nel caso di opere immersive come quelle di Olafur Eliasson, di James Turrell o di Anish Kapoor, un luogo di momentanea salvezza meditativa. Detto ciò, cosa rimane della critica e cosa ancora decide la critica , se è provato che la sua funzione attuale è quella di produrre una sovraesposizione mediatica del1' artista ali' interno del sistema dell'arte, operazione che determina la sua indicizzazione, il suo accreditamento e la sua storicizzazione? Come è possibile affermare una scientificità (il che significa, una neutralità analitica sperimentale!) della critica di fronte alla circolarità che stringe nello stesso destino valutativo e capitalistico 1' artista, il gallerista, il collez ionista, l' editore, lo spettatore, il lettore? Il critico parla, infatti, di un'arte già prevista all' interno di tale sistema, un luogo abitato da una comunità che condivide il segreto che permette la trasformazione della cosa realizzata dall'artista in opera e quindi in prodotto, merce e investimento (dal cui fatale circuito non può esse33
re esentata neppure la «critica» di fondamentale scientifica, apparentemente anacronistica rispetto ma dell'arte).
qualità al siste-
Un'incolmabile distanza separa ormai critica dell'arte e critica del mondo, critica estetica e critica sociale, pensiero critico e azione critica (che rivela il «punto critico», il punto di cedimento, la linea di frattura, il nucleo di disintegrazione di un sistema). Qui si misura (nel senso specifico che «bisogna prendere misure» ) 15 il fallimento politico d'una critica dissenziente e oppositiva rispetto alla fagocitazione irreversibile dell'arte da parte di un sentire estetico superficiale e diffuso, di un sentire sfumato, che aborre il confronto, la dialettica, la «differenza». Critica dell'arte è e deve essere anche critica del mondo mediante un agire più chirurgico che medico, poiché, come il chirurgo, il critico non può esimersi dall'introdurre le mani e gli strumenti nel corpo malato, sporcandosi del suo sangue! Per comprendere la direzione della critica professionale più accreditata, esaminiamo il testo a cui si fa oggi un frequente riferimento. Mi riferisco al noto lavoro di Hai Foster, Rosalind Krauss, Yve-Alain Bois, Benjamin H.D. Buchloch, Art since 1900. Modernism, Antimodernism, Postmodernism 16, un insieme di contributi costruiti per scansioni annuali, che presenta gli autori più famosi e stabilizzati dalla storia e dalla critica soprattutto americana. I quattro storici dell'arte, forse tra i più importanti e certamente i più influenti del nostro tempo, hanno alla fine raccolto le loro personali analisi interpretative in altrettanti testi: La, psicanalisi nel modernismo e come metodo, Poststrutturalismo e decostruzione, Formalismo e strutturalismo, La, storia sociale dell'arte, modelli e concetti. Per gli autori, gli elementi di maggiore novità della situazione internazionale dell'arte sono i seguenti: 1) un 34 mutamento di statuto dell'opera d'arte «nell'epoca dell'in-
formazione», rappresentat _o da poetiche e da movimenti della cosiddetta postproduzione, da fenomeni di collaboratività tra artisti, dalla public-art, dallo schema donoofferta, tutti atti compiuti in luoghi di momentanea socializzazione (esempi preclari Gonzales-Torres e Tiravanija); 2) un impulso archivistico, che costituirebbe un paradigma in espansione rizomatica, soggiacente a molta parte della pratica artistica contemporanea (vedi Tacita Oean o Douglas Gordon); 3) l'estetica interattiva. Quest'ultima tendenza estetico-interattiva sarebbe dimostrata da mostre come Documenta 2002 - rassegna, curata da Okwui Enwezor e concepita come punto conclusivo, teorico ed espositivo, di precedenti incontri tra artisti, teorici e altri interlocutori, effettuati in varie parti del mondo, ali' interno di apposite «piattaforme» e «stazioni» di lavoro - o come la Biennale di Venezia del 2003 (curata da Francesco Bonami), di cui si rileva la presenza di analoghe «stazioni di discussione». Ambedue le manifestazioni costituirebbero esempi organizzativi, capaci di dimostrare l'irrompere di una nuova volontà discorsivo-sociale, caratterizzata dalla presenza fisica di soggetti tesi a riprendersi quell'identità che soprattutto i media avrebbero fatto sparire. «Difetto» di questo tipo di analisi critiche consiste nel considerare l'arte attuale ancora come un sistema circolare piuttosto che rizomatico e come una categoria sufficientemente definibile, con rare concessioni ad altre dimensioni, eventi e fenomeni produttivi, performativi e comunicativi. Per fare degli esempi di alcune esclusioni categoriali: il film come opera d'arte "figurativa", quel fenomeno postcinematografico, che presuppone un nuovo modo teorico e operativo, un nuovo spettatore e un nuovo luogo di osservazione (per fare degli esempi, Matthew Barney o Eija Liisa Ahtila); la ricerca teatrale sperimentale, interattiva, elettrico-elettronica (Fura dels Bau, Antunez), connessa anche con la musica visiva (Granular Synthesa, Ryoji lkeda, Golan Levin ... ); i live-media, evolu -
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zione del linguaggio video, unito in sede performativa con quello musicale-digitale; l'insieme delle ricerche elettronico-digitali, che annualmente confluiscono in centri internazionali, di cui uno dei più famosi è l' Ars Electronica di Linz, su simulazione, simultaneità, 30, virtualità, interattività, polisensioralità, Artificial Intelligence, con autori come John Maeda, Irosi lshi, Eduardo Kac , Christa Sommerer-Laurent Mignonneau, Cari Sims, Jeffrey Shaw, alcuni dei quali, soprattutto quelli appartenenti al Media 17 Lab del MIT, autodefinitisi ; il net«artisti-scienziati» working come "attivismo artistico-politico"; il video clip a livello di autori come Miche} Gondry, Chris Cunningham, Spike Jones, i Pleix, Mark Romanek , Jonathan Glazes, Paul Hunter, Anton Corbijn, Floria Sigismondi ... ; il design "neo-radical"; le artitetture (le architetture «sculturee») e il cosiddetto Junk Space (si veda Rem Koolhaas); la «bellezza logico-artistica» di alcuni codici di programmazione, tanto che abbiamo la necessità di spostare l'analisi estetica dal prodotto al processo, dalla bellezza esterna - formale - a quella interna - intelligente, matematica - del programma; personalità storiche rivoluzionarie per la trasformazione dei linguaggi grafico illustrativi (in un arco che va da Walt Disney - leggere Sergei M . Ejzenstejn al riguardo - a Osamu Tezuka); teorici e sperimentatori della mutazione tecnologica del corpo umano (vedi i testi, gli esperimenti e le performances di Stelarc: «the human body is obsolete»!); il social-net, con protagonisti come Sadie-Plant (identificazione dei flussi di migrazione mondiale grazie alle connessioni telefoniche mediante cellulari , per esempio); il Radical Software Group, che s'è appropriato di Carnivor, il software sviluppato dallo FBI per scandagliare la rete a caccia di informazioni sensib ili; ricercatori come Josh On, che con il programma www.theyrule.net («essi comandano») rileva incessantemente, con voluta gradevolezza formale e con ludica disposizione artistica, tutte le connessioni see della politica in Amegrete dei potenti dell'economia 36 rica.
In conclusione, semiotica dell'arte e sociologia dell'arte, se vogliono provarsi sui confini, non possono non prendere in considerazione il campo allargato di quest'insieme di novità, non sempre definibili come «debordamenti dal!' arte». Si tratta di fenomeni che, in un modo o nell'altro, sono correlati alle drammatiche trasformazioni politiche, sociali, culturali in atto: la nuova avventura «critica» non può che partire da queste pieghe. Tematiche come la morte dell'arte e la morte o «eutanasia» della critica vanno, quindi, riconsiderate tenendo presente lo scenario globale della mutazione culturale tardo capitalistica, con particolare attenzione alle implicazioni «politiche» di tali eventi nelle odierne modalità di comunicazione e di produzione «mediante forme o testi». Potremmo utilizzare un noto aforisma: i filosofi (e i critici) hanno solo interpretato il mondo, si tratta ora di cambiarlo. La possibilità di una rilegittimazione della critica, per giungere, come ipotizza Fabbri, a ottenere dei ristretti frames disciplinari, dentro a cui lavorare, e da cui poter però uscire per «laminazioni», per squarci della cornice, facendo uso di un nomadismo concettuale, mi pare un'ipotesi interessante, anche se a me sembra che la nuova avventura analitica debba lavorare piuttosto sui confini, sui luoghi di contatto e di scambio, là dove, in tali istmi, potrebbero un giorno riformarsi degli ismi (d'altronde, la «critica» non è forse - lo ribadiamo - la scienza dei bordi, dell'abbordaggio e del debordamento?). Come sostiene Abruzzese, le politiche urbane e commerciali, nonché i testi e le pratiche mediologiche, fanno oggi più che mai riferimento alle arti, e, su ciò, la critica deve farsi «diacritica», mettendo i puntini! Certo, possiamo e dobbiamo mettere i puntini sulla relazione conflittuale e inconciliabile tra l'estetica diffusa del nostro mondo occidentale e l'arte, ma solo dopo aver ricordato l'entità della tragedia politica postmoderna. Questa condizione estetica è effetto di una cultura «politica» globale che, in questi ultimissimi decenni, ha co-
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scientemente progettato la distruzione di ogni giudizio di valore, di ogni attività decisamente critica, impedendo il proseguimento di quel processo di distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto (moralmente, politicamente, economicamente) . La perdita della critica del dissenso ha provocato l' indifferenziazione tra ciò che è bello e ciò che è importante. Tra ciò che appartiene all'inautentico, al falso, alla copia, al clone e ciò che inerisce al vero , all'originale, all'unico. In altre parole, tra ciò che costituisce il simulativo e ciò che potrebbe ancora essere il reale . Or bene, l'arte è chiamata oggi, per la prima volta, come dicevamo, a indicarci, piuttosto che mondi immaginari, ciò che potrebbe essere il punto critico di questo reale: la riprova è data dalla tendenza antiestetica presente in molte opere contemporanee e in alcune mostre internazionali (ma il trend oggi s'è di nuovo addolcito): Post-Human, curata da Deitch nel 1992; Sensation, di Adams, Jardine, Maloney, Rosenthal, Shone a Londra (1997); Apocalypse. Beauty and Horror in Contemporary Art, a cura di Rosenthal a Londra (200 l ). Insomma Au deléz du Spectacle come s'intitolava, peraltro, a Parigi (2001) una mostra proveniente da Minneapolis (curata da Philippe Vergne) e che in inglese suona un po' diversamente: Let's Entertainment! (questo è divertimento!). In tutte queste mostre si cela una popolazione di mostri, perché il mostruoso (l'inguardabile, l'Altro, finalmente il Reale, finalmente il Politico) rimane l'unico luogo per l'arte in cui sopravvivere, rendendosi insopportabile, «aliena» . Lo scontro dell'artista è oggi, dunque, con il mondo artificiale realizzato dalla tecnica, un mondo che non è stato mutato dal progetto rivoluzionario (anch'esso, tuttavia, da riesaminare) delle avanguardie, ma dalla filosofia industriale tardo capitalistica che si è valsa, per la sua rappresentazione, dell'arte, convertendola in sostanza at38 trattiva e dunque come parte aggiunta (plusvalore estetico)
al proprio prodotto: il nuovo «stile internazionale» della creatività persuasiva. L'ultima «pubblicità», una dimensione talvolta filoso ficamente molto più avanzata dell'arte stessa (poche isti tuzioni, come la pubblicità, la teologia e la politica, pos sono vantare un'esperienza altrettanta duratura e appro fondita nell'analisi dei fatti storici e della condizione umana) ci dà in questi giorni un avvertimento, mettendo, per una recente campagna per Ikea, solo silenziose parole al posto delle immagini sul nero abisso dello schermo televisivo.
' Il testo che segue è una sintesi rielaborata dell'intervento fatto al seminario proposto da Alberto Abruzzese e Paolo Fabbri alla IULM di Milano nel gennaio 2007 e in seguito allo IUAV di Venezia, dal titolo "Sociologia e semiotica dell'arte. Un futuro per la critica delle arti?" 2 MARIO LAVAGETTO, Euta11asia della critica, 2006. J Vedi ALESSANDRO DAL LAGO, SERENA GIORDANI, Mercanti d'aura. Logiche dell'arte contemporanea, il Mulino, Bologna 2006. • La bibliografia sull'argomento, come si sa, è vastissima. Si vedano i "fondamentali": I. HASSAN, Culture, /11detem1i11acy and lmma11ence: Margi11s of the (Postmodern) Age, in •·ttumanities in Society", I, 1978; Jean-François Lyotard. La co11ditio11 postmoderne, 1979, tr. it. di Carlo Fonnenli, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981; I. HASSAN, The Culture of post modernism, "Theory, Culture and Society", 2 (3), 1985; FREDRJC JAMESON, Posnnodemism, or The Cultura/ Logie of ulte Capitalism, 1984, tr. it. di Stefano Velotti, Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano 1989; DAVID HARVEY, The Condition of Postmodemity, 1990; tr. it. di Maurizio Viezzi, La crisi della modernità, li Saggiatore, Milano 1993; MIKE FEATHERSTONE, U11doi11g culture: globa/izatio11, postmodernism and identity, 1995; tr. it. di Francesca Mazzi e Claudia Mazzi, La cultura dislocata. Glo balizzazio11e, postmodernismo, identità, Edizioni SEAM, Milano 1998 (con gravi lacune bibliografiche). 5 Bill Joy, Why Future Doesn't Need Vs?, sta in "Wired", Aprii 2000, pp. 238-262. La preoccupazione sollevata dall' A. consiste nell'ipotesi, condivisa anche da altri scienziati, di una possibile scomparsa del genere umano, provocata dall'imminente predomi nio di alcune tecnoscienze, sfuggite definitivamente al nostro con trollo. 6 LAVOJ Z.12.EK, Benvenuti nel deserto del reale. Cinque saggi S sul/' Il settembre e date simili, Meltemi editore, Roma 2002.
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7 Proprio a seguito di queste prime riflessioni sul rapporto tra l'arte e le attuali "dimensioni di emergenza" (guerra e conflitti, cor po, sesso, libertà, razzismo, tecnica e scienza, religioni) è scaturito il corso di lezioni universitarie Art 011 demand (http://www.selfproject.it). 8 ERNESTO L. FRANCALANCI, Estetica degli oggetti, Il Mulino, Bologna 2007. 9 Il concetto basilare, che con estrema eleganza Pemiola è riusci to a sviluppare da un pensiero di Walter Benjamin (Il feticismo. che è alla base del "sex-appeal" dell'inorganico, è la sua forza vitale, in Angelus Novus. Saggi e frammenti ( 1955), Einaudi, Torino 1976), consiste nel constatare la sempre più stretta relazione tra la sessualità dell'inorganico e il farsi "cosa senziente" dell'umano, legati ambe due da un sentimento "senza desiderio"; lo stesso aspetto del corpo postmoderno dimostra il cambiamento radicale dell'umano (attenzio ne: non evoluzione, ma catastrofe): maquillage, tatuaggio, ginnasti• ca, hair dressing, dietetica, aerobica, body building, chirurgia este tica e itrgegneria genetica sono i passi successivi di ,,,, cammino che conduce all'uomo quasi cosa. Mario Pemiola, Il sex appeal dell'i11orga11ico, Einaudi, Torino 1994, p. 59. 10 LuowIG W1TTGENSTEIN, Quaderni 1914-/9/6, Einaudi. Tori no 1964. p. 189. 11 Guv DEBORD, La société du spectacle. 1967; tr. it. di Valerio Fantine! e Miro Silvera, De Donato. Bari 1968. Le cui tesi saranno approfondite nel 1988 in un altro famoso lavoro. Commemaires sur la Société du spectacle, 1988; tr. it. di Fabio Vasarri. Commentari sulla società dello spettacolo e La società dello spettacolo. con una (con una fondamentale introduzione di Giorgio Agamben), Sugarco Edizioni, Milano 1990. 12 DANtEL BOORSTIN, lmage. A Guide to Pseudo-Events in Ame rica, Harper & Row, New York 1961. Il percorso, come sappiamo, di queste riflessioni lega il pensiero di Heidegger sul primato della tecnica e sulla conseguente riduzione del mondo in immagine al l'analisi benjaminiana della perdita di auraticità dell'originale, per giungere - passando attraverso le celebri analisi di Marshall McLuhan sul potere persuasivo dei media - ai contributi più recenti del pensiero filosofico contemporaneo. Per quanto riguarda le tec niche di manipolazione della mente umana usate dalla pubblicità, vedi Vance Packard, The Hidden Persuaders: What makes us buy. believe - and even vote - the way we do?, David McKay, New York 1957; tr. it. a cura di Carlo Fruttero, / persuasori occulti, Einaudi, Torino 1958. 13 Guv DEBORD, Commentaires sur la Société du spectacle, p. 85. 14 S. :ZIZEK, op. cit., p. 16. l5 ERNESTO L. FRANCALANCI, Prendere misure, sta in "AZ, Rivi sta di architettura e arti visive", 17, 2005. 16 Thames & Hudson, 2004; tr. it. Arte dal 1900. Modernismo, Antimoder11ismo, Postmodernismo, Zanichelli, Bologna 2006. 17 A questo proposito alcuni studi recenti possono offrire utili 40 materiali di riflessione. tra questi innanzitutto alcuni lavori di Rosalind
Krauss, come L'originalità dell'avanguardia e altri miti modernisti [1985], Fazi 2007, e soprattutto L'arte nell'era postmediale. Marce/ Broodthears, per esempio, Postmedia, 2005. La Krauss ha cercato di offrire una nuova definizione categoriale all'insieme della attività "artistiche" nel tempo della medialità e della postmedialità, a partire da quella che lei stessa chiama la "necessaria reinvenzione del medium". ROSALINO KRAUSS, Reinventare il medium. Cinque saggi sull'arte di oggi (2004), Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano 2005.
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Traslitterazioni (visive) per oggetto d'uso e d'arredo IMMA FORINO
Leggere l'oggetto nella duplice accezione , di uso e di arredo , può dare alcune indicazioni metodologiche per le discipline afferenti l' arredamento , l ' allestimento, la scenografia, ovvero quei settori del progetto dove risulta prioritaria la relazione con la piccola scala così come il rapporto diretto dell'oggetto con l'individuo. Considerare tale duplice visione può, inoltre, indirizzare la ricerca di una possibile , quanto necessaria, risemantizzazione della dialettica oggetto/soggetto . Il termine oggetto può essere sinteticamente esplicato attraverso due interpretazioni distinte : entità fisica , da un lato , ed entità spirituale, dall'altro. Nella prima ipotesi , l'oggetto si identifica in una unità tangibile; è il risultato di un processo di lavorazione da un materiale primigenio, di norma grezzo o semilavorato. Nella seconda eventualit à, invece , esso si dichiara come il contenuto di un ' esperienza o di un'attività che hanno un fine preciso (come, per esempio, l'oggetto «della conoscenza», «degli studi», «di una ricerca», ecc.) . In entrambi i casi, la terminologia assume una connotazione astratta, se non addirittura elusiva, qualora l'oggetto non sia immediatamente relazionato a colui che lo progetta , lo produce, lo possiede o, in altro modo, lo ricerca, lo sviscera, lo esercita. L' oggetto è, in altre parole, subordinato a un protagonista principale, l'uomo, che a 42 seconda del1e opportunità ne è artefice, referente o afferente .
Alla specificità materiale dell'oggetto è certamente legato l' «uso», la possibilità cioè che attraverso di esso si espleti una funzione determinata, che sia un'attività occasionale o, altrimenti, ripetuta. D'altra parte, il suo significato non si esaurisce nel solo portato funzionale, estemporaneo o di consuetudine. L'oggetto, come fine spirituale, è altresì depositario di memorie (Mario Praz), di frammenti, di tracce o, altrimenti, di sopravvissuti lacerti di un passato trascorso (Walter Benjamin). E ancora, esso può porsi come un potente strumento evocativo di un'idea primigenia di rifugio (Gaston Bachelard e Gilbert Durand) o come un rassicurante baluardo - quello del già noto, del già dato anche stilisticamente - rispetto a un incerto futuro. È attraverso questa sostanziale «ambiguità» (qui positivamente intesa, come connaturata «qualità») che l'oggetto ha spesso individuato, con la sua sola presenza, l'immagine più immediatamente percepibile - ovvero quella visivamente e mentalmente accessibile - del microcosmo interiore, sociale o culturale, oltre che materiale, di un individuo, di una collettività, di un'epoca. In questi termini, l'oggetto si configura come un riferimento imprescindibile per la rappresentazione , autoreferenziale e non, della condizione umana e della sua mutevole natura. Questa sua caratteristica ne ha assicurato nel tempo la sopravvivenza, anche là quando il suo effettivo valore d'uso è venuto meno. La conservazione orgogliosa, la cura amatoriale, l'attento recupero hanno, infatti, sostituito spesso l'iniziale fruizione specifica. Il trait d'union fra l'esercizio funzionale e la proiezione immateriale ha, d'altra parte, trovato nell'oggetto d'arredo una felice interpretazione. In questi l'uso si coniuga al plusvalore estetico ma anche a quello sentimentale, visto come una riconoscibile appartenenza - a una cultura, a uno statuto sociale o economico, a un'idea-, ed a quello più propriamente esistenziale. Si stabiliscono, cioè, delle corrispondenze elettive fra l'arredo e il suo fruitore, soprattutto all'interno degli spazi domestici, dal carattere più 43
privato. Sono correlazioni che, per altri versi, trovano la loro ragione d'essere anche in ambienti più pubblici , come gli spazi del terziario: la corrente di pensiero dello Strutturalismo antropologico degli anni Settanta (esemplificata da Herman Hertzeberger nel progetto di uffici per la Centraal Beheer ad Apeldoorn, 1968-1972) dimostrò che, grazie all'arredo personalizzato del proprio habitat di lavoro all ' interno della più vasta macchina burocratica, gli impiegati potevano recuperare in privacy e in appagamen to interiore, naturalmente a favore di un migliore rendimento. A uno spazio a misura d'uomo' - di qualunque natura sia quello spazio - l'arredo è, dunque, indispensabile. D'altra parte, l'oggetto come sostanza, come valore d'uso, come segno carico di senso (Jean Baudrillard) identificativo dell'immaginario e socialmente distintivo o , altrimenti, l'oggetto come «specchio del soggetto» (Id.), parte attiva dello scenario dell'interiorità, ha progressivamente mutato questo status iniziale. La dialettica oggetto/ soggetto, pur se ancora significativa, non è più biunivoca. L'individuo, infatti, non si proietta più esclusivamente nell'oggetto. Inoltre, non è più prioritario il senso del suo possesso. La massificazione delle trasmissioni, la forzata estro(tutto è sotto gli occhi di tutti) versione dell'interiorità hanno fatto sì che l'individualità non si rifletta più su un solo elemento riverberante ma sembri, piuttosto, destinata a perdersi in un abbagliante labirinto di specchi. L' oggetto d'uso e l'oggetto d'arredo, anche quando coincidenti, sono portatori di un sovraccarico comunicativo, forse intensamente cospicuo ma, spesso, enigmatico . È provando a cambiare la prospettiva della nostra osservazione che l'oggetto d'uso e l'oggetto d'arredo possono trovare un diverso riconoscimento , ovvero una risemantizzazione più chiara. Attuiamo ciò attraverso un'ipotesi critica, mutuata dall'adozione interpretativa del «punto di vista» (ipotesi deri44 vante dalla critica letteraria, con particolare riferimento
all'opera di Henry James2), e contestualizziamo l'oggetto in tre diversi settori fenomenologici: l'arredamento, l'alle stimento espositivo e, infine, il progetto scenografico. Non considereremo, però, il medesimo elemento semplicemen te trasferendolo «fisicamente» all'interno di quei tre sce nari della fenomenologia del progetto ma ne leggeremo, in particolare, l'insita valenza comunicativa in relazione ai campi suddetti. L'oggetto, infatti, può normalmente considerarsi come un «mezzo di trasmissione» - si pensi, per esempio, alle anfore minoiche, canali d'informazione fra i più ampi per ché diffusi a tutta la popolazione di una determinata civiltà in un preciso momento storico, che consentono di identi ficarne alcuni dei dati essenziali. Il portato comunicativo dell'oggetto è, d'altra parte, avvalorato, sminuito o modi ficato dalla sua diversa contestualizzazione, ed è ciò di cui terremo conto nel descrivere sinteticamente i tre campi fenomenologici citati. li progetto di arredamento si sviluppa in un luogo rea le. Esso è relativo all'invaso - lo spazio interno, agibile dell'architettura e si esplica nella definizione delle facce interne (pareti, pavimento, soffitto) dell'involucro architet tonico. Deve essere considerato come un'arte applicata per la sua chiara destinazione pratica. Si presenta, altresì, come un linguaggio conformativo e rappresentativo insieme, che si alimenta di apporti provenienti da altre arti (scultura, pittura, architettura) 3• L'arredamento si occupa, inoltre, di chiarire il rapporto diretto e interconnesso fra le persone e lo spazio vitale loro afferente. Il progetto non si limita, cioè, a indicazioni funzionali ma stabilisce quali sono le qualità dell'interlocutore, o utente finale, da alimentare e da far progredire. Ciò non solo attraverso la definizione di tangibili risposte a necessità biologiche ma, anche, perse guendo obiettivi meno corporei, quali la ricerca di comfort, di intimità, di benessere interiore. Nell'ambiente reale dell'arredamento, l'oggetto comu nica valore d'uso e declinazione esistenziale, in relazione alla figura umana. Uso e arredo si coniugano insieme nella 45
quotidiana esperienza dell'uomo, che non è semplice ripetizione di gesti ma maturazione in itinere. L'allestimento, invece, è una sorta di montaggio intertestuale, un mezzo spaziale attraverso il quale si comunicano dei concetti, un macchinario ... per far leggere4, una sintesi eloquente. È un'occasione temporalmente ridotta in cui l'oggetto, d'uso o d'arredo, è come forzato a una nuova comunicazione. Nell'allestimento l'oggetto è generalmente decontestualizzato dall'ambiente di appartenenza: l'elemento, ex-tratto dal contesto iniziale, assume all'interno del processo espositivo nuovi significati ; a seconda delle relazioni spaziali con il contenitore che accoglie la mostra e a seconda dei rapporti di consequenzialità con altri oggetti, con esso allestiti e a loro volta estraniati dal contesto originario. L'oggetto «fatto oggetto di mostra», depauperato del suo senso originario, diventa un'icòna (dal greco èicon, immagine) che trasmette un messaggio, prima visivo poi culturale, stabilito a priori dal progetto allestitivo. Inoltre, a seconda dell'intrinseca forza comunicativa dell'oggetto, tale trasmissione di informazioni sarà più, o meno, percepibile dal visitatore. In un ambiente reale, quello dove si svolge l' esposizione, l'oggetto esprime un linguaggio potenziale . Il progetto scenografico ha il compito di creare un ambiente immaginario atto allo svolgimento di una rappresentazione teatrale (o cinematografica o televisiva). In un luogo virtuale, in quanto «ideale», l'oggetto ivi collocato esprime una comunicazione simbolica. Impoverito nel suo reale valore d'uso, il suo rinnovato significato è nutrito dall'azione rappresentativa, autorevole ma fittizia. La relazione con la figura umana è, ancora una volta, come già nell'arredamento, diretta ma, in questo caso, illusoria. La scala di riferimento dei valori fruitivi ed esistenziali è infatti un'altra: possibile, probabile ma non reale. Essa cesserà, infatti, di esistere con la fine della rappresentazione. L'oggetto d'arredo potrà ritornare a vivere solo nella memoria dello spettatore, grazie al valore simbolico che 46 egli gli ha attribuito, così come l' «immagine » allestiti va
può sopravvivere nel ricordo del visitatore di una mostra. Con la differenza che, in genere, l'impianto scenografico valorizza su tutto il gesto dell'attore, la comunicazione ad personam fra recitanti e pubblico, mentre l'allestimento si fonda sullo sviluppo esplicativo della conoscenza, tramite le icòne oggettuali. Proviamo ora, per chiarezza didascalica, a rapportare quanto detto a un esempio assai noto, traendo le mosse da un'affermazione di Edmund Kean (1787-1833), celebre attore romantico, fra i maggiori interpreti del suo tempo dell'opera di William Shakespeare , per il quale «la scena è una illustrazione rivolta ali' intelletto». Consideriamo cioè i tre settori fenomenologici sinora esaminati - arredamento, allestimento espositivo e progetto scenografico - come altrettante immagini rivolte all'intelletto . Serviamoci , per fare ciò, proprio di un'illustrazione pittorica, il San Girolamo nello studio di Antonello da Messina. L'opera. come è noto , appartiene a un particolare momento culturale della storia dell'arte . La famosa tavola su legno è stata dipinta intorno al 1470 e dichiara l'influenza fiamminga sul linguaggio del messinese, dopo la lezione appresa a Napoli dal maestro Colantonio . Attenzione al dettaglio e nitidezza prospettica ne sono le caratteristiche più notevoli. Leggiamola, però, nel suo significato illustrativo, appunto, e attraverso la variabile della contestualizzazione . Il dipinto rappresenta un uomo (nelle vesti del santo studioso Girolamo), seduto a un «descho» per scrivere di origine medievale . La tavoletta inclinata, in uso anche in epoca rinascimentale, per svolgere l'attività di scrittura e di lettura, ha qui anche un carattere ambientale: è infatti compresa in un arredo a misura d'uomo. Nel dipinto antonelliano l'oggetto d'arredo coincide con l'oggetto d'uso ma, soprattutto, circoscrive lo studioso, lo ripara non solo fisicamente (dalle correnti d'aria, dal freddo del pavimento) ma anche psicologicamente, rispetto all'interno architettonico in cui si trova inscritto il mobile. Scrive Georges Perec in proposito: lo spazio intero [della cattedrale] 47 s'organizza intorno a questo mobile 5 .
Lo stesso oggetto, invece, se osservato secondo il punto di vista dell'allestimento, perde la sua connotazione fruitiva e ambientale e si trasforma in supporto espositivo. L'oggetto in mostra non è, però, il mobile in sé per sé, quanto il libro che esso sostiene e contiene - aulico simbolo di una cultura umanistica coltivata in solitudo 6 , prima privilegio ecclesiastico, poi anche laico, decantata da Francesco Petrarca. Continua, nella descrizione del dipinto, Perec: e il mobile intero s'organizza intorno al libro 7 • Certamente quello delle Sacre Scritture. Eppure il medesimo elemento, traguardato da un ulteriore punto di vista, può essere addirittura interpretato come un praticabile teatrale. Ce lo chiarisce Praz, quando afferma che quello di Antonello è a mala pena un interno: è piuttosto un palcoscenico in cui il santo posa, spiando con la coda dell'occhio se il pittore stia per deporre i pennelli 8 • In altre parole, sembra che sulla scenografica impalcatura si stia svolgendo una scena madre, cristallizzata dalla mano del pittore: il cardinale Nicolò Albergati (nell'ipotesi identificativa di Erwin Panofsky) ha indossato, come un attore, i panni di San Girolamo e, immobile, fingendo di leggere l'ultima pagina del libro sacro, attende l'applauso finale dei contemporanei. «A scena aperta», come si suol dire. L'oggetto, in questo caso, non è più un arredo ma un piedistaUo ovvero il supporto materiale del1' azione teatrale. Concludendo la traslitterazione visiva qui proposta, quasi a mo' di gioco dadaista, vuole evidenziare quanto il valore semantico dell'oggetto d'uso/oggetto d'arredo sia imprescindibile, se considerato in un'ottica contemporanea, dalla mutua relazione che esso instaura fra i tre campi fenomenologici indicati. Non si tratta di una nebulosa equivocità ma di reciproca corrispondenza di significati: i tre campi dell'arredamento, dell'allestimento e del progetto scenografico racchiudono, nella nostra visione, quell'ambiguità semantica necessaria all'utilizzo simbolico-reale degli stessi e degli oggetti che a essi si rapportano.
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Si riprende qui l'espressione usata da C. Franzoni in Le collezioni rinascimentali di antichità , in AA.VV ., Memoria dell'antico nell'arte italiana, Einaudi, Torino 1984, voi. I, p. 307. 2 La tecnica del «punto di vista» . affinata da Henry James nella produzione le tte raria più tarda (per esempio in racconti lunghi come The T11m of the Screw. 1898, e The Figure in the Carpet, 1896, o in romanzi come The Spoils of Poylll on , 1897, e The Sacred Fount, 190 I), precisa il ruolo del narratore , interno a una vicenda, dalla cui limitata visuale vengono pre sentati i fatti . A ciò va aggiunta la «progressione scenica» delle sequenze narrative, mutuata dall'interesse di James per il teatro . Questi metodi davano luogo all'impersonalità del giudizio e aprivano. d ' altra pane, le pone al mistero o all'ambiguità. Si tratta , in altre parole . di una visione relativistica dello strumento narrativo. Cfr . H . JAMES, The Art of Nove/. Criticai Prefaces (postumo, 1917) , trad . it. Le prefazioni, a cura di A. Lombardo, Neri Pozza, Venezia 1956, Editori Riuniti, Roma 1986. 3 Cfr. R. DE Fusco, Per una teoria dell'arredamento, «Casa Vogue», n. 150, mar.lo I 984, pp. I 98-199; Io., Storia dell 'arredamemo, UTET , Torino 1985. p. I. • PH. HAMON, Exposirions. Littérawre et architecture du XIXème siècle, s.e., Paris 1989, trad. it. Espo s izioni . Letteratura e architettura nel XIX secolo, Clueb, Bologna 1995, p. 14. 5 G. PEREC, Espéces d 'espaces, Editions Galilée, Paris 1974, trad. it. Specie di spazi, Bollati Boringhieri, Torino 1989, 1996, p. 106. 6 Cfr. F. PETRARCA, De vira solitaria ( 1346-1366). ediz . italiana con testo latino a fronte , Mondadori , Milano 1992 . 7 G. PEREC, op. cit., p. 106 . 8 M. PRAZ, u, jìlosojìa dell 'arredamelllo ( 1945) . / mutamenti nel gusto della decorazione illlenia attraverso i secoli dall 'antica Roma ai nostri tempi, ed. ampliata Longanesi & C. , Milano 1964 , p. 95.
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Moda e design: complicità e antagonismi CRISTINA MOROZZI
La moda estiva è una moda solare; da questa moda solare è molto probabile che si sviluppi una moda futurista, cioè un vestire vivace, colorato, più semplice, più pratico di quello attuale ......... Ci vuole più colore, più gaiezza disinvolta, più dinamismo e meno grigiume, meno staticità, meno dignità prudente ed inamidata, meno scetticismo pessimista riguardo il problema del vestire moderno. Così scriveva nel 1935 nel suo «Manifesto per una moda solare» il futurista fiorentino Ernesto Michaelles, in arte Tayat, pittore, scultore, designer d'arredi e stilista. Tayat, cui il Museo del tessuto di Prato ha dedicato una mostra retrospettiva (15 dicembre 2007-14 aprile 2008), fu l'inventore della tuta, pubblicata nel 1920 sul quotidiano fiorentino «La nazione» assieme al relativo cartamodello e dei sandali con gli occhi che si faceva realizzare da un calzolaio fiorentino in cuoio naturale. Quei sandali, che ancora oggi sono l'uniforme dei bambini in età scolare, attrassero l'attenzione di Elsa Schiapparelli che lo volle a Parigi come suo collaboratore. Il poliedrico artista Tayat, a differenza dei futuristi come Balla e Depero, che pure si cimentarono nell'abbigliamento, partecipò attivamente alla nascita di una moda moderna italiana, impegnandosi, a esempio, nel 1928 nella campagna nazionale per il soste50 gno al cappello di paglia, in veste non solo di stilista, ma
anche di organizzatore della comunicazione pubblicitaria. Quindi nel 1929 iniziò a collaborare, sin da primo numero, al periodico «L ' Industria della moda», la rivista della Federazione nazionale fascista del)' industria dell'abbigliamento , dando suggerimenti pratici, illustrati da tavole chiare e funzionali. Fu sostenitore del collegamento delle idee artistiche con l'industria, cimentandosi in creazioni che un issero l'estetica alla praticità, adatte a rispecchiare nella semplificazione radicale della linea la nuova modernità . li suo non fu solo un impegno teorico-ideale al pari di quello dei costruttivisti russi. La sua tuta, indossando la quale si compiaceva di farsi fotografare calzando gli immancabili sandali con gli occhi, era molto più portabile di quella di Rodchenko, tanto che contagiò le intrepide signore della buona società fiorentina, come la marchesa Nannina Fossi Rucellai, che andava ai ricevimenti in tuta colorata. Sulla rivista dava, con buon senso, indicazioni prat iche per il guardaroba stagionale corredate di figurini, da giornalista di settore, più che da artista : contro i venti di marzo proponiamo un cappottino di taglio rettilineo con pelliccia nera al collo e bianca davanti, tasca unica a toppa. Il tessuto può essere un misto spinato, o meglio una flanella di colore vivace (primavera 1929). Non pensava Tayat che occuparsi di moda fosse disdicevole per un artista. E neppure che disegnare tessuti e manifesti pubblicitari (lavorò anche per l'atelier Vionnet) fosse un• arte secondaria . Anzi nella moda mise la sua verve e il suo acume, esemplari, a tal proposito, i suoi «guanti cennatori» per auto, in pelle bicolore, realizzati dalla ditta Ugolini di via Tomabuoni a Firenze. Con essi, scriveva Tayat, il cenno rapido del conducente, dato istintivamente con la mano al momento opportuno, viene amplificato e reso più visibile a distanza, risultando chiaramente distinguibile anche attraverso i vetri di una vettura chiusa" ( «Industria della moda» agosto 1929) . 51
Lo stilista Paul Poiret, non fu solo sarto, ma anche decoratore, creatore di arredi e tappezzerie e scenografo di mirabili feste nel suo lussuoso palazzo parigino di rue D' Antin. Memorabile fu quella del l 9 l l La mille et deuxieme nuit, apoteosi dell'orientalismo. Non si sentiva Poiret prestato al design, ma operava come artista totale per creare una sorta di tota/ living: abiti e ambienti accordarti sulla medesima tonalità. Pensava che l'abito fosse l'accento di quel decoro che la vita doveva possedere e inseguendo questa sua visione megalomane dilapidò tutto il suo patrimonio. Anche Salvatore Ferragamo, il calzolaio delle dive, della cui Maison quest'anno si celebrano gli ottanta anni, ragionava da designer, nutrendosi delle contemporanee esperienze artistiche (futuristi), studiando l'ergonomia del piede e inventando forme nuove, come nel 1936 le scarpe Il con la zeppa di sughero. Scrive nella sua autobiografia calzolaio dei sogni (1957, Gorge G . Harrap, London) io scelgo tra i molti modelli che mi si presentano alla mente, generalmente quelli che risultano in armonia con il corrente indirizzo della moda, ma talvolta anche qualche modello che precorre il tempo, perché a un creatore deve essere consentito di creare; egli non deve soffocare le sue idee solo perché il mondo non è ancora pronto ad accoglierle. Delle scarpe di Salvatore Ferragamo si fanno le riedizioni, come degli arredi. Quelle realizzate per Audrey Hepbum, Greta Garbo, Brigitte Bardot o Evita Peron, oggi di nuovo in vendita in serie numerata nei negozi più importanti del marchio, si rivelano assolutamente contemporanee, come lo sono le sedie di Yerner Panton rieditate da Yitra. Miuccia Prada coltiva le arti, sia come proprietaria dell'omonima Fondazione, sia frequentando architetti e designer, Rem Koolhaaas e il gruppo Orna in particolare. Saccheggia stampati d'arredo anni cinquanta, sessanta e settanta e li reinterpreta in altri materiali e colori per le 52 sue collezioni. Lo stilista inglese Alexander Mc Queen e
il designer olandese Tord Boontjie hanno fatto un sodalizio per vestire sedie e poltrone con gonne e corsetti. Mentre Paul Smith, signore dello stile made in England, proprietario a Londra di un negozio d'arredo dove vende sedie d'epoca vestite con i tessuti delle sue collezioni moda, ha abbigliato nel 2002 la linea Mondo di Cappellini e si diverte a customizzare le sedie attorno ai tavoli da pranzo, infilando sulle spalliere le sue camicie rigate con le maniche legate dietro la schiena. Maurizio Galente, stilista d'haute couture, ormai opera a tutti gli effetti anche come designer. È consulente del MUDAM del Lussemburgo e ha creato per Mussi nel 2007 tende origami in tele vela e tavoli decorati di frange, trasferendo i suoi virtuosismi dall'alta moda al design. Antonio Marras, Io stilista di Alghero abile nell'introdurre i sedimenti della cultura sarda e il saper fare tradizionale in una moda contemporanea, densa di emozioni, al disopra delle tendenze, allestisce personalmente i suoi spazi, rivelando uno speciale senso del decor. Il lavoro sul confine tra le discipline di Galante e Marras chiama in causa le collezioni casa, o meglio home, come vengono definite nel gergo della moda sempre più inglesizzato. Sempre più numerose, ultima in ordine di tempo quella di Kenzo (gennaio 2008) d'ispirazione vagamente orientaleggiante, sono, per lo più, abili operazioni commerciali . I marchi per sopravvivere devono allargare il loro raggio d'influenza. Quindi, dopo profumi e cosmetici, è la volta della casa. Si parte dal tessile per arrivare all'arredo , costruendo un /ife style completo che rafforza la percezione del brand. Siamo, però, nell'ambito del marketing guardato con sospetto, sovente a ragione, dal design. Forse molta della diffidenza verso questi sconfinamenti dipende da queste operazioni che , nella maggioranza dei casi prendono a prestito un nome per dare smalto a collezioni commerciali create da equipe interne alle aziende . Andando a ritroso si può citare l'impegno nel disegno dell ' abito degli Archizoom (Dressing design) che nel 1972 parteciparono anche alla 53
sfilata ÂŤModa mareÂť a Capri. Ma erano provocazioni teoriche lontane dalle logiche del sistema moda. Della moda agli Archizoom interessava la carica sovversiva d'immediata percezione e l'ipotesi di semplificazione costruttiva dell'abito . Immaginavano di rivoluzionarla a loro modo, ma non di frequentarla per rubarle perizie esecutive e segreti. Enzo Mari ha disegnato ricami floreali per le tovaglie in lino di Zani&Zani. L'ha fatto quasi in sordina, sebbene con il disegno tessile avesse acquisito dimestichezza, quando nel suo primo periodo artistico disegnava foulard per i setifici comaschi per, come comunemente si dice, sbarcare il lunario. Si tratta, comunque e sempre, di episodi, da citare, proprio in quanto estranei alla normale prassi . Il design italiano moderno e contemporaneo ha sempre mantenuto le distanze dalla moda, quasi temesse di essere contagiato dal suo carattere effimero. L'ha sempre considerata una disciplina di serie B, carente sul piano teorico, troppo occupata a sedurre per essere credibile e affidabile. Anche le nuove generazioni la trascurano e l'avversano, sebbene l'idea di contiguitĂ tra le discipline creative risulti acquisita. Se la frequentano, c'entrano, come si dice in gergo calcistico, a gamba tesa, pensando di sovvertirne le regole, dimenticando, o volutamente, trascurandone l'aspetto seduttivo che, peraltro, sarebbe importante anche nel design degli oggetti d'uso. Si tappano le orecchie per non udire il suo canto adulatore e ne temono la componente artigianale, i virtuosismi e gli effetti superficiali. Si sta, invece, affermando una nuova generazione di progettisti, soprattutto olandesi, ma anche inglesi e spagnoli, piĂš liberi dal peso teorico della disciplina. Sono al lavoro designer che fanno gli artigiani, dedicandosi manuale, soprattutto alle arti femminili, nei loro studilaboratorio . Non da dilettanti, come agli inizi del ' 900 il gruppo inglese di Bloomsbury che annoverava tra i suoi 54 adepti Virginia Woolf e Vanessa Bell, ma da veri infatica-
bili professionisti, dediti a un perfezionismo, quasi ma niacale, che si esercita in realizzazioni sempre più com plesse. Marce! Wanders, noto designer olandese, art director di Moooi, piccola azienda olandese entrata nell 'orbita della B&B, si dedica al pret à porter vestendo i divani. Per la collezione Moooi boutique ha disegnato un divano basico, che cambia carattere a secondo dell'abito. E da vero stili sta si è occupato del suo corredo, inventando rivestimenti di broccato dorato, provenzali con tanto di bordure, di seta a pieghe morbide trattenute da piccole perle e persino di pelliccia bianca da principessa delle favole. L'abito si può ordinare anche su internet e nel giro di una settimana è in consegna. Ricamo, maglia, crochet, effetti couture sono gli in gredienti di molti progetti attenti, non solo alla struttura, ma anche all'abito che, come si conviene, deve essere decorato e seducente. Le sedie vestono gonnelle morbide, le lampade tessuti plissettati, i tavoli s'addobbano di frange e gli imbottiti osano pieghe lasche. Anzi, come nel caso di Volant, l'ultimo sofà di Patricia Urquiola, la designer di origine basca, italiana d'adozione, che impone ai suoi collaboratori di studio, anche uomini, di imparare il cucito, la maglia e il crochet, è l'abito che diventa struttura, irrigidito, come si usava per certe sottogonne, da un'esile gabbia metallica. Si deve proprio alla vena fertile di Patricia Urquiola, che non teme di indicare «nella fre schezza» una delle qualità del suo design, il consapevole ravvicinamento del design alla moda. Nella mostra «Pelle d'asino» (Verona, Abitare il tempo, 2006) dedicata alle materie del suo progetto, da lei orchestrata con grande fantasia, per sottolineare quanto la sartoria e le arti affini, come maglia, crochet e ricamo, siano importanti nel suo lavoro, aveva allestito una zona laboratorio con matasse di lana, fili colorati, aghi e spilli. Si trattava della metafora di una riconciliazione esemplare che ha ancora molta strada da fare. Pesano sul nostro design i divieti dei teo- 55
rici burberi, la predisposizione a isolarsi nell'abbraccio della disciplina, castrante, forse, ma protettivo. Meglio qualche paletto bien piantato, che la libertĂ espressiva offerta dalla moda. Meglio la parsimonia del design, che la prodigalitĂ della moda che dissipa stagionalmente una gran quantitĂ di stimoli.
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