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maggio 2017

numero 159

ÂŤCorporeaÂť alla CittĂ della scienza di Napoli - Mono-ha nel contesto globale. Poetiche e culture a confronto - Distruzioni e ricostruzioni a Berlino - Il tempo del tipo nello spazio del design - Libri, riviste e mostre


Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco

Comitato scientifico Philippe Daverio Kenneth Frampton Giuseppe Galasso Vittorio Gregotti Juan Miguel Hernández León Aldo Masullo Vanni Pasca Franco Purini Joseph Rykwert

Comitato redazionale Roberta Amirante Pasquale Belfiore Alessandro Castagnaro Imma Forino Francesca Rinaldi Livio Sacchi Alberto Terminio Segretaria di redazione Emma Labruna

Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 info: +39 081 7690783 - fax: +39 081 7705654 e-mail: rendefus@unina.it - elabruna@unina.it Amministrazione: 80128 Napoli, Via B. Cavallino, 35/G info: +39 081 5595114 - +39 081 5597681 e-mail: info@graficaelettronica.it Abbonamento annuale: Italia e 50,00 - Estero e 70,00 Un fascicolo separato: Italia e 18,00 - Estero e 25,00 Un fascicolo arretrato: Italia e 20,00 - Estero e 27,00 Grafica Elettronica


C. Giusti, M. Pica Ciamarra «Corporea» alla Città della scienza di Napoli 5 P. Fameli Mono-ha nel contesto globale. Poetiche e culture a confronto 16 G. De Martino Distruzioni e ricostruzioni a Berlino 26 V. Cristallo Il tempo del tipo nello spazio del design 40 Libri, riviste e mostre 54

Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Bruno Discepolo, Lorenzo Fiorucci, Jacopo Leveratto, Viviana Saitto, Alberto Terminio.



«Corporea» alla Città della scienza di Napoli CARLA GIUSTI, MASSIMO PICA CIAMARRA

Corporea è il primo museo interattivo in Europa interamente dedicato al tema della salute, delle scienze e tecnologie biomedicali e della prevenzione, recentemente aperto al pubblico nell’area occidentale di Napoli, a Bagnoli, dai primi del ’900 sede di uno tra i più importanti insediamenti in­dustriali del Mezzogiorno. In realtà, alla fine dell’800, per quest’area era stato immaginato un futuro diverso, in linea con una città che aveva allora grande fiducia nel futuro ed un importante ruolo internazionale: il sogno del “Rione Venezia” di Lamont Young che aveva progettato un grande polo turistico e balneare di respiro europeo infrantosi nelle beghe del consiglio comunale di allora. Qualche anno dopo, un ricco proprietario terriero, il Marchese Candido Giusso, realizza un ordinato quartiere residenziale – l’attuale abitato di Bagnoli – con l’ambizione di riportare in vita le antiche terme dalle quali ha origine la denominazione dei luoghi. Per sfruttare i benefici della legge speciale per Napoli del 1904, nella grande piana fra il quartiere Giusso e la collina di Posillipo, si decide di impiantare un polo siderurgico che per quasi tutto il secolo scorso ha stretto Napoli in una morsa industriale. Poi, negli anni ’80, la progressiva dismissione. E con essa, un quarto di secolo dissipato. Perché questo territorio – al confine con i Campi Flegrei – ancora oggi non ha una destinazione definitiva. La sola vera realtà di quest’area, un tem-

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po caratterizzata delle industrie, è Città della Scienza, invenzione della Fondazione Idis, una istituzione privata guidata da un visionario fisico, Vittorio Silvestrini, che nel 1993 acquista una fabbrica di concimi chimici ed attiva un articolato processo di ristrutturazione del complesso su oltre 7 ettari confinanti con il mare. Città della Scienza, si propone come un sistema complesso di sviluppo economico, basato sull’economia della conoscenza e sulla riqualificazione del territorio, le cui attività fanno perno su due fulcri: le funzioni espositive e di diffusione della cultura scientifica, da un lato, e quelle produttive e di creazione d’impresa, dall’altro. Attraverso queste due macro dimensioni funzionali, Città della Scienza, si propone come volano di sviluppo economico per il territorio del Mezzogiorno con la creazione di un ambiente culturale adatto ad una società democratica fondata sulla conoscenza. L’articolato progetto di recupero di grande scala evidenzia la doppia anima – esposizione/produzione – di Città della Scienza, e raccoglie, nella sua complessità, l’eredità delle radici storiche della fabbrica, con i valori positivi che essa racchiudeva. Corporea, in particolare, non è un intervento isolato ma un tassello del programma di riconversione industriale che si articola su circa 220.000 mc e 40.000 mq. di superficie utile. I sette ettari della Città della Scienza, estesi per 250 metri lungo la costa di Bagnoli, sono destinati ad una struttura educativa e informativa, luogo di incontro fra chi produce scienza e tecnologia e la società, con impostazione fortemente interattiva dell’offerta espositiva. Prima dell’intervento, l’area si presentava come una sacca industriale, tagliata in due da una rettilinea e anonima strada, via Coroglio, stretta tra due muri che si allungavano in un’area caratterizzata anche da altre fabbriche di impianti chimici e siderurgici, per chilometri nascondendo il mare alla città. Trasformare la separazione in unione, dare alla strada un senso di “cortile” – come, con ben altra forza, accade nel­la settecentesca Reggia di Portici, attraversata dal Miglio


d’Oro – significa avviare l’indispensabile saldatura fra disegno urbano e architettura. Nel tratto di 250 metri che attraversa Città della Scienza, via Coroglio si dilata il più possibile. Il terminale sud è scavalcato da tendoni di “viti maritate” e presenta una prima apertura sul mare. Il terminale opposto è definito da una aerea passerella pedonale (che vuole ricucire funzionalmente e visivamente le due parti dell’area di Città della Scienza) e un ampio slargo aperto sul mare. La parte di Città della Scienza verso il mare, ospita spazi espositivi, un ristorante e il Teatro Galileo con i suoi 250 posti, il percorso lungo le “Porte della Conoscenza” – opera di Land Art di Dani Karavan – che porta alla interna “piazza della musica”, nella quale spicca l’antica ciminiera, conservata dal progetto di recupero, che continua a mantenere il suo valore simbolico, estesa in altezza fino ad oltre 50 metri con una struttura in acciaio e vetro che assume carattere di “periscopio virtuale’. Alla base, il “buco del mondo”, l’illusione di vedere gli antipodi, ripresa da un’idea lanciata in altra occasione con Fred Forest. Dalla “piazza della musica” si accedeva al Museo Vivo della Scienza, il primo edificio di Città della Scienza, realizzato tra il 1998 ed il 2001, un importante esempio di restauro, distrutto da un incendio doloso nel 2013. Questo rappresentava, indubbiamente, l’edificio di maggiore pregio storico e la parte più antica della originaria fabbrica. Il progetto di restauro rispettava l’identità dell’edificio ottocentesco grazie al forte rapporto con il mare e alla conservazione delle sequenze prospettiche della copertura a cui contrapponeva l’articolazione plastica del suolo grazie a un sistema di piani inclinati e di percorrenze interne avvolgenti, quasi un “nastro di Moebius”. Il complesso ricercava “fratture” sui bordi: sul fronte mare per determinare una presenza del paesaggio esterno nello spazio interno, e sul fronte nord utilizzando lunghe vasche d’acqua e il prolungamento esterno delle capriate lignee di sostegno del tetto, che legavano spazio esterno e interno. Nella parte a monte di Via Coroglio spicca il secondo grande complesso di Città della Scienza, in funzione dal

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2003. Tale edificio è stato obbligato a conservare la sagoma esterna preesistente, un tempo magazzino della fabbrica di concimi. Interrotto da un ampio portico che ne consente l’attraversamento, questo imponente edificio comprende due tratti di galleria a molte altezze fiancheggiate dagli spazi del BIC (Business Innovation Centre), un complesso di aule polifunzionali di media dimensione, il corpo di fabbrica aggiuntivo che ospita gli uffici e termina con l’ampia sala del Consiglio. Lo Spazio Eventi rappresenta un ulteriore tassello funzionale del sistema Città della Scienza e si articola con varie sale di differente capienza tra cui spicca la “sala Newton” da circa 1000 posti caratterizzata da pareti di mattoni per l’assorbimento dei suoni e dalle capsule sospese delle cabine di regia e di proiezione. Grandi ruote di ferro e ingranaggi meccanici sono stati conservati e reinterpretati come testimonianze dell’originaria funzione industriale dello spazio. All’esterno si estende in spazi aperti aggregati alle funzioni interne e nella grande cavea per spettacoli all’aperto, di collegamento verso il più recente complesso di Corporea. In questo contesto e di fronte all’isola di Nisida, Corporea, il museo interattivo del corpo umano (5.000 mq. / 25.000 mc) rappresenta il terzo dei maggiori complessi edilizi della Città della Scienza. I suoi spazi espositivi sono organizzati su tre livelli in continuità visiva e spaziale; l’edificio si completa con un livello per uffici e un ultimo livello adibito ad area polifunzionale per eventi ed esposizioni temporanee1. Corporea è l’unico edificio interamente nuovo. La sua pianta è ad andamento trapezoidale e il complesso, nel suo insieme, va arretrando verso l’alto; ai piani alti, una serie di terrazze panoramiche filtrano lo straordinario paesaggio attraverso ampi “giardini verticali”. La grande copertura inclinata, predisposta per una rete di sottili collettori solari, è oggi ventilata e rivestita in lamiera di zinco titanio. La particolare sagoma dell’edificio apre la prospettiva verso la collina di Posillipo. Nel fronte verso l’interno di Città della Scienza, appaiono grandi spazi porticati a tre altezze ed una


facciata inclinata che inquadra la grande fontana al margine della cavea esterna da 1.500 posti per spettacoli all’aperto. Un volume apparentemente separato, a pianta circolare accoglie il grande Planetario 3D tra i più avanzati d’Europa. L’edificio può, a seconda delle esigenze, rappresentare un complesso autonomo o essere integrato al museo Corporea. La cupola, rivestita in titanio, è diventata un elemento architettonicamente connotante e rappresenta una nuova identità visiva sia per Città della Scienza che per il territorio. Trattandosi di un museo di nuova edificazione, l’architettura esprime l’identità formale e simbolica del museo stesso. I connotati immateriali sono importantissimi e rischiano di prendere il sopravvento per l’esigenza di ritracciare dei caratteri formali che possano rappresentare il museo, che siano riconoscibili, grandiosi e addirittura “sacrali. Ma Corporea non sente l’esigenza di una monumentalità di radice ottocentesca finalizzata, consciamente o inconsciamente, a provocare nei visitatori “un senso di piccolezza” rispetto alla grandezza della Scienza; non cerca una maestosità dell’architettura che definisca i suoi contenuti. Corporea sostituisce e riduce significativamente la volumetria che preesisteva in quel luogo con il duplice obiettivo di favorire l’apertura prospettica verso la Collina di Posillipo e di integrarsi nelle vigorose sistemazioni plastiche del complesso, con il “teatro all’aperto” che si lega anche allo “Spazio Eventi”. La centralità del visitatore e la componente emotiva Riprendendo un tema già positivamente sperimentato sia nella Biblioteca dell’Università di Salerno che nella sede della facoltà di Medicina e Chirurgia in costruzione a Caserta, nel Museo del Corpo Umano si entra dal livello intermedio. I visitatori hanno, quindi, la sorpresa di trovarsi in posizione baricentrica e centrale poiché l’accesso principale è in quota con la passerella pedonale che scavalca Via Coroglio, legando la parte verso mare con l’area a monte del Centro Congressi. In futuro questa stessa passerella condurrà alla fermata della Metropolitana. In ogni stagione,

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di giorno e di sera, arrivare dal mare costituirà un’esperienza unica per i visitatori di questo straordinario insieme museale napoletano. Percorrendo il Museo i visitatori hanno la sensazione di cogliere l’insieme e la totalità degli spazi, quanto c’è al di sopra e quanto c’è al di sotto. Lo spazio è unitario ma complesso, i tre livelli espositivi affacciano l’uno nell’altro generando prospettive inconsuete. La spazialità è dinamica, contrassegnata da una copertura ad andamento inclinato e da un sistema di trame e di materiali che caratterizzano le superfici delle pareti come nella grande superficie ad onda in mattoni che costeggia la rampa di collegamento tra il primo e il secondo livello, nelle campiture in vetro cemento, nei listelli di legno del sistema dei controsoffitti. Alla condizione di centralità fisica, in cui è calato chi entra in Corporea, corrisponde una centralità di comportamento del pubblico che può muoversi nei percorsi espositivi a suo piacimento e scegliere come visitare le dieci aree tematiche che raccontano il corpo umano attraverso gli organi e i sistemi che lo costituiscono2. Il percorso inizia dal sistema scheletrico-muscolare, che ci consente la postura eretta, e si conclude con il sistemacerebrale dove risiedono l’intelligenza, la creatività e la fantasia. La sequenzialità del percorso non è necessaria alla visita, il visitatore può scegliere la sua sequenza, aiutato ad orientarsi da una serie di grandi anelli colorati, sospesi e visibili nello spazio che rappresentano l’identificazione delle sezioni. In Corporea possiamo indagare le componenti che costituiscono l’organismo umano ma soprattutto capire la complessità della rete di relazioni che esiste tra queste componenti. Nel nostro contesto culturale, ricco di segni e denso di informazioni, è frequente provare uno smarrimento, un senso di caos e di impotenza che ci porta a ricercare desideri talvolta privi di consistenza e di esperienze dirette. Questo ha spinto a rintracciare dei livelli di informazione che si muovono su un binario interattivo ed esperienziale che attraversa l’esposizione integrandosi sinergicamente con la-


boratori didattici, momenti di incontro e di dibattito, così da fornire prospettive diverse, dinamiche e partecipative. Corporea vuole educare alla cultura individuando legami sociali e di pensiero in cui i visitatori possono sperimentare, farsi domande e cercare risposte ad esempio sui rapporti che intercorrono tra corpo, salute e stili di vita, sul funzionamento del corpo stesso o ancora sul progresso tecnologico e sui temi etici. Il ruolo del visitatore/osservatore, si arricchisce dei connotati del visitatore/regista, che organizza la sua esperienza di visita, e con quelli del visitatore/performer che agisce “entrando nell’exhibit”, inserendo, ad esempio, i propri dati nell’esperienza che si calibra rispetto a lui. Il visitatore si trasforma in avatar per sperimentare i muscoli e le ossa coinvolti nel movimento o assiste a come alcune piccole sfere salteranno azionate del battito del suo cuore; comprende come è regolata la propria temperatura corporea, e quale sia il rapporto tra pulsazioni cardiache e pressione arteriosa attraverso una virtuale corsa in bicicletta nell’isola dell’equilibrio termodinamico del corpo. Il coinvolgimento dei visitatori non vuole essere solo fisico, ma anche manuale, mentale ed emotivo, riprendendo e ampliando il “museo totale” di Jorge Wagensberg. Un museo interattivo per indagare il corpo umano e la conoscenza sul corpo umano, che sia hands-on, mind-on e heart-on. La componente emotiva, quindi, risulta essenziale in quanto è dimostrato che essa influenza significativamente le attività razionali; “sapere ma non sentire” non serve, come si è evidenziato con “l’infelice condizione di Elliot”3 che a seguito della rimozione di una massa tumorale era diventato incapace di provare emozioni e aveva perso la capacità di prendere decisioni trascorrendo intere ore a valutare, in modo inconcludente, azioni alternative anche banali. Corporea si propone come un “ecosistema esperienziale” che coinvolge il visitatore in un ciclo emozionale, suggerendo spunti di riflessione, e mescolando una serie di compiti, attività e stimoli diversi. L’allestimento nel suo insieme4, gli exhibit e le espe-

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rienze proposte permettono di “vedere” e “sentire” in maniera coinvolgente, utilizzando più canali percettivi come ad esempio nella postazione i “rumori del corpo” dove è possibile ascoltare una campionatura dei rumori del nostro organismo o ancora nelle postazioni tattili e sonore, distribuite in tutto lo spazio espositivo, con un’attenzione al design for all e all’inclusione delle diversità (differenti abilità, differenti età dei visitatori e differenti modalità di vista). Il principio della relazione tra le parti

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La nuova costruzione è stata progettata fra il 2004 ed il 2006 proponendo una modifica dello strumento urbanistico che anche in quel luogo prevedeva la conservazione delle volumetrie esistenti. La diversa articolazione plastica della sostituzione edilizia non solo ha aperto nuove prospettive intrecciando un paesaggio straordinario, ma ha anche consentito di pervenire alla continuità dialettica fra l’articolazione plastica del teatro all’aperto ed il fronte del nuovo edificio che tende ad inclinarsi verso di esso, integrando costruito e non-costruito in una inedita continuità. Lungo la strada, via Coroglio, il principio di continuità è affidato all’andamento fortemente sinuoso del fronte, protetto da una fitta sequenza di sottili brise-soleil in cotto e che si innalza da una piccola ma turbolenta fonte d’acqua verso i “giardini verticali” che filtrano il cielo nelle zone più alte. In sintesi, nessuna parte del nuovo edificio appare definita in sé, ma sempre come frammento di un contesto più ampio che include le articolazioni plastiche alla base, il paesaggio architettonico realizzato qualche anno prima, il paesaggio naturale da captare e rendere parte integrante dell’artificio. Anche, a livello espositivo, si cerca di superare l’informazione monodirezionale per proporre una comunicazione pluridirezionale. Così come avviene nel nostro corpo, organizzato per sistemi che comunicano sia al loro interno che tra loro, il sistema informativo del museo è organizzato in aree che sono autonomamente significative ma organicamente integrate; alcune postazioni informative, distribuite


lungo il percorso hanno proprio il compito di descrivere il sistema indagato da un punto di vista anatomico, funzionale e di evidenziare le connessioni che ci sono tra questo e gli altri sistemi. Il percorso di visita si snoda in uno spazio unitario, articolato con setti ad andamento curvilineo ma non frammentato. Exhibit interattivi, esperienze di realtà virtuale, installazioni multimediali e laboratori sono gli strumenti che consentono ai visitatori di mettersi in gioco e sperimentare direttamente su se stessi alcuni dei fenomeni, anche complessi, che coinvolgono il corpo. Il risultato auspicato del progetto espositivo consiste nel trovare un equilibrio tra esigenze ‘apparentemente’ contrastanti: da un lato, stupire e stimolare i visitatori e, dall’altro, fornire loro informazioni corrette e utili. Come nel viaggio in 4d all’interno di un vaso sanguigno, in cui si scopre la complessità del sistema cardiovascolare. O ancora attraverso il robot interattivo Felix, che introduce al sistema endocrino capace di riprodurre le espressioni del viso del visitatore – imitando il meccanismo dei neuroni specchio. La ricerca di più punti di vista e di più passaggi temporali Pur essendo una forte articolazione di elementi diversi, la nuova costruzione sorprende per la sua unitarietà, per un sommesso affermare che in quel luogo c’è sempre stata, perché si mostra come parte integrata con quanto la circonda. Oggi è quasi da scoprire il suo punto di accesso principale: sembra sia appositamente da raggiungersi in alto, ma nel sistema generale – attualmente purtroppo incompleto non essendo ancora ricostruito l’edificio incendiato nel 2013 – lo spazio d’ingresso apparirà logico, naturale e proseguirà in un percorso interno che avvolge tre livelli partendo da quello intermedio. Qualsiasi oggetto non si coglie con un solo punto di vista, come osservava Husserl. Corporea, nel suo esterno e nel suo interno, nega la possibilità di essere interpretato come “oggetto”: la sua ambizione è di rappresentare una continuità di variazioni, una sequenza di sor-

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prese integrate con la morfologia degli spazi esterni, e tali da apparire serene e quasi naturali. “La credenza che la realtà che ognuno vede sia l’unica realtà è la più pericolosa di tutte le illusioni”. (Paul Watzlawick): in Corporea non viene proposta una verità immobile ed assoluta ma una pluralità di realtà e più punti di vista. Anche l’oggetto stesso della mostra e del racconto non è “il corpo” leonardesco, maschile, immutabile e perfetto, ma “i corpi “intesi come sistemi biologici complessi, differenti per genere, per età, per condizioni, con equilibri mutevoli, che si adattano a seconda delle esigenze ed entrano in relazione tra loro e con l’ambiente esterno che li circonda. La pluralità viene anche esplicitata con incursioni di momenti temporali differenti che provengono dal passato e si proiettano nel futuro. Tracce del passato sono riscontrabili nei reperti delle collezioni storiche del territorio che trasversalmente attraversano l’esposizione, con reperti storici di grande interesse, alcuni arti pietrificati, cere anatomiche o frammenti di pelle tatuata5. Le aree espositive si completano con spazi per esposizioni temporanee dedicate alla tecnologia e alla ricerca. Alcune postazioni con stampanti digitali tridimensionali e l’esposizione di ricerche avveniristiche in corso, quali quelle di bioingegneria per la creazione di Organi-on-Chip, per lo studio della tossicità e della efficacia terapeutica dei farmaci, o quelle sull’intelligenza artificiale con l’esposizione della mano del robot iCub. Corporea estende il suo spazio fisico e costruisce ponti tra mondo reale e virtuale, si dilata in rete attraverso un “medium esplosivo aperto e mutante”, veicolo di connettività. Così comprendiamo come la rete stia scompaginando alcuni dei principi su cui si reggeva la nostra quotidianità. Corporea intuisce questo e si propone di sviluppare un ulteriore e più complesso ruolo dei visitatori che oltre a vedere, utilizzare, interagire, capire, diventano in prima persona produttori di contenuti e fonte di informazioni che, in futuro, potranno diventare strumenti di conoscenza. ‘Bob’ e ‘Tina’6 sono le espressioni palpabili di questa


potenzialità: una incubatrice e una protesi di mano artificiale, stampate in 3D Modeling, i cui progetti sono disponibili in open source e quindi riproducibili in qualsiasi contesto, soprattutto in paesi più poveri.

Progetto Pica Ciamarra Associati.   Ideazione e coordinamento del progetto di allestimento del Museo sono stati di Giuseppe Vittorio Silvestrini con Luigi Amodio, Carla Giusti e Angela Palma; supportati da un Comitato Scientifico presieduto da Gaetano Manfredi, Rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, e coordinato da Elio Marciano. 3  Antonio Damasio, neurologo portoghese oggi professore di Neuroscienze alla University of Southern California, racconta di un suo paziente (che chiama con lo pseudonimo di Elliot) operato di meningioma nel 1982 che a causa dell’asportazione del tumore, malgrado avesse conservato integre le sue capacità intellettive aveva perso la sua reattività affettiva ed emotiva: la sua lesione gli impedisce di “assegnare valori differenti a opzioni differenti” (Damasio, 1995). 4   Per lo sviluppo del progetto espositivo e la realizzazione è stata indetta una gara internazionale a cui hanno partecipato numerosi raggruppamenti. Progetto museologico e coordinamento generale degli allestimenti di Protom Group; progetto museografico di Grisdainese; exhibit interattivi di Archimedes. 5   Musei Prestatori che hanno concesso in comodato d’uso i reperti: Centro Musei delle Scienze Naturali e Fisiche dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, Museo di Anatomia Veterinaria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, Museo Universitario delle Scienze e delle Arti dell’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Museo delle Arti Sanitarie e di Storia della Medicina, Cortile Ospedale degli Incurabili. 6   L’incubatrice Bob e la protesi di mano Tina sono stati realizzati dal D.RE.A.M. FabLab di Città della Scienza e dall’Open BioMedical Initiative con il contributo di numerosi volontari. 1 2

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Mono-ha nel contesto globale. Poetiche e culture a confronto PASQUALE FAMELI

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Un perfetto accordo di soluzioni è venuto a stabilirsi intorno al 1968 tra il movimento italiano dell’Arte Povera, il fenomeno statunitense dell’Antiform e il gruppo giapponese di Mono-Ha: si radunavano infatti, sotto queste etichette, poetiche incentrate sul ricorso a materiali, organici e non, accumulati, accatastati o disseminati nell’ambiente, modalità rientranti nella prospettiva di quell’arte “microemotiva”, formulata nello stesso anno da Piero Gilardi, che poneva attenzione ai piccoli sommovimenti vitali della materia. Ma se Giovanni Anselmo, Jannis Kounellis o Gilberto Zorio arrivavano a quelle forme nella volontà di impoverire semanticamente l’opera, rifiutando ogni possibile codificazione culturale, riconducendo l’atto creativo a un processo fisico o chimico elementare, latore di energia vitale, Nobuo Sekine, Kishio Suga, Katsuro Yoshida o Katsuiko Narita vi giungevano sapendo di potersi porre nel solco del rapporto uomo-natura tipico della cultura giapponese in generale e del buddhismo zen in particolare. L’interesse recentemente manifestato in Italia nei confronti di Mono-Ha – si pensi a mostre come Prima materia presso Palazzo Grassi a Venezia nel 2013 e Mono-ha presso la Fondazione Mudima di Milano nel 2015, con ricco e monumentale catalogo – ha forse tentato di rimediare alla sporadica attenzione dedicatagli negli anni, nonostante già la Biennale di Tokyo del 1970, significativamente intitolata


Tra uomo e materia, avesse visto la partecipazione dei Poveristi italiani al fianco dei loro omologhi statunitensi e giapponesi. Questo evento sembrava poter suggellare la possibilità di una relazione tra le poetiche occidentali e orientali gravitanti attorno alle tendenze postminimaliste, antiformali e concettuali; al contrario, invece, la ricezione di Mono-Ha in Italia è stata piuttosto lenta e discreta. I primi segnali di un certo “poverismo” giapponese erano giunti da noi nel 1972 a Milano con una mostra intitolata Arte contemporanea del Giappone tenutasi al Palazzo della Società per le Belle Arti e dell’Esposizione Permanente. Tra gli artisti presenti avvicinabili all’Arte Povera (Noriaki Fukawa, Masafumi Maita, Morihiro Wada, Kintaro Fukuhara, Hiroyuki Iwano, Shuki Mizumoto, Takehiro Terada) non vi era però nessun esponente ufficiale di Mono-Ha: si trattava infatti di artisti poco più giovani di questi, che perseguivano soluzioni analoghe viste forse, dagli italiani, come tentativi isolati e disorganici di cogliere, un po’ in ritardo, certi fermenti internazionali. Prima delle tre mostre tenutesi in Italia tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta – Monoha. La scuola delle cose tenutasi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nel 1988, Avanguardie giapponesi degli anni 70 presso la Galleria d’Arte Moderna di Bologna nel 1992 e Asiana. Contemporary Art from the Far East alla Fondazione Mudima di Milano nel 1995 – l’unico segnale relativo all’esistenza di Mono-Ha e al suo tempismo era stato un articolo di Toshiaki Minemura apparso sulla rivista «Domus» solo alla fine degli anni Settanta in cui si ripercorrevano, in modo sintetico, la nascita e lo sviluppo del movimento nipponico. Pur riconoscendo la possibilità di un qualche vago accostamento di Mono-Ha alle coeve correnti dell’Arte Povera e della Land Art, Minemura criticava tuttavia la superficialità di una simile operazione, insistendo sulle differenze date dal carattere nazionalistico e genuinamente asiatico dei suoi fondamenti, accusando al contempo gli stessi artisti giapponesi di aver giocato sulle apparenze esteriori delle loro opere per ottenere consensi sul piano internazionale1. Dieci anni dopo Minemura, in oc-

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casione della prima mostra interamente dedicata al movimento giapponese in Italia, tenutasi a Roma nel 1988, avrebbe smussato le sue posizioni iniziali, ripensando il rapporto tra Mono-Ha e Arte Povera come proficuo ed effettivo, pur ribadendo le ovvie differenze etniche dei rispettivi esponenti2. A tutt’oggi la critica giapponese non sembra però aver accettato appieno la correlazione tra Mono-Ha, Antiform e Arte Povera, forse per il timore di un’assimilazione non paritaria che vedrebbe, e ingiustamente, il movimento nipponico come derivato degli altri movimenti internazionali. Si deve invece intervenire in difesa di una spontanea poligenesi di soluzioni, come spesso accade nel divenire degli stili e delle poetiche, di una risposta corale lanciata da più punti del mondo a un comune richiamo culturale ormai teso verso la globalizzazione. Se la semplice omologazione visiva tra gli esiti dei vari fenomeni non pare ancora sufficiente ad attestarne le sintonie, si potrà affrontare il problema entro una più ampia prospettiva culturologica, orientata a far emergere anche le profonde sintonie tra le poetiche e le teorie che le hanno animate, andando alla ricerca di quei motivi filosofici che ne hanno fondato le ragioni. Il caso di Mono-Ha va inscritto infatti nell’orizzonte di quella più generale relazione tra avanguardie e culture orientali stabilitasi nel secondo Novecento a partire da John Cage, il quale ha provveduto a rielaborare spunti e concetti del misticismo zen come presupposti di nuove poetiche dell’indeterminatezza o di una certa sensibilizzazione percettiva alla dimensione della quotidianità e a quella della natura, ponendosi brillantemente alle radici delle seconde avanguardie3. In quegli stessi anni il pensiero zen affascinava e influenzava anche molti autori dell’Espressionismo Astratto, da Mark Tobey a Franz Kline, come messo in luce da Helen Westgeest in Zen in the Fifties. Interaction in Art between East and West (1997) e, più di recente, da Valerie Hellstein nel suo Grounding the Social Aesthetics of Abstract Expressionism. A New Intellectual History of The Club (2010); simili influenze si radicano presto in tutta la cultura americana d’avanguardia ed emergono in


molte delle sue più diversificate manifestazioni, dalla Beat Generation a Fluxus. Negli anni in cui gli artisti di MonoHa rimeditano i presupposti del pensiero zen coniugandoli a linguaggi globalizzati, musicisti statunitensi come Philip Glass, Steve Reich, Terry Riley e La Monte Young compiono il percorso inverso ispirandosi al pensiero zen per arrivare al Minimalismo musicale. Proprio un confronto con Mono-Ha ci permette di rileggere quel fenomeno musicale sotto una luce diversa, portandoci a ritenerlo più vicino al concettualismo e all’arte processuale che non al suo omonimo artistico: bastano a dimostrarlo le idee contenute in Music as gradual process (1968) di Steve Reich, dove si chiarisce come l’attenzione alla musica in quanto processo non debba essere che un esercizio della nostra percezione ad andare oltre i rigidi schemi matematici alla base di molte convenzioni musicali occidentali. Simili considerazioni sono perfettamente in linea con la critica che Robert Morris, nel suo Antiform (1968), muove ai rigidi e monolitici schemi minimalisti che fino a qualche tempo prima aveva pure praticato: rifacendosi alla Fenomenologia della percezione (1945) di Maurice Merleau-Ponty, tradotta e pubblicata per la prima volta in America nel 1962, l’artista statunitense sottolinea infatti l’irriducibilità della complessità esperienziale alle troppo schematiche circoscrizioni gestaltiche di cubi e quadrati. Anche Nobuo Sekine, autore dell’opera inaugurale di Mono-Ha, Phase: Mother Earth (1968), accostabile a certe esperienze di Land Art, ragiona sul valore della processualità nell’arte: per l’artista giapponese, infatti, un’opera d’arte non è la conclusione di un processo ma il suo punto di partenza4, in una perfetta intesa con Reich e Morris. Come fa notare Renato Barilli già in testi quali Tra presenza e assenza (1974) e Al di là della pittura (1976), il Mi­nimalismo, l’Antiform, l’Arte Povera e tutte le esperienze concettuali cosiddette “mondane” trovano le loro ragioni epistemologiche nelle filosofie del corpo, della percezione e dell’esperienza variamente etichettate, a seconda dei casi, come pragmatismo, esistenzialismo, fenomenologia: filoni di pensiero incentrati sull’inestricabilità del rapporto tra

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l’uomo e il suo ambiente, naturale e culturale insieme. Mono-Ha sembra trovarle nel buddhismo zen, ma non manca neppure una forte radice esistenzialista-fenomenologica facilmente riscontrabile nelle poetiche dei suoi artisti e a tutt’oggi scarsamente messa in luce. Non poche sono, del resto, le corrispondenze riscontrabili tra il pensiero zen e la fenomenologia occidentale, come ha dimostrato Giangiorgio Pasqualotto con Il Tao della filosofia (1989), e forse proprio questo ha favorito la singolare fortuna di quel filone filosofico in Giappone, ben documentata nella Storia della fenomenologia (2012) a cura di Vincenzo Cimino e Antonio Costa. A questo proposito, risulta piuttosto significativo un dato, sinora alquanto sottovalutato, riguardante la formazione filosofica di Lee Ufan, teorico del movimento nipponico, e la sua tesi di laurea su Martin Heidegger e le premesse e gli sviluppi del pensiero esistenzialista5. Se pensiamo alle opere di Mono-Ha, alla poetica che le sostiene e al significato della sua etichetta (“scuola delle cose”), non può infatti non consuonare, per esempio, quell’affermazione del filosofo tedesco secondo cui la scultura sarebbe il farsi-corpo di luoghi che, aprendo una contrada e custodendola, tengono raccolto intorno a sé un che di libero che accorda una dimora a tutte le cose e agli uomini un abitare in mezzo alle cose6. Per Lee Ufan, promotore di una poetica del relatum, di un’indagine sui termini di relazione tra le cose, l’incontro è quell’istante di autocoscienza […] in cui l’individuo, trascendendo la propria condizione di “uomo”, è affascinato dal contatto con lo splendore del mondo e vive la sensazione di essere unito con il luogo7. È un’idea perfettamente compatibile con quella proposta, ancora sulla scorta di Heidegger, da Watsuji Tetsuro dell’uomo come ‘fra’ (aida) dinamico, calato nel con-esserci, nella morsa dell’intersoggettività; una concezione che appartiene storicamente alla cultura giapponese e che si rispecchia fedelmente anche nella pratica artistica, nella relazione tra il corpo e il gesto che lo fa emergere, come spiega Marcello Ghilardi nel suo Arte e pensiero in Giappone (2011), e che trova una sua significativa riedizione postmoderna nell’a-


zionismo pittorico del Gutai. L’emersione di Mono-Ha coincide inoltre con la pubblicazione, nello stesso anno, di un libro di Nitta Yoshihiro, di notevole risonanza, in cui il concetto husserliano di ‘presente vitale’ viene reinterpretato come il luogo di incontro più originario tra razionalità e natura. Si tratta dello stesso incontro che nelle poetiche di Mono-Ha, come in opere di Arte Povera (e di Kounellis in particolare), avviene tra moduli geometrici ed elementi organici, quella tensione di compresenza8 che Gilardi indicava come una delle condizioni necessarie e sufficienti alle poetiche di un’arte microemotiva. La componente esistenzialista di Mono-Ha, che ci permette una saldatura più resistente all’Arte Povera e ai suoi sostegni epistemologici, è espressa in modo particolarmente efficace da Kishio Suga, secondo il quale l’essere delle cose poggia sulla loro stessa evidenza: poiché le cose esistono ineluttabilmente, l’essere è, per Suga, la consapevolezza della presenza fisica stessa delle cose. Per l’artista l’unico modo di andare oltre lo spirito di creazione che domina le procedure più convenzionali del fare arte sta nel portare cose che “esistono” alla loro situazione estrema di “essere” passando dalla loro situazione consueta a una situazione del tutto nuova e diversa in cui ciascuna di esse è isolata9. Nonostante la dichiarata estraneità dell’autore alla filosofia occidentale, l’affermazione sembra riprendere con fedeltà uno dei fondamenti della fenomenologia di Edmund Husserl secondo cui l’isolamento di un dato oggetto, la sua messa tra parentesi, comporta sì un suo mutamento di segno10, ma ci permette al tempo stesso di averne una percezione assoluta, dotandolo di un indice mentale, e di coglierne l’essenza. Ricondotto alle modalità operative di Mono-Ha, questo pro­cesso si concretizza nello spostamento contestuale del­ l’elemento prelevato dal mondo che lo sospende da tutte le sue finalità pratiche, come operando un singolo recupero lessicale sciolto dalle sue consuetudini sintattiche. Suga porta un esempio strettamente assimilabile a quello di Husserl: si è soliti osservare e concepire un albero per la sua utilità (dare i frutti, ottenere della legna da ardere, della car-

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ta e così via) ma portandolo in una galleria d’arte è possibile svelarlo nella sua più genuina essenza, nel suo effettivo stato di esistenza. Scrive Suga: Prendiamo un tronco di legno: il farlo stare in piedi con un metodo qualsiasi differisce dalla situazione in cui esso si trova in piedi una volta cessato l’intervento umano. Il farlo stare in piedi, più che un’azione creativa è un mutamento del modo di essere originario della cosa; sarebbe forse più naturale che esso fosse disteso orizzontalmente, o sepolto nel terreno, o ancora spezzato. Il farlo stare in piedi, partendo dal presupposto che il tronco sta in piedi, può essere definito come un estrarre l’essenza del modo di essere delle cose che stanno in piedi, riducendola alle caratteristiche dell’azione umana del fare stare in piedi11. La filosofia occidentale incontra qui il pensiero zen: già Confucio, come sottolinea Lee Ufan, ha affermato che nell’osservare un legno o una pietra in quanto tali non si percepiscono affatto quel legno o quella pietra ma si accede a una sorta di universo impenetrabile12 che sta ben oltre i più comuni e convenzionali criteri classificatori: le invarianti si fanno strada nella percezione dell’artista al di là di ogni qualità contingente della cosa percepita. A proposito del ruolo della percezione nelle poetiche giapponesi di quel periodo è opportuno compiere inoltre alcune precisazioni. La critica giapponese ha di recente ribadito l’importanza di Jiro Takamatsu, una figura centrale del panorama artistico nipponico di quel periodo, nella genesi della poetica di Mono-Ha per via degli interessi percettologici che egli ha coltivato e tradotto in forma artistica già a partire dai primi anni Sessanta13. Tuttavia il problema della percezione nella poetica di Mono-Ha si pone in termini del tutto differenti rispetto a quelli di Tricks and Vision, esperienza artistica pressoché coeva che prende il nome dalla mostra curata da Yusuke Nakahara e da Junzo Ishiko presso la Tokyo Gallery e la Muramatsu Gallery nell’aprile-maggio del 1968 e che ha visto lo stesso Takamatsu tra i suoi esponenti. Gli artisti di Tricks and Vision non sono infatti interessati alla percezione in quanto canale di apertura al


mondo della vita, ma ai meccanismi e ai possibili inganni della percezione visiva, risultando per questo più vicini agli artisti optical, e proponendo tuttavia soluzioni differenti: anziché ricorrere a principi gestaltici, gli artisti nipponici sfruttano tecniche di trompe l’oeil per riproporre oggetti quotidiani, comuni e banali in situazioni metafisico-surreali. La problematica artistica di Tricks and Vision, al di là delle sensazionalistiche interpretazioni compiute dai critici giapponesi sull’opera di Takamatsu, si risolve perlopiù in giocosi espedienti di illusionismo ottico applicati a un oggettualismo di matrice pop. La partecipazione di Takamatsu a Mono-Ha vede quindi una radicale trasformazione delle sue pratiche ponendosi in un’ottica di rovesciamento e non di continuità rispetto alle sue precedenti esperienze. Un’opera come Oneness of concrete, del 1971, trova la sua ragione alla base di una dialettica tra la costruzione e lo sgretolamento, tra la durezza e la friabilità di un materiale, innescando quella tensione di compresenza che Gilardi riconosceva come una delle chiavi dell’arte microemotiva e che risulta attribuibile a varie opere di Kounellis o di Anselmo. Lo stesso si può dire di Light and Shadow (1970), in cui l’opaca durezza della lastra è come innalzata, alleggerita, dalla graduata intensità dei raggi di luce che si dipanano dietro di essa fondendola con la parete. La percezione viene quindi coinvolta nella sua globalità a esperire gli stimoli offerti dalla relazione dei materiali con l’ambiente. Toshiaki Minemura è stato molto risoluto nel liquidare l’esperienza di Tricks and Vision come mero intellettualismo, sostenendo oltretutto che Mono-Ha fosse emerso proprio in netta opposizione a essa, come già rilevato nel 1968, con perfetto tempismo, da Lee Ufan14. Un’ultima conferma delle più profonde relazioni tra le poetiche di Mono-Ha e quelle dell’Arte Povera in relazione a questioni di ordine fenomenologico ci arriva dal singolare caso di Hidetoshi Nagasawa, giapponese stabilitosi in Italia, dopo un lungo peregrinare, nell’agosto del 1967, un periodo assai significativo, a metà tra Lo spazio dell’immagine, evento folignate che già prefigurava gli esiti del com-

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portamentismo, e la mostra inaugurale dell’Arte Povera organizzata da Celant a Genova. Date alla mano, Nagasawa non aveva potuto osservare né vivere l’esperienza di MonoHa, ma certo poteva attingere dallo stesso bagaglio culturale, che gli ha permesso di innestarsi con grande naturalezza sulle coeve vicende poveriste. Pur risentendo fortemente della cultura zen nella strutturazione della propria poetica, Nagasawa ha subito provveduto a calibrarla su un orizzonte culturale ben più ampio, quello che vedeva sviluppare in Occidente un rinnovato interesse per la corporalità e la percezione in quanto chiavi esistenziali ma anche in piena sintonia con la poetica dell’incontro formulata da Lee Ufan. Il mio lavoro – afferma infatti Nagasawa – consiste nel cercare uno spazio di tensione all’interno degli oggetti ponendo l’intuizione come mezzo privilegiato, che riconduce a una dimensione antica e totale ormai dimenticata. […] A me interessa l’essenza degli oggetti al di sopra di qualsiasi identità di colore, forma, odore in cui si trova soggettivamente l’oggetto15. Ricorrere al tramite dell’intuizione per rintracciare l’essenza delle cose al di là delle loro datità particolari, di quelle che Husserl ha definito “qualità secondarie”, è un atteggiamento del tutto concorde con l’atteggiamento primo della fenomenologia nel modo in cui l’aveva formulata lo stesso filosofo tedesco, ma anche nel­ l’atteggiamento dell’artista poverista che, come afferma Celant, organizza le cose viventi o vegetali in fatti magici e lavora alla scoperta del nocciolo delle cose, per ritrovarle ed esaltarle16.

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1  T. Minemura, Mono-Ha e Post Mono-Ha, in «Domus», 596, LI, 1979, p. 45. 2  T. Minemura, Che cosa è stato il Monoha?, in M. Calvesi et al., Monoha. La scuola delle cose, De Luca, Roma 1988, p. 23. 3  G. Zanchetti, John Cage alle radici delle seconde avanguardie, Archivio di Nuova Scrittura, Milano 1993. 4  Y. Nakahara, From topology to phase, Tokyo Gallery, Tokyo 1969, [s.n.]. 5   Cfr. B. Bertozzi, Il linguaggio delle cose. Teoria e produzione artistica del gruppo Monoha, in M. Calvesi et al., op. cit., p. 22 n.


6  M. Heidegger, L’arte e lo spazio (1969), trad. it., Il melangolo, Recco 2000, pp. 33-35. 7  L. Ufan, Alla ricerca dell’incontro (1970), in M. Calvesi et al., op. cit., p. 76. 8  P. Gilardi, Microemotive Art (1968), in G. Celant, Precronistoria 1966-69, Centro Di, Firenze 1976, p. 51. 9  K. Suga, Oltre la situazione (1970), in M. Calvesi et al., op. cit., p. 82. 10  E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (1913), trad. it., Einaudi, Torino 1950, p. 282. 11  K. Suga, op. cit., p. 83. 12  L. Ufan, op. cit., p. 76. 13  N. Yasuyuki, Riesaminare Mono-ha, in A. Bonito Oliva, M. Aoki (a cura di), Mono-ha, Mudima, Milano 2015, p. 74. 14   Cfr. T. Minemura, Su Mono-Ha, in «Bijutsu Techo», 7, XXX, 1978, pp. 233-235 e N. Yasuyuki, op. cit., pp. 86-90. 15  H. Nagasawa, Nagasawa, in «Flash Art», 37, VI, 1972, p. 10. 16  G. Celant, Arte Povera, Mazzotta, Milano 1969, p. 225.

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Distruzioni e ricostruzioni a Berlino GIANLUIGI DE MARTINO

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Le problematiche che si devono affrontare oggi in presenza di un patrimonio culturale parzialmente perduto sono diverse, perché è la stessa consapevolezza della caratteristica di irriproducibilità di un bene che esorta a “conservare” tutto quanto è possibile. Inoltre, la diffidenza per le soluzioni di innovazione che in passato non hanno prodotto risultati accettabili fa sì che negli scenari post-bellici si cerchi di perpetuare la città antica in quanto testimonianza di una identità culturale che si voleva fare scomparire. Quasi mai tuttavia si accetta di conservare “ruderi” che sono il simbolo di questa perversa volontà e comunque sempre si propone la ricostruzione “com’era e dov’era”, che riguardo alle tracce di eventi bellici, dimostra di avere una indubitabile presa sulle coscienze delle popolazioni offese. Accingersi ad una trattazione relativa alle ricostruzioni a Berlino negli ultimi cinquant’anni porta rapidamente a diverse conclusioni: lo stato dell’arte è ricco di interessanti riflessioni svolte in ambito nazionale e internazionale e permette di confrontarsi con il pensiero e i punti di vista di numerosi studiosi di architettura e non solo; quasi contemporaneamente però ci si rende conto che la produzione scientifica è in costante evoluzione, non legata a particolari “momenti”, il che lascia intendere che l’attenzione dedicata alla Germania e, segnatamente, alla sua capitale attuale,


viene sempre tenuta desta per un processo di evoluzione continua e rapida1. Le nostre osservazioni riguarderanno l’approccio alle ricostruzioni a Berlino con particolare attenzione dagli anni sessanta del secolo scorso, essendo stato più volte e in maniera approfondita trattato l’argomento relativamente al­ l’im­mediato dopoguerra. È noto come la Germania a partire dalla fine del XIX secolo sia stata oggetto di numerosi piani di demolizione e ricostruzione. Una attenta analisi di questi fenomeni viene fatta da Philipp Oswalt2 che sottolinea come Berlino, in seguito al processo di industrializzazione, subisce una serie di demolizioni volute da Guglielmo II, come quella del duomo, già trasformato da Schinkel, per sostituirlo con un nuovo edificio. Allo stesso modo edifici di Philipp Gerlach, Andreas Schlüter, Heinrich Gentz e dello stesso Schinkel, cedono il passo a una serie di sostituzioni di età guglielmina che politicamente vuole lasciare il proprio segno sul volto della città3. Tutta la questione ideologica del secondo dopoguera è già perfettamente evidente, a maggior ragione da un punto di vista terzo rispetto alle vicende specifiche della Germania, se solo si consulta uno dei densi scritti di Giuseppe Pagano dalle pagine di Casabella del 1943. A guerra non ancora finita quindi, e con il grosso delle operazioni militari e soprattutto con uno scenario di distruzioni aeree ancora limitato rispetto a quello che si presenterà alla fine del conflitto, il commento di Pagano appare cinico e troppo realista per non essere interpretato come volutamente provocatorio, portando ad una accettazione del danno bellico quasi come una sorta di selezione naturale4. Le ragioni che animano il suo breve saggio sono programmaticamente chiare fin dal titolo e Pagano spera possano veramente farsi sentire in mezzo a tanto sconquasso di bombe e di parole. In particolare al punto terzo delle questioni sollevate – in ordine dopo l’esame dei materiali e dei metodi edilizi e dopo il problema della casa per tutti – affronta il restauro (dico “restauro”) dei monumenti e dei danni di guerra5. Le pre-

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occupazioni di Pagano ruotano non solo attorno alle ben più urgenti necessità delle popolazioni all’indomani della guerra che oramai sembrava volgere al termine, prima fra tutte quella della casa, ma arrivano anche al nocciolo della questione estetica ed artistica e cioè che già la scuola più accreditata e intelligente del restauro condanna il rifacimento come una persona morale ha schifo della bugia, come un uomo educato odia la bestemmia, come una signora elegante disprezza il gioiello falso. E non soltanto per ragioni etiche o per ragioni scientifiche di onestà archeologica tale procedura ha conquistato il mondo degli studiosi, ma anche per strettissime ragioni d’arte che stanno al di là del rispetto di una giusta valutazione degli accidenti storici. […] per ragioni d’arte che si immedesimano nella vita vera di un mo­numento e preferiscono vederlo mutilato sì, ma saturo ancora di genuini suggerimenti quando una cauta mano pietosa lo abbia curato nelle sue piaghe più gravi riducendolo a simbolo puro di “memoria”, a segno assoluto di “documento”6. Questo per quanto riguarda i singoli monumenti ancora intesi come aulici episodi danneggiati in tutte le città d’Europa, ma per quanto riguarda i tessuti urbani e le città storiche dove tali episodi sarebbero stati occasione di ricostruzioni per la borghesissima gioia di qualche beghina, arriva a ritenere meglio permettere che i bombardamenti contribuiscano, più o meno brutalmente, al problema di un vero e radicale diradamento edilizio, piuttosto che trasformare in seme di falsa cultura e di teatrale archeologia un provvidenziale vuoto nel groviglio delle vecchie città7. La storia e l’onestà intellettuale dello studioso mettono queste dichiarazioni al sicuro da accuse di post futurismo, anche se le conseguenze della guerra “sola igiene del mondo”8 sono state sfruttate sia nei settori a controllo sovietico che in quelli controllati dagli Alleati nell’immediato dopoguerra. Un interessante saggio di Irmela Spelsberg che già nel titolo Berlino. Restauro e progetti fra commemorazione storica e decontaminazione politica9, individua le problematiche affrontate nella ricostruzione fin dal dopoguerra, mette


in luce come il “restauro” di una città dipenda da molti fattori che vanno dalla conservazione delle stratificazioni nei fabbricati al desiderio di cancellare pagine tristi della sua storia. Alle istanze storiche ed estetiche che sono alla base della ricostruzione o del restauro dei centri storici, più che altrove, a Berlino si aggiunge l’istanza psicologica che tiene conto dei danni che non si vedono, ma che non sono inferiori a quelli prodotti dalle distruzioni ambientali10. Secondo Pane – che si riferisce proprio al periodo a ridosso della fine del conflitto – sarebbe utile che tale istanza si facesse precedere a quella storica ed estetica. Tanto più ciò ha bisogno di essere attentamente motivato per Berlino, dove, dopo il 1989, anno della caduta del muro, si trasferì da Bonn il governo; ed infatti il saggio della studiosa si conclude con una serie di quesiti non risolti. L’analisi degli interventi effettuati anche da grandi architetti fino ai nostri giorni, sia nell’ex Berlino est che in quella ovest, suscita dubbi sulla loro legittimità sia sotto il profilo culturale – della cultura del restauro – sia sotto quello psicologico. Ciò che emerge dalla trasformazione di Berlino è che in molti edifici monumentali quello che fino dagli anni Sessanta del Novecento viene definito l’incontro “antico-nuovo” è ben leggibile e soprattutto consente di individuare tutte le stratificazioni accumulatesi fino ai nostri giorni. Si rileva tuttavia che molti architetti conservatori si sono trovati spesso a dovere completare le antiche fabbriche e ad adeguarle alle nuove esigenze dettate dai cambiamenti politici. Il dibattito, spesso vivo e stimolante, intorno alle operazioni da effettuare, in seguito alle mutate condizioni politiche, ha messo in luce come sia difficile e problematico specificare la natura degli interventi che investono varie articolazioni dell’architettura alla quale il Restauro, con tutta evidenza, appartiene in modo naturale ed inscindibile11. Nel caso specifico della Germania, nazione in cui il restauro come disciplina universitaria non ha forse lo stesso impatto e articolazione di autonomia disciplinare che ha in Italia, sono proprio gli architetti incaricati dalle amministra-

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zioni o vincitori di concorsi internazionali che, a partire dal­ l’immediato dopoguerra, hanno trovato soluzioni sia architettoniche che urbanistiche che, prescindendo da atteggiamenti dottrinari propri delle teorie del restauro, hanno prodotto risultati talvolta condivisibili, altre volte da giustificare in funzione della eccezionalità degli interventi stessi. Basti citare, ad esempio l’edificio del Consiglio di Stato (Staatsratsgebäude, 1962-1964) nella cui facciata è stato inserito il portale settecentesco trasferito dallo Stadtschloss12. Anche a Berlino, in alcuni casi, come del resto è accaduto per molte città in Italia, in nome di una volontà ininterrotta di rendere meno evidenti le tracce – ferite della storia, ci si trova di fronte a ricostruzioni in stile, non sempre motivate nelle premesse e negli esiti, oppure a forme di “modernoambientato” che risulta essere uno degli equivoci del­ l’architettura, basato su un totale e, al tempo stesso, acritico rifiuto del contemporaneo. Tutto ciò porta alle paradossali ricostruzioni storicistiche mentre si demoliscono parti di tessuto storico. Questa casistica diversificata trova ovviamente, a seconda dei casi, sostenitori e detrattori; ciò che invece non trova nessuna giustificazione è la demolizione totale di testimonianze del passato, come quella che è consistita nella distruzione pianificata di quanto era ancora presente dei resti del castello, allo scopo di creare uno spazio per parate militari o manifestazioni politiche, oppure l’altrettanto discusso caso della demolizione dell’hotel Esplanade, che si trovava accanto al muro; dall’edificio è stata smontata la sala dell’imperatore Guglielmo II, per poi rimontarla in uno degi edifici moderni di Helmut Jahn. Adesso questo interno neobarocco, dopo essere stato meticolosamente smontato e poi ricomposto nel suo nuovo sito, si presenta come fissato nella gelatina, in un contrasto surrealista con l’architettura hightech in vetro e acciaio del tedesco americanizzato Jahn. La sala dell’imperatore è stata coperta in vetro e così appare come messa in vetrina13. Meno frequente è stata la soluzione neutra del mantenimento dei vuoti urbani, scelta che prevalse nel settore est di Berlino anche per una ottimizzazione dei fondi destinati


prioritariamente alla soluzione dell’alloggio per un impressionante numero di sfollati. Per la realizzazione dei grandi complessi residenziali, a partire da quelli sulla Stalinallee, furono impiegate tecniche sempre più industrializzate e unificate, secondo il principio di uguaglianza che doveva valere per tutte le parti della città e quindi di inserimento di quelle che sarebbero state aree periferiche, nel centro. Il processo, a seguito anche dell’adozione di prefabbricazione sempre più spinta, è arrivato alla realizzazione dei quartieri con i caratteristici corpi di fabbrica piatti, quelli che verranno chiamati Plattensiedlungen, e che dopo la riunificazione hanno posto il serio problema dello ‘smontaggio’ essendo questa operazione tecnicamente molto onerosa e socialmente quasi impossibile da gestire, comportando la “rilocalizzazione” di circa trecentomila abitanti14. Il controllo da parte della Sozialistische Einheitspartei Deutschlands anche (e forse soprattutto) sull’attività degli architetti e dei pianificatori, si rese necessario per la realizzazione dei Sechzehn Grundsätze des Städtebau, i sedici principî dell’urbanistica socialista, attraverso i quali doveva passare successivamente l’attuazione della ricostruzione delle città tedesche. La cronologia degli eventi è sufficientemete concatenata per spiegare la rapidità nell’escalation ideologica della nuova urbanistica e architettura della DDR15, stretta oltretutto tra l’ortodossia delle procedure e degli esiti architettonici delle realizzazioni, sempre in bilico tra le accuse di “formalismo” o di “cosmopolitismo” e l’aspirazione al ‘realismo socialista’, nel quale pure tanti sembrano, in buona fede, aver creduto16. Degli stessi principî si cercò dal primo momento una evoluzione che li rendesse meno “sovietici” e lo stesso Hans Scharoun, assieme ad Hermann Henselmann – architetto capo di Berlino Est – ne rimarcherà alcuni passi dal significato oscuro, pur non riuscendo però a formularne un effettivo superamento17. Dalla fisica separazione con la costruzione del muro – del quale si documentano tristemente anche le evoluzioni in

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sbarramenti di prima, seconda e terza generazione18, nonché le 136 vittime nei 28 anni di esercizio di questa barriera – la DDR si trova a dover fare i conti, oltre che con la amministrazione complessa di una città con evidenti problemi economici, anche con la propaganda occidentale cui rispondere in termini di successi ottenuti in tutti i settori, da quelli produttivi a quelli sociali e soprattutto culturali. E se le ultime campagne di demolizioni, sempre in seno all’ideologia di partito, avevano portato alla realizzazione di grandi spazi vuoti, come ad esempio al Lustgarten davanti all’Altes­ museum di Schinkel, che viene “liberato” dalla ingombrante mole dello Schloss – del quale, come già detto, viene conservato solo il ‘pezzo’ storicamente accettabile, sacrificando la restante parte simbolo di uno di quei “difetti” correggibili della storia – il loro riempimento o la riorganizzazione di tali spazi, saranno inseriti nella sequenza dei piani quinquennali nei quali veniva cadenzata l’attività amministrativa dello Stato. Ciononostante le demolizioni rallentarono in favore di pratiche secondo le quali uno degli aspetti più interessanti […] è la diversa considerazione che viene data alle strutture urbane esistenti ed al recupero del relativo patrimonio edilizio. Tanto per fare un esempio, a Berlino era stato inizialmente adottato l’indirizzo di demolire i vecchi quartieri e sostituirli con quartieri nuovi. […] Oggi (1979, NdA) non si pensa più a cancellare i vecchi insediamenti e si preferisce risanarli: infatti è in corso la progettazione di grandiosi interventi di ristrutturazione a Prenzlauer Berg ed in altre zone della città19. Gli spazi in cui far scaturire una reale azione di tutela si ridussero progressivamente, non essendo più la Denkmalpflege una attività di grande risonanza, o meglio gli sforzi, anche della sede centrale, di ottenere effetti “da centro storico” mediante modifiche dei sistemi di edilizia prefabbricata erano dettati da buone intenzioni ma non tenevano conto del concetto di monumento. In occasione dell’anniversario luterano del 1983 era in programma il restauro di monumenti commemorativi. Nell’ambito del


convegno dell’ICOMOS del 1984 a Rostok e a Dresda sono stati eseguiti alcuni restauri. Per l’anniversario di Berlino del 1987 si è deciso di stanziare gli ultimi fondi per l’edilizia per dare un aspetto presentabile ai monumenti del centro della capitale della DDR. Tuttavia, raramente la Denkmalpflege berlinese è riuscita a imporre i propri interessi; molto spesso prevalevano aspetti di rappresentanza dello Stato20. Grazie alla collaborazione dell’agenzia di informazione statale tedesco-orientale Panorama, si possono ricavare utili dati relativi alla percezione che, anche in Italia, si aveva della vita nella DDR. Viene affermato nell’editoriale di M. Romano che la RDT ha una situazione economica di gran lunga migliore degli altri (paesi del socialismo reale, NdA), fondata su un processo di industrializzazione ormai molto avanzato e su una seria razionalizzazione dell’agricoltura, che le ha consentito di conseguire nel concreto gli obiettivi che altri […] hanno per ora quasi soltanto enunciato21. Nella velocità dei fenomeni evolutivi della città di Berlino, il dibattito avviato tra gli anni Novanta del Novecento e i giorni nostri ha dovuto curiosamente inseguire gli eventi. Questa situazione ha colto impreparati per primi gli stessi amministratori tedeschi, abituati ad uno svolgimento decisamente più razionale, nel quale l’operatività ha sempre seguito lunghi momenti di riflessione ed elaborazione teorica. Gli stessi architetti incaricati delle opere di ricostruzione in quegli anni non hanno trovato il tempo per scrivere un documento su ciò che stavano facendo o per avviare una discussione profonda, mentre l’accelerazione degli eventi incalzava22. Tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta del Novecento, l’attenzione al tessuto urbano assume anche ad ovest una particolare valenza. Fuori dalle vicende di massiva ricostruzione di Berlino orientate quasi esclusivamente da capitale privato, ci sono architetti – basti citare Oswald Mathias Ungers – che non realizzano molte opere, ma cominciano a ragionare sulle diverse opzioni offerte dal

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rispetto della materia urbana esistente. Da entrambe le parti – scrive Ungers23 – si fanno saltare in aria i valori della città storica al fine di creare spazi liberi per il “nuovo”, e così si va avanti. C’è un bisogno continuo di nuovi spazi liberi da sfruttare, e così si prosegue nell’opera di distruzione, lasciando tutto in rovina. Si continua a progettare e a demolire sulla Alexanderplatz, sulla Potsdamer Platz, nelle aree centrali, presso il Lehrter Bahnhof, nella Friedrichstrasse, lungo lo Spreebogen e chissà in quanti altri luoghi […]. La storia, la tradizione, la continuità, il raziocinio sono concetti che, evidentemente, non possono essere assunti all’interno del piano. In occasione del 750esimo anniversario della fondazione della città, si comincia a lavorare per organizzare una esposizione di architettura, forse ricollegandosi anche al modello dell’Interbau del 1957, ma in questo caso, a trenta anni di distanza, concentrandosi sui processi di rinnovamento anzi “cauto rinnovamento” applicati a Berlino ed in particolare al quartiere di Kreuzberg24. È di J.P. Kleihues la locuzione “ricostruzione critica”, che nonostante un “rumore semantico” (almeno in italiano), vuole rappresentare una via che apra il dialogo tra tradizione e moderno, che cerchi la contraddizione del moderno non nel senso di una rottura, ma di uno sviluppo che rimanga visibile attraverso tappe spazio-temporali25. Dell’espressione si appropria H. Stimman26, facendone più che uno slogan, il vero principio generatore delle nuove proposte per il centro storico. Ne è nato un dibattito, portato avanti duramente e senza esclusione di colpi, tra coloro che aderivano alle tesi della Kritische Rekonstruktion, ovvero la ricostruzione della città nel rispetto della sua struttura tipologica, morfologica, che riproponeva l’edificazione perimetrale del vecchio impianto stradale e chi invece vi si opponeva totalmente. Il fenomeno di ricostruzione differita delle aree danneggiate e distrutte dalla seconda guerra mondiale è comprensibile e già più volte affrontato dal punto di vista dell’architettura e soprattutto nella diffusione sulla stampa speciali-


stica dei progetti più conformi alle necessità della comunicazione (di massa) relative all’architettura. Indubbiamente l’unicità del caso Berlino non consiste specificamente nella metodologia di intervento: si è visto come, nel ventaglio di opzioni del secondo dopoguerra, le ricostruzioni abbiano rappresentato quasi più una regola che un’eccezione; la evidente differenza della situazione si manifesta con il trattamento differito del problema di circa 50 anni. Se ad esempio è vero che il lavoro di recupero e catalogazione dei frammenti della Frauenkirche di Dresda era iniziato nel 1947, a dimostrazione della volontà di ricostruzione “a caldo”, è altrettanto vero che il “dopoguerra” della repubblica democratica è durato quarant’anni. La cancellazione delle ferite di guerra che si è perseguita, forse mira a coinvolgere altri tipi di ferite, cancellare altri ricordi spiacevoli. Ma le ferite erano già cicatrici e riaprirle per mostrare quanto sia facile chiuderle in questo modo, ha un significato prettamente politico, che coinvolge il mondo della cultura e anche le manifestazioni materiali di essa solo per affermare la vittoria di una “politica culturale” su di un’al­tra. Le monumentali impalcature con l’immagine delle fasi programmate dei cantieri, distolgono l’attenzione dalla sostanza dell’operazione per attirarla sulla sfida (tecnologica, cronologica, ecc.) che queste ricostruzioni devono rappresentare. Come è stato affermato da Augusto Romano Burelli nel­ l’articolo La ricostruzione critica di Berlino capitale, nei bandi di concorso per la ricostruzione degli edifici della Berliner Republik, dalle procedure invidiabilmente perfette, non s’è mai prescritto in che conto tenere la memoria dei luoghi e se questi dovessero partecipare a quel­ l’Inszenierung der Macht, per il quale l’architettura è la più pericolosa tra le arti. Si è fatto solo cenno al ruolo che la storia urbana poteva avere per il progetto, nel senso almeno datogli dalla scuola italiana, che pure veniva sempre citata27. In Germania sono stati molti i fattori – non ultimo la notevole disponibilità di denaro – che hanno favorito l’e-

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norme numero di interventi rinnovatori. E così il falso ha guadagnato molto terreno28. In una delle ennesime contraddizioni dell’approccio alle questioni di restauro, l’attenzione prestata all’autenticità della materia arriva a livelli estremamente scrupolosi; prova ne sia ad esempio il successo nella operazione di nuovo allestimento del Neues Museum ad opera di David Chipperfield il quale, coadiuvato da consulenze relative proprio al restauro, ha inserito con sobria eleganza il nuovo del suo progetto mantenendo fino al dettaglio le presenze e le lacune della materia originale del museo. Contemporaneamente però si è cancellata ancora una volta una pagina della storia architettonica e urbana della città, completando lo “smontaggio” del “brutto” Palast der Republik, la cui sorte però era stata decisa molto prima che si trovasse l’amianto nei pannelli coibentati e che apparentemente non ha lasciato scelta agli amministratori. Del resto l’imbarazzo e la difficoltà di rapporto con un’ar­ chitettura del passato troppo compromessa con regimi oppressivi e totalizzati, e per questo “non amata”, perdurano comunque fino ai nostri giorni, trovandosi ribaditi, sempre in Germania, nelle vicende connesse al riuso (o, viceversa, alla demolizione) di fabbriche legate alla scomparsa Repubblica Democratica Tedesca: la perentorietà di un giudizio estetico negativo sembra infatti nascondere la vera difficoltà di fondo, consistente nel riconoscimento di un valore testimoniale ad edifici che rimandano ad una storia che si vorrebbe rimuovere e cancellare per sempre29. Di segno opposto al restauro come conservazione dell’esistente e sua eventuale integrazione con elementi contemporanei, è il caso della ricostruzione del Castello per le cui complesse vicende esiste una piccola bibliografia di riferimento con sostenitori e detrattori, già ben definita30. Alle vicende legate al concorso si sono sovrapposte le richieste esplicite sulle modalità di ricostruzione da parte dell’amministrazione e il progetto in fase di realizzazione non è altro che una risposta a tali richieste. Paradossale è invece la vicenda della Friedrichswerderschen Kirche di Schinkel adi-


bita dai tempi del suo ultimo restauro, eseguito dagli uffici per la Denkmalpflege della DDR nel 1987 per il 750° anniversario di Berlino, a Schinkel museum e attualmente chiusa per i danni subiti a seguito della costruzione di edifici costruiti nelle immediate vicinanze. Contemporaneamente quindi si trovano grandi risorse per la ricostruzione di un Castello non più esistente, mentre si rischia di perdere la originale realizzazione neogotica di uno dei più significativi architetti tedeschi. Rimane una sensazione, non troppo esplicitata, quella Ostalgie, che in maniera quasi archeo – antropologica custodisce la traccia di quanto di suggestivo, o almeno di documentario racconta ancora la storia dei cittadini che convivevano e sopravvivevano al regime, mentre la città continua a raccontare quanto il processo di distruzione dei simboli ha prodotto dei simboli della distruzione31.

1  Cfr. Storia Urbana, n. 129, Franco Angeli, Milano, 2010. Cfr. anche il saggio di M. Pretelli, Germania Anno Zero (atto secondo). Tra ricostruzione postbellica e riunificazione della Nazione. Il caso del Neumarkt e della Frauenkirche a Dresda, in S. Casiello (a cura di), I ruderi e la guerra. Memoria, ricostruzione, restauri, Nardini Editore, Firenze 2012. 2   Cfr. P. Oswalt, Berlin_ Stadt Ohne Form. Strategien einer anderen Architektur, Prestel Verlag, München-London-New York 2000. Ed. Italiana, Berlino_città senza forma. Strategie per un’altra architettura, Meltemi, Roma, 2006. 3   Cfr. P. Oswalt, op. cit., pp. 61-71. 4   Cfr. G. Pagano, Presupposti per un programma di politica edilizia, in «Costruzioni-Casabella», 186, giugno 1943, ristampato sempre su «Costruzioni-Casabella» nel numero speciale 195/198 del 1946. 5   Ibidem. Le parentesi sono di Pagano. 6   Ibidem. 7   Ibidem. 8   La definizione, come si ricorda, è nel Manifesto del Futurismo del 1909 di Filippo Tommaso Marinetti. Del resto dopo i primi bombardamenti alleati su Berlino nel 1941, l’amministrazione dei lavori pubblici diretta da Albert Speer, che pure per la gestione della nuova veste imperiale della capitale si rammaricava della lentezza nel procedere dei lavori, accoglie le distruzioni come un «prezioso lavoro preparatorio ai fini della riorganizzazione», cfr. W. Schäche, Von Berlin nach Germania, Berlin 1998, p. 158.

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9  Cfr. Irmela Spelsberg, Berlino. Restauro e progetto: fra commemorazione storica e decontaminazione politica, in S. Valtieri (a cura di), Della bellezza ne è piena la vista! Restauro e conservazione alle latitudini del mondo nell’era della globalizzazione, Nuova Argos, Roma 2004, pp. 262-277. 10   Cfr. R. Pane, Attualità e dialettica del restauro, antologia a cura di Mauro Civita, Marino Zolfanelli editore, Chieti 1987, p. 384. 11   Cfr. G. Miarelli Mariani, “Centri storici”, note sul tema, Monsignori editore, Roma 1993, p. 9. 12   Attualmente l’edificio è sede della European School of Management and Technology. 13  Cfr. Irmela Spelsberg, op. cit., p. 269. 14   Cfr. A.R. Burelli, P. Gennaro, La città come investitore. Il piano di ricostruzione urbana, Gaspari, Udine 2007, p. 12. 15   È del 1950 il viaggio organizzato da Lothar Bolz, ministro per la ricostruzione, insieme ad una delegazione di architetti in Unione Sovietica, ed è di poco successiva la stesura dei ‘sedici principi dell’urbanistica socialista’ approvati dal consiglio dei ministri della DDR nel luglio dello stesso anno. La Volkskammer ratificherà gli stessi e la legge per la ricostruzione «delle città tedesche e della capitale della Germania» il 6 settembre. A tale proposito, nonché per le complesse vicende dei primi grandi concorsi per le ricostruzioni nei settori contrapposti di Berlino, si rimanda al saggio, ricco di riferimenti bibliografici e di archivio, di A. Maglio, Berlino prima del muro. La ricostruzione negli anni 1945-1961, Hevelius Edizioni, Benevento 2003, pp. 52-56. 16   Cfr. A. Maglio, Tra ideologia e prassi: il dibattito architettonico alla nascita della Repubblica Democratica Tedesca, in E. Cogato, P. Bonifazio (a cura di), Les experts de la reconstruction. Gli esperti della ricostruzione, Me\tisPresses, Genève 2009. 17   Vale la pena ricordare che l’unico esplicito riferimento alla città storica è presente al punto quinto che recita «Alla base della pianificazione urbana devono esserci il principio dell’organicità e la valorizzazione della struttura storica, i cui difetti possono essere corretti». Cfr. L. Bolz, Sechzehn Grundsätze über Städtebau, in Id., Vom deutschen Bauen. Reden und Aufsätze, Berlino (est), 1951, traduzione in italiano e cit. da A. Maglio, Berlino prima del muro, cit. p. 156. 18  Cfr. Landesarchiv Berlin, Il Muro di Berlino. 1961-1989. Fotografie dalla collezione dell’Archivio di Stato di Berlino; scelte e commentate da Volker Viergutz, Berlin Story Verlag, Berlino 2010. 19  B. Gabrielli, G. Polo, Considerazioni sullo sviluppo urbanistico della RDT, in «Urbanistica», n. 70, luglio 1979. 20   «Ad esempio nella ricostruzione del teatro di Schinkel come sala da concerto o nel ripristino del duomo di Berlino». Cfr. H. Magirius, Denkmalpflege in der DDR, in «Die Denkmalpflege», 59, 2001, 2; trad. it. in D. Fiorani, Il restauro architettonico nei paesi di lingua tedesca, Bonsignori Editore, Roma 2006, pp. 152-153. 21   Cfr. M. Romano, Domanda sociale e pianificazione urbanistica: una riflessione dalla RDT, in «Urbanistica», n. 70.


22   Cfr. A.R. Burelli, La ricostruzione critica di Berlino capitale, in «Area», n. 66, anno XIV, gennaio/febbraio 2003. 23   Cfr. O.M. Ungers, Ancora una volta, nessun piano per Berlino, in Lotus, n. 80, 1994. 24  Cfr. H.W. Hämer, Cauto rinnovamento urbano a BerlinoKreuzberg: l’esperienza dell’IBA 1987, in B. Kohlenbach, S. Scarrocchia, R. Spelta, (a cura di), La tutela come revisione dei valori culturali. Esperienze attuali di restauro architettonico in Italia e nella Repubblica Federale Tedesca, Atti del convegno Colonia 13-15 marzo 1987, Cluva Editrice, Venezia, 1991. 25   Cfr. H. Stimmann, La nuova Gründerzeit, in «Lotus», n. 80, 1994. 26   Hans Stimmann è stato per lungo tempo Stadtbaudirektor, di Berlino. 27   Cfr. A.R. Burelli, La ricostruzione critica di Berlino capitale, in «Area», n. 66, anno XIV, gennaio/febbraio 2003. 28   Cfr. W. Wolters, Indagine conoscitiva finalizzata all’intervento di restauro nel campo dell’architettura, in «Restauro e città», anno III, n. 8/9. 29   Cfr. D. Fiorani, Il restauro architettonico nei paesi di lingua tedesca, cit., p. 17. 30   Cfr. A.H. Martinez, La búsqueda (imposible) del tiempo perdido… Reflexiones en torno a la ‘reconstrucción idéntica’definida por Paul Philippot, in «Conversaciones…con Paul Philippot. Revista de Conservacion», n. 1, Julio 2015; S. Redecke, Franco Stella. Ricostruzione del castello di Berlino, in «Casabella: rivista internazionale di Architettura», n. 796, 2010. 31   Cfr. K. Schwarz, (a cura di) Die Zukunft der Metropolen, catalogo della mostra dell’Università Tecnica di Berlino, vol. III, Utopi­ scher Ort Berlin, Berlin, 1984, p. 149, cit. in P. Oswalt, op. cit., p. 69.

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Il tempo del tipo nello spazio del design VINCENZO CRISTALLO

I

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Tradizionalmente le categorie di tipo e tipologia hanno attraversato e sostenuto le trasformazioni della cultura del progetto per generare la forma fisica nei tessuti urbani. Tuttavia sono tracce sempre meno presenti e se riconoscibili restano ambigue. Ancora più equivoche se ricondotte ai territori del design, nei quali la nozione di tipo appare inafferrabile nella moltitudine di un design open e social che ha trasformato il progetto di design in un generico “fare design”, libero da formule precostituite. Un cambiamento che riguarda il transito del disegno industriale al di là della modernità d’impronta ideologica, in un’area dove minori sono i vincoli che un oggetto deve avere con il compito assegnatogli dalla tipologia a cui in teoria abitualmente appartiene. Dal momento in cui il declino del “disegno della città” è coinciso con la crisi dei modelli sociali, economici e culturali, le regole, in apparenza rigide e astratte del tipo, sono sembrate inutilizzabili perché eco di un passato funzionalista fallito nelle premesse e ancor più nei risultati. Contraddetta è, del tipo, anche la sua entità teoretico speculativa. Non assolve pertanto un ruolo riflessivo per l’analisi dei prodotti per il timore che esso appaia inadatto a sondare la complessità degli artefatti nella relazione variabile che intercorre tra merce, consumo e consumatori.


Eppure basterebbe rammendare che il tipo non è un fine ma un contenuto formale di natura concettuale, che riunisce famiglie di “cose”, per coglierne l’utilità retorica nei campi del progetto. Ed è questa la ragione per cui il tipo, come il progetto, ci ricorda Carlos Martì Arìs, rifiuta qualsiasi ordine chiuso e si basa sulla trasformazione permanente del sistema in cui opera reagendo con la tecnica, con le funzioni, con lo stile, con il carattere collettivo e il momento individuale di un’attività formale (Aris intende in particolare un “fatto architettonico”)1. Possiede allora una singolare natura open che richiede di essere riscoperta includendo le mutazioni teoriche dei “nuovi tipi” riconoscibili nelle inedite configurazioni che accompagnano le prassi della contemporaneità nel concepire luoghi abitabili forti di altre relazioni tra uomini, prodotti e servizi. II Il tipo (letteralmente impronta, sigillo, carattere) è uno schema ideale a cui ricondurre un gran numero di oggetti aventi caratteristiche comuni. Poiché il tipo deriva da un’astrazione, la sua definizione è necessariamente relativa e non assoluta. Costituisce il principio della forma. È di natura mentale e non oggettuale, distinguendosi per questo motivo profondamente dal modello che resta invece un esempio fisico, tangibile, oltre che interpretativo del tipo. Secondo Giulio Carlo Argan, quando un tipo si fissa nelle pratiche esso già esiste in una determinata condizione storica, come risposta a un insieme di esigenze ideologiche, religiose e utili2. È Max Weber, secondo Maurizio Vitta, ad aver introdotto il tipo nella società industriale, argomentando l’idealtipo come sintesi dei caratteri primari di grandi fenomeni sociali o culturali che segnano un’epoca; ed è approdato poi nel campo della prassi, proprio là dove colui che lo aveva proposto per primo non l’avrebbe mai cercato (il Werkbund, ndr)3. Quanto invece il concetto di tipo favorisca lo scambio interdisciplinare, è descritto da Tullio De Mauro che sottoli-

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nea come – con il risveglio di interessi per i modelli astratti, mosso dal pensiero semiotico e logico della fine dell’Ottocento e dei primi di questo secolo […] – la nozione di tipo acquista una nuova centralità intellettuale […]. In paleontologia si vuole così indicare lo studio di insiemi di cui si riconosce la coerenza, in quanto repliche d’un medesimo tipo culturale; in psicologia e in medicina si elaborano studi dei tipi psicologici e costituzionali […]; in linguistica si rinnova lo studio (già preconizzato da W. von Humboldt) dei tipi cui le singole lingue, indipendentemente dalle loro vicende e relazioni storiche si possono ricondurre; in sociologia, con Max Weber, la tipologia, come studio dei tipi ideali, è il principale ordinatore della congerie di indagini sulle multiformi concrete organizzazioni socioculturali ecc. Lo studio tipologico diventa così, a metà del nostro secolo, un tema comune, un orientamento di fondo che crea un’occasione di comunicazione reciproca tra scienze logico-matematiche, scienze sociali e della cultura, scienze tecnico-progettuali (dalla medicina e psichiatria, all’architettura al­l’ur­banistica)4. A partire dalla differenza che intercorre tra tipo e modello, Arìs considera tra le definizioni più esatte di tipo quella promossa nel 1832 da Quatremère de Quincy, nel suo Dictionnaire historique d’architecture, secondo la quale il modello, inteso come l’esecuzione pratica dell’arte, è un oggetto attraverso il quale ognuno può concepire delle opere che non si rassomiglieranno tra loro, tutto è preciso e dato nel modello, (mentre, ndr) tutto è più o meno vago nel tipo5. Ecco perché, ritiene Aldo Rossi, il tipo si costituisce attraverso le variabili di necessità e bellezza delle diverse società degli uomini. Ed è allora spontaneo che il “concetto di tipo” si leghi espressamente al modo di vita di quelle società. Ma Rossi, che interpreta la città come un unico manufatto architettonico, stigmatizza nel tipo un enunciato logico che sta prima della forma – e al tempo stesso la costituisce – ed è per questo l’idea stessa dell’architettura; ciò che sta più vicino alla sua essenza6.


Renato De Fusco torna sulla distinzione operata da Quatremère de Quincy, ma osserva che alla sua inclinazione universale resiste una qualche opinione individualizzante di cui si fa interprete Bruno Zevi riconoscendo che tutti i preconcetti più anacronistici della storiografia – da quello evoluzionistico a quello biologico postulante la nascita, la maturità, la decadenza dei linguaggio – trovano nella tipologia la loro espressione […]; il compito della storia architettonica è proprio superare la tipologia generica per individuare l’originalità dei maestri e delle loro opere; i prodotti edilizi si possono usare come documenti sociologici, ma per tesserne la storia bisogna riconoscere che l’arte è sempre anti-tipologica nel senso che, anche quando un architetto assimila uno ‘schema’ preesistente lo rielabora secondo un’interpretazione personale7. Ma per quel che concerne la relazione più strettamente riconducibile al design, nelle variabili meditative sul tipo all’interno del dibattito che proviene dal Movimento Moderno, secondo Argan la sostituzione del modello-oggetto al modulo-funzione è ben rappresentato nella Bauhaus, scuola che non si proponeva soltanto di raggiungere una conciliazione o un riconoscimento tra il mondo dell’arte e il mondo della produzione, ma di stabilire una unità di metodo e una circolarità di esperienze tra i processi crea­tivi o qualitativi dell’arte e i processi produttivi o quantitativi dell’industria o, più ancora, l’eliminazione di ogni differenza di grado (o di classe, poiché il problema si configura ancora una volta in termini sociali) tra l’operare creativo o libero dell’arte e l’operare produttivo o necessario dell’industria8. L’esperienza della Bauhaus pone di conseguenza una riflessione centrale se connessa a un tipo interprete dei principi di uguaglianza riconoscibili negli effetti della produzione di massa. Seppure condito da promesse di socialismo reale, il tipo si pone come dispositivo di connessione sperimentale tra arte e industria. Non è più solo il mezzo per esercitare confronti, differenze, distinzioni, ma diviene una traccia retorica per dare vita a soluzioni originali, vere e reiterabili. La relazione appena evocata tra tipo e

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standard ripropone, per Raimonda Riccini, quanto Walter Gropius ha scritto nel 1955, vale a dire che il prodotto standardizzato non è affatto un’invenzione della nostra epoca: non sono mutati che i metodi di produrlo. Ancora oggi esso implica il più alto livello di civiltà, la ricerca del tipo più perfetto, la separazione di quanto è essenziale e sovra personale da ciò che è personale e accidentale9. III

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Il tipo e la tipologia (lo studio dei tipi) – ovvero la suddivisione e la classificazione di una molteplicità di elementi omogenei in gruppi caratterizzati dall’appartenenza a determinati tipi formali e funzionali10 – faticano a rintracciare una dimensione utile come guida per scelte progettuali. Le cause sono diverse ma tutte riportabili alla conclusione storica dell’International Style; alla sostituzione della civiltà architettonica con quella merceologica. Se all’inizio del secolo la nascente architettura moderna aveva adottato la logica profonda della macchina industriale, ipotizzando un uomo tutto razionalità, che nella produzione realizzava il più alto momento di creatività, negli anni ’60 il modello proposto dalla cultura pop era quello di un uomo tutto consumi, che nella civiltà del benessere realizzava il più alto momento di creatività culturale11. In mezzo secolo il quadro dei valori si è capovolto e i dispositivi di induzione del bisogno hanno corrotto il mandato razionalista. Gli argomenti del progetto, superati quelli ideologici e logici del Movimento Moderno, risultano alterati dagli impulsi commerciali, dalla comunicazione pubblicitaria. Sullo sfondo l’analisi di Robert Venturi sull’architettura di Las Vegas, che porterà nel 1966 a Complexity and Contradiction in Architecture, e nel 1972, insieme a Denise Scott Brown, a Learning from Las Vegas12. In chiave documentale i segnali di questa eclissi e le conseguenze trasformiste sono contenute nella contiguità temporale della Cultura Radical degli anni Sessanta e Settanta e all’interno dei costumi Postmodernisti di un decennio successivo.


Il movimentismo Radical era un modo per reagire all’autoreferenzialità del progetto moderno, che continuava a imitare se stesso e, a differenza di tutte le altre pratiche culturali (arte musica, letteratura), aveva attraversato due guerre mondiali, il conflitto nucleare, lo sterminio razziale, le grandi dittature di destra e di sinistra, senza che il suo codice linguistico risentisse del minimo turbamento […]. Ora, invece, il “ribaltamento delle gerarchie tradizionali tra le discipline del progetto […] apriva spazi per una lettura diversa della vita e del fenomeno urbano, non più teatro esclusivo dell’architettura, ma territorio della merce, dei servizi, dell’informazione, dell’energia vitale della musica e della moda13. All’eternità delle fondazioni, alla solidità delle strutture e al senso compiuto dell’atto edificatorio, si sostituiva la metamorfosi di una realtà trasferibile, provvisoria, in grado di privare l’atto progettuale della responsabilità di “unità linguistiche e metodologiche” definitive. Quando il mondo era annichilito tra gli estremi della guerra fredda e del miracolo economico il movimento radical […] cominciò a usare il conflitto politico non come categoria ideologica, ma come tema figurativo14. Alla concezione di ordine e razionalità si opponeva un caos creativo libero da un impegno riformista che conduceva a una realtà smaterializzata. Cos’è se non questo la No-Stop City (1967-1972) degli Archizoom Associati? Una città senza distinzioni di luoghi e funzioni, territorio illimitato e fluido di informazioni, merceologie e servizi, dove l’architettura diventa una realtà accessoria, inespressiva, catatonica. Svincolandosi dalle forme retoriche del socialismo […] il progetto guardava senza timore alla logica di un industrialesimo ateo15. Per giungere, infine, a un’architettura senza città e a una città priva di architettura, vuota di testimonianze ideologiche. Sprovvista dunque di tipi capaci di conformare e governare in gerarchie utili lo spazio abitato. Malgrado ciò, una qualche idea di tipo può riemergere nell’inversione tra le tipologie dell’edificio e dell’oggetto in nome di una ricerca progettuale suggerita dall’accesso alle trasversalità disciplinari16.

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Il movimento Postmoderno, pur avendo origine dalla “fine dei grandi racconti” e dei “pensieri forti”, all’unicità formale e funzionale delle città divisibile in epoche, sostitui­ sce la molteplicità stilistica e linguistica, e progetta l’attualità come […] istante in cui raggruppare passato, presente e futuro […]17. Le previsioni di Jean-François Lyo­ tard prefigurate dalla cultura Radical e dipanate da quella Postmoderna – di cui scrive ne La condizione post­ moderna, del 1979 – sono successivamente confluite nella cosiddetta “età dell’elettronica” che ha disperso tipi e tipologie annullando la visione prospettica del mondo che si avvale di un unico punto di vista e si fonda su un tempo che non scorre. Un cambiamento che, oltre a mutare la raffigurazione della città in chiave euclidea, ha sostituito la messa in scena della città tradizionale – intesa come scenografia centrale e materica – con una metropoli formata da un’architettura passata dalle scienze della rappresentazione al crogiolo delle tecniche della comunicazione18. E ciò è accaduto perché la multimedialità e l’interattività non hanno solo determinato un cambiamento professionale del fare progetto, ma hanno determinato un’alterazione di ordine intellettuale attraverso l’uso di nuovi dispositivi e linguaggi. Con i software il mondo artificiale si rappresenta in maniera diversa ma soprattutto si può concepire con regole matematiche e intuitive altrimenti impossibili19. A fronte di questi radicali cambiamenti la forma, intesa in sé e per sé, è ormai un retaggio del passato. Al suo posto si sostituisce […] il coinvolgimento sensoriale – cioè estetico – fra utente, oggetto e contesto: ciò che, nei termini della nostra civiltà elettronica, chiamiamo un processo fondato sullo scambio di flussi e informazioni20. IV

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Ma il centro dei nostri argomenti rimane la relazione ancora possibile tra tipo e design e il tentativo di riconoscere gli scenari nei quali – e a quali condizioni – si possa mostrare.


L’ingresso dell’informatica e della telematica nella sfera dei beni di consumo ha per Ezio Manzini agito direttamente sulle tipologie dei prodotti implementando quelle già in uso – e se possibile arricchendole di nuovi funzioni – oppure dando vita a soluzioni ibride nell’integrazioni di prodotti diversi. Ma soprattutto hanno inciso sui processi di progettazione e produzione (contribuendo alla flessibilità produttiva e modificando l’idea stessa di produzione di serie)21. Le tecnologie che generano miniaturizzazione, combinazioni di prestazioni, materiali intelligenti, connessione tra reti e oggetti – e viceversa – e che retoricamente trasformano le informazioni in inedite forme fisiche, hanno messo in discussione la memoria collettiva dei tipi e delle tipologie nelle familiari conformazioni artificiali. Per dirla con le parole di Tomàs Maldonado, di un distante 1976, l’innovazione non procede esclusivamente attraverso le variazioni a priori dei modelli tipologici, ma attraverso i prodotti, e più di frequente accade che l’emergere di un inatteso manufatto faccia scaturire un processo di ramificazione, in altre parole, dove prima c’era un prodotto c’è ora una intera gamma di nuovi prodotti […] l’insieme dei nuovi prodotti e prodotti-servizi direttamente o indirettamente generati dal prodotto innovativo22. Al netto delle parole di Maldonado, se indichiamo come esempio gli oggetti microelettronici, più che singole tipologie, si dovrebbero determinare – ed è il convincimento di Medardo Chiapponi – “piattaforme tipologiche”, tali da poter includere categorie più flessibili di oggetti. E, affinché queste nuove categorie si affermino identitariamente e culturalmente, è possibile, procede Chiapponi, introdurre il concetto di affordance (la capacità di un oggetto di mostrare a cosa può essere adibito), ed è un’astrazione che contrassegna il valore semiotico di un oggetto, la sua capacità di spiegare che cosa è e che cosa si può fare con esso23. La “coscienza del tipo”, a partire dalla storica dicotomia forma/funzione, può evidentemente essere sorretta da un piano semiotico. Basti pensare al fatto che Roland Barthes propone le sue prime indagini semiologiche a parti-

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re da una mitologia della vita quotidiana […] La società di massa, pensa Barthes, prospera intorno a un paradosso semiologico. Da un lato trasforma gli oggetti in segni di se stessi […] da un altro lato […] si adopera per nasconderli […]. Il ruolo di una semiotica degli oggetti è quello di rendere palese un simile paradosso, individuando dietro la falsa evidenza della strumentalità delle cose, la loro significazione profonda […]. Del resto da un punto di vista specificamente semiotico discutere della relazione tra forma e funzione, tra estetiche e strumentalità, implica innanzitutto aver chiaro quali effettivamente siano i ruoli degli oggetti e in che modo le forme di questi oggetti contribuiscono a significarne tali ruoli24. Gli oggetti – ed è la conclusione – possiedono valori combinati. Non facilmente separabili. La compresenza nel tipo di significati propri e traslati è interpretata dalla Riccini come quella di un Giano bifronte, ovvero da un lato è esemplare fondante del modo nuovo di progettare e produrre gli oggetti nella modernità (la tipizzazione e la standardizzazione), dall’altro è elemento essenziale per riconoscere questi stessi oggetti sulla scena sociale (la tipologia). Dunque, una chiave di lettura storica e una operativa, una evolutiva e una produttiva, una relativa ai prodotti, l’altra all’atto della progettazione25. Ma queste proprietà non sono comunque bastate, sostiene la Riccini, come nel caso dell’architettura, a determinare proposizioni teoriche e analisi critiche, dal momento in cui il tipo, la tipologia, e la tipizzazione, sono diventati sinonimi deleteri di uniformità e industrializzazione. Ciò nonostante, la tipizzazione rimane un fenomeno quasi spontaneo per una società di massa, nella quale – benché, dal passato, differente in tenore e numero – ancora viviamo. Pur valutando, come asserisce Andrea Branzi, il venir meno della stabilità e della forza delle teorie di Nikolaus Pevsner e Sigfried Giedion sulla composizione tecnicomeccanica degli oggetti – una sottrazione che richiede di interpretare senza tesi precostituite la nuova modernità (ora debole), non creando più singoli oggetti ma piuttosto strate-


gie dinamiche d’innovazione dal momento in cui si è passati dal product design al buzz design26 – resta comunque aperto il problema, tutto disciplinare, di un controllo del rapporto tra la dimensione antropologica dell’oggetto e la definizione del suo aspetto formale, tra etica ed estetica27. Tra un tipo concettuale, seppure mutevole, e il suo esito formale. Come a dire che è difficile progettare l’arredamento delle stanze di un albergo, l’attrezzatura di una mensa scolastica o gli arredamenti di un ufficio senza porsi il problema di disegnare un principio conduttore ricondotto, direttamente o meno, a una serie di protocolli ispirati alla tradizionale rigidità della standardizzazione28. Il nostro mondo materiale richiede ancora presupposti tipologici ma soprattutto desidera che questi siano strumenti di conoscenza per interpretare il mondo fisico, senza questa possibilità ci sentiremmo spersi in un universo di sostanze materiali irriconoscibili29. V In una società come la nostra che ancora reclama soluzioni pianificate per i grandi numeri, possono le varianti contemporanee del tipo farsi mezzo per esplorare dinamicamente queste attività oppure non è richiesta una relazione di merito? Nel momento in cui il prodotto si forma oltre i necessari caratteri di oggettività, attraverso le cosiddette “qualità terziarie” fissate da Michele Sinico (concettuali, emozionali, percettive)30, possono gli apparati tipologici, anche in relazione al passato, essere di supporto pragmatico? Carlo Ratti, in un libro pubblicato nel 2013, Architettura Open Source. Verso una progettazione aperta, suggerisce alcune implicite ma sibilline risposte31. A partire dall’architettura, di cui fotografa una realtà imminente trascinata al cambiamento dei suoi modelli sulla spinta di un movimento, quello dell’Open Source32, “[…] che descrive nuovi metodi per la progettazione, costruzione e funzionamento degli edifici. Ispirata da svariate fonti – quali […] le teorie architettoniche d’avanguardia, la fantascienza, le te-

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orie del linguaggio – (l’architettura Open Source, ndr) è caratterizzata da un approccio inclusivo alla progettazione degli spazi, dall’uso collaborativo dei software progettuali e dal funzionamento trasparente degli edifici e delle città durante il loro ciclo di vita”33. Dal trasformismo ideologico delle culture postmoderne si è passati alla liquidità di saperi di ogni tipo e grado, e dunque le poche resistenze ancora presenti nel dibattito sull’“idea di tipo” nel disegno urbano sono state del tutto annullate in virtù di un paradigma progettuale che non prevede ammaestramenti. Lo spazio abitato si forma ora a partire da una cultura partecipata, libera e aperta allo scambio di risorse intellettuali, forte del­l’ideologia della condivisione. Una cultura che non può essere ostaggio di “esempi”, mentre sta sperimentando una “architettura come informazione” costruita intorno ai bisogni degli utenti e da loro stessi coordinati in un sistema globale di scambio di dati34. Si è passati dal “fai da te” al “fai con gli altri” […]. È dagli anni sessanta che architetti e pensatori affrontano questo nodo centrale (la ridefinizione del proprio ruolo) […]. In un’affermazione profetica (del 1967, ndr), Nicholas Negroponte disse che il progettista si sarebbe trasformato in un ‘intermediario’ un creatore di schemi aperti, piuttosto che di forme deterministiche”. Il processo architettonico “non sarebbe stato composto da un insieme pervasivo ed evasivo di vincoli”, e questo ci fa pensare a una trasformazione cruciale dei prodotti dell’architettura (e non solo di questi, ndr). Anziché fornire un progetto finito e tangibile, l’architetto determinerebbe un insieme di parametri utili a guidare un corpus di idee rigogliose, una rosa pressoché infinita di architettura potenziale. Gli architetti progettano la domanda e non la risposta35. Oggetto del lavoro dell’architetto (del designer) non è più quello di realizzare progetti esecutivi e costruire, ma avviare, coordinare e concludere il processo in sé della progettazione, ora on line, partecipata e plurale. Per Ratti l’internet delle cose, (Internet of Things, IOT) ha dilatato le combinazioni dell’ambiente costruito e ampliato i compiti


del progettista che ora agisce come se lavorasse dentro un laboratorio di ricerca. L’Internet of Things, tocca l’intimità dell’architettura (lo spazio) – trasfigurandolo in opere aperte, le quali, anche dopo aver esordito nel mondo reale, continuano a trasformarsi per rispondere alle necessità degli utenti36 – e l’intimità del design (le relazioni tra bisogni personali e sociali) – cui richiede riconfigurazioni e aggiornamenti costanti. Siamo di fronte a una radicale trasformazione della figura del progettista al quale si assegna integralmente il compito del ricercatore per interpretare fatti ed eventi. E successivamente cercare altre strade da esplorare. Ma, proprio in virtù di questa investitura, non si comprende perché la cultura del progetto non debba investigare come ragioni in divenire la nozione di relazione che il tipo possiede come principio di governo di un organismo, di un sistema, di cui rappresenta un enunciato logico che “cerca” o “ordina” i motivi progettuali da cui ha origine. Una progettazione che se incarna l’innovazione che proviene dalla sintesi sperimentale dell’interdisciplinarietà, non può negare la presenza di peculiari fenomeni di tipizzazione come fattori indispensabili di conoscenza circa le cause minime che determinano la complessità dei formati del nostro ambiente costruito.

1  C.M. Arìs, Tipologia, in M. Biraghi, A. Ferlenga (a cura di), Architettura del Novecento. Teorie, scuole, eventi, parte I, Giulio Einaudi Editore, Torino 2012. 2  G.C. Argan, voce Tipologia, in Enciclopedia universale del­ l’arte, vol. XIV, Istituto per la collaborazione culturale, Roma 1960. 3  M. Vitta, Le voci delle cose. Progetto idea destino, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2016, p. 67. 4  T. De Mauro, Tipologia, in «Casabella», n. 509-510, I terreni della tipologia, gennaio-febbraio 1985. 5  C.M. Arìs, Tipologia, cit, p. 895. 6  A. Rossi, L’architettura della città, Quodilibet/fondazione Aldo Rossi, Macerata 2011, p. 30. Questa edizione si riferisce a quella aggiornata dallo stesso Rossi, nel 1995, e andata in stampa per i tipi di Città Studi. Il libro è stato pubblicato per la prima volta da Marsilio nel 1966.

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R. De Fusco, Trattato di architettura, Laterza, Roma-Bari, p. 62.  G.C. Argan, Progetto e oggetto, Edizioni Medusa, Milano 2003, p. 176. 9  R. Riccini, Il senso del tipo per il design, in T. Paris, V. Cristallo, L. Imbesi (a cura di), «Type & Model. Idee, progetti, azione», Quaderni/ Planning, design Technology. Scienze per l’abitare, numero 4, p. 57. 10  L. Semerani (a cura di), Dizionario critico illustrato delle voci più utili all’architetto moderno, edizioni C.E.L.I., Faenza 1993. 11  A. Branzi, La casa calda, idea book edizioni, Milano, edizione del 1999, p. 54. La prima stampa del libro risale al 1982, raccolta nella dispensa “Merce e Metropoli”, edizione Epos, Palermo. 12   Ibidem. 13  A. Branzi, Una generazione esagerata. Dai Radical italiani alla crisi della globalizzazione, Baldini&Castoldi, Milano 2014, p. 18. 14   Ivi, p. 20. 15   Ivi, p. 22. 16  F. Dal Falco, Tipo declino o metamorfosi, in T. Paris, V. Cristallo, L. Imbesi (a cura di), op. cit., p. 108. 17  L. Parmesani, L’arte del secolo. Movimenti, teorie scuole e tendenze 1900-2000, Skira, Milano 2003, p. 89. 18  F. Leoni, L’architettura della simultaneità, Meltemi editore, Roma 2001, p. 11. 19  V. Cristallo, Introduzione, in V. Cristallo, Urban design. La scena urbana di un nuovo immaginario tecnologico, Alinea edizione, Firenze 2008, p. 8. 20  L. Prestinenza Puglisi, Silenziose avanguardie, Testo&Im­ ma­gi­­ne, Torino 2001, p. 15. 21  E. Manzini, Artefatti, Domus Academy, Milano 1989, p. 113. 22  T. Maldonado, Disegno industriale un riesame, Feltrinelli, Milano 1976. Nota estratta dalla terza edizione, del 1995, p. 73. 23  M. Chiapponi, Le forme degli oggetti, in «Il verri», n. 27, Oggetto, febbraio 2005. 24  G. Marrone, Dal design all’interoggettività: questioni introduttive, in E. Landowski, G. Marrone (a cura di), La società degli oggetti. Problemi di interoggettività, Meltemi, Roma 2002, pp. 2-3. 25  R. Riccini, op. cit., pp. 54-55. 26   Si veda A. Branzi (a cura di), Capire il design, Giunti, Milano 2007, p. 278. 27   Si veda R. Carullo, Beni comuni e design: grammatiche delle moltitudini, in «diid» (disegno industriale-industrial design), n 57, design open source, 2014. 28  M. Vitta, op. cit, p. 69. 29  R. Riccini, op. cit., p 56. 30   Si veda M. Sinico, Expressive Design. Human Factors e teoria delle qualità terziarie per il disegno industriale, Mimesis, Milano 2012. 31   Questi argomenti sono stati in parte sviluppati in V. Cristallo, “La necessità del tipo e del suo trasformismo in T. Paris, V. Cristallo, L. Imbesi (a cura di), op. cit., pp. 96-102. 7

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32   Nell’universo del software l’approccio open source è stato introdotto, nella seconda metà degli anni ’90, da Eric S. Raimond, Tim O’Reilly e Larry Augustin come alternativa alla tradizionale protezione offerta dagli strumenti di proprietà intellettuale. Per quanto concerne la diretta relazione con il design, si veda P. Ciuccarelli, Design Open Source. Dalla partecipazione alla progettazione collettiva in rete, Pitagora editrice, Bologna 2008. 33  AA.VV., Open Source Architecture (OSArch), in «Domus» 948, giugno 2011. 34  C. Ratti, Architettura Open Source. Verso una progettazione aperta, Giulio Einaudi Editore, Torino 2013, p. 113. 35   Ivi, p. 114. 36  C. Ratti, Fare avanguardia, «Domus Innovation», marzo 2017, supplemento a “Domus” n. 1011.

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Libri, riviste e mostre

E. Crispolti, Burri “esistenziale”, a cura di L.P. Nicoletti, Quodlibet, Macerata 2015.

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Il lungo festeggiamento del centenario della nascita di Alberto Burri (1915-1995) è stato celebrato dalla fondazione a lui intitolata con molte iniziative, a partire dal marzo 2015 fino al marzo 2017 con l’inaugurazione del terzo museo, dedicato alla sola produzione grafica del maestro, presso gli ex Essiccatoi del Tabacco a Città di Castello. Nel mezzo importanti convegni, mostre ed eventi di vario genere, tra cui spicca per prestigio ed importanza l’antologica al museo Guggenheim di New York, la seconda dedicata al maestro dopo quella del 1978. Tuttavia, durante queste manifestazioni, spesso è sembrato mancare un opportuno esame critico, svincolato dalla celebrazione, a volte glorificante, del personaggio Burri [ho dato conto in due distinti interventi di quelli che sono stati i pregi e i limiti dei festeggiamenti del centenario di Burri: L. Fiorucci, Occasioni critiche: Burri, Leoncillo e…, in

“ContamporArt” n. 85, gennaiomarzo, 2016, pp. 40-41; e L. Fiorucci, Considerazioni a margine del lungo centenario di Burri, in “Hestetika”, a. VII, n. 25, aprilegiugno 2017, pp. 40-43]. È questo forse il limite più grande di un’iniziativa per molti aspetti pregevole, ma che di fatto limita l’approccio problematico e di indagine metodologica conoscitiva del lavoro di Burri. Una tendenza, questa, che la fondazione sembra reiterare ormai sistematicamente, racchiudendo il lavoro del maestro entro un pacifico recinto formale omnicomprensivo, senza eseguire, con la dovuta convinzione, le necessarie distinzioni in fasi problematiche del corpus generale del maestro. Lo dimostra anche la struttura con cui è stato elaborato il catalogo ragionato delle opere – altro prezioso, ma poco meditato, regalo del centenario – che non possiede una classificazione in periodi o linguaggi: tutto sembra essere collocato in una quieta, quanto generica compilazione basata unicamente sulla successione cronologica che suggerisce una


lettura lineare, anche se disorganica, e pressoché neutra, rispetto ai diversi modi linguistici che pure si sono susseguiti inevitabilmente nell’approccio all’arte di Burri. È una scelta, quella del curatore Bruno Corà, che indubbiamente consente una pacificazione all’interno della produzione del maestro, ma che di fatto appiattisce ogni tentativo di indicazione e proposta critica che lo stesso Burri sottopone allo sguardo dei suoi interlocutori. Certo in questo modo si tende a nobilitare anche quella che forse è la fase un po’ più debole dell’artista, quella cioè che si snoda dagli anni Settanta fino alla morte, e che sembra ricondurlo verso un linguaggio più spiccatamente pittorico e astratto, decisamente strutturante e formalistico. Una fase senz’altro importante, ma che necessariamente comporta esiti diversi, a tratti inaspettati rispetto a quella matericità innovativa che ha segnato il successo e l’apprezzamento internazionale del­ l’opera di Burri a partire dalla fine degli anni Quaranta. Dalla sta­ gione dei grandi cicli – Sestante, Annottarsi, Non Ama il Nero, solo per citarne alcuni – si nota infatti un evidente cambio di passo nell’operare artistico di Burri. Un segno di discontinuità con i precedenti lavori anche da un punto di vista estetico, ma soprattutto per quanto riguarda l’impiego di materiali diversi e per la formulazione di un linguaggio che mitiga sensibilmente l’impronta innovativa dettata dalla più dirompente fase Informale. Sono cicli che ad una più attenta analisi appaiono dunque come un ritorno ad un ordine maggiormente studiato e compo-

sto, e che di fatto mostrano l’efficacia della dichiarazione dello stesso Burri “Il mio ultimo quadro è uguale al primo”, che si riferiva probabilmente a quei lavori astratti forse rintracciabili durante la breve partecipazione nel gruppo Origine. Esperienza, questa, che ad oggi si tende un po’ troppo a ridimensionare nella narrazione storiografica delle vicende artistiche del maestro [due distinti interventi in merito al Gruppo Origine e alla Fondazione Origine, sono stati posti all’attenzione della critica rispettivamente da Paolo Bolpagni e Davide Colombo in occasione della giornata di studi Alberto Burri nell’arte e nella critica, a cura di F. Tedeschi (Milano Palazzo Rea­le e Gallerie d’Italia, 29 ottobre 2015) i cui atti sono in fase di pubblicazione], o raccogliere il suggerimento di Flavio Fergonzi, in chiave di ricostruzione filologica, che invita ad indagare la relazione con certi ambienti astratti europei. In più di un’occasione, negli interventi di Bruno Corà, Italo Tomassoni, Arturo Carlo Quintavalle, Achille Bonito Oliva e Aldo Iori è sembrato di scorgere la volontà di racchiudere la lettura di Burri in una esclusiva interpretazione formale-com­ positiva [si veda Alberto Burri. La misura aurea della materia, a cura di A. Bonito Oliva, catalogo della mostra (Roma, Galleria Anna D’Ascanio, novembre 1979 - febbraio 1980), Roma, 1979, pp. 8-12; Alberto Burri. La sezione aurea dei Cellotex, a cura di I. Tomassoni, catalogo della mostra (Milano, Fondazione Luciana Matalon, 25 novembre 2006 31 gennaio 2007), Milano, 2006, p. 6; B. Corà, Burri la misura

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dell’equilibrio, in Burri. Opere 1949-1994 la misura dell’equilibrio, a cura di C. Sarteanesi, S. Tosini Pizzetti, catalogo della mostra (Parma Mamiano di Traversetolo, Fondazione Magnani Rocca, 8 settembre - 2 dicembre 2007), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2007, pp. 17-25; A.C. Quintavalle, Burri. Progetto e struttura, in Materia forma e spazio nella pittura di Alberto Burri, a cura di B. Corà, convegno internazionale di studi (Perugia, Università degli studi 20-21 novembre 2015), Palazzo Albizzini Collezione Bur­ri, Città di Castello 2016, pp. 66-73; A. Iori, «Il mio ultimo quadro è uguale al primo» in Materia forma e spazio… cit., pp. 107-108]. Il poco convincente tentativo di uniformare le origini della sua ricerca con la parte conclusiva del suo lavoro sotto l’imprinting formalistico, facendo appello ad una matrice classico-rinascimentale della composizione delle sue opere e giustificando tale ascendenza nel­l’impiego, talvolta intuitivo, della sezione aurea, è forse l’approccio che meno rende giustizia alle innovazioni suggerite dal maestro umbro. Più efficace risulta il tema proposto, sempre in chiave formalista, da Francesco Tedeschi [si veda F. Tedeschi, Burri, Afro e Scialoja. Un incontro sulla via del Formalismo? in Materia forma e spazio nella pittura… cit., pp. 49-56] nella rievocazione storiografica della mostra a tre Afro, Burri, Scialoja. Una relazione giocata sull’attenzione verso la superficie delle opere e che si sostiene su suggestioni ed incontri dialogici, più che fattuali, del lavoro dei tre artisti legati da profonda

amicizia. Tedeschi ha il merito di riattualizzare una dualità nell’interpretazione critica dell’arte di Burri che si era palesata fin dal 1957 attraverso due esposizioni, che si confrontavano su campi problematici e contrapposti. Dap­ prima, nel febbraio di quell’anno presso la galleria la Tartaruga di Roma, Burri veniva di fatto presentato ancora in chiave formale accanto ai due amici Afro e Scialoja; pochi mesi più tardi, a novembre, era Enrico Crispolti a proporre una chiave di lettura esistenziale, accostando l’opera del maestro umbro a quella di Morlotti e Vedova, presso la galleria La Salita di Roma. Ed è proprio Crispolti che evidenziava aspetti problematici dell’opera burriana, al di fuori di contesti celebrativi e lontano da concilianti posizioni critiche, quando appena ventiquattrenne avviava il proprio rapporto di “agguerrita” militanza critica con la quale si emancipava, anche e soprattutto grazie al confronto con il lavoro di Burri, dalle istanze Astratto - Concrete di Lionello Venturi. La pubblicazione del libro di Enrico Crispolti, Burri “Esistenziale”, edito nel 2015 per le edizioni Quodlibet, raccoglie in modo sistematico gli scritti dello studioso romano sull’artista di Città di Castello, elaborati nel corso di quasi sessant’anni e intelligentemente sistemati da Luca Pietro Nicoletti, direttore della collana della fondazione milanese Alessandro Passarè che ospita la pubblicazione. La raccolta di testi rappresenta la summa del pensiero di Crispolti in relazione all’opera di Burri, per il quale quella mostra alla Salita segna un personale


punto di svolta nell’interpretazione della matericità. Come ricorda lo stesso autore: L’esperienza di una tale particolare vicenda di dialogo critico in presa diretta ha rappresentato uno dei primi ulteriormente fondanti, innovativi, riferimenti formativi. Proprio in quanto nel caso del confronto con la materialità significativa intrinseca al senso dell’operare di Burri, ha rappresentato una delle mie prime ulteriori occasioni di un cimento nuovo di comprensione e acquisizione conoscitiva. Esattamente nel senso, peraltro del tutto preliminare per un accesso all’intimo significato di quell’operare memorabile di Burri, appunto di una totalizzante significatività materica empirica diretta, di contro a una corrente e consueta fiducia pittorica apprezzabile soltanto in mediazione mentale, idealizzante (come appunto, in proiezione storicamente idealistica anche nella lezione «leoventuriana») [pp. 14-15]. Già in queste parole affiorano i termini di una diversa convinzione sul modus operandi del tifernate e sulla centralità della materia in quanto elemento di viva realtà, rispetto ad una lettura che a quei tempi era considerata avanguardistica, concentrata co­ m’era sulla visione strutturante dell’opera attorno alla superficie. Era questa infatti un’interpretazione sì innovativa, in termini venturiani, che sorreggeva l’operatività delle avanguardie storiche, ma che appariva desueta al giovane critico nella lettura del fenomeno Burri, e con esso anche della gestualità di Vedova, o della spazialità di Fontana, o

dell’irruenza segnica di Moreni. Quel 1957 – con le due mostre in antitesi alla Tartaruga e alla Salita – rappresenta dunque l’avvio contrastato di posizioni criticamente alternative, in cui l’opera di Burri funge da spartiacque: da un lato, una visione ancora formale e quindi di portata implicitamente idealistica, elaborata attraverso strumenti critici di fatto tardo-ottocenteschi che collocano il maestro umbro in una sterile continuità accademica che procede in una successione evoluzionistica, che corre dal Postimpressionismo, al Suprematismo Russo, passando per il Cubismo e il Neoplasticismo. Aderendo a questa visione, oggi come allora sembra dunque non si colga la portata innovativa della materia, che pure dava scandalo nei salotti buoni della capitale, ma si riconduca l’opera sotto canoni compositivi e di struttura formale della superficie. Dall’altro, la proposta di Crispolti che punta sulla sensibilità eminentemente materica immersa in un vissuto esperienziale diretto, che fa passare in secondo piano le idealistiche composizioni formali. Ed è qui che si innesca anche la questione di metodo, che in Crispolti diventa indagine conoscitiva dell’opera nella sua più intima essenza e costringe il critico a relativizzare gli strumenti noti per concedere spazio alla fabbricazione di nuovi, necessari alla lettura di un fenomeno fino ad allora inedito. È una linea che descrive il carattere di una militanza, oggi pressoché perduta o quantomeno minoritaria nell’odierno sistema dell’arte, per la quale l’artista e il critico avviano un dialogo in cui, come specifica

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Crispolti: sarà sempre e soprattutto la qualità evolutiva del fare dell’artista, di fatto, «a menar le danze», e dunque a provocare autenticamente la qualità della risposta critica. Che infatti risulterà tanto più produttiva quanto dunque più indipendente da esterne circostanze di preoccupazione maggioritaria” [p. 17]. Un insegnamento di metodo e di libertà dei ruoli, in cui il critico non teme posizioni minoritarie o fuori moda, anche rispetto al coro mentalmente pacificatore di tanta critica ufficiale. Anzi, attraverso il lavoro problematico dell’artista, è il critico che coglie lo stimolo motivazionale per affinare ulteriormente le proprie scelte. Crispolti, attraverso queste pagine, regala al lettore interessato un insegnamento di ruolo anche morale e di formulazione di un’identità critica, che non fa sconti nemmeno all’artista quando questi decide di abdicare alla propria ricerca, sancendo di fatto un allontanamento da quello che è stato un rapporto dinamico e di intenso scambio. Dalle pagine di Burri “esistenziale” emerge la riflessione di Crispolti avviata in primis con Burri, ma poi divenuta metodo d’indagine e di conoscenza delle problematiche poste dai numerosi artisti che il critico romano ha incontrato nella sua lunga militanza. A ricucire e storicizzare gli scritti di Crispolti su Burri è il saggio di Luca Pietro Nicoletti, che con un attento lavoro di ricerca evidenzia come l’asse portante della riflessione critica negli anni tra il 1957 e 1967, il decennio più intenso del rapporto tra i due, si poggia proprio sul lavoro di Burri e su quel-

lo di Fontana. Sono i due artisti che il critico impiega come termine di paragone per misurare le diverse esperienze artistiche di altri protagonisti di quella memorabile stagione. In questo decennio inoltre, ricorda ancora Nicoletti, si inseriscono le tre edizioni di Alternative Attuali a L’Aquila: tre momenti centrali nella carriera di Crispolti. L’edizione di avvio del 1962 è dedicata alla prima mostra antologica dell’artista tifernate, segno di una tempestiva necessità da parte di Crispolti di riordinare e storicizzare un percorso indubbiamente in divenire di Burri, ma già cosi intenso e incisivo da dover essere fissato. Ma è anche il momento in cui il critico concepisce l’idea di mostrasaggio, in cui l’esposizione diviene funzionale ad un pensiero e quindi momento di verifica di una situazione contemporanea che egli tende a fotografare nel suo svolgersi, pur inseguendo una prospettiva di storicizzazione [si veda L.P. Nicoletti, L’Aquila 1962. “Alternative attuali” e l’idea di “mostra-saggio”, in «Ri­cerche di S/Confine», vol. VI, n. 1 (2015), pp. 105-119]. Il libro si arricchisce di una lunga intervista di Nicoletti a Crispolti, che anticipa la raccolta degli scritti e che diviene l’occasione per immergersi nel contesto artistico sullo scorcio di quei vivi anni Cinquanta e per ricordare, attraverso la testimonianza diretta del critico romano, la figura di Burri, il suo carattere tipicamente umbro, tendenzialmente diffidente, decisamente timido e schivo, ma indubbiamente capace di aprire scenari fino a quel momento impensabili nel­l’arte occidentale. L. F.


C. de Seta L’arte del viaggio, Rizzoli, Milano 2016. Esistono molteplici declinazioni della letteratura da viaggio, anche senza retrodatarne l’origine ad Omero e alle peregrinazioni di Ulisse. Il genere è stato interpretato, nel tempo, nei modi più diversi, a volte anche antitetici: dalle guide utili e preziose per il viaggiatore a veri e propri romanzi, in un intreccio tra notazioni, spunti, riflessioni relative ai luoghi visitati e narrazioni più o meno fantasiose. Non appartiene a nessuna di queste categorie la più recente fatica editoriale di Cesare de Seta, L’arte del viaggio, per i tipi di Rizzoli. De Seta è uno studioso, tra i più noti del nostro Paese, e conoscitore di cose d’arte e architettura ma è, soprattutto e riandando ai suoi primi interessi e lavori di ricerca, esperto di storia urbanistica, di cartografia, di forme della città, che ha indagato a lungo nella sua carriera accademica e produzione scientifica. Non poteva, dunque, che sviluppare una sua originale modalità di approccio al tema degli spazi urbani, al carattere distintivo di città piccole, medie e grandi (comprese le Weltstadt, le città-mondo, o le superville, le città dominanti, come egli le chiama, riferendosi alle megalopoli che occupano la scena e condizionano gli scenari futuri) per investigare, interrogarsi e provare a formulare personali interpretazioni sul senso delle trasformazioni che coinvolgono quella che, non a torto, è stata definita la più straordinaria invenzione della civiltà umana, la città. Lo sguardo di de Seta è sempre in bilico tra l’os-

servazione attenta dello studioso, una sorte di entomologo dell’universo urbano, la curiosità vivida del viaggiatore esperto, la ricostruzione colta di vicende storiche, l’analisi critica di spazi e architetture. Ma forte è anche la tentazione, che traspare da molte pagine e capitoli del libro, di dare spazio alla vena narrativa, al gusto – familiare nel de Seta romanziere – della ricostruzione di vicende, autori, personaggi, di momenti e culture dentro le quali prendono forma e sostanza gli accadimenti di cui si fa menzione nelle pagine del volume e che costituiscono molto più delle “divagazioni” cui si fa cenno nel sottotitolo del libro. Una guida preziosa, evidentemente non per i lettori distratti o avidi di suggerimenti e curiosità per la scoperta di luoghi sconosciuti, ma per quelli che sono alla ricerca di spunti stimolanti, capaci di trasformare l’esperienza della conoscenza di una nuova città in quell’“arte del viaggio”, a cui aspira l’autore. Ricollegandosi, idealmente ma non solo, ai valori formativi, culturali, oltre che esperienziali, appartenenti alla stagione del Grand Tour, a cui non a caso Cesare de Seta ha dedicato pagine e riflessioni specifiche. Sono oltre una cinquantina le mete dei viaggi compiuti da de Seta, in un arco di tempo molto lungo e che, relativamente alle vicende descritte, riguarda almeno l’ultimo quarto di secolo, con riferimenti che datano dal 1992 (Olimpiadi di Barcellona ed Esposizione universale di Siviglia) per arrivare sino a Milano dell’Expo 2015. Per ordinarle, in un’ipotetica classificazione che restituisca un legame narrativo,

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de Seta istituisce alcune categorie per possibili appartenenze, sia geografiche (Oltre il gran lago, Verso il Nord, Nel cuore dell’Europa) che temporali (Le terre antichissime, Le terre nuove, In bilico tra passato e futuro, Un trascorso paradiso, Il sentimento del tempo, …). Per descrivere i luoghi che visita ma, soprattutto, per sviluppare le proprie osservazioni, dare vita alle considerazioni che il viaggio stimola e induce, de Seta alterna una lettura da studioso dei fenomeni legati alle regole della crescita e della trasformazione dello spazio, alle questioni cioè della forma urbis, ad una chiave diversa utilizzando, quasi strumentalmente, un’architettura o un progettista, per descrivere un luogo, cercare di coglierne l’identità o almeno alcuni caratteri specifici. Si susseguono, così, nel primo caso, pagine dedicate a Milano, da quella medioevale o quella moderna e contemporanea, alla Lisbona di Pombal, alla Siviglia che ricorda Genova, per le tipologie di case e strade. Altrove, a prendere il sopravvento, è la descrizione di opere importanti (in alcuni casi veri e propri edifici-mondo) come il Guggenheim di Gehry a Bilbao o le architetture di Oscar Niemeyer a Brasilia. La vena, e la profonda conoscenza della storia dell’arte, consentono all’autore ispirate letture e confronti, come nel caso della “sfavillante, meteoropatica architettura di Gehry… la sua opera più ambiziosa e complessa”. Tanti i richiami che la morfologia e il linguaggio dell’architettura di Gehry suggeriscono a de Seta: dal Bibiena alla cultura

pop e newdada, dal Barocco a Boccioni ed Escher. In molti altri casi è difficile distinguere la struttura urbana – la forma che una città ha finito con l’assumere nel più lento fluire degli accadimenti e delle sedimentazioni fisiche, edilizie – dalle singole architetture; talché si finisce inevitabilmente, nel parlare di quest’ultime, con il riflettere anche della città nel suo complesso: è la lezione che viene da Parigi, ma ancora di più dalla metropoli che, più di ogni altra, rappresenta il XX secolo, New York. Certo, poiché nel libro si parla di tante città, esprimendo punti di vista ed impressioni anche molto soggettive, può capitare di non condividere alcuni giudizi o anche solo la scelta del tema trattato per raccontarle. È questo il caso di Napoli, dove alla descrizione di un possibile esempio di recupero e riqualificazione di un’importante testimonianza di archeologia industriale nell’area orientale della città, sono associate alcune pagine riferite ad un’antica e ormai superata querelle intorno ad un progetto di rigenerazione del Centro storico, il Regno del Possibile, distante nei fatti non meno che nel più recente dibattito culturale e politico della città. Sembrerebbe, a rileggere ora queste pagine e non avendo conoscenza degli sviluppi ulteriori del confronto urbanistico a Napoli, che l’ultimo quarto di secolo sia passato invano. Ma anche nel caso di Milano, su alcuni giudizi – questi, invero, molto più attuali – è, per quanto mi riguarda, difficile convenire. Diffuse ed insistenti sono state le critiche avanzate, negli anni scor­


si, soprattutto da certi ambienti accademici ma ancor più ideologici dell’urbanistica italiana, sulle scelte in tema di pianificazione cittadina e di riconversione di zone strategiche, bollate come esempi esecrabili di “urbanistica contrattata”. Con il corollario di facili profezie su come, queste scelte, avrebbero condotto ad uno stravolgimento del volto del capoluogo lombardo e alla possibile perdita d’identità. Poi si sa come è andata a finire, e cioè che i processi di trasformazione e rinnovamento urbano di Milano si sono rivelati tra i più riusciti, non solo in Italia ma anche all’estero, ed ora la città compete a livello europeo come una delle metropoli più funzionali, attrattive e glamour del panorama internazionale. Il libro, come il viaggio, si conclude in Cina, la terra antichissima. Lo sguardo di de Seta si posa sulle città in rapida trasformazione, Pechino su tutte, così come sui resti di una civiltà millenaria, sui guerrieri dell’Esercito di Xi’an o su architetture come il tempio buddista di Famen. Sono tutte pagine godibili, ricche di spunti e riflessioni pertinenti come nel caso del restauro e della concezione – per noi italiani al limite del “sacrilegio” – su originale e falso. Per averlo sperimentato di persona, in un decennio di frequentazioni della Cina e attività sul campo, posso testimoniare quanto sia ancora attuale la notazione di Cesare de Seta. Alla fine del viaggio resta, come era lecito attendersi, l’interrogativo su dove stanno andando le tante città del mondo. È giusto, allora, lasciare la parola all’autore: …la città ha mostrato in al-

cuni millenni di storia risorse inimmaginabili: dal sale sparso sulle macerie di tante città nel mondo antico ne sono nate altre più rigogliose, a volte più belle e più seducenti… Questo viaggio, volto a capire quale sia stato il passato e quale futuro attende le nostre città, non induce all’ottimismo, ma neppure vicina mi pare la minacciata e irreversibile catastrofe urbana. Di città continueremo a vivere e a morire ancora a lungo e questo, per quello che esse rappresentano nella mia vita, non è solo un auspicio ma una consolazione. B. D. H. Plummer, L’esperienza del­ l’ar­chitettura, Einaudi, Torino 2016. Anche se può sembrare strano, non sempre teorie progettuali e teorie architettoniche si trovano a condividere gli stessi principi. Basti pensare, per esempio, a come, negli ultimi anni, i tentativi – oggi centrali – di valorizzare le capacità creative di chi abita uno spazio abbiano preso strade diametralmente opposte. Da una parte, infatti, la ricerca delle strategie progettuali più adatte è andata inseguendo un’idea di progressiva indeterminatezza, intesa come imprevedibilità e dispiegamento di possibilità. Dall’altra, invece, la definizione degli elementi caratterizzanti del fatto architettonico è tornata al sensibile e all’esperienziale. In altre parole, di fronte a un interesse specifico per la persona e per le sue azioni, la teoria progettuale è andata in cerca di strumenti metodologici in grado di garantire la

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massima apertura programmatica e spaziale, mentre la teoria architettonica ha iniziato a mettere maggiormente in luce le proprietà che hanno gli edifici di incoraggiare le attitudini spontanee degli uomini ad agire nello spazio. Così, se oggi il progetto guarda sempre più spesso a spazi indefiniti e a processi decisionali astratti, l’analisi del fenomeno architettonico si concentra sugli aspetti più concreti dell’esperienza spaziale. Certo l’asimmetria è evidente. Da un lato c’è lo sviluppo organico di un orientamento disciplinare ben identificato che, da Cedric Price a Rem Koolhaas, ha avuto un ruolo quasi incontrastato nella pubblicistica contemporanea. Dal­l’altro, invece, c’è una tradizione culturale che, pur avendo una storia più lunga alle spalle, ha sempre rappresentato una sorta di corrente sotterranea. Una tradizione che ha intercettato anche grandi architetti, ma che il più delle volte è stata valorizzata da individui che, forse per necessità, sono rimasti ai margini della storia; la stessa che nasce con August Schmarsow e con la stessa concezione spaziale dell’architettura, che passa per i contributi di Bruno Zevi, Steen Rasmussen e Christian NorbergSchulz, e che oggi trova interpretazione nelle letture di Juhani Pallasmaa e Harry Francis Mallgrave. Quella per cui l’architettura, come scrive Henry Plummer in quello che può essere definito l’ultimo episodio di questa storia, non è una cosa che guardiamo da lontano o di cui ci serviamo per necessità pratiche, ma il catalizzatore della nostra esistenza autentica di esseri viven-

ti che agiscono in armonia con il mondo (p. 9). L’esperienza dell’architettura parte, infatti, da questa consapevolezza per provare a mettere in luce un aspetto dell’architettura che – almeno in questi termini – appare largamente sottovalutato; e, cioè, le facoltà spontanee che [essa] rivela negli esseri umani, incoraggiandoli a diventare […] l’origine delle azioni nello spazio. […] Lo scopo […] è [quindi] studiare in che modo le nostre azioni spaziali più elementari sono influenzate dalle forme architettoniche […] [per] giungere a una migliore comprensione del modo in cui l’individuo interagisce con lo spazio e riconsiderare l’architettura come […] un insieme di possibilità che gli esseri umani possono saggiare ed esplorare liberamente (pp. 9-18). Tutto ciò, attraverso un taglio diverso, quasi obliquo, che supera l’approccio marcatamente situazionista delle teorie progettuali contemporanee; e con esso, tutta quella galassia di riferimenti con­ cettuali obbligati che, dal Surrealismo al Post-strutturalismo, include Raymond Queneau e Georges Perec, Italo Calvino e Guy Debord, Gilles Deleuze e Jacques Derrida. Non che il libro di Plummer sia privo di riferimenti, certo, ma è l’approccio esplicitamente fenomenologico e concreto a farne un oggetto, se non inedito, almeno compiutamente originale. L’argomentazione, infatti, si basa sull’identità foucaltiana fra spazio e dispositivo, e sulla sua capacità di dissociare il potere dal corpo; accoglie la preoccupazione di Hannah Arendt sulla perdi-


ta della facoltà umana di scegliere fra diverse linee di azione; ne vaglia le effettive possibilità di recupero attraverso la lettura del lavoro di psicoanalisti e psichiatri come Bruno Bettelheim, R. D. Laing ed Erich Fromm. Quello che colpisce maggiormente, però, è qualcos’altro, che caratterizza sia il taglio analitico sia lo stile di scrittura. È la piena e matura capacità di declinare l’osservazione del sensibile – il ritorno al mondo delle cose di matrice husserliana – con lo straordinario vitalismo pionieristico di Ralph Waldo Emerson o Walt Whitman; di unire, cioè, lo spirito critico del pensiero europeo con la volontà di azione della cultura americana delle origini, al punto da considerare, al pari di William Carlos Williams, la stessa poesia come uno straordinario «campo d’azione» per chiunque ne fruisca (The Poem as a Field of Action, 1948). Non stupisce, quindi, che lo sviluppo della trattazione non abbia nulla di sistematico, anche se la sua articolazione in cinque capitoli tematici tradisce un tentativo opposto. Al contrario, la ricerca degli spazi e degli elementi architettonici capaci di innescare azioni spontanee di appropriazione si muove piuttosto liberamente, quasi con curiosità, fra architetture di epoche e culture diverse, incursioni artistiche e riferimenti filosofici e letterari dei più vari. Tutto, per Plummer, inizia con il suolo, con la possibilità, cioè, che la sua articolazione offre di rivivere le nostre potenzialità corporee nello spazio, al punto di trasformare il movimento stesso come un fine in sé. E qui si passa dalle scale

scavate nella roccia dei pueblos messicani a quelle della tradizione vernacolare mediterranea, dai ponti dei giardini giapponesi alla tomba Brion di Carlo Scarpa, dalle rampe di Le Corbusier alle passerelle di Arne Jacobsen; il tutto attraverso un gioco di citazioni mai gratuito, ma costruito sull’attenta analisi della natura tattile e cinestesica di ogni dettaglio materiale. I tre capitoli centrali, invece, da un certo punto di vista sono i più canonici, perché sono anche quelli che possono essere tradotti in altrettante strategie progettuali. Il primo, per esempio, sui meccanismi di trasformazione – tutti quegli elementi cinetici degli edifici, cioè, che siamo in grado di controllare direttamente – parla essenzialmente di flessibilità. Ancora una volta, però, concentrandosi sul manufatto piuttosto che sulla strategia, Plummer evita i riferimenti obbligati a Gerrit Rietveld e Le Corbusier, per guardare più da vicino l’architettura tradizionale, come quella giapponese o quella olandese. E da qui, costruisce un percorso autoriale che, da Frank Lloyd Wright a Steven Holl, passa per Pierre Chareau, Carlo Scarpa e Louis Kahn. Lo stesso parterre, più o meno, che popola anche il capitolo sugli spazi di versatilità, che invece guarda alle caratteristiche adattabili dello spazio attraverso la polivalenza dei suoi elementi. Qui, però, il riferimento obbligato al Team X e, in particolare, alla scuola strutturalista olandese non può in nessun modo evitarlo. E d’altra parte, l’opera di architetti come Giancarlo De Carlo, Aldo van Eyck e Herman Hertzberger ben

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si adatta all’approccio sensibile, esperienziale e fenomenologico dell’autore. Con alcune notevoli eccezioni, invece, è quasi del tutto senza autori il capitolo dedicato alla profondità della scoperta, che si concentra più chiaramente sui principi di articolazione di questi spazi; e quando vengono citati, non è quasi mai a proposito di intere architetture, ma piuttosto per mettere in luce singoli elementi, materiali, tagli di luce o tessiture. Il racconto, cioè, anche in questo caso non cerca mai una sorta di completezza disciplinare, ma segue le orme di un percorso ideale che, nell’attraversare un edificio, ne svela solo alcuni particolari, portando, così, a un senso di scoperta che diventa anche espediente narrativo. L’ultimo capitolo, infine, è il più complesso, anche dal punto di vista teorico. Perché se da un lato riprende gli argomenti trattati precedentemente per costruire una specie di conclusione, dal­ l’altro allarga lo sguardo per aprirsi al campo urbano e territoriale, e a un concetto – quello di «opera aperta» – che sembra portarlo a quel criterio di indeterminatezza del tutto estraneo alla sensibilità dell’autore. È proprio la sua sensibilità, però, a permettergli di chiudere il discorso in maniera coerente. L’idea di «campo di azione», infatti, con cui interpreta la possibilità evocativa di sistemi complessi, non ha a che fare con la mancanza di limiti, ma con la ricchezza di inviti all’agilità, alla trasformazione e alla scoperta; con la «porosità» di un’articolazione, cioè, caratterizzata contemporaneamente da un’«ampia gamma di prospettive» e da un «continuum spazia-

le» (p. 207). Così, ancora una volta, la possibilità che l’architettura offre di fare un uso creativo dello spazio sembra passare per la complessità, piuttosto che per l’astrazione della sua forma materiale. Certo, sia il taglio sia l’ottica del libro sono piuttosto parziali. In qualche modo, però, è proprio la loro natura sensibile ed esperienziale a farne un riferimento prezioso per la comprensione dei fondamenti del fenomeno architettonico. E anche se alcune considerazioni sulla contemporaneità – come la critica allo «spettatorismo» – possono sembrare datate, il libro ha l’indubbio merito di inserirsi in un dibattito attualissimo con una visione diversa e al contempo difficilmente confutabile, proprio perché radicata nelle azioni più concrete della vita quotidiana; e di fornire, così, riferimenti «altri» a chi, provando a valorizzare le capacità creative di chi abita uno spazio, volesse aggiornare quella mitologia del­ l’indeterminazione che – dai Situazionisti ai Radical, da Yona Friedman a Bernard Tschumi – appare forse un po’ usurata. J. L. AA.VV., La case dell’uomo. Abitare il mondo, UTET, Torino 2016. L’abitare ha accompagnato l’evoluzione dell’uomo, specchio della cultura e delle mode che nel tempo hanno caratterizzato la storia: è manifestazione del bisogno che l’individuo ha di appropriarsi del mondo. La casa rappresenta per l’uomo un rifugio, un luogo privilegiato caratte-


rizzato da fenomeni complessi: è uno dei più potenti elementi di integrazione dei pensieri e dei ricordi di chi la abita. La vita è oggi mutata nei suoi usi, costumi, e tutti gli sforzi che si compiono per creare un luogo, nel senso antropologico del termine, si scontrano con il cambiamento di scala della vita umana. In un momento storico e culturale in cui il concetto di «non luogo», teorizzato da Marc Augé nel 1992, sembra essere stato «digerito» e, per certi aspetti, superato, l’esigenza di «fare luogo» persiste ed è legata alla necessità del rapporto e del legame con gli altri. La socialità è cambiata: il concetto di social network o rete sociale riassume le contraddizioni della situazione odierna. L’uomo è un animale simbolico e ha bisogno di rapporti iscritti nello spazio e nel tempo; ha bisogno di «luoghi» in cui la sua identità individuale si costruisce nel contatto con gli altri, essendo messo alla prova dagli altri. I nuovi mezzi di comunicazione elettronica hanno portato ad una «spersonalizzazione» dei rapporti, a nuove forme di isolamento e alla costruzione di «altri luoghi». Se quindi i «non luoghi» sono il «contesto di ogni luogo possibile» che caratteristiche ha lo spazio dell’intimità? «Come crea­re un chez soi, una casa propria che sia anche un’apertura verso l’esterno?». Un etnologo, un architetto, un filosofo, due psichiatri, un missionario e tre antropologi riflettono sui temi dell’individualità e della condivisione sociale attraverso otto scritti, densi e ricchi di riferimenti, offrendo al lettore un

viaggio nel mondo alla scoperta de Le case dell’uomo. Il titolo appare familiare agli architetti: ricorda un noto testo di Leonardo Benevolo del 1976 – La casa dell’uomo per l’appunto – nonché il significativo sottotitolo attribuito da Ernesto N. Rogers alla rivista Domus, di cui è stato direttore dal gennaio 1946 al dicembre 1947. Per molti aspetti il volume in oggetto corrisponde al progetto editoriale di Rogers: è un «sistema» aperto, dinamico, che mira a comprendere il ruolo dello spazio domestico nella contemporaneità attraverso le esperienze di esperti provenienti da differenti mondi. Il saggio introduttivo di Marc Augé chiarisce il contesto sociale di riferimento e afferma La fine della preistoria dell’umanità come società planetaria. Secondo Augé ad una «geografia intima» si mescola oggi una «programmazione collettiva» della città in cui il concetto foucaultiano di «eterotopia» si concretizza attraverso la realizzazione di spazi connessi a tutti gli altri spazi, in grado di invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi generano. Il contesto è oggi planetario, si pone in termini nuovi e induce a nuove riflessioni. Da qui i contributi degli autori si susseguono definendo un panorama eterogeneo: sono variazioni sul tema in cui la casa viene interpretata come il luogo del compromesso perché in bilico tra intimità e condivisione, tra paura e desiderio di esternazione, tra stare e andare, tra individualità e collettività. In quanto luogo dell’io, mondo interiore in cui sentirsi protetti e allo stesso tempo aperti al mon-

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do, la casa è un riferimento per la psiche umana, come evidenziano Giuseppe Civitarese e Sara Boffio in Intime stanze. La casa della psicoanalisi. A partire da due dei luoghi freudiani più significativi «l’io è padrone in casa propria» (1916) e «La casa è una sostituzione del ventre materno, della prima dimora» (1929), gli autori accompagnano il lettore in un’immaginaria casa della psicoanalisi, un luogo limite, una finzione, una «casa virtuale» grazie alla quale l’analista è in grado di cambiare la realtà del suo interlocutore. Numerose sono le esperienze professionali riportate: i pazienti entrano in scena come i protagonisti di un romanzo la cui trama ha il fine dimostrare il valore terapeutico della casa nella psicanalisi. La paura, sentimento che induce alla ricerca di un luogo protetto entro cui sentirsi al sicuro, è il tema affrontato anche da Felice Cimatti. L’autore propone un parallelo tra uomo e animale e tra case e tane quali rispettivi luoghi dell’abitare. L’umano è quell’animale che proprio perché non ha paure innate, ha paura della paura. Siccome non c’è un pericolo specifico, allora ha paura di tutto quello che potrebbe essere pericoloso. Per sentirsi al sicuro costruisce un recinto, determina un confine, seppure labile ed effimero, entro cui proteggere se stesso e ciò a cui tiene. Il filo spinato è secondo Cimatti il simbolo del pensiero umano, una prima casa. È uno strumento di difesa, un’arma, che protegge l’uomo da tutto ciò che non può controllare e addomesticare. Case e tane. Luoghi animali evidenzia la differenza tra specie viven-

ti a partire da simboli come l’alveare e lo zoo, caso limite della casa umana. Adriano Favole, Francesco Remotti e Renato Kizito Tesana indagano la convergenza tra civiltà e modi di vivere. L’approccio all’abitare, in una prospettiva antropologica, ha comportato storicamente lo studio della varietà culturale, ecologica, sociale ed economica della casa. Quelle forme, tuttavia, non sono state soltanto l’oggetto di curiosità a volte esotica, erotica ed estetizzante, ma anche il terreno di un forte scontro tra culture e poteri. I modi dell’abitare (nomadi vs stanziale, precario vs stabile, abusivo vs regolare) sono spesso al centro di tensioni, polemiche, azioni di forza volte a uniformare stili e abitudini. Il primo saggio, Punti d’approdo: sull’abitare molteplice, indaga i temi proprosti attraverso lo stare e l’andare, il fermarsi e ripartire, analizzando alcuni modelli abitativi delle società oceaniane. Quello che colpisce di queste realtà è la compresenza tra l’abitare radicato, tra la casa intesa come luogo dell’identità, […] una sorta di monogamia abitativa e l’abitare molteplice, la poligamia del­l’abitare. Favole individua tre modelli – «abitare reticolare», «abitare ad arcipelago», «abitare “articolato”» – in grado di definire la molteplicità abitativa della società contemporanea, neo-nomadica e globalizzata. Abitare, sostare, andare: ricerche fughe dall’intimità riprende le tematiche sino ad ora analizzate. Remotti indaga l’idea di rifugio, di riparo, proponendo come modello alcune abitazioni di villaggi in Congo, in Papua


Nuova Guinea e in Africa Occidentale. Il saggio tratta dell’importanza della casa e dalla nozione di «interno» come luogo del gesto, spazio intimo e allo stesso tempo aperto alla condivisione. Se la vita sociale è paragonabile ad una recita sul palcoscenico, l’essere umano ha bisogno di un «retroscena», un luogo grazie al quale poter uscire dal ruolo e smettere di recitare, un luogo dove la sua “intimità” possa fargli da scudo protettivo. Sesan, giornalista e missionario, approfondisce invece il concetto di limite proponendo alcune esperienze da lui condotte negli slum di quella grande periferia che è l’Africa. L’instabilità sociale, la scarsa qualità delle abitazioni – baracche in legno e lamiera – l’inesistenza del diritto abitativo e la mancanza di servizi determina l’impossibilità di un’esistenza dignitosa. Daniel Miller offre un quadro differente. Interni domestici offline e on-line è un contributo originale che affronta in parallelo la concretezza e la virtualità dello spazio domestico L’autore, ripercorrendo gli studi condotti negli ultimi anni, propone numerose esperienze: da un lato racconta di persone che considerano lo spazio abitativo come un curriculum vitae, un luogo in cui gli oggetti personali raccontano la loro esistenza e quella dei propri cari, da un’altra quella di coloro che considerano i social network un’estensione del proprio spazio domestico, dimostrando come le nuove tecnologie siano un modo per risiedere fisicamente in un luogo e vivere in un altro. Il saggio è probabilmente uno dei più affascinanti, perché rappresenta-

tivo del nostro tempo: l’uomo è allo stesso tempo padrone del proprio spazio, curatore di un piccolo museo caratterizzato da oggetti «feticcio» che raccontano la sua storia e cittadino del mondo, sempre connesso, e proprietario delle infinite «stanze» presenti nel proprio portatile o smartphone. Gli oggetti parlano di noi e le definizioni di arredo oscillano tra due limiti estremi, come il moto di un pendolo. A un estremo c’è la casa intesa esclusivamente nella sua funzione, come freddo strumento d’uso. All’altro estremo c’è la casa intesa come espressione poetica, come sentimento, come spazio psichico. Tecnologia contro emozione? Prodotto meccanico con­ tro oggetto fatto a mano? Industria contro artigianato? Questi sono i temi velatamente presenti in tutto il volume ed esplicitati da Alessandro Mendini in La casa emozionale. Le innumerevoli informazioni, i troppi riferimenti visivi e modelli di comportamento inducono, in un momento di scivolamento delle arti visive e di revisione dei processi industriali, a pensare all’oggetto d’uso come sintesi di meccanismi che non transitano più per il design. Oggi è necessaria una visione di tipo editoriale che metta in dialettica fra loro singoli oggetti e invenzione, che si configuri essa stessa come invenzione estetica meta progettuale. L’ipotesi è quella di una creatività diffusa in cui trovino spazio il mondo del bricolage e dell’autoproduzione: un micro-sistema vicino alla nostra vita […] una presenza romantica in cui prevale il gradiente antropologico, perché as­

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sicurato dall’individualità del­ l’autore, della manualità e dal piccolo numero. Natura/contesto, casa/rifugio, uomo/animale, oggetto/arredo, sono probabilmente i quattro binomi ricorrenti negli otto saggi che compongono questo volume. Chi immagina di leggere un testo che tratta di architettura, potrebbe inizialmente rimanere deluso, ma esplorando passo dopo passo le «stanze» progettate dagli autori, scoprirà di aver acquisito un interessante e poco scontato quadro sui temi dell’abitare e dello spazio domestico. Le case dell’uomo. Abitare il mondo è un caleidoscopio di esperienze, un cannocchiale su mondi differenti densi di riferimenti e suggestioni. Come si possa abitare il mondo oggi e quale sia la «forma» della casa dell’uomo resta una questione aperta. V. S. R. Capozzi, L’architettura del­ l’I­postilo, Aión, Firenze 2016.

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In linea con gli orientamenti specifici che caratterizzano la sua attività teorica, Renato Capozzi torna ad interrogarsi sui valori es­senziali dell’architettura, sul significato profondo di cui è portatrice, alla ricerca di un suo statuto ontologico, svincolato dai fattori contingenti. Questa indagine sul senso della pratica architettonica, che costituisce lo sfondo d’elezione nell’ambito della sua produzione teorica, rappresenta un filo conduttore capace di infondere coerenza metodologica alle sue molteplici ricerche: dai temi inerenti la costituzione teorica del progetto, all’analisi

dei suoi caratteri compositivi; dagli studi monografici su illustri rappresentanti dell’architettura del Novecento, alle speculazioni intorno al binomio filosofia-architettura, con particolare riferimento agli indirizzi del dibattito più attuale. Inserendosi nel filone tracciato da Le architetture ad Aula: il paradigma Mies van der Rohe (2010) e L’idea di riparo (2012), entrambi editi da Clean, L’architettura dell’Ipostilo prosegue questa serie di studi di teoria del­ l’architettura in cui Renato Capozzi mette in evidenza il ruolo di primo piano assunto dalle forme archetipiche e l’importanza dei rapporti che si stabiliscono tra i termini del trinomio formacostruzione-tipo per la determinazione del principio compositivo di riferimento. Se nel primo dei tre volumi il motivo d’indagine riguardava il rapporto tra il tipo ad Aula ed il tema dell’edificio pubblico, mentre nel secondo l’oggetto di studio si basava sulla costruzione sintattica, attraverso forme elementari, del riparo come primaria idea spaziale, nel testo pubblicato da Aión è la sistematica esposizione del principio compositivo archetipico del­ l’Ipostilo, con le sue varie declinazioni, a costituire il protagonista della trattazione, così come annunciato dal titolo del libro. Obiettivo comune di questi scritti è la definizione di alcuni fondamenti compositivi o, per dirla con Gustav Adolf Platz, dei principi che regolano le «leggi della composizione architettonica», dal titolo di un capitolo di Die Baukunst der neuesten Zeit (1927). Per specificare meglio le fina-


lità del testo in esame, è opportuno affiancare a questa succinta premessa un importante rilievo fatto da Carlo Moccia nel bel saggio introduttivo: Renato Capozzi, in questo libro, scrive del valore dell’archetipo per il progetto e, nello stesso tempo, del valore del progetto per il rinnovamento e l’attualizzazione del senso definito dall’architettura. Tale rapporto di biunivocità tra l’archetipo e il progetto quale relazione primaria di costituzione del senso dell’architettura, rivela l’importanza attribuita al fare architettonico contemporaneo per sostenere il radicamento della disciplina su binari metastorici. Questo riferimento ad un trascendimento delle circostanze storiche manifesta, da parte del­ l’A., un’interpretazione dell’architettura come aspirazione ad una certa idea di «classico». Come lo stesso Capozzi afferma nel citato testo intitolato Le architetture ad Aula: «il classico fondato sui principi e non sulle forme riesce ad avere un valore universale. Per “tendere al classico”, come aspirazione limite, si deve ricostruire un ordine che legittimi gli atti del comporre, che li riporti a delle regole che ne consentano l’intelligibilità e che renda possibile riconoscere dei tipi trasmissibili e delle forme riconoscibili». Ne L’architettura dell’Ipostilo questo principio d’ordine legittimante, meglio definito dall’A. come sintetica combinatoria di elementi primi, è rappresentato dall’archetipo dell’Ipostilo, posto a fondamento della costruzione tettonica. In riferimento a que­ st’ultima e alla categoria opposta, la stereotomia, si deve ancora a Platz una definizione molto ef-

ficace: dobbiamo a Gottfried Semper la formulazione di questi concetti fondamentali. La loro applicazione ci fornisce nella forma più semplice la spiegazione della natura di due modalità creative e tendenze concettuali che determinano la struttura dello stile. Ma la premessa ideologica alla base di questo libro, che riflette una esigenza quanto mai attuale, esprime la necessità di porre un argine a quella parte di architettura contemporanea che programmaticamente ha rinunciato ad ogni legame con l’adeguatezza delle forme, con la costruzione e con la possibilità di definire caratteri appropriati ai temi assunti. Questa dichiarata posizione dell’A. sarà ripresa in più punti del testo per ribadire l’infondatezza teorica di alcuni tentativi di traslitterazione operati tra le tendenze filosofiche post-strutturaliste e le più recenti correnti architettoniche. Ispirata agli stessi principi di chiarezza che contraddistinguono le riflessioni di Renato Capozzi è la struttura del testo. Esso risulta articolato in quattro parti caratterizzate da un duplice taglio narrativo: l’uno di natura teo­rica, fortemente connotato sul piano filosofico; l’altro contrassegnato da un indirizzo più operativo, anche grazie al supporto di un denso apparato illustrativo composto da ridisegni planimetrici, schizzi di progetto, assonometrie, tavole di concorsi e fotografie di architetture rappresentative. Infine, un’ultima sezione è posta a conclusione del libro. Essa riguarda i contributi di studiosi e ricercatori volti all’approfondimento di alcuni aspetti del­

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l’Ipostilo, con particolare riferimento all’operato di importanti architetti del panorama italiano e internazionale. Peraltro, questo doppio ordine di lettura appena evidenziato risulta funzionale per una più ampia apertura alla platea degli utenti: da un lato, per le sue valenze teoriche, costituendo un contributo significativo sia per gli studi di teoria dell’architettura, sia per la vasta tradizione di ricerche sulla tettonica – dagli studi di Karl Bötticher alle formulazioni semperiane, fino alle più recenti elaborazioni di Frampton e Marco Pogacnik; dall’altro, costituendo un manuale di riferimento per lo studente che voglia indagare le potenzialità più concrete di questo principio compositivo. Ritornando alla struttura del testo, nelle prime due parti, che costituiscono la base teorica del­ l’archetipo in esame, oltre ai principi di carattere generale su un’idea di configurazione spaziale afferente alla scuola formalista improntata al celebre Vita delle forme di Henri Focillon, vengono enunciati gli elementi primari dell’Ipostilo e la sua vocazione come principio compositivo di riferimento dei tipi collettivi. Quest’ultima caratteristica, condivisa con il tipo dell’Aula, darà modo all’A. di affrontare in un paragrafo specifico il rapporto tra tre temi principali, rispettivamente oggetto di questo libro e dei due citati in precedenza: l’Ipostilo, il riparo, l’Aula. Si evince, da queste prime argomentazioni, la volontà di mettere a fuoco le forme elementari e i rapporti sintattici che intercorrono tra esse, in modo tale da rifuggire della lettura dello spazio come

vuoto informe, in forza di una sua misurabilità come condizione preliminare dell’abitare. In conclusione di queste due parti, prima di passare alle applicazioni e varie declinazioni che l’ipostilo ha avuto nel corso della storia, fino ad arrivare alle sperimentazioni più attuali, viene messo in luce uno degli aspetti più significativi di questo archetipo: la sua capacità generativa. Tale caratteristica, oltre a costitui­ re un fattore predisponente per le argomentazioni dei successivi capitoli, diventa determinante in vista del rinnovamento dei valori semantici dell’architettura, come evidenziato da Carlo Moccia nel passo citato in precedenza. In merito a questo fondamentale aspetto, vale la pena riportare una riflessione dell’A. dalle più ampie valenze: l’Ipostilo, pur non essendo “trascendentale” come condizione innata preesistente […] di fatto lo diventa nel senso di essere germinale e produttivo di ulteriori e sempre diverse concrete strutture formali di cui diventa la condizione implicita per realizzare (reificare) e trattenere nel finito, nel misurabile, l’idea dell’infinito e smisurato che la natura mutevole e cangiante ogni volta ci induce con sfuggenza. Venendo alle ultime due parti del testo, caratterizzate da una finalità, oltre che teorica, di carattere più applicativo, in esse vengono analizzate le caratteristiche compositive dell’Ipostilo in seguito alle varie declinazioni che ha assunto nelle diverse epoche storiche. A partire dall’architettura egizia, passando per quella greca e romana, saranno le riformulazioni operate nell’ambito


dell’architettura moderna ad imprimere una decisiva riconfigurazione nei modi compositivi del­ l’archetipo in esame. Tali rivoluzionarie sperimentazioni, inaugurate grazie alla pionieristica opera di Auguste Perret, saranno trattate con particolare riferimento alle applicazioni dei maestri del Movimento Moderno (Le Corbusier, Mies, Wright). Per quanto riguarda le modalità applicative di questo principio conformativo relativamente alla ricerca architettonica contemporanea, Capozzi mette in evidenza un significativo passaggio di scala come condizione peculiare delle nuove sperimentazioni. Tale caratteristica è riscontrabile non soltanto nella proiezione dei manufatti architettonici negli spazi urbani, ma anche nelle amplificazioni dimensionali delle stesse architetture. Le opere selezionate per la trattazione di questo percorso più attuale sono quelle che manifestano un’attitudine compositiva capace di proseguire il «progetto incompiuto» della modernità, una tematica su cui l’A. ha esposto interessanti contributi critici.

A voler indicare una importante lezione, che emerge con forza dalle pagine del libro, questa può ricercarsi nella funzione sociale dell’architettura, espressa attraverso le combinazioni sintattiche germinate dall’archetipo dell’Ipostilo le quali, rifuggendo da finalità autocelebrative, sono indirizzate ad una più condivisa dimensione sociale del progetto. Tale esigenza risulta significativa alla luce delle circostanze storiche attuali. Come rilevato dallo stesso Capozzi in un libro del 2008 curato insieme a Federica Visconti dal titolo Architettura razionale: nell’attuale “condizione postmoderna” si è semplicemente smarrita ogni idea di “collettività pensante” o di “cittadinanza consapevole” e cosciente del proprio ruolo, sostituita da una sommatoria di individualismi che si ipostatizza in una “massa plastica uniformata”, facilmente orientabile e deformabile di consumatori determinati nei bisogni e nel pensiero da fatti esterni alla propria natura sostanziale. A. T.

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Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 1.  Le «Nuove Iconi» e la «civiltà del consumo» - Architettura utopistica - La sociologia dell’arte dei sociologi - Esperienze della Biennale - Tecnologia e poetiche contemporanee - Nouveau roman e arti figurative - Il Gaudi di Pane (fascicolo esaurito) N. 2.  Design e mass media - Gestalt prima e dopo - L’estetica neonaturalistica di Romanell - Della Pop Art e di una mostra a Vienna - La poetica urbanistica di Lynch - Semantica dell’arte - Architettura come linguaggio (fascicolo esaurito) N. 3.  Architettura e cultura di massa - Alcuni temi dell’Informale - Kunstwollen e intenzionalità in E. Panofsky - Dal pragmatismo alla fenomenologia - Libri, riviste e mostre N. 4.  La critica discorde - S.K. Langer, L’influenza sociale del design - T. Munro, Recenti sviluppi dell’estetica in America - G. Veronesi, Sull’architettura del secolo - L. Vinca Masini, Le mostre dell’estate ’65 - Libri, riviste e mostre N. 5.  I criteri di valutazione dell’arte contemporanea - Una politica culturale per i socialisti - Il visual design - Pareri sulla IX Quadriennale - Libri, riviste e mostre N. 6.  Il disegno di architettura - J.P. Hodin, Esiste un’estetica dell’arte moderna? - Alcune voci dell’urbanistica contemporanea - Breve antologia delle ultime Biennali - Libri, riviste e mostre N. 7.  Note per una semiologia figurativa - W. Hofmann, Gli inizi dell’attività formale - E. Garroni, 33a Biennale di Venezia: «jeu» e «sérieux» - Libri, riviste e mostre N. 8.  Artisticità dei mass media - B. Jessup, Arte e storia - Il design scientifico di Alexander - Incontri di studi urbanistici - Libri, riviste e mostre

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N. 9.  Il pensiero estetico di Adorno - 4 artisti scelti da Barilli - A. Vivas, Filosofia della cultura, estetica e critica: alcuni problemi - Libri, riviste e mostre


N. 10.  Il premio IN/ARCH alla nostra rivista - R. Barthes, Semiologia e urbanistica - Nuove idee per la Gescal - Il metodo scientifico nella pianificazione - G. Veronesi, Su alcune mostre dell’estate italiana - Libri, riviste e mostre N. 11. G. Morpurgo-Tagliabue, L’arte è linguaggio? - Urbanistica e arti visive oggi - Valori ed obiettivi nella pianificazione - Libri, riviste e mostre N. 12.  Tre contributi alla semiologia architettonica - E. Garroni, L’eterogeneità dell’oggetto estetico - V. Corbi, Questioni di estetica empirica - A. Perez, Riflessioni di uno scultore sul tema dello spazio - Libri, riviste e mostre N. 13. L’«environmental design» e il suo insegnamento - Per una teoria dell’architettura - L’estetica del «pensiero negativo» in Marcuse - Libri, riviste e mostre N. 14.  La prossemica: un nuovo apporto all’architettura? - La poetica del­ l’arte povera - Note sull’Università e la professione - O. Ferrari, Una Biennale rimasta senza giudizio - Libri, riviste e mostre N. 15.  I problemi dell’istruzione artistica - R. Segre, Presenza di Cuba nella cultura architettonica contemporanea - Architettura fra retorica e logica Libri, riviste e mostre N. 16.  Significanti e significati della Rotonda palladiana - G. Dorfles, Valori iconologici e semiotici in architettura - Attualità della retorica - Libri, riviste e mostre N. 17.  Il centro della città (definizioni) - M. Tafuri, Ambiguità del Guarini - Lettura storico-semiologica di Palmanova - Libri, riviste e mostre N. 18.  L’architettura per l’Università - E. Garroni, Semiologia e architettura. Alcuni problemi teorico-applicativi - Recenti contributi allo studio dell’«environmental design» - Libri, riviste e mostre N. 19.  Segni e simboli del tempietto di Bramante - Note sull’immaginario in Filarete - Philip Johnson: la funzione della maschera formale - Biennale/ricerca - Libri, riviste e mostre N. 20.  Utilità storiografica di una dicotomia linguistica - Meaning in Architecture - La cultura di Le Corbusier - New Towns (definizioni) - Libri, riviste e mostre N. 21.  Note per una epistemologia della rappresentazione visiva - G. Bonsiepe, Panorama del disegno industriale - Per una poetica del profondo: Blaue Reiter - Libri, riviste e mostre N. 22.  Nomi, luoghi, immagini di città nella «Recherche» di Proust - U. Eco, Analisi componenziale di un segno architettonico - Percezione ed esperienza estetica - Libri, riviste e mostre

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N. 23.  La «riduzione» culturale - Libri, riviste e mostre N. 24.  «Arquitectura, historia y teoria de los signos» - Note di terminologia semiotica - Il design: processo e fruizione - Il «silenzio» dell’architettura contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 25.  Note sull’arte concettuale - L. Benevolo, La recente storiografia della città - Lo storicismo e i confini della semiologia - Città-pubblicità: sul caso Las Vegas - Libri, riviste e mostre N. 26.  La «riduzione» culturale nella progettazione architettonica - R. Barilli, Le due anime del concettuale - G. Morpurgo-Tagliabue, Commento alla «riduzione» culturale - L’antidesign - Libri, riviste e mostre N. 27.  Altri aspetti della «riduzione» culturale - Interventi: G. Dorfles, Riduzione ad oggetto, riduzione a progetto - P. Fossati, Riduzione o trasformazione? - T. Llorens, Sul concetto di comunicazione estetica - Libri, riviste e mostre N. 28.  Elementi semiotico-progettuali d’architettura - M. Krampen, Dalla semiologia della comunicazione alla logica degli strumenti - Libri, riviste e mostre N. 29.  Per una lettura semiotica della prospettiva - Elementi di una tendenza dell’architettura italiana - XV Triennale - Libri, riviste e mostre N. 30.  Problemi di semiotica dell’arte contemporanea - B. Zevi, Sei postille su «Il linguaggio moderno dell’architettura» - Alcune opinioni sull’iperrealismo - Libri, riviste e mostre N. 31.  Elementi della progettazione scientifica - Il segno indefinito della semiologia urbanistica - Note sulla cultura a «mosaico» - Arbitrarietà e motivazione del linguaggio architettonico - Libri, riviste e mostre N. 32.  L’eccentrismo, un momento della avanguardia sovietica - U. Eco, Chi ha paura del cannocchiale? - Nota sul segno urbanistico - I segni e le «figure» del Padiglione di Barcellona - Libri, riviste e mostre N. 33.  Architettura come istituzione - Il «ritorno» alla pittura - Università: le parole e le cose - Libri, riviste e mostre N. 34.  Dall’estetica alla semiologia - La teoria di Hjelmslev e l’architettura: alcuni problemi - Il «realismo» di Giuseppe Samonà - Libri, riviste e mostre N. 35.  Attualità dell’iconologia: alcune questioni metodologiche - R. Barilli, Difficoltà di un approccio semiotico alla culturologia - L’editoria architettonica - Libri, riviste e mostre

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N. 36.  I centri storici nella prospettiva semiologica - Le idee di teatro, oggi - Una riproposta del «multiplo» - Libri, riviste e mostre


N. 37.  Dialettica del «piacere» e identità dell’architettura - Assenza-presenza: due modelli per l’architettura - La «storia dell’arte» nelle scuole - Libri, riviste e mostre N. 38.  Le ricerche di architettura più attuali ed insolite - Dalla fotografia al videotape - Analisi di un corso di laurea: il Dams - Libri, riviste e mostre N. 39.  La sociologia del gusto di Jean Baudrillard - Le posizioni di […] su alcuni temi della critica architettonica in Italia - Libri, riviste e mostre N. 40.  «Aforismi» sui centri storici - Note sulla simmetria in architettura Bataille e la “svolta” di «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 41.  Dipartimento e «architettura» - La «rappresentazione» tra storia del teatro e semiotica - La critica d’arte in «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 42.  L’idea di pittura in Lévi-Strauss - Sul concetto di gusto - Alcuni contributi alla critica dell’inconscio - Libri, riviste e mostre N. 43.  La post-avanguardia - Luoghi e luoghi comuni della recente critica d’arte - Narciso e «l’altro»: note sul dibattito architettonico - Libri, riviste e mostre N. 44.  Architettura: la «rimozione del nuovo» - Ipotesi per il segno iconico - Storia dell’arte, storia delle cose - Libri, riviste e mostre N. 45.  Topologia e architettura - La casa: norma e «deroga» - Artisti e cinema - Libri, riviste e mostre N. 46.  I quindici anni della nostra rivista - L’Architettura all’Ecole des Beaux-Arts - La Storia dell’arte Einaudi - Una griglia che non sia una grata N. 47.  Architetto e ingegnere - Le scuole di critica d’arte in Italia - L’immaginario nella cultura di massa - Libri, riviste e mostre N. 48.  Prima e dopo il Post-Modernism - L’iconizzazione del mobile - Civiltà del ’700 a Napoli - Libri, riviste e mostre N. 49.  Il restauro architettonico: ricchi apparati e povere idee - F. Menna, La Biennale di Venezia. Gli anni settanta: questi (mi)sconosciuti - Critica d’arte e processi produttivi - Libri, riviste e mostre N. 50.  Fortuna critica della «Tendenza» - R. Bonelli, Storiografia e restauro - La fotografia: indice o icona? - Libri, riviste e mostre N. 51.  Classicismo e razionalismo in J.N.L. Durand - Modelli interpretativi delle tendenze artistiche odierne - Architettura come testo - Libri, riviste e mostre N. 52.  L’espressione «Movimento Moderno» - Indagine su Carlo - Note sulla Transavanguardia - Libri, riviste e mostre

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N. 53.  Il design tra «radicale» e «commerciale» - Dalla «ruminazione» dei guerrieri greci all’«insonnia» dell’estate romana - Fortuna degli slogans Libri, riviste e mostre N. 54. Disincantamento e restaurazione - Lutyens fra storia e critica - Il Bauhaus e il teatro tedesco - Libri, riviste e mostre N. 55.  Continuità e Protorazionalismo - Se questo è un quadro allora non è un quadro - Gli oggetti di domani - Design come motto di spirito - Libri, riviste e mostre N. 56.  Dall’America. Warhol e Kosuth - Il design dell’«altra avanguardia» - L’International Style cinquant’anni dopo - Libri, riviste e mostre N. 57.  Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58.  E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59.  Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60.  Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61. Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62.  Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63.  Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64.  Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65.  Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre N. 66.  Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre

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N. 67.  Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre


N. 68.  Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69.  Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70.  Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71.  Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72.  Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73.  Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74.  Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75.  Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76.  I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre N. 77.  Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre N. 78.  L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79.  Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80.  Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81.  Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82.  Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre N. 83.  Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre

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N. 84.  Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85.  Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86.  Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87.  Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88.  L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89.  Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90.  L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91.  «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92.  Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93.  La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94.  Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95.  Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96.  Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97.  Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98.  Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre

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N. 99.  Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre


N. 100.  Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101.  Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102.  Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103.  Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104.  La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105.  L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106.  Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107.  Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108.  Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109.  Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110.  Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111.  Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112.  Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113.  Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114.  L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115.  L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre

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N. 116.  Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117.  Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118.  Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119.  L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120. Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121.  La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122.  L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123.  Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125.  Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126.  L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127.  Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128.  Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129.  Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI


N. 131.  Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132.  Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133.  Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134.  Abitare la razionalità - Per una nuova clas­si­ficazione delle arti - Il design ae­ro­nautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135.  Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137.  Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138.  Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­ l’ADI N. 139.  Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibattito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 150. Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 151. I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale - Le pagine dell’ADI N. 152. Due modi di essere nel web - De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità - La crisi del prodotto nel “design del prodotto” - Libri, riviste e mostre N. 153. La fine del disegno? - Happening come rituale dell’interazione Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli - Libri, riviste e mostre

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N. 154. Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione - Ancora sul rapporto tra arte e pubblico - Design: scenari morfologici della contemporaneità - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI


N. 155. Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia - Realismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Realismo e Postmodernismo - Della omologazione in architettura - Arti visive: da zona franca a fronte comune - È del designer il fin la meraviglia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 156. Architettura in mostra: il caso «Comunità Italia» - Modern/post: un territorio in-between - «Mostrismo»: un’avanguardia globale per un paradigma espositivo - Moda: sistema e processi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Campania N. 157. Editoriale - Una “ipostasi” della forma-tatuaggio - Aspetti e intenti del graffitismo d’oggi - Lebenswelt e architettura - Design vs Lebenswelt Libri, riviste e mostre N. 158. Architettura e qualità nell’età dei concorsi - La nostalgia nella cultura digitale - Conformazione e trasformazione degli spazi interni - La ricerca di una definizione di design - Libri, riviste e mostre

Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998 «Grafica Elettronica» - Via Bernardo Cavallino, 35/g - 80128 Napoli

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ISSN 0030-3305

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