Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea Direttore:
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Electa Napoli
L. SACCHI, V. PASCA, D. Russo,
CittĂ e architettura: ipotesi per il futuro Il Design oggi Neo-avanguardie visive? Libri, riviste e mostre le pagine dell'ADI
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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Ilaria Abbondandolo, Alessandro Castagnaro, Maria Leoni, Francesca Rinaldi, Titti Rinaldi, Dario Russo.
di vista dell'autore - e della maggiore o minore possibile condivisione di esse, resta il fatto, per noi architetti molto interessante, che la storia economica, politica, sociale, ideo logica ecc. dell'umanità possa essere efficacemente riper corsa proprio attraverso il paradigma urbano. L'importanza assunta dalle città del mondo per la cul tura architettonica contemporanea è, a ben guardare, ab bastanza recente: è solo da pochi decenni infatti che la globalizzazione professionale ha portato i progettisti a mi surarsi sempre più spesso con paesaggi urbani e contesti fisici e culturali diversi, anche se tali scambi sono in realtà limitati alle aree metropolitane in forte espansione economica e, di conseguenza, edilizia. Va poi detto che molti fra i progettisti la cui attività professionale ha assun to dimensioni globali, sono stati costretti a ripartire, da un punto di vista teorico, praticamente da zero: i seminali e pur magistrali affreschi delineati da Aldo Rossi con L •ar chitettura della città e da Robert Venturi e Denise Scott Brown con Complexity and Contradiction in Architecture, entrambi pubblicati nel 1966, o da Christian Norberg Schulz con Genius Loci, uscito invece nel 1979, hanno inevitabilmente subito un graduale processo di appanna mento dovuto al passare del tempo e ai sempre più rapidi mutamenti culturali. Ma va anche ricordato che tale re cente interesse dei progettisti per le città è stato, nei fatti, ampiamente ricambiato: sempre più spesso queste ultime affidano agli architetti la gestione del proprio futuro, con ferendo a essi, non senza una dose d'ingenuità, un ruolo che ha talvolta del demiurgico e investendo in misura sempre crescente l'architettura del ruolo di prima donna sulla scena urbana: si è così invertita una tendenza che dagli anni sessanta in poi l'aveva più o meno sistematica mente esclusa.
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Molte volte le città sono state in passato, sono oggi e soprattutto saranno domani più importanti e significative
degli stessi rispettivi paesi d'appartenenza. Saskia Sassen, fra le studiose più attente di tale rinnovata centralità delle maggiori realtà metropolitane, osserva: Se gli stati riman gono ancora gli attori principali, essi hanno tuttavia perso almeno una parte del terreno economico, politico e simbolico a favore di altri attori: le aziende globali e le città globali ... In molte parti del mondo e in molti gruppi di popolazione la cultura urbana è attualmente un'immagine molto più avvincente della cultura nazio nale e sempre più viene vissuta come parte di un'urba nità transnazionale2 • A tale graduale perdita d'importanza degli stati rispetto alle città, corrispondono la formazione di modi e stili di vita urbani, per certi versi e pur nella loro originalità, sempre più simili fra loro: in altre parole, gli abitanti delle grandi città hanno già, e avranno sempre più, comportamenti analoghi, pur abitando città fisicamente lon tane; mentre tendono già, e tenderanno sempre più, ad avere comportamenti dissimili da quelli degli abitanti dei piccoli centri e delle aree rurali, anche se geograficamente vicini. All'interno delle città si svolge la vicenda della vita dell'uomo, ripercorsa dall'autore francese essenzialmente come un percorso di progressiva "liberazione": quest'ulti ma fondata sulle idee originariamente sviluppate in ambito greco-giudaico, secondo le quali la libertà è un fine, il rispetto di un codice morale una condizione di soprav vivenza, la ricchezza un dono del cielo, la povertà una minaccia3•
Attali richiama una serie di dati e proiezioni ormai noti a tutti: nel 1950 c'erano al mondo 80 città con oltre 1 milione di abitanti, nel 2015 queste saranno 550; da altri dati, altrettanto recenti, 336 sono quelle che superano oggi il milione di abitanti. A partire dall'anno appena trascorso, il 2007, oltre metà della popolazione mondiale vive già in città. Se oggi le metropoli con oltre 10 milioni di abitanti sono soltanto 16, nel 2015 saranno 24. Con l'eccezione di
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Tokyo, New York e Los Angeles, 9 delle 12 città più po polose si troveranno nel "sud" del mondo. Straordinaria la loro diversità: città globali come Tokyo, New York e Lon dra, veri e propri centri decisionali dell'economia mon diale, sempre più strettamente interrelati tra loro (ma sono anche fra le aree metropolitane più popolose: Tokyo con i suoi 35 milioni, è al primo posto; New York, che supera i 18, al terzo; Londra è prima nell'Europa occidentale, com parendo spesso, assieme a Tokyo, fra le più costose); città monstre per dimensione demografica come Mumbai, Kara chi e Dehli (che occupano, nell'ordine, i primi posti per popolazione e gli ultimi per indici di ricchezza; Mumbai in particolare, secondo proiezioni elaborate dalle Nazioni Unite, entro il 2050 sostituirà Tokyo come la più popolosa del mondo), ma anche Mexico City e San Paolo (rispetti vamente al secondo e quarto per popolazione, se si guarda alle aree metropolitane); città-stato come Singapore; stati città come i Paesi Bassi; città capitali dislocate all'interno di distretti federali autonomi come Washington o com'è probabile che si collochi Bruxelles dal punto di vista am ministrativo in un futuro non lontano; città della storia come Il Cairo, Atene, Roma e Istanbul (quest'ultima è ottava nel mondo per popolazione, in Europa seconda solo a Mosca); città frutto di un progetto unitario come San Pietroburgo o come le nuove capitali disegnate nel corso del XX secolo, da Canberra a New Dehli, da Chandigarh a Brasilia; città sante come Gerusalemme, La Mecca o la stessa Roma; città lineari come quella che in Italia si è formata lungo la costa adriatica; città poverissime come Calcutta o Dacca (le cui aree metropolitane sono rispetti vamente al settimo e dodicesimo per popolazione); ric chissime come le svizzere Zurigo, Basilea, Ginevra e Lu gano (che si collocano nei primi cinque posti di tale invi diabile classifica), ma anche Oslo (al quarto); città gemel le, che condividono le loro infrastrutture come Dallas-Fort Worth o Minneapolis-St. Paul negli Stati Uniti, o aree urbanizzate transnazionali come la regione dell'Oresund 8
fra Danimarca e Svezia, di cui fa parte Malmo, di recente unificata dalla realizzazione del ponte; città contigue ma separate dal drammatico confine fra ricchezza e miseria come la californiana San Diego e la messicana Tijuana; città relativamente piccole ali' interno di zone urbanizzate estese e popolose come, per restare in ambito italiano, Milano o Napoli (rispettivamente prima e seconda fra le aree metropolitane del paese); e città relativamente grandi ma isolate ali' interno di un territorio ancora per lo più rurale come Roma; grandi città simbolicamente coincidenti con la nazione di cui fanno parte, come Parigi, e nazioni, viceversa, storicamente rappresentate da una pluralità di centri diversi come la Germania o la stessa Italia; città museo come Ouro Preto e Firenze; città-isole come Venezia (che è anche, sempre più, città-museo per eccellenza), o come le già citate Singapore e New York (l'unico fra i suoi cinque boroughs a far parte del continente è il Bronx) o Montreal, circondata dalle acque del San Lorenzo; città che godono di statuti economici speciali come Shanghai o Dubai; città espressione di sistemi urbani multipolari come Hong Kong e la conurbazione del Pearl River Delta; città sempre più simili a grandi parchi tematici come Las Vegas; città vorticosamente in crescita come Seoul e ancora Shan ghai (rispettivamente al settimo e al quarto posto nel mondo; la seconda, in particolare, fino a dieci anni fa non aveva più di trecento edifici alti più di dieci piani, oggi ne ha quasi tremila); città-regioni senza centro come Los Angeles (che passa da meno di 4 milioni a oltre 12 se la si consi dera assieme alla sua sconfinata area metropolitana); città che sorgono in contesti naturali eccezionali come Rio de Janeiro, San Francisco, Sydney. Vancouver o Napoli e città che sorgono in mezzo al niente come Houston; città climaticamente estreme, e pertanto piccole, come Jakutsk in Siberia o Reykjavik in Islanda, ma anche come Ryadh, in Arabia Saudita, che conta comunque oltre 5 milioni di abitanti; città affacciate sui bacini che le hanno storica mente poste in relazione fra loro, come quelle mediterra-
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nee o baltiche, e che condividono, nella diversità, una cultura comune ecc. Potremmo continuare a lungo. Ciò che ne emerge è una dinamica planetaria evidentemente policentrica. Tuttavia centrale, nel giudizio di Attali, rimarrà ancora molto a lungo il ruolo giocato dagli Stati Uniti, nonostante il conclamato "declino dell'impero americano": opinione sorprendente soprattutto in quanto espressa da un francese certamente non sospettabile di acritico filo-americanismo. Dal libro di Attali emerge insomma un quadro in cui il modello statunitense continua, nonostante tutto, a costitui re un potente riferimento sulla scena mondiale: l'America è e rimarrà dunque al centro della scena. Le ultime tre città della sua lunga sequenza storica sono, non a caso, ameri cane. L'ultima, Los Angeles, con l'intera megalopoli cali forniana che la circonda, è vista in particolare come il luogo dove, più che altrove, si giocheranno i destini del mondo almeno per i prossimi tre decenni: per la sua col locazione geografica, forte del formidabile entroterra con tinentale statunitense, ma anche aperta verso l'Asia (con tutto il crescente peso demografico ed economico di que st'ultima) e l'Oceania (aerei di nuova generazione colle gheranno presto la costa californiana al Giappone e a ogni altro punto del Pacific Rim in meno di quattro ore); per la presenza di almeno tre grandi porti (San Diego, Long Beach e Oakland-San Francisco), di industrie avanzatissime nel settore aerospaziale, della difesa, delle telecomunica zioni, dello spettacolo, della rnicro-elettronica, delle bio e nano-tecnologie; forte infine di università e centri di ricer ca fra i più qualificati al mondo (da Stanford a Berkeley a UCLA).
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Quali altre grandi conurbazioni potrebbero essere in grado di contrastare il predominio della megalopoli cali forniana? Attali ne passa in rassegna alcune, tutte però destinate a essere scartate per un motivo o per un altro.
La prima possibile candidata è naturalmente Londra, sede creativa per eccellenza, forte di un sistema aeroportuale eccezionale e piazza finanziaria globale. C'è poi l'area centro-europea formata da Bruxelles, Lille, Parigi e Fran coforte. O il complesso formato dalle ricche ed efficienti capitali scandinave: Stoccolma, Oslo ed Helsinki. O forse Tokyo, cui però manca quella forte spinta ideologica ritenuta indispensabile - verso il liberismo e, soprattutto, l'individualismo. O forse qualche altra grande città del1'Asia come Shanghai o Mumbai, i principali motori di due fra le economie più vaste e più velocemente in crescita del mondo. Non si parla invece, curiosamente, di Dubai, che pure sta rapidamente assumendo il ruolo egemone di vero e proprio nuovo baricentro di una parte significativa del pianeta e che è riuscita a costruire assi privilegiati con paesi che vanno dalla Turchia al Kazakistan, dalla Libia al Pakistan fino all'India. Una fitta rete di interessi soprattut to economici, ma anche culturali nel senso più ampio del termine, che sembra per molti aspetti fare tranquillamente a meno di ogni rapporto con l'occidente. Nella disamina di Attali restano dunque gli Stati Uniti, che continueranno a lungo a essere il paese preferito dagli emigranti, con ingressi che nel 2006 sono stati pari a 1,5 milioni (meno della metà dei quali legali). Quasi il 50% di essi proviene dal Messico, un terzo dall'America Centrale. Ma moltissimi fra tali immigrati sono mediorientali o asia tici: fra questi, non pochi fanno parte di qualificate élites culturali ed economiche che contribuiranno in misura si gnificativa al mantenimento della leadership del paese ospite. Una tipologia migratoria cui non è estranea la possi bilità di concretizzare una sorta di "rifondazione identaria", alla ricerca di quella libertà di espressione personale che spesso incontra consistenti difficoltà nei paesi d'origine. La California, in particolare, si è negli ultimi anni confer mata come un vero e proprio polo d'importanza mondiale per la sua competitività tecnologica e la sua perdurante capacità di attrazione delle classi creative. 11
Di queste ultime ha parlato a lungo Richard Florida nei suoi libri, sia pur non con lo stesso ottimismo per quanto riguarda gli Stati Uniti4 • La questione è della massima importanza. Non sono le ondate migratorie in sé a creare problemi: questi ultimi nascono quando tali flussi non includono, al loro interno, una quota parte significativa di personalità creative. La qualità urbana, quella che rende alcune città più interessanti, eccitanti e ambite rispetto ad altre, deriva insomma sostanzialmente dalla maggiore o minore presenza di esponenti di tale creative class. Ciò è, a ben guardare, evidente e sotto gli occhi di tutti. I media, dai programmi televisivi ai giornali, dalle riviste alle gui de turistiche ai siti web, fanno a gara a proporre nuove mode e stili di vita quasi sempre riconducibili a una vita urbana densa e ricca di autentica, o talvolta presunta, cre atività: un volano in grado di spingere e far crescere l'eco nomia delle città e determinarne, di volta in volta, le for tune. Ma per raggiungere e detenere nel tempo la leadership, una città ha bisogno, oltre che di infrastrutture efficienti e di sicurezza, soprattutto di autonomia energetica. E su quest'ultima, considerata premessa indispensabile a ogni tipo di primato economico e sociale, Attali tocca con disin voltura il tema dell'auspicabile, progressiva apertura al l'energia nucleare (peraltro ampiamente e da tempo utiliz zata in Francia), con impianti di nuova generazione, più sicuri e quindi socialmente più accettabili. Ma osserva anche che lo sviluppo tecnologico consentirà consumi so stanzialmente minori e porterà a un radicale ripensamento della questione dei rifiuti e dei trasporti, soprattutto nelle aree urbane.
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Rimane aperta la questione della densità degli insedia menti urbani e della loro maggiore o minore sostenibilità: se sia cioè meglio procedere nella direzione della progres siva densificazione verticale della città o se sia invece preferibile la sua espansione orizzontale nel territorio. Chia-
ra è invece la proporzionalità inversa che esiste fra elevate densità e crescita demografica. Di regola, allorché una popolazione ha raggiunto un certo grado di istruzione e di acculturamento alla vita urbana, se vive in un'area ad alta densità, non avrà figli. Seoul è diventata una delle città più densamente abitate del pianeta e ha co nosciuto uno dei più forti crolli mai visti al mondo nel numero delle nascite5 • I centri cittadini dell'occidente, soprattutto quelli più attraenti per storia, cultura, fenomeni di moda ecc., sono ormai pressoché esclusivamente abitati da ricchi: una po polazione caratterizzata da un elevato tasso di nomadismo, che abita le proprie case spesso in maniera discontinua; l'immagine complessiva di tali centri urbani, innegabil mente piacevole, è riconducibile al genere Lifestyle boutique: parchi tematici destinati a ospitare alberghi, ristoranti, caf fè ed esercizi commerciali di lusso. La vita vera sembra piuttosto essere quella che si svolge nelle fasce periferiche o nei sobborghi. Ma la città compatta continua ad apparire la risposta migliore alla necessità di ospitare masse cre scenti di abitanti. La contemporaneità ha affrancato le aree urbane densamente popolate dall'immagine tetra e sinistra un tempo analogamente tratteggiata, pur da punti di vista molto diversi, da autori quali Friedrich Engels, Thomas Carlisle, George Herbert Wells ed Ebenezer Howard, fino allo stesso Le Corbusier. Sono anzi proprio le elevate den sità a consentire l'affrancamento dall'inquinamento auto mobilistico e la riconversione al più sostenibile trasporto pubblico, oltre a garantire sicurezza sociale e a offrire un apprezzabile senso di varietà e vitalità. Se è poi vero che il tempo diverrà un bene sempre più prezioso, sarà bene ridurre il pendolarismo giornaliero: ne risultano privilegia te le aree ad alta densità, svantaggiati gli insediamenti troppo estesi. Sul problema del progressivo abbandono dei centri urbani da parte dei ceti medi, Richard Rogers fornisce un esempio emblematico, positivo per essere riuscito a con- 13
trastare tale tendenza, negativo per alcuni suoi effetti indi retti quanto indesiderati: circa quindici anni fa il centro
di Manchester ospitava 90 persone, ma ora quella cifra è salita più o meno a 25 mila. La maggior parte di questi abitanti è costituita da individui singoli o da coppie senza figli. In Gran Bretagna, così come in Ame rica (meno frequentemente, invece, nell'Europa conti nentale), accade abitualmente che alla nascita dei figli le persone si trasferiscano fuori città6 •
Pressoché tutti i fautori della densificazione, pur soste nendo la necessità di immettere sul mercato immobiliare delle aree centrali e semi-centrali quote consistenti (anche nell'ordine del 50%) di alloggi a basso costo, considerano tuttavia accettabili solo gli interventi sui cosiddetti brown field, le aree dismesse nel passaggio dall'era industriale a quella post-industriale, (e non sui greenfield, aree verdi comunque da preservare). L'espansione dell'edificato nel territorio all'esterno dei confini urbani determina inevita bilmente una simmetrica, progressiva perdita di zone di campagna: un esito che, soprattutto in alcune regioni come il Bangladesh, i Paesi Bassi e l'Inghilterra - esempi non scelti a caso, occupando rispettivamente i primi tre posti nella classifica della minore quantità di spazi aperti pro capite - non può non preoccupare, aggravato com'è dai costi necessari per dotare tali insediamenti suburbani di servizi e infrastrutture.
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E veniamo infine ai risvolti propriamente architettonici della vicenda. Non è un caso se le città esaminate da Attali sono state e sono delle capitali architettoniche. L'architet tura, per il suo darsi, ha bisogno al suo intorno di condi zioni economiche favorevoli e di una committenza colta e in grado di decidere. Essa ha sempre costituito una vera e propria coagulazione simbolica dei poteri forti: religiosi, politici ed economici; ha materializzato in sé l'effettiva capacità d'attrazione esercitata dalle città: è ciò che le rende reali, concrete e diverse fra loro, ciò che le confor-
dal punto di vista dell' appropriatezza, della rispondenza ai dettami funzionali, del rapporto con il contesto o della sostenibilità, soprattutto per l'innovazione morfologica, in aperta sfida alla tradizione. Ma paradossalmente tutto que sto ha finito con lo svuotare tale sfida di gran parte dei suoi significati, lasciando intatti e aperti i molti, veri pro blemi legati al futuro dell'architettura e della città: dalla questione energetica alla generale accettazione delle tec nologie informatiche da parte di strati sempre più ampi della popolazione fino alle stesse strategie decisionali e alla loro condivisione. Non a caso Nonnan Foster ha ri chiamato più volte l'attenzione sulla necessità di arrivare al più presto a una più agile assunzione delle responsabi lità: Se qualcuno ... non giungerà a dichiarare che eli
mineremo la nostra dipendenza dai combustibili fossili e che garantiremo un futuro alle prossime generazioni, i progressi saranno pochi. Il fatto paradossale è che in generale una leadership di questo tipo si trova più nelle società in cui il processo decisionale è più diretto che in quelle cui noi europei abbiamo fatto l'abitudine: in società meno timide e in un'era precedente a quella dell'iperburocratizzazione. Da un certo punto di vista, la nostra burocrazia è l'equivalente della political correctness di natura linguistica. Nel primo periodo della nostra urbanizzazione eravamo in grado di realizzare nell'arco di qualche mese progetti per cui adesso servo no anni interi. Oggi il nostro studio sta portando a termine a Pechino un unico aeroporto le cui dimensioni corrispondono a tutti i terminal costruiti e in via di costruzione del londinese Heathrow più un altro 17 per cento. L'edificazione della struttura sta avvenendo in meno tempo di quanto ne sia servito per svolgere l'in chiesta pubblica sul progetto del terminal cinque di Heathrow. Per chi di noi vive in occidente, l'interroga tivo su come una società possa conciliare il livello del1'azione diretta con il processo democratico è pressan-
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te, soprattutto quando i processi democratici delle
Il Design oggi* VANNI PASCA
1. Considerazioni generali Una domanda s'aggira tra i designer: cos'è il design oggi? (cos'è diventato? dove sta andando?) Esiste ancora, o si è talmente esteso nelle sue pratiche da aver perso ogni identità, fino a identificarsi con un concetto un po' gene rico, di "progetto" tout court (e forse vale la pena ricor dare che in inglese design significa appunto: progetto)? È evidente come questa domanda ammetta due possibili in terpretazioni. La prima, richiede che si analizzino i pro cessi in atto. La seconda, implica il rimpianto per i bei tempi che furono: nel nostro paese, in particolare, i bei tempi del "design italiano", inteso (secondo l'ossimoro proprio dell'interpretazione tradizionale) come manifesta zione multiforme ma unitaria, in buona parte derivata dalla tradizione bauhausiana (intesa anch'essa come monolitica). Per impostare diversamente il problema, sarebbe utile fare riferimento alla tesi degli storici dell'economia che parla no di tre fasi della rivoluzione industriale, dalla seconda metà del '700 a oggi 1, e leggere il design nel suo diverso manifestarsi, teorico e pratico, nelle diverse fasi. Ciò aiu-
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* Relazione presentata al Convegno «Design_studies. Il design fra teoria e progetto» tenutosi il 10 ottobre 2007 presso l'Università La Sapienza di Roma.
terebbe a comprendere come le sue espressioni si siano modificate, riformulate, ampliate in ognuna di esse. Del resto, la stessa classica formulazione di Renato De Fusco, quella che identifica il design in "un unitario processo: il progetto, la produzione, la distribuzione, il consumo", andrebbe letta, secondo chi scrive, analizzando come que ste quattro dimensioni si siano manifestate con modalità diverse di fase in fase. Per fare qualche esempio: dalla fabbrica ottocentesca al fordismo e al postfordismo; dal primo sviluppo dei consumi nell'ottocento, alla società dei consumi, fino alle attuali modalità connesse alla mondializzazione, alla competitività internazionale, alla digitalizzazione della comunicazione. E quindi, verificare anche le modificazioni della progettazione in rapporto a queste trasformazioni, definendo per il design i fattori di continuità ma anche il suo diverso esprimersi di fase in fase. Anni fa, in un convegno dal titolo "Design: storia e storiografia"2, si assumeva per storiografia la messa in prospettiva storica degli studi storici stessi, la "storia delle storie" per dirla con Le Goff, e quindi la riflessione su come fare storia: ciò anche per superare una modalità di fare storia del design come mera raccolta, per quanto indispensabile e approfondita, di materiali. In quell'occa sione chi scrive formulava appunto l'ipotesi del modifi carsi del concetto e della prassi del design nelle diverse fasi della rivoluzione industriale. Dall'Ottocento, che ha visto lo scontro tra cultura romantica e cultura razionalista, tra nostalgia della comunità con apologia dell'artigianato, e adesione ragionata alla società industriale; al Novecen to, diviso tra etica-estetica delle avanguardie e fordismo; alla nostra fase, ancora in parte da definire, in cui una serie di processi rivelano un modificarsi radicale del ruolo e dell'importanza del design. Osserviamo alcuni di questi processi. Prima di tutto, la sua estensione geografica. Fino a qualche anno fa, si ragionava sulla presenza del design solo in pochi paesi industrializzati: l'Italia, la Germania, i paesi scandinavi, gli USA, il Giappone e poco altro. Oggi 19
si fa design in tutto il mondo e i paesi emergenti, dalla Cina all'India al Brasile, investono in design, considerato un plus non solo per le aziende ma per i sistemi-paese, nell'acuirsi della competitività internazionale indotta dalla globalizzazione. Si pensi, per fare solo un esempio, ai piani quinquennali del governo di Taiwan dalla fine degli anni • 80, in sostegno delle scuole di design, degli studi professionali, delle riviste, del sistema design nel suo com plesso. C'è poi una forte estensione numerica: cresce il nume ro dei designer, dei docenti e degli studenti di design. In Italia, a partire dalla metà degli anni '90 del secolo scorso, sono nate numerose scuole universitarie di design. Al l'estero la cosa è molto evidente. Si pensi all'enorme nu mero di designer previsto in Cina con le lauree dei pros simi anni. Si passa quindi da una professione di élite a una professione ampiamente diffusa sui territori. Infine, l'estensione tipologica3 • Non c'è ormai tipo di prodotto che non venga investito dai processi di estetizza zione attivati dal design, per poter competere sui mercati globalizzati, o almeno cercar di resistere alla competizione delle merci importate. Se in Italia si intendeva per design principalmente ilfurniture, si rifletta sull'importanza odier na dell'industria degli occhiali e del settore agroalimentare. Oggi i designer progettano mobili e automobili, cellulari e iPod, packaging ed etichette, grafica editoriale e comuni cazione visiva, padiglioni per le fiere, artefatti per il web, fashion e cosl via. Design oggi significa quindi progetta zione di artefatti tridimensionali, e non solo di prodotti. Si osservi la crescita nelle città della progettazione di attrez zature di servizio per enti pubblici e privati, spazi interni ai centri di vendita multifunzionali, ai luoghi di accoglien za, culturali, di svago: insomma, la fusione di interior e di exhibit design4• Design significa anche progettazione di artefatti visivi, informativi e comunicativi, virtuali. E la distanza tra i due tipi di progettazione tende a scomparire: è ormai nel rapporto tra comunicazione visiva e materialità 20 del prodotto che si gioca la competitività di esso. Ma non
solo: la progettazione della corporale image si è sviluppa ta nel design strategico, nel design degli eventi, nel design per la valorizzazione delle risorse territoriali e così via. Infine, artefatti tridimensionali e artefatti visivi sono sem pre più interconnessi, e la progettazione dei nuovi scenari visivi si intreccia sempre più con l'arte, la fotografia, il video, il web. Nella terza fase della rivoluzione industriale (o secon da modernità, o modernità liquida, o comunque si voglia definirla) ci si trova con tutta evidenza, per quanto riguar da il design, di fronte a un nuovo modello. Non si tratta di sostituzione senza residui di un nuovo modello al prece dente: come in ognuna delle fasi passate, si modifica il modello prima dominante, sostituito da nuove modalità di manifestarsi del design, ma permangono modalità prece denti anche se correlate al nuovo scenario (che quindi aumenta progressivamente in complessità, talché è sempre più difficile parlare di una o di alcune tendenze dominanti, in particolare di quelle stilistiche). Così, ad esempio, la modificazione del quadro è data certo dall'affievolirsi pro gressivo del paradigma fordista, ma non dalla scomparsa dell'industria (e dell'industriai design), che non ha mai conosciuto un'estensione analoga (si pensi all'India, alla Cina, ai recentissimi sviluppi in alcuni paesi africani). Tenendo quindi conto di ciò, e anche del fatto che partecipiamo a processi ancora in corso, non è possibile, secondo chi scrive, rispondere alla domanda posta ali'ini zio (cos'è, dove va il design?) con una risposta univoca. Ci si trova di fronte a una serie di manifestazioni che non consente riduzioni. Troppo lungo sarebbe anche tentare di compiere una mappatura della situazione odierna: è vero però che alcuni temi appaiono emergenti. Segnalarli è quello che di seguito si cercherà di fare, senza pretese di esaurire l'argomento. 2. Il lusso, l'arte, il design: i due mercati
Iniziamo con l'osservare una serie di fenomeni che
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caratterizza il mondo del furniture design (ma non solo).
a) Prima di tutto, crescono slittamenti verso l'arte, fino al diffondersi di una nuova definizione, "Design Art"5• Si ricordi come il fenomeno dei pezzi unici e delle piccole serie abbia caratterizzato in buona parte gli anni '80, quan do fiorirono in tutta Europa gruppi di designer, sul model lo degli italiani Alchimia e Memphis: tra questi, One-Off dell'"organico" Ron Arad (e One-Off in inglese significa proprio "pezzo unico"), Anthologie Quartett che propone va tra gli altri un designer "barocco" come Borek Sipek, e così via. Si aggiunga, a tutto ciò, l'esaurirsi sul mercato antiquario degli oggetti Liberty e Déco, e in buona parte anche del cosiddetto modernariato, parzialmente riassorbito dalla rimessa in produzione da parte delle aziende dei loro pezzi "storici" più singolari. Ora antiquari e mercanti d'ar te hanno visto la possibilità della creazione di un nuovo mercato di pezzi unici, o a tiratura limitata, firmati. Ci hanno pensato le grandi case d'aste, come Christie's e Sotheby's, che hanno inziato a battere pezzi unici di design a cifre fino a poco tempo fa impensabili (per un armadietto di Mare Newson, Christie's ha segnato un record: 1,05 milioni di dollari). Poi, i Saloni, da Londra a Basilea a Miami. Poi gli stilisti, come Dolce e Gabbana che presen tavano nel 2004, durante il Salone del mobile di Milano, nelle sale di un cinema da loro trasformato in sede per eventi, poltrone-scultura di Ron Arad. Ancora, le gallerie d'arte, come Established & Sons di Londra. Infine il gran de gallerista Larry Gagosian, forse il più potente mercante d'arte oggi al mondo, apre nella sua galleria a New York una mostra di pezzi unici direttamente commissionati a Mare Newson (dai 100.000 ai 400.000 dollari l'uno), tra cui una poltrona poi esposta a Documenta Kassel. Da notare il fatto che galleristi commissionino direttamente ai designer pezzi per le loro gallerie, con la stessa modalità del mercato dell'arte. Tra i designer più presenti, oltre 22 Newson e Arad, Marcel Wanders, Zaha Hadid, Ross
L ovegrove, Jasper Morrison, Tam Dixon, i Bouroullec, Tord Boontje. Qui, quindi, si combinano due fenomeni di segno op posto. Sembra vero, infatti, che il "depotenziamento" del !' arte nella contemporaneità, e parallelamente l'estetizza zione del quotidiano promossa dal design, comportino in modo crescente un dominio del visuale, a conferma di quello che anni fa scriveva il grande storico dell'arte Martin Kemp: l'arte, nelle sue manifestazioni consuete, farà parte di un contesto molto più ampio, nel quale essa diviene quasi una sotto categoria appartenente a una enorme varietà di manufatti creati per fornire stimoli visuali6. Ma c'è un secondo aspetto di cui tener conto. L'arte conserva, nell'immaginario collettiva, quel prestigio a cui allude Catherine Millet, quando scrive che l'arte contemporanea è un polo di attrazione, verso cui tendo no oggi il design, la moda, la comunicazione, tutte at tività che tentano di acquisire lo stato di arte7 • E A. C. Quintavalle osserva recentemente come un collezionismo privato trainato dalle gallerie, dalle aste a queste colle gate e dai musei ...fa sì che la fotografia, nata come suggeriva Benjamin per distruggere l'aura che circon da l'opera d'arte... diventa merce d'élite 8. L'arte, così, diventa legittimazione di un design inteso come "merce d'élite", il cui valore si misura sulle cifre iperboliche con cui sono pagati pezzi unici di designer per lo più tesi a fornire "stimoli visuali". Si selezionano i progettisti che propongono oggetti dall'espressività accentuata o, al con trario, dal minimalismo ostentato. Si tratta di designer che operano anche per le "aziende di design", legittimandone quello slittamento verso la fascia alta del mercato, verso il lusso, oggi invocato per contrastare la concorrenza inter nazionale. Del resto il nuovo lusso ha bisogno di legittimazione, e l'arte sembra fornirgliela. Qui trova spiegazione anche il nuovo interesse delle finanziarie per il design. Anni fa sono nate le nuove "finanziarie del lusso": tra queste, è soprattutto PRP di 23
Francois Pinault (con Gucci, Saint Laurent ecc.) che afferma l'arte come legittimazione del lusso, acquisi sce palazzo Grassi e adesso Punta Dogana a Venezia (per il Museo d'arte contemporanea firmato da Tadao Ando). E in Italia? Prada e Trussardi sviluppano un'intensa attività con le loro gallerie d'arte, molto attenta agli artisti di grande quotazione internazionale. Ma qui il riferimento è anche il made in Italy, e il design. Qualche anno fa una delle aziende storiche del design italiano, B&B, è stata comprata da una finaniaria, Opera (nella quale uno degli azionisti è Bulgari). Poi Charme, la finanziaria della fami glia Cordero di Montezemolo, ha comprato Poltrona Frau, Cassina, Cappellini, Gufram, Alias, Nemo (e anche Thonet). In tal modo si pensa di risolvere la difficoltà delle aziende italiane, generalmente piccole, con capitali insufficienti ad affrontare la sfida sui mercati mondiali. E gli alti prezzi ricevono nuova legittimazione perché i designer, che ope rano sui mercati del Design Art, sono in parte gli stessi che progettano per le aziende di furniture design. Ciò crea il prestigio di oggetti che possono quindi aspirare al mer cato del lusso, dove lo stile perde importanza rispetto al prezzo. In buona parte ciò coincide con il fenomeno, in svilup po già da qualche tempo, definito luxury design. Ma su questo, converrà ritornare in altra occasione9•
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b) Mentre le aziende storiche del design italiano si spostano in maniera sempre più accentuata verso il mer cato alto (ma bisogna riconoscere che tradizionalmente il design italiano non è mai stato economico), si accentua la spaccatura della produzione e del mercato. Ciò è testimo niato dal crescente successo di Ikea, che, come ha detto Ellen Lupton, curatrice per il design contemporaneo del Cooper-Hewitt / National Design Museum di New York, ha arredato le case della fascia medio-economica dei con sumatori dall'Europa alla Corea al Brasile, contribuendo a far accettare la modernità nella casa ... più che il
resto del mondo del design nel suo insieme 10 • Una rivi
sta cult come lcon 11 ha pubblicato una lista di ventuno oggetti, aziende e persone, quelli considerati più influenti nel dar forma al design odierno, e Ikea è al primo posto. E la Lupton aggiunge: "Ikea porta il moderno design alle persone di mezzi modesti. È l'ideale del Bauhaus divenu to realtà". Di quest'ultima proposizione si può dubitare, soprattutto se si pensa al Bauhaus riassunto da Gropius nella formula: "Arte e tecnica"; un po' più plausibile essa appare se si pensa alla formula che pone il design come "economia x funzione", proposta da Hannes Meyer, diret tore del Bauhaus dopo Gropius. In ogni modo, il proble ma posto in evidenza dalla Lupton è reale. E si tenga conto che Ikea, con un fatturato che vale quello di una buona ditta di design italiano moltiplicato tra le cento e le duecento volte, non si limita a produrre in Svezia e ven dere nel resto del mondo. Persegue sempre più la politica di produrre vicino al luogo dove distribuisce: e un nume ro crescente di aziende italiane di mobili lavorano per Ikea. 3. La tecnica, il design sociale, il senso del progettare Una tendenza sembra affiorare dal dibattito, ancora in parte sommerso, tra i giovani, ma anche più in generale nel mondo del design: può essere definita come una nuova ricerca del senso del progettare oggi. Harvey Molotch racconta, sulla base di una sua inchie sta, come l'unico obiettivo di gran parte dei giovani desi gner californiani sia quello di guadagnare molto. Ma, nello stesso tempo, sottolinea come in molti ci sia anche la consapevolezza che, rispetto ai processi globali in atto, "cambiare è possibile". Lo stesso Molotch, poi, parla di come per gran parte degli oggetti, la soluzione è quella di costruirli in modo da distruggere meno natura, in circostanze socialmente accettabili e con una obsole scenza eco-compatibile 12 • Oggi per molti designer, in Ita-
lia e non solo, sembra quindi che il problema sia ti-trovare
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un senso del loro operare e ciò si esprime attraverso una serie di ricerche tra loro correlate: ecodesign, design soste nibile, human cen.tred design, socia/ design e così via. Molte ne sono le manifestazioni. Si pensi alla "Biennale del design sociale di Utrecht"; si pensi a "Doors of Perception" (dal titolo del famoso libro di Aldous Huxley), la biennale promossa dal Netherlands Design Institute di Amsterdam, diretta da John Thackara come indagine di lungo periodo sul futuro del design. Tra i temi discussi, quello riassunto da Thackara nei seguenti termini: i siste mi mondiali relativi al cibo sono un esempio dell'estre mo spreco emerso con la globalizzazione nell'economia. Il trasporto, la lavorazione, il packaging e la distribu zione del cibo, consumano dieci volte l'energia che entra nei nostri corpi come nutrimento 13 • Si nota qui la posi zione tendenzialmente no-global e la tensione di Thackara verso forme complesse di design strategico (o di strategie per il design). Ancora: una recente mostra al Cooper Hewitt di New York ha avuto molto successo. Si intitolava "Design for the 90% of the world" (con riferimento al titolo di un libro del 1972 di Vietar Papanek: Design for the Real World: Human Ecology and Socia! Change) 14• È così riemerso con forza un filone di studi che ha avuto in Papanek il suo più influente esponente. Egli riteneva, con qualche ottimismo, che i designer hanno la responsabilità, sono in grado e sono capaci di produrre cambiamenti nel mondo. La mo stra ha presentato una serie di progetti - proposte per le aree del pianeta dove la tecnologia non è arrivata o è insufficiente e i problemi sono molto ampi, dalla soprav vivenza al rafforzare embrioni di sviluppo potenziale o in atto. Forse è possibile individuare qui due linee di ricerca progettuale. La prima ipotesi di ricerca, molto simile alle indicazio ni di Papanek, vede progetti di semplice utilità, realizzati con materiali e tecniche elementari (un contenitore a ruo ta, quindi trainabile con facilità, per trasportare l'acqua; 26 una pompa d'irrigazione a pedali fatta di bambù; filtri per
purificare l'acqua, e così via). Sono progetti ingegnosi e interessanti, ma di cui non si capisce come, a cura e a spese di chi, possa avvenire la produzione e la distribu zione, se non facendo affidamento sull'operosità di comu nità locali, probabilmente da contattare una ad una 15 • Pa panek, a esempio, aveva disegnato una radio a transistor fatta di lattine, da produrre a basso costo nei paesi in via di sviluppo. Non si può dire che le sue proposte, nate sull'onda dei movimenti di contestazione sociale e del marxismo critico della Scuola di Francoforte, abbiano in contrato, nell'arco di alcuni decenni, particolare successo, nel senso di radicarsi in situazioni concrete, alleviandone i problemi. Ma è forse impietosa la valutazione di Burdek che scrive: Le sue proposte di un design per il Terzo Mondo risultarono ... afflitte da un'ingenuità dilettan tesca 16. Una seconda ipotesi di ricerca riguarda la possibilità di adottare tecnologie avanzate in situazioni arretrate: a esem pio, un proiettore di microfilm a batterie solari, che diventa una libreria portatile, permettendo di studiare, in situa zioni di analfabetismo, anche in case senza illuminazione, eliminando il trasporto dei libri. Oppure borse di stoffa con pannelli fotovoltaici incorporati per catturare i raggi del sole di giorno e illuminare le case di notte. In questa direzione, affrontare i problemi con l'aiuto e non con il rifiuto delle tecnologie avanzate, si è mossa un'iniziativa avviata da Nicholas Negroponte con il Massachussets Institute of Technology (MIT), e sviluppata con la consu lenza di Continuum Design: un computer a manovella destinato ai bambini, "one laptop per child". C'è qui l'eredità di una tradizione americana che già nel 1972, con la rivista radicale "People's Computer Company", aveva af fermato: "È tempo di cambiare, abbiamo bisogno di un'azienda di computer per il popolo", il vero problema consiste nella democratizzazione del computer. Del resto anche la Appie aveva pubblicizzato nel 1985 i computer battezzati Macintosh, disegnati da Frog-design, con lo slo gan: Il principio democratico, applicato alla tecnologia, 27
è: one person-one computer 17 • Slogan che ricorda la pa rola d'ordine in quegli anni dell'ANC - Africa National Congress per la lotta per il voto in Sud Africa: "one person-one vote", derivato a sua volta dalla tradizione democratica americana. Va rilevato come la realtà abbia visto una reale diffusione di massa dei computer, a prezzi decrescenti, nei paesi avanzati. Con la mondializzazione si mira ora alla distribuzione di massa dei computer nei paesi deboli, e più di una casa produttrice va proponendo computer a prezzi bassi. In ogni modo, l'ipotesi di una distribuzione di massa di computer a manovella per i bam bini del terzo mondo è molto interessante ma va incon trando difficoltà fino a poco tempo fa non previste. Sem bra che solo Perù e Uruguay abbiano finora ordinato quantitativi di computer a manovella, mentre è guerra aperta tra aziende che ora propongono persona[ computer a cento dollari. Molti sono quindi i temi implicati in questa ricerca del senso del progetto oggi. La tecnologia, l'innovazione e le sue direzioni, i vantaggi che essa realmente arreca (oltre quelli sempre invocati dalle aziende per vincere la concor renza sui mercati mondiali), il rapporto tra progetto e sue finalità. Ezio Manzini ha recentemente proposto una ini ziativa nel cui titolo riappare l'idea del cambiamento: "Changing the change". Ma su questo torneremo in se guito.
4. Design e territorio
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La terza, ultima e sintetica osservazione sui processi in atto, riguarda un dato citato ali'inizio, quello del progres sivo aumento del numero dei designer operanti nei vari paesi del mondo. Limitandoci all'Italia, l'introduzione dei molti Corsi di laurea in design, oltre alle esistenti scuole private anch'esse in crescita, ha moltiplicato il numero dei giovani designer. Si passa da una professione d'élite, ca ratterizzata dall'esistenza di un ristretto numero di progettisti qualificati, in gran parte architetti nelle città del nord,
rappresentati simbolicamente dai "maestri" del design ita liano, i Castiglioni, i Sottsass, i Magistretti; si passa, si diceva, a una nuova situazione di disseminazione nei ter ritori di giovani progettisti, spesso con laurea triennale, con la nuova caratteristica di essere distribuiti in modo assai meno squilibrato tra il nord e il sud. Andrea Branzi sostiene l'esistenza di una nuova ampia fascia di giovani designer operanti su aree geografiche e progettuali diver se, con "originalità debole" ma pulviscolare e diffusa 18• Del resto non sembra essere una caratteristica solo italia na, quanto piuttosto un aspetto della terza fase della rivo luzione industriale, se si tien conto di quanto scrive Manuel Castells: " ...nel mondo del lavoro ...la capacità autonoma di produzione, innovazione e gestione sta diventando il capitale principale delle aziende. Nel caso delle piccole e medie imprese, quello che conta è l'iniziativa individuale e la capacità di innovare. Ma anche le grandi aziende sempre più spesso cercano il 'talento'. Avere talento non equivale a essere qualificati. Il talento comporta qualcosa di più, una scintilla d'innovazione, la capacità di gestire in autonomia i diversi progetti dell'impresa e di crearne di nuovi". Castells aggiunge che proprio per questo oggi "scuole e università hanno il compito di contribuire a formare personalità autonome in grado di trovare ed ela borare le informazioni necessarie per qualsiasi progetto professionale, ma anche personalità con dei valori, pochi ma saldi, per essere in grado di gestire i costanti e com plessi cambiamenti degli stili di vita" 19• Il punto è proprio questo. I territori, in particolare in una situazione come quella italiana, hanno risorse produttive, turistiche, cultu rali, enogastronomiche da valorizzare, ma molto spesso né nelle imprese, in gran parte piccole, né tanto meno negli enti pubblici, esiste il know how necessario per pro gettare e sviluppare processi di valorizzazione di tali ri sorse. La disseminazione di giovani designer, che innervano i territori con il loro know how, è probabilmente in grado di contribuire allo sviluppo di questi processi di valoriz 29 zazione.
Tutto ciò comporta un nuovo e crescente rapporto tra il design e i territori. Oggi ogni territorio è sempre più un nodo di una rete mondiale e deve imparare a partecipare della rete, a connettersi con gli altri; altrimenti non può che deperire o, tutt'al più, coltivare le proprie memorie. li design (e la nuova crescente presenza di giovani designer) è uno degli strumenti principali che permette di valorizza re le risorse di un territorio, inserendolo nella rete mon diale. 5. Storia e teoria del design
Eppure, in parallelo ali'estendersi della presenza e del ruolo del design, è avvertibile una situazione di stallo della ricerca e del dibattito teorico. In buona parte esso è stato sostituito dal tentativo, continuo e spesso avventuroso, di ipotizzare scenari futuri, sulla base di quelle metodologie, nutrite di codici manageriali e di marketing (definito in modi sempre diversi e improbabili), che le imprese incen tivano, nella speranza di prevedere l'evolversi del mercato e delle sue turbolenze. Ciò si avverte prima di tutto nella riflessione teorica generale. Ma si avverte anche laddove vengano tentati discorsi critici sulla prassi progettuale, discorsi che spesso rivelano la debolezza di paradigmi di riferimento. Si pone quindi la necessità di un'attività di ricerca che sappia riaprire il dibattito storico-teorico, an che per metterlo in relazione con una critica teoricamente orientata dei processi in corso. Si pensi alle riviste di design. La maggior parte, con poche eccezioni, si occupa di design con due sole chiavi di lettura: recensioni di cronaca o riflessioni apologetiche. Pochissime svolgono un'attività critica puntuale e appare evidente la scissione tra critica e teoria. Manca del tutto una rivista teorica di taglio scientifico (sul tipo dell'ame ricana Design Issues, per fare un esempio). La situazione di relativo letargo che sembra aver investito i designer italiani nell'ultimo decennio, è accompagnata da una situa30 zione analoga anche per quanto riguarda il dibattito criti-
co-teorico (con poche eccezioni). Eppure l'esigenza di ria prire il dibattito si va facendo strada. Lo dimostra il dibattito che si è sviluppato nel luglio 2007 a Napoli, in occasione del "Seminario sulla ricerca di design nelle Università italiane". Qui, per fare alcuni esempi, è emerso un dissenso tra le posizioni di chi (E. Manzini, A. Branzi) sottolinea, negli scenari della contem poraneità, la discontinuità con il passato; e chi, invece (M. Chiapponi), pur accettando il carattere di novità che l'at tuale scenario presenta, indica la necessità di non soprav valutare le novità a scapito della continuità di una nozione teorica di design. Posto in questi termini, il dibattito ri schia di essere sterile: perché non lo sia, occorre ana lizzare e approfondire quanto e in cosa il nuovo scenario sia radicalmente nuovo, e quanto e in cosa siano presenti elementi di continuità con il passato. Chi scrive, come già detto ali' inizio, ritiene che siamo in una fase nuova, e che anche ciò che persiste vada rianalizzato perché si pone sotto una nuova e diversa dominante. Il vero problema è quindi l'analisi dei mutamenti in atto, che sono rapidi e profondi. Questo è lavoro serio, che richiede anche grande attenzione a studi provenienti da diverse discipline (con attenzione alle scorciatoie: sarebbe bene non trasformare, a esempio, la "modernità liquida" baumaniana20, nozione non inutile da approfondire, in un escamotage che tutto spiega). Manzini, di fronte al ventaglio di concezioni e di pra tiche del design, invoca la ricerca di una definizione teorica unitaria; in questo senso, fa riferimento a come il design italiano, nella sua storia, abbia sempre avuto alla base un'idea teorica, un pensiero critico sull'esistente e sui suoi sviluppi21• Egli tenta di risolvere il problema ponendo un tema etico forte, la critica del cambiamento socio-eco nomico in atto, con la formula: "cambiare il cambiamento". Qui il problema della progettazione nella terza fase della rivoluzione industriale (o nella seconda modernità, o in epoca postmoderna, se si preferisce) viene definito chia mando il progetto a farsi carico di correggere (e dirigere?) 31
i processi di trasformazione in atto. Questa impostazione è interessante, utile, probabilmente capace di rimettere in rapporto il design con un atteggiamento progettuale nutrito di senso etico, e quindi tale da essere in buona parte con divisa. Presenta però un rischio che non va sottovalutato. Rischia infatti di scivolare nel "volontarismo" etico-politi co, secondo tradizioni non nuove, ipotesi apparse altre volte in passato: a partire dall'Ottocento con le nostalgie comunitarie e medievaliste di Ruskin e Morris, e poi con posizioni di fase in fase emerse nell'architettura, nell' urba nistica, nella pianificazione territoriale. Cambiare il cam biamento è, infatti, tema squisitamente politico. Porlo come centrale, o addirittura centrare su esso il design, rischia quell'ingenuità che Btirdek rimproverava a Papanek, e di comportare l'abbandono della specificità del design (di cui invece proprio Manzini ritiene importante una ridefinizione nell'oggi). "Cambiare il cambiamento" rischia infatti l'ab bandono del terreno del design, che è quello della proget tazione di artefatti, tridimensionali, bidimensionali, virtua li che siano, spingendo verso una semplificazione riduttiva della complessità del progetto, complessità che è etica ma anche tecnica, estetica, antropologica, come ha sottolinea to Branzi in un recente, polemico articolo22• Semplificazio ne riduttiva che ha caratterizzato molto giovane e generoso design, nutrito di obiettivi ecologici, negli anni novanta. Significa anche rischiare di affrontare i nuovi terreni del progetto, quelli del design strategico, del design per il territorio, della interrelazione tra design del prodotto e visual design, in un'ottica restrittivamente "operazionista" e non in un'ottica progettuale. Si pone inoltre un altro interrogativo: cambiare il cam biamento, ma in che direzione? Qui si apre un ampio terreno di confronto sui nuovi scenari. Per esempio, su quale versante della discussione sulla scienza, sulla tecni ca, sulle tecno-scienze, ci si intende collocare? Più in generale: a favore dell'analisi e dell'uso ragionato delle scoperte tecnico-scientifiche, o contro di esse? a favore di 32 una idea "riflessiva" di innovazione, e cioè critica, che si
interroga sulle sue finalità, o per lo status quo? Nell'ottica di una "scienza negata", come direbbe Bellone, di una concezione nutrita della proliferazione di immagini ne gative della scienza e della razionalità, di punti di vista basati sull'opinione che la scienza sia, di per sé stessa e non per certi suoi usi dissennati, nemica dell'umani tà? . Ciò è importante perché oggi, secondo chi scrive, si avverte, tra terzomondismo no-global e messa sotto accu sa della scienza, un desiderio di ritorno agli stili di vita medieval-comunitari che Ruskin auspicava nell'Ottocen to, quando inveiva contro gli sviluppi dei treni e della tecnica. Ed è preoccupante che Carlin Petrini, fondatore di un'impresa geniale come Slow food, organizzatore di con vegni come "Slow+ design: l'approccio slow all'econo mia distribuita e alla sensorialità sostenibile" nell'ottobre del 2006 con il Politecnico di Milano e con Ezio Manzini, faccia grandi elogi dell'"ecologico" Carlo d'Inghilterra, che il ritorno ai villaggi tradizionali lo propone davvero, fino a chiamare Leon Krier a progettarne uno tipo, facen dogli redigere il Master Pian per lo sviluppo di Poundbury nel Dorset. A questo proposito è utile riflettere sul concet to di post-ambientalismo formulato da Branzi nell'articolo su citato. Sono temi aperti: una loro trattazione la troveranno certo nel convegno programmato a Torino (World Design Capitai per il 2008) nel luglio 2008, e coordinato da Ezio Manzini, "Changing the Change. Design Visions, Proposals and Tools", che promette di essere un momento importante per il rilancio della discussione teorica sul design. 23
1 Cfr., tra l'ampia letteratura in proposito, P.A. TONINELLI ( a cura di), Lo sviluppo economico modemo, Marsilio, Venezia 1997. 2 Design: storia e storiografia, Atti del I Convegno internaziona le di Studi storici sul design, a cura di V. Pasca e F, Trabucco, Progetto Leonardo, Bologna 1991. 3 Cfr. E. FtORANI, / panorami del contemporaneo, in particolare il cap. IV "La società progettante", Lupetti, Milano 2005. Cfr. anche H. FosTER, Design & Crime, Postmedia, Milano 2003, dove con
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forte vis polemica si afferma: " ... non solo l'estetica e la funzione sono un tutt'uno, ma entrambe derivano dal commerciale, e qualsiasi cosa (dai progetti d'architettura alle mostre d'arte, dai jeans ai geni) sembra essere considerato design", p. 25. 4 Cfr. G. ANCESCHI, "L'anticipazione critica del design" in «il verri», n. I, dicembre 1996. 5 F. AusoN e R. DE Fusco esaminarono, anni fa, un fenomeno da loro definito "artidesign", che ha aspetti che anticipano il discorso che andiamo facendo: ma il "Design Art" sembra fenomeno in gran parte nuovo. Cfr. F. AusoN, R. DE Fusco, L'artidesign - il caso Sabattini, Electa, Napoli 1991. 6 M. KEMP, Immagine e verità, il Saggiatore, Milano 1999, pp. 19-20. 7 C. MILLET, L'arte contemporanea, Libri Scheiwiller, Milano 2007, p. 144. 8 Cfr. A.Q. QUINTAVALLE, "L'obiettivo della fotografia: diventa re merce d'élite", in «Il Corriere della sera», 9-1-2008. 9 Recentemente un'esposizione dal titolo "Luxury design" (sotto titolo: neocodici del lusso) si è tenuta alla Triennale di Milano: gioielli d'oro realizzati da aziende orafe e disegnati da noti designer. Ma si pensi anche agli sviluppi di edizioni limitate e del vi11tage. all'ostentazione dell'eclettismo con recupero di pastiches in stile e alla "nuova decorazione", in buona parte mirate ai gusti dei ceti emergenti del lusso, degli strati sociali ricchi nei paesi dell'est, eu ropeo e asiatico, di nuovo sviluppo. 10 J Tu . RRENTINE, "The Swede smell of success", in «Washing ton Post», February 24, 2005. 11 Cfr. «Icon», marzo 2005. 12 H. MoLOTCH, Fenomenologia del tostapane, Raffaello Cortina ed., Milano 2005, pp.300 e 302. 13 www.doorsofperception.com/archi ves/2006/09/why _juice_ food.php. 14 VICTOR PAPANEK, Design/or the Real World: Human Ecology and Socia! Change, Pantheon Books, New York 1972. Per quanto riguarda la mostra, e un'ampia riflessione su questi temi, cfr. L. IMBESI, "Sogni e bisogni fuori dal mercato" in «Alias», supplemento settimanale de «li Manifesto», 8 settembre 2007. 15 Alla Facoltà di design di Ahmedabad, in India, gruppi di stu denti si recano nelle campagne più isolate, per insegnare ai contadini a fabbricare e usare chiodi, ruote a raggi e così via. E un tal modo di procedere appare molto più produttivo e realistico. 16 B.E. BORDEK, Design, Arnoldo Mondatori ed., Milano 1992, p. 113. 17 Cfr. J. DE NoBLET (a cura di), Industriai design- Reflections of a century, Flammarion/APCI, Paris 1993, p. 278. 18 Cfr. A. BRANZI, "Sette gradi di separazione" in «The new Italian design», La Triennale di Milano, Milano 2007. 19 Cfr. MANUEL CASTELLS, "Società dell'autonomia", in «lnter34 nazionale», n. 5, 11 ottobre 2007.
2° Cfr. Z. BAUMAN, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002, e i molti altri suoi scritti sulla modernità liquido-fluida. 21 E. MANZINI, "Design-ricerca-prospettive", relazione presenta ta al «Seminario sul design e la ricerca nelle università italiane», Napoli luglio 2007. 22 A. BRANZI, "Per un postambientalismo" in «Interni», n. 8, luglio-agosto 2007. 23 E. BELLONE, La scienza negata, Codice edizioni, Torino 2005, pp. viii e ix.
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Neo-avanguardie visive? DARIO RUSSO
Nell'era digitale nella quale viviamo, che la grafica operi «fuori delle regole» è constatazione ormai pacifica e condivisa. Negli ultimi tempi la letteratura internazionale ha difatti sfornato titoli piuttosto illuminanti quali The End of Print di Lewis Blackwell' o No more Rules di Rick Poynor2. Anche chi scrive ha pubblicato un Free Graphics, che ha per sottotitolo appunto la grafica fuori delle regole nell'era digitale3 • In questo saggio ho illustrato come la grafica odierna - resa possibile da potenti strumenti digitali - venga ad oltrepassare le rigide modalità comunicative della cosid detta Scuola svizzera, che a partire dagli anni trenta aveva messo a fuoco un formulario visivo minimale (griglie mo dulari, caratteri senza grazie, eliminazione di qualunque motivo decorativo e non immediatamente funzionale ecc.). In tale prospettiva, e considerando gli scenari globali, ho commentato il lavoro di alcuni designer che, dagli anni sessanta-settanta fino ai nostri giorni, hanno sperimentato nuove soluzioni grafiche svecchiando i linguaggi della co municazione. Ho potuto così chiarire che la ricerca grafica odierna verte per lo più sulla progettazione d'artefatti co municativi di grande impatto: progettati non solo e non tanto per il trasferimento nudo e crudo dell'informazione, ma per amplificare la portata comunicativa del messaggio 36 con connotazioni simbolico-espressive anche a costo di
ridurre l'immediatezza della trasmissione. Un altro trend che mi sembra emergere lentamente, ma già con evidenza, è l'affermarsi d'una scrittura fluida, ben diversa dalla tra dizionale (e vecchia) tipografia: quel che va subito consi derato è l'intrinseca natura digitale, che oltre a potenziarla in senso espressivo la rende cangiante e interattiva4• Com'è ovvio, gli attuali grafismi spiraliformi e generati informaticamente - frattali di pixel, vere e proprie figure del digitale - sembrano non aver nulla a che vedere con le tecniche di rappresentazione tradizionali5. Tuttavia, alcuni grafismi, arabeschi, astrazioni cromatiche, geometrismi ti pici dell'odierna fenomenologia grafica, pur avendo una propria specificità intrinsecamente digitale, viene il so spetto che possano parimenti costituire una sorta di testa mento delle avanguardie visive sul terreno elettronico6•
Il fatto è che osservando con attenzione molti artefatti comunicativi realizzati e concepiti informaticamente, benché nuovi e originali da una parte, sembrano dall'altra mostrare un che di familiare, una sorta di déjà vu. È come se, in un salto all'indietro, alle origini della grafica nove centesca, ritorni in gioco il passato come fonte d'ispirazione, e più precisamente i moduli espressivi dell'Avanguardia storica. Se tale impressione ha un qualche fondamento, non bisognerà arrampicarsi sugli specchi per affermare che la Scuola svizzera, dopo aver assorbito la rottura formale determinata dalla Modernità, abbia in qualche modo «nor malizzato» le invenzioni delle avanguardie per riprodurre un tipo di comunicazione minimale; e di conseguenza, limitato la carica eversiva originaria: una carica che anima invece le odierne sperimentazioni grafico-digitali. Non è facile determinare se questa rinnovata vitalità discenda direttamente dall'avvento del digitale o piuttosto da una fisiologica reazione alla Scuola svizzera indipendente dalla tecnologia elettronica. Di certo la direzione intrapresa dalle avanguardie trova nel computer straordinarie possi bilità applicative. Beninteso, i designer odierni realizzano in termini digitali - quindi seriali - quanto gli avanguar disti del primo Novecento praticavano manualmente. E 37
però a me pare che il lavoro di Neville Brody, David Carson, John Maeda e Stefan Sagmeister (i quali si affer mano sulla scena negli ultimi due decenni) mostri chiara mente come la grafica odierna oltrepassi la Scuola svizze ra per riscoprire modalità comunicative proprie delle avan guardie storiche. Brody assume una rilevanza mondiale negli anni ottan ta. Lo stile brodyano (se così possiamo chiamarlo), benché assuma subito una propria cifra distintiva, s'ispira senz'altro al Dadaismo e al Costruttivismo. Diversamente da molti altri, che si limitano a copiare e (ri-)proporre soluzioni formali già date, Brody guarda sempre al nocciolo e alle motivazioni delle pratiche avanguardiste, distillando così
un senso di dinamismo e la messa in discussione di regole e valori tradizionali. Per questo, scrive: Ho sem pre pensato che negli ultimi cinquant'anni di storia del design siano state riciclate queste aree già esplorate7 •
Dada offre numerosi spunti per infrangere le convenzioni correnti (in una prospettiva dinamica e giocosa); il Co struttivismo, un impattante rilievo visivo. Com'è stato giu stamente osservato, i lettering brodyani basati su figure geometriche elementari posseggono un valore comunicati vo forte e immediato. Un esempio è senz'altro la copertina del CD Go-go, con la triade cromatica costruttivista (ros so, bianco e nero) e il caratteristico lettering in obliquo che echeggia la «diagonale dinamica» di El Lisitskij. Ma il caso più emblematico è senza dubbio il logotipo Red Wedge, una piramide rovesciata tra due cubi: (neo-)costruttivista perfino nel nome se solo si pensa al noto poster di El Lisitsk.ij, Colpisci i bianchi col cuneo rosso, dove le figure geometriche elementari diventano forti simboli politici (cu neo rosso della Rivoluzione e cerchio bianco della Reazio ne zarista). Carson è sicuramente uno dei progettisti grafici più importanti sulla piazza; il «Newsweek Magazine» arriva a dichiarare che ha cambiato l'immagine del design gra fico odierno8 . Egli sancisce The End of Print (la fine della 38 stampa): il titolo della sua monografia che allude alla «morte
della tipografia» quale obsoleto sistema di stampa9• II che è decisamente un paradosso perché - contradictio in terminis - The End of Print si rivela uno straordinario successo editoriale facendo vendere 200.000 copie stam pate. Come non ricordare la non-arte di Duchamp che diventa gesto esemplare per il futuro? Comunque sia, benché Carson sia fortemente proiettato nel futuro e imbevuto di tecnologia digitale - cosa che precisa con statement del tipo: Ci troviamo immersi in
un ambiente fatto d'informazione elettronica tanto im percettibile per noi quasi quanto l'acqua per un pesce 10
- benché Carson sia proiettato nel futuro, dicevamo, il tono caotico e frammentario di molti suoi artefatti comu nicativi è fortemente debitore del Futurismo. Novant'anni fa, i futuristi indicarono un modo spettacolare per esprime re emozioni attraverso particolari variazioni tipografiche: di carattere, di stile, di dimensione, di colore ecc. Nelle parole di Marinetti (che riporto senza punteggiatura come nel testo originale): La mia rivoluzione è diretta contro la così detta armonia della pagina [...J Noi useremo in
una medesima pagina tre o quattro colori diversi d'in chiostro e anche 20 caratteri tipografici diversi Per esempio corsivo per una serie di sensazioni simili e veloci e grassetto tondo per le onomatopee violente ecc. Con questa rivoluzione tipografica e questa varietà mul ticolore di caratteri io mi propongo di raddoppiare la forza espressiva delle parole". I futuristi, quindi, accor
darono nuove valenze sonoro-visive - ma diciamo pure multimediali - alla parola scritta, affermando il concetto di lettura simultanea della pagina, che va dalla poesia visiva al web! Allo stesso modo, Carson - dopo aver infranto tutte le regole del cosiddetto good design (e dichiarato provocatoriamente di non conoscerle neppure) - compone testi veramente espressivi, caricati di specifiche e sorpren denti valenze figurative. In questo senso (e ai fini del presente intervento), è interessante notare come tale approccio, poco attento alla trasmissione asettica del messaggio e tutto incentrato sul-
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l'aspetto emotivo dello stesso, allontani Carson dal rigore metodologico dell'information design (di matrice svizze ra) e lo avvicini invece al guizzo creativo dell'artista iper tecnologico. Ed è Carson in persona a fugare ogni dubbio: mi considero un graphic designer, ma anche un arti sta 12; un artista digitale che riecheggia composizioni da
daiste e parolibere futuriste: un artista-designer che si ser ve di tecnologie sofisticatissime con grande sensibilità e vocazione interpretativa. La convergenza arte-design trova un importante punto di riferimento in Maeda; ma se il discorso s'incentra sul nesso arte d'avanguardia (st01ica) e design computerizza to, l'attività di quest'ultimo risulta ancor più illuminante. Afferma euristicamente Maeda: Ho scelto la sola soluzio ne possibile: concentrarmi su arte, design e formazione matematica 13 • E ribadisce Nicholas Negroponte (Direttore
del MediaLab del MIT e autore del best-seller significati vamente intitolato Being Digita/ 14): Maeda decostruisce il mondo digitale con l'abilità di uno scienziato del com puter del MIT e di un artista militante; ne consegue un mix di humour ed espressione che combina il meglio del computer e dell'arte 15 •
Un netto legame con l'avanguardia storica è senz'altro l'insieme dei Reactive Books (libri reattivi), che potrebbe ro essere l'opera di un artista (neo-)costruttivista equipag giato con potenti mezzi digitali 16 • Secondo Maeda, il com puter è una «tela multi-dimensionale», un mix di fonte luminosa e superficie visiva. In un primo tempo, il mouse ha permesso una corrispondenza one-to-one tra gesto ma nuale e trasformazione della «tela». Questo approccio è relativamente vicino ai tradizionali processi di rappresen tazione - tracciare pigmenti colorati sulla carta attraverso l'interazione fisica col mezzo - e la cosa ci riesce quindi perfettamente naturale. Ma se solo ci si accinge a guardare un po' più in là, ci si accorge di avere a disposizione un mezzo d'espressione non-fisico chiamato computazione: un programma, definito da un programmatore/artista, tale 40 da informare autonomamente la «tela» applicandovi pig-
menti virtuali. L'artista non interviene fisicamente sul mezzo se non per scrivere le istruzioni del programma. Maeda mira così a colmare il gap tra espressione computazionale e non: da una parte progetta artefatti comunicativi cartacei che guardano al passato (e in particolare all'avanguardia costruttiva); dall'altra continua a ricercare nuovi linguaggi facendo leva su mezzi squisitamente digitali. La serie dei libri reattivi può essere intesa come un formidabile trait d'union tra il cartaceo e il digitale. Il primo è per l'appunto intitolato Reactive Square (qua drato reattivo), un esplicito richiamo alla pittura suprema tista di Kazimir Malevich; si pensi al celebre Quadrato nero su fondo bianco 17 • Questo artefatto cartaceo-digitale quello di Maeda - introduce dieci quadrati governati vo calmente. Con approccio suprematista, Maeda abbandona ogni decorazione per perseguire la forma più semplice: un quadrato nero. D'altra parte, quel «nuovo cosmo pittorico senza oggetti» di cui parlava Malevich dove potrebbe mai aleggiare se non in qualche remota regione dell'etere com puterizzato? Assodata quindi la profonda somiglianza anzi la più stretta coincidenza - tra quadrato suprematista e «pixel nero su fondo bianco», Maeda afferma che il quadrato nero può tornare a vivere solo nel computer. Peraltro, non si tratta di attivarlo mano-vrando il mouse: basta solo un microfono perché risponda ad una serie di input vocali. Quando vi si rivolge, questo suggerisce subi to la seconda legge della fisica newtoniana: «a ogni azione corrisponde una reazione». Se Malevich intendeva perse guire la pura percezione dell'arte attraverso il colore, qui si realizza la multimediale percezione attraverso suono e colore. La versione cartacea de «Il quadrato reattivo» è progettata invece come un'esperienza tattile: linguette ritagliate e gran ricchezza di texture materiche. Ed ecco un altro riferimento all'avanguardia russa: dal Suprematismo al Costruttivismo. Alludiamo qui a / due quadrati di El Li sitskij (pubblicato a Berlino nel 1920). Precisa lo stesso El Lisitskij: In questa favola dei due quadrati mi sono 41
prefisso il compito di rappresentare un 'idea elementare con mezzi elementari in modo che sia per i bambini uno stimolo al gioco attivo e per gli adulti uno spetta colo. La rappresentazione procede come un film. Le parole si muovono nei campi-forza delle figure prota goniste: - quadrati 18 • E auspicando che il libro sarà pre sto sostituito da un'espressione autolinguistica o cinelin guistica, continua: Il libro si fa strada verso il cervello attraverso gli occhi, non attraverso le orecchie; per questa strada passano onde di velocità e tensione molto più grandi che non quelle acustiche. Con la bocca, si può solo parlare, invece le possibilità espressive del libro sono multiformi 19 - o «multimediali». Tornando al suono (e alle parolibere futuriste), è il caso di menzionare le Flying Letters (lettere volanti o «paroli
branti»): caratteri digitali, interattivi, mutevoli, roboanti ecc.20 Si tratta di un altro reactive book, dove le lettere compiono mirabolanti performance sullo schermo. Se i futuristi realizzarono campi visivi in cui la parola - libe rata dal verso (e per questo «libera») - diviene immagine e rende in modo onomatopeico un particolare suono, le Flying Letters prorompono acusticamente in una sorta di balletto alfabetico, mentre si accavallano in composizioni dinamiche e fortemente espressive21• Sagmeister è già un visual designer di ottimo livello quando nel 200 l una brillante monografia - o meglio Another Selflndulgent Design Book (un altro libro di design auto-indulgente) - lo consacra sulla scena mondiale22• Al l'interno ci sono tutti i suoi lavori, aggiornati nella secon da edizione al 2004. Si susseguono qui testi fluidi e di grande impatto grafico, copertine di CD shockanti e mani festi con galline mozzate! Ma ciò che attrae all'istante è proprio la copertina, non appena si tira fuori il libro dal1'involucro di plastica che lo contiene. Sembra quasi un gioco di prestigio: il mansueto pastore tedesco disegnato sulla copertina mostra zanne tutt'altro che rassicuranti quando lo si fa uscire dall'involucro. La copertina è stam42 pata in rosso e verde su fondo bianco: l'involucro rosso
annulla il rosso della copertina facendo emergere il dise gno verde del cane mansueto, che diviene una bestia fame lica nel momento in cui compare il disegno rosso non più neutralizzato dall'involucro. Certo, la trovata di Sagmeister è geniale nella sua ca pacità di catturare l'attenzione e produrre un effetto sor prendente; e la ritroviamo nel biglietto da visita dello stes so Sagmeister come pure nel mirabolante - anzi nel «paz zesco» - CD Mountains of Madness ( «Montagne di paz zia») di H. P. Zinker. Ma non si può non ricordare che la ricerca di nuovi supporti e nuovi materiali applicati al i' artefatto comunicativo in generale, e al libro in partico lare, è stata una pratica tipica dell'avanguardia. Si pensi ad esempio al catalogo Depero Futurista, edito da Dinamo Azari (19 I 7), meglio noto col significativo titolo di «Libro imbullonato»: un autentico capolavoro di grafica futurista, rilegato mediante bulloni di ferro, che si risolve per l'ap punto in una straordinaria esperienza visivo-tattile. Marinetti aveva detto: Noi useremo in una medesima pagina [ ...] anche 20 caratteri tipografici diversi 23 ; Depero avrebbe potuto dire: «Noi useremo nella medesima pagina anche venti materiali diversi!» Ma Sagmeister, se è possibile, fa addirittura di pm: dopo aver progettato sorprendenti artefatti comunicativi con i più disparati materiali, dopo aver assunto tutte le forme dell'inorganico (dalla plastica al metallo), passa a lavorare su supporti organici - e non ci si riferisce qui alla carta! Ciò cui si allude è Sagmeister stesso in carne e ossa ... ovvero al suo busto impiegato come supporto gra fico per un manifesto. Questo è probabilmente il più noto lavoro di Sagmeister e impressiona - quindi colpisce con forza - per i lettering incisi con una specie di bisturi sul busto nudo del progettista: una maniera di fare grafica che esaspera la ricerca (avanguardistica) di nuovi materiali riproponendo la modalità (shocking) della body art. Guardando molto rapidamente alla situazione generale, in un fortunato libro sulle Icons of Graphic Design Steven Heller e Mirko Ilic mettono in rilievo come molti espe- 43
dienti visivi che compaiono per la prima volta alla fine dell'Ottocento o nei primi anni del secolo successivo tro vino inediti riadattamenti negli ultimi cinquant'anni, tanto da poter affermare che nel graphic design la parola nuo vo non significa «mai prima d'ora»24 . Ciò è senz'altro vero, ma - lo ribadiamo ancora - proprio negli ultimi anni sembra che tra avanguardia storica e design digitale si sia stabilita ben più di qualche assonanza figurativa. A riprova di questo assunto, basta registrare liberamen te tutta una serie di soluzioni grafiche che imperversano ai nostri giorni: - principio caotico (segni e immagini casuali su cam po visivo); disordine sistematico: combinazione di vari caratteri su livelli incrociati; testi metaforici: carattere adoperato in senso simbo lico-figurativo (anche a mo' di rebus); combinazioni grafiche angolari di grande impatto (spesso blocchi di testo); barre e angoli per facilitare la navigazione dello spazio grafico; - segni distintivi per enfatizzare parte della composi zione che si vuole mettere in rilievo; - elementi sovrapposti (o sovrastampati) per aggiun gere informazione/comunicazione; - foto-montaggi (ritoccati) che si risolvono in fantasma gorici ambienti dal sapore surrealista; livelli multipli e sfaccettati (spesso e volentieri lavo rati con Photoshop); fusione di diverse modalità espressive (foto, disegni, testi ecc.) in un unicum multimediale; distorsioni e stiramenti degli elementi visuali; - approccio interattivo (o iperattivo).
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È un lungo elenco e potrebbe esserlo molto di più. Eppure, quel che impressiona in questo catalogo aperto di stilemi e tecniche grafiche - sicuramente tipico del presente _ è il fatto che esso è non meno tipico d'un orizzonte
profondamente diverso al quale non pertengono sistemi binari e software digitali: l'orizzonte di Guillaume Apolli naire, Herbert Bayer, Fortunato Depero, Raoul Hausmann, John Heartfield, Gustav Klutsis, El Lisitskij, F. T. Marinetti, Laszl6 Moholy-Nagy, Francis Picabia, Alexander Rod chenko, Paul Schuitema, Kurt Schwitters, Jan Tschischold, Theo van Doesburg, Piet Zwart ecc. Certamente si tratta di due universi storici e culturali diversi; ma tale indubitabile differenza non ne esclude certo la convergenza in una medesima istanza comunicativa: differenziale nella misura in cui al tempo delle avanguardie bisognava superare i limiti fisici della carta, frantumati al giorno d'oggi da un'infinita e ingovernabile moltitudine di pixel. In conclusione, tali rilievi - e tali pixel - inducono a propiziare l'ipotesi di riqualificare l'odierna grafica digita le - la «grafica fuori delle regole» di cui si ragionava ali' inizio - come una sorta di neo-avanguardia visiva.
1 L. BLACKWELL, The End of Print: The Graphic Design of David Carson, Laurence King, London 2000. 2 R. PoYNOR, No more Rules. Graphic Design and Postmodemism,
Laurence King, London 2003. 3 D. Russo, Free Graphics. La grafica.fuori delle regole nell'era digitale, Lupetti, Milano 2006. 4 S. PoLANO la definisce neografia («Tipologia», in S. POLANO e P. VETTA, Abbecedario, Electa, Milano 2003, p. 27), perché costi tuisce una specie di salto tipologico in uno scenario sempre più contrassegnato da architetture fluide (da Gehry a Hadid) e oggetti morbidi (da Arad e Lovegrove). 5 Cfr. G. BAULE, Figure del digitale, in «Linea grafica», n. 364, luglio-agosto 2006, pp. 14-21. Si condensano qui vere e proprie «cristallizazzioni del digitale»: persistenze di geometrismi e di giochi percettivi, filiazioni della prima computergrafica, p. 14. 6 Ibidem.
7 N. BRODY, cit. in J. WOZENCROIT, The Graphic l..anguage of Neville Brody, Thames and Hudson, London 1997, p. 8. 8 D. CARSON e M. McLUHAN, The Book of Probes, Ginko Press, Corte Madera CA 2003, p. 567. 9 L. BLACKWELL, op. cit. IO D. CARSON e M. McLUHAN, op. cit., pp. 28-29. 11 F.T. MARINETTI, Rivoluzione .futurista delle parole in libertà e 45
tavole sinottiche di poesia pubblicitaria, in «Campo grafico», n. 35, marzo-maggio 1939, p. 70. 12 D . CARSON, cit. in L. BLACKWELL, op. cit., s.n. E continua: Penso che lo siano pure molti fotografi, illustratori e designer che collaborano con me. Esistono molti tipi di arte. Molta parte del graphic design è arte, ma qualcuno direbbe che «il design grafico è un mezzo per comunicare» ... come se l'arte non comunicasse altrettanto! Sulla coincidenza di arte e design in Carson, cfr. D. Russo, op. cit.• pp. 53-54. 13 J. MAEDA, Maeda @ Media, Thames & Hudson, London 2000, p. III. I titoli dei libri di Maeda sono sempre ben scelti: Design by Nwnbers (MIT Press, Cambridge MA, 1999), Creative Code. Aesrhe tics + Computation (Thames & Hudson, London 2004) e - sorpren dentemente in italiano! - Le leggi della semplicità (Mondadori, Mi lano 2006). 14 N. NEGROPONTE, Being Digitai, Knopf, New York 1995. 15 ldem, Pinstriped Suit, in J. MAEDA, Maeda@ Media, cit., p. V. 16 http://maedastudio.com/2004/rbooks/. 17 http://maedastudio.com/2004/rbooks/square.html. 18 El LISITSKIJ, in S. LISITSKIJ-KUPPERS, El Lisitskij - pittore, architetto, tipografo, fotografo, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 164. 19 lvi, p. 352. 20 Si tratta di un piccolo programma disponibile su www.maeda studio.com/2004/rbooks2k/twelve.hunl. 21 Tiene a precisare MAEDA (Maeda @ Media, cit., p. 125): le lettere mano-scritte sono direttamente in contatto con la penna e con chi le scrive. Quando leggiamo le lettere riusciamo raramen te a toccarle, a meno che non siano stampate a rilievo. L'inchio stro reattivo dello schermo è tale da produrre un'infinita varietà di relazioni al tatto. 22 P. HALL, Sagmeister. Another Self /ndulgent Design Book, Booth-Clibbom, London 2004. 23 F.T. MARINETTI, op. cit. 24 S. HELLER e M. luc, lcons of Graphic Design, Thames & Hudson, London 2001, p. 6.
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