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settembre 2014

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I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale Grafica Elettronica


Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Comitato scientifico

Comitato redazionale

Philippe Daverio Kenneth Frampton Giuseppe Galasso Vittorio Gregotti Juan Miguel Hernández León Aldo Masullo Vanni Pasca Franco Purini Joseph Rykwert

Roberta Amirante Pasquale Belfiore Alessandro Castagnaro Imma Forino Emma Labruna (Segretaria di redazione) Francesca Rinaldi Livio Sacchi

Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 info: +39 081 7690783 - +39 081 2538071 e-mail: rendefus@unina.it - elabruna@unina.it Amministrazione: 80128 Napoli, Via B. Cavallino, 35/G info: +39 081 5595114 - +39 081 5597681 e-mail: info@graficaelettronica.it Abbonamento annuale: Italia e 25,00 - Estero e 28,00 Un fascicolo separato: Italia e 9,00 - Estero e 10,00 Un fascicolo arretrato: Italia e 10,00 - Estero e 11,00 Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione commerciale imprese - Napoli C/C/P n. 1012060917

Grafica Elettronica


Alla redazione di questo numero e all’organizzazione del sistema della pubblicazione digitale hanno collaborato: Roberta Amirante, Pasquale Belfiore, Alessandro Castagnaro, Elvio Conte, Carlo De Cristofaro, Andrea Giovannini, Emma Labruna (coordinatrice), Paolo Olisterno, Renato Piccirillo, Francesca Rinaldi, Carmela Santitoro.



Editoriale 2014 renato de fusco

«Op. cit.» compie cinquant’anni, una sorta di record date le condizioni difficili della pubblicistica sull’arte, l’architettura e il design; ai fini di ricordare e di continuare possibilmente il percorso del periodico, è utile riprendere alcuni punti dell’editoriale che scrivemmo nel primo numero uscito nel settembre del 1964. In esso si leggeva: «Il programma di questa rivista è di offrire una selezione della critica d’arte figurativa contemporanea. Intendiamo per selezione non una scelta esaustiva di tutto quanto si pubblica intorno alle arti visive – cómpito per il quale non siamo sufficientemente attrezzati – ma una esposizione dell’attività critica, soprattutto metodologica, ottenuta mediante l’esame di alcuni temi di maggiore interesse attuale. Ogni tema verrà svolto come una composizione di parti selezionate da saggi di estetica, di critica, di poetiche che, citate testualmente (donde il titolo del periodico), verranno unificate in un discorso e corredate del maggior numero di annotazioni e indicazioni bibliografiche. Riteniamo con questa formula di fornire uno strumento utilizzabile sia in senso divulgativo, sia al livello della ricerca specialistica. Ma la selezione operata attraverso un certo numero di temi non risolve soltanto una difficoltà tecnica, qual è quella di limitare l’intera produzione critica entro pochi argomenti; oltre a ciò, l’elaborazione di ciascun tema, già scelto per un suo peculiare carattere, consente una esposizione che, per quanto composita, referenziale e informativa, non può, a sua volta, non essere critica. […] Per definire in senso unitario le diverse posizioni ideologiche di quanti finora hanno collaborato a questa iniziativa e di quelli che invitiamo a parteciparvi, possiamo affermare senza ignorarne l’indeterminazione – che la nostra visuale, sicuramente antiaccademica, tende ad essere il più possibile inclusiva; non nel senso di una totale e neutrale accettazione, ma in quello di ritenere tutto considerabile e discutibile. […] Qualcosa va detto sulla cittadinanza napoletana della rivista, argomento a noi sgradito e sul quale eviteremo di tornare in

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quanto, a torto o a ragione, esso implica il concetto o preconcetto di «diverso», che decisamente respingiamo. Tuttavia non confondiamo le nostre aspirazioni con i reali disagi del nostro ambiente; tenteremo soltanto di trarre dalle nostre difficoltà qualche vantaggio: le condizioni per una più calma riflessione, ad esempio, o l’indipendenza dai gruppi di potere, fattori evidentemente favorevoli allo svolgimento del nostro programma, confidando per il resto nell’accorciamento delle distanze. In sostanza, accantonando le glorie tradizionali unitamente alle attuali carenze, tendiamo a proporre la nostra opera per quella che vale come contributo di persone». Rileggendo oggi questo iniziale programma va sottolineato che, quasi paradossalmente, nulla è cambiato: la veste grafica è la stessa; così come la «povertà» dell’operazione economica; la puntualità nelle date di uscita; il carattere sintetico e riduttivo nelle argomentazioni, ecc. Rispetto a queste caratteristiche costanti di «forma», i contenuti tematici e critici sono stati tra i più vari e spesso inediti: siamo stati tra i primi in Italia ad occuparci di semiologia architettonica e di design; ad associare queste discipline al fenomeno dei mass media; a proporre una politica ispirata alla«riduzione» culturale; ad avvicinare storicismo a strutturalismo; a raccogliere il pensiero della «critica discorde»; ad indicare i principi-base, i Grundbegriffe, delle tre arti sopra citate; a presentare i vari «ismi» che venivano intanto producendosi; a rivedere quelli che già alimentavano il dibattito critico, comunque sempre distinguendo le teorie e poetiche che avevano un senso da quelle legate alle effimere mode. Ma, al di là delle poche costanti di forma e alle molte variabili di contenuti, continua a meravigliare noi stessi la costanza della principale caratteristica di «Op. cit.»: una rivista d’arte visiva composta solo di testi scritti e quasi senza alcuna immagine – «riducendo» così ogni argomento da immagine a concetto; come non pensare, si parva licet, alla «storia dell’arte senza nomi» di cui parlava Wölfflin? E come non riconoscere, ad esempio, che l’«ismo» passeggero dell’arte concettuale si è trasformato nelle nostre pagine in una costante critica concettuale? Quanto alle previsioni attuate si pongono le alternative, o eravamo dei giovani dotati di straordinario senso nell’azione del tempo


– cosa che escludiamo per realistico buon senso – ovvero baciati da un colpo di fortuna per non usare un’espressione più colorita. Per la sua maggiore diffusione, dal gennaio 2015, «Op. cit.» figurerà anche on line con le stesse caratteristiche persino grafiche delle precedenti edizioni in cartaceo. In particolare, il presente fascicolo 151, che segna l’anniversario della pubblicazione, contiene una scelta dei saggi ritenuti migliori apparsi nell’arco dei passati cinquant’anni. Non potevamo pubblicare per intero questa «raccolta dei selezionati», sarebbe stato necessario un libro e non un normale numero del periodico. Ci siamo limitati così a pubblicare solo la prima pagina di ciascuno dei vecchi articoli che, marcato da un segno grafico speciale, rimanderà al completamento, ritrovabile in internet, del saggio corrispondente al citato segno.

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fasc. n. 1 settembre 1964

Le «Nuove Iconi» e la «civiltà del consumo»

www.opcit.it/1

GILLO DORFLES

Si parla – e si è parlato – sin troppo negli ultimi anni d’una «civiltà del consumo»; e, anche, d’una «civiltà delle immagini» perché, come spesso accade, non si sia finito per eccedere nel voler far rientrare tutti i più svariati aspetti della nostra cultura e della nostra società sotto una di queste allettanti etichette. Certo: il fenomeno del consumo è evidente e patente a chiunque: basta alzare lo sguardo ai palazzi appena terminati di costruire e scorgere, accanto ad essi, altri edifici già in via di demolizione; basta considerare la mutevolezza della moda femminile, delle mode artistiche, letterarie, poetiche; basta contemplare i «cimiteri d’auto» che già si stendono alla periferia delle nostre città e non più soltanto negli Stati Uniti e basta considerare la voga così accanita ed effimera delle canzonette degli urlatori o delle danze collettive destinate a durare mezza stagione. Il consumo – tanto inteso transitivamente nel significato del consumare alcunché del valersi, non solo del cibo, ma della cultura, del­l’arte, della scienza, in maniera pressoché «mangereccia» – quan­to inteso intransitivamente, nel senso del «consumarsi», dell’usurarsi, del sottostare all’entropia e all’obsolescenza di un dato fenomeno, è certo una delle costanti basilari della nostra età. Ma, codesta civiltà del consumo si mescola e interferisce di continuo con una «civiltà del­ l’immagine», anche essa onnipresente, e determinante per tutto il nostro modo d’essere-nel-mondo e di essere-intersoggettivamente. Ed è su questo punto che vorrei dilungarmi un poco. Quando, infatti, ho scelto come titolo di questa nota quello di «Nuove Iconi» l’ho fatto considerando come, appunto, tutte le moltiformi immagini che ci circondano, che ci impartiscono ammonimenti, precetti, lusinghe, (le immagini della segnaletica stradale, dei cartelloni cinematografici, dei manifesti politici, della pubblicità luminosa, ecc.) costituiscano davvero, per la nostra epoca, un nuovo panorama iconografico, ma rappresentino anche le nuove divinità mitiche che di continuo ci vigilano e ci assistono, quando non ci irretiscono e ci ipnotizzano. continua...

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fasc. n. 1 settembre 1964 www.opcit.it/2

La sociologia dell’arte dei sociologi ANTONIO VITIELLO

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La cultura italiana ha scoperto la sociologia e nutre per essa un entusiasmo sospetto, tanto è incontrollato ed aperto agli equivoci. Per alcuni la sociologia è un genere letterario ed, insieme, un’occasione per pasticciare sulla pagina le proprie conoscenze enciclopediche; per altri, invece, è un modo di porsi in maniera non dilettantesca e culturalmente avvertita il problema dei rapporti tra arte e società; tuttavia è da notare che sia gli uni che gli altri ignorano, o sottovalutano, un dato importante dell’attuale situazione degli studi. In un altro punto del mondo della cultura c’è chi comincia a criticare i portatori di istanze sociologiche, non perché peccano di «sociologismo» ma perché, in un certo senso, ne difettano. È in gestazione la sociologia delle arti fatta dai sociologi. Si sta verificando quanto è già accaduto per altri campi di applicazione della sociologia, come il diritto o la educazione. In una prima fase di missione alcuni giuristi ed alcuni pedagogisti si fecero portatori di determinate istanze sociologiche, rimanendo comunque nell’ambito delle loro discipline per quanto riguarda le tecniche di ricerca, di tipo storiografico e descrittivo, e mutuando volta per volta dallo storicismo, dal marxismo, dal positivismo o dal pragmatismo una non troppo elaborata teoria della società, densa di equivoci e di inflessioni normative. Si ebbe così una sociologia del diritto fatta dai giuristi ed una sociologia dell’istruzione fatta dai pedagogisti. La seconda fase, quella attuale, è caratterizzata dagli intenti puristi di una generazione di sociologi specializzati, che si impegnano ad applicare concetti e metodi di tipo sociologico nel campo del diritto e dell’istruzione, lasciando che i risultati del loro lavoro esprimano da soli la loro portata sui problemi giuridici e pedagogici. A nostro avviso questo percorso è esemplare anche per la so­ciologia delle arti. In dipendenza dal ritardo e dalla carenza di interesse scientifico da parte dei sociologi specializzati, si è sviluppata, infatti, una sociologia «supplente» che, pur avendo spesso un elevato interesse culturale, appare assai discutibile se commisurata alle esigenze della metodologia sociologica propriamente intesa. continua...


fasc. n. 2 gennaio 1965

Design e mass media

www.opcit.it/3

GIULIO CARLO ARGAN, ROSARIO ASSUNTO, BRUNO MUNARI, FILIBERTO MENNA

A cura della galleria «Il Centro» è stata organizzata a Napoli il 5 dicembre 1964 nel Museo di Villa Pignatelli una tavola rotonda sul tema: Design e mass media, cui hanno partecipato Giulio Carlo Argan, Rosario Assunto, Bruno Mu­nari, Filiberto Menna. Nel presente resoconto riportiamo testualmente i punti più significativi del dibattito tratti dalla registrazione. Giulio Carlo Argan […] Il design sembra essere in contraddizione con il caos delle immagini visive e sonore a cui siamo sottoposti con lo scopo di determinare le nostre decisioni attraverso impulsi inconsci, invece che attraverso giudizi e la contraddizione appare verificabile nelle due punte estreme dell’attuale situazione delle poetiche artistiche. Da una parte abbiamo il design, a cui si collega l’arte detta gestaltica, e dall’altra alcune correnti neo figurative e soprattutto la pop art americana. A proposito di tale contraddizione Argan precisa che l’arte detta gestaltica e la pop art si presentano come il risultato di due processi completamente diversi. La gestaltica, cioè l’arte di ricerca sui valori costruttivi della percezione, sulla cinetica della visione, è il risultato evidente di un processo di sublimazione; tanto è vero che l’oggetto scompare, si volatilizza e di esso rimane soltanto una strutturazione quasi inafferrabile come concretezza formale, ma riconoscibile come rappresentazione diagrammatica del processo che l’ha prodotta. La pop art appare invece come un processo di precipitazione, tanto è vero che restituisce l’oggetto nella sua testualità, sia pure eccependolo dai contesti spaziali abituali nei quali questo oggetto ci si presenta. Ciò che si volatilizza in questo processo è il procedimento costruttivo, sicché l’oggetto, più che costruito o prodotto, appare prelevato od estratto da un contesto empirico. In realtà, questi due processi di sublimazione e di precipitazione, operano nell’ambito di una medesima realtà: il mondo storico contemporaneo nella continua...

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fasc. n. 2 gennaio 1965 www.opcit.it/4

La poetica urbanistica di Lynch LUCIANA DE ROSA

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Moltissimo è stato scritto a proposito dell’estetica della città. La bibliografia è, infatti, molto ampia. Tuttavia sono stati fatti pochissimi tentativi per analizzare sistematicamente la natura e le caratteristiche dei valori formali delle nostre città. Fino ad oggi l’analisi più completa dell’argomento ci è stata fornita da C. Tunnard nel suo eccellente libro La città dell’uomo. S. Williams ci ha dato importanti contributi per la conoscenza diretta della città del presente. Contributi in questa direzione ci sono stati dati da P. Zucker. Il più intenso lavoro, in questa direzione, è stato compiuto recentemente da G. Kepes e K. Lynch e da Fagin e Weinberg che hanno fatto uno studio completo per un programma operativo tendente a migliorare l’aspetto della città. Altri (troppo numerosi per citarli tutti) da Sitte a Giedion, a Zevi a Grady Clay, hanno contribuito alla conoscenza dell’aspetto visivo delle città. Escludendo la possibilità di offrire una rassegna panoramica di tutta la produzione americana nel campo, ci limiteremo, in questa sede, ad analizzare l’opera di Kevin Lynch, in quanto riteniamo che essa, per la sua originalità, rappresenti un contributo, valido di per se stesso, e ricco di spunti e di aperture per maggiori approfondimenti e per nuovi studi. Pur ammettendo, come scrive Gutheim, l’esistenza di una continuità fra i problemi dell’estetica architettonica e quelli della forma della città, Lynch ha compiuto un passo fondamentale nella definizione di questi ultimi, rivendicando una loro problematica autonoma. La ricerca di Lynch, infatti, focalizza il proprio interesse sulla città e, per i problemi che questa pone, tenta un approccio sistematico mediante la costruzione di una teoria che individua un sistema di analisi e di valutazione delle forme urbane. Nel saggio scritto con Rodwin su A theory of Urban Form, egli pone l’accento sull’influenza che, sulla vita e l’attività della città, ha la forma fisica della città stessa: «La compren­ sione dei diversi effetti di diverse forme fisiche e della localizza­ zione delle attività umane in relazione alle forme fisiche è, o do­ vrebbe essere, il maggior impegno, in fase di indagine, del piani­ continua...


fasc. n. 3 maggio 1965

Kunstwollen e intenzionalità in E. Panofsky

www.opcit.it/5

ALDO MASULLO

L’estetica può diventare un validissimo strumento di arricchimento culturale e in definitiva critico solo se non si riduce a concettualizzare secondo un certo linguaggio costituito più o meno ad arbitrio del filosofo ciò che abbiamo già compreso, ma ci aiuta a comprendere più profondamente e a vivere quindi più intensamente l’emozione artistica, soprattutto quella di «contemplatori», e a comprendere più efficacemente l’altrui comprensione, cioè l’arte stessa in una sua determinata effettuazione storica. L’estetica può allora diventar capace di alimentare la critica d’arte, la quale non è tanto un’astratta valutazione dell’«artisti­ci­tà» o meno, della «bellezza» o meno di una opera, quanto una sua lettura, un’analisi cioè del suo discorso per accertare se, dato un certo linguaggio adottato e le sue regole sintattiche e semantiche, essa dica qualcosa, abbia un senso. Si tratta dunque non di riflettere sull’atto artistico, bensì di saperne ritrovare la concreta individuatezza nell’opera prodotta. L’estetica, salvo che non voglia essere oziosità metafisica, aspira sempre ad essere un’ermeneutica (si badi, ho detto «oziosità metafisica», e non «metafisica» semplicemente, poiché ogni autentica metafisica è stata sempre, nel suo mondo culturale proprio, un dispositivo ermeneutico). La riconduzione dell’estetica ad ermeneutica artistica comporta la presa di coscienza della situazione linguistica propria di ogni approccio ad una produzione artistica. Ci si trova qui dinanzi all’intersezione di almeno tre linguaggi: a) il linguaggio proprio del documento artistico; b) il linguaggio estetico capace di fornire certi strumenti ermeneutici; c) il linguaggio della critica d’arte che, utilizzando gli strumenti ermeneutici, le categorie interpretative fornite dall’estetica, ed applicandole alla materia costituita dal «discorso» artistico da interpretare, compie l’effettiva lettura dell’opera o per lo meno delle esplorazioni volte a individuare dei vettori di senso nella cui direzione va effettuata un’approfondita lettura. Si pone, a questo punto, il problema di fondo di come sia possibile costruire un lincontinua...

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fasc. n. 4 settembre 1965 www.opcit.it/6

La critica discorde renato DE FUSCO, cesare DE SETA, vanni PASCA, MARIA LUISA SCALVINI

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La presente rassegna intende raccogliere le opinioni di alcuni autori che hanno avuto verso l’arte moderna un atteggiamento ostile, svalutativo o anche di consenso ma per motivi tuttavia diversi da quelli delle poetiche e della critica moderna. Si tratta in una parola d’una critica discorde avanzata da una visuale più radicale e anticonformista o, spesso, più reazionaria di quella visione ormai schematica che ha accompagnato gli sviluppi dell’arte moderna. Definire tale visione e conseguentemente la critica con essa discordante è assai difficile; riteniamo però che sia l’una che l’altra emergeranno volta a volta citando i vari autori. Per il lettore disattento o malevolo, premettiamo di non condividere, quasi per intero, la critica discorde, ma che ne riteniamo utile una rassegna in un momento come quello attuale dove la noia del neo-conformismo rischia di paralizzare tanto la produzione quanto la fruizione artistica, e dove, come dice H. Rosenberg, la famosa «rottura con la tradizione» è durata tanto a lungo da aver dato origine a una tradizione sua propria. Procedendo in ordine cronologico, iniziamo la nostra rassegna con la citazione del pensiero di Spengler su alcuni aspetti dell’arte. La sua generale teoria sullo sviluppo storico delle civiltà, espressa nel famoso saggio Il tramonto dell’Occidente, pubblicato in prima edizione nel 1918, si basava sull’osservazione del passaggio dall’organico all’inorganico, dal vivente al meccanico, dalla direzione soggettiva a quella oggettiva. Questi stadi comportavano un processo automatico di ascesa e caduta delle civiltà. Soggetta allo stesso meccanismo era la sua interpretazione del fenomeno artistico. L’impressionismo, egli scrive, è ridisceso dalle altezze della musica beethoveniana e dagli spazi planetari di Kant sulla crosta della terra. Lo spazio del plein air è conosciuto ma non vissuto, osservato ma non contem­ plato; esso implica uno stato d’animo ma non un destino; ciò che è dipinto nei paesaggi di Courbet e di Manet è l’oggetto mecca­ nico d’un fisico e non il mondo sentito nella musica pastorale. La continua...


fasc. n. 7 settembre 1966

Note per una semiologia figurativa

www.opcit.it/7

Renato DE FUSCO, Nico PALMIERI, vanni PASCA

La diffusa esigenza d’un metodo per lo studio delle esperienze figurative intese come linguaggi viene qui pro­posta quale estensione a questi settori della linguistica strutturale. Tale estensione non va considerata come un meccanico parallelo fra due diverse categorie di fenomeni, ma come tentativo di adottare un modello metodologico. Limiteremo il nostro esame ad alcuni settori figurativi: architettura, urbanistica, arti visive, design e determinati aspetti dei mass media, intesi non come espressioni arti­stiche, ma nella loro dimensione culturale; perché rite­niamo che la problematica estetica esorbiti da un primo approccio semiologico-figurativo. Per linguistica strutturale, dice Hjelmslev, s’intende un insieme di ricerche basate su un’ipotesi secondo cui è scientificamente legittimo descrivere il linguaggio come una entità essenzialmente autonoma di dipendenze in­terne, o, in una parola: una struttura… L’analisi di que­ sta entità permette di enucleare costantemente delle parti che si condizionano reciprocamente, di cui ciascuna di­pende da certe altre e non sarebbe concepibile né defini­bile senza di queste. Essa riduce il suo oggetto a una rete di dipendenze, considerando i fatti linguistici uno in ra­gione del­l’altro. La semiologia veniva definita da Saussure come una scienza che studia la vita dei segni in seno alla vita sociale; essa formerebbe una parte della psicologia sociale, e per conseguenza della psicologia generale; noi la chiameremmo semiologia (dal greco semeion, «segno»). Essa ci insegne­ rebbe in che cosa consistono i segni, quali leggi li reggono… La linguistica non è che una parte di questa scienza generale. Le leggi che scoprirà la semiologia saranno applicabili alla linguisti­ ca e questa si troverà così collegata ad un campo ben definito nell’insieme dei fatti umani. Tuttavia, per quanto de Saussure consideri la linguistica solo una parte della semiologia, rapporteremo, come s’è detto, i nostri segni figurativi alla linguistica che, come il sistema più evoluto, rimane l’insuperato riferimento per ogni altra ricerca semiologica. La prima nozione semiologica è quella di secontinua...

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fasc. n. 8 gennaio 1967 www.opcit.it/8

Il design scientifico di Alexander LUCIANA DE ROSA

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Nel campo della ricerca teorica e metodologica applicata all’architettura e all’urbanistica, intese, almeno tendenzialmente, come discipline scientifiche’, i contributi di carattere globale sono ancora molto limitati, o forse addirittura inesistenti. Da ciò deriva uno dei principali motivi di interesse della ricerca che Cristopher Alexander va conducendo in questi ultimi anni e che, pur riguardando in modo specifico il campo della metodologia della progettazione e della sua formalizzazione in termini matematici, si basa su una serie di concetti ascrivibili, nel loro insieme, al campo della teoria. In queste note analizzeremo alcuni aspetti di questa ricerca, della quale è necessario chiarire in via preliminare l’impostazione generale e gli obiettivi di fondo, che possono apparire, a prima vista, di stretta derivazione razionalista. La razionalizzazione del design, tema di fondo della ricerca di Alexander, si impernia sulla precisazione del concetto di forma; questa, infatti, rappresenta l’oggetto finale del processo di progettazione, ed il campo stesso del nostro intervento. Riferendosi a D’Arcy Thompson e agli studi di genetica, egli definisce la forma come diagramma di forze che compensano le irregolarità di un campo. La ragione per cui una limatura di ferro, posta in un campo magnetico, si dispone secondo uno schema – o, come diciamo, assume una forma – è che il campo in cui essa si trova non è omogeneo. Se il mondo fosse totalmente regolare e omogeneo, non vi sarebbero forze, né forme. Intesa in tal senso, ossia come risultato dell’interazione di un certo numero di forze, la forma individua, nel suo stesso rendersi concreta, un momento di equilibrio dinamico e, quindi, esiste solo se è conforme a leggi fisiche e matematiche. La forma e le sue trasformazioni possono essere descritte come dovute all’azione di forze. Il che significa che, indipendentemente dall’apparenza dell’oggetto, è sempre possibile, in termini teorici, individuare da una forma un sistema di forze e, viceversa, dal sistema di forze è possibile individuare la forma dell’oggetto. A livello urbanistico, architettonico o di design, il sistema di forze è individuato dal continua...


fasc. n. 9 maggio 1967 www.opcit.it/9

Il pensiero estetico di Adorno

RUGGERO GUARINI

Se hai un intelletto e un cuore, mostra solo uno dei due. Te li maledicono se li mostri insieme. Hòlderin In ciò che Adorno dice della musica di Mahler (essa sembra a tratti realizzare ciò che per una vita intera ha sperato lo sguardo puntato dalla terra al cielo… promette qualcosa di diverso, pro­ mette di fendere un velo… aizza all’ira chi è complice del mondo così com’è ricordando ciò che costoro devono scacciare da se stessi… fa sua la causa contro il corso del mondo, lo imita per accusarlo, e i momenti in cui vi fa breccia sono anche quelli della protesta… non rabbercia mai la frattura soggetto e oggetto e piuttosto che fingere una conciliazione raggiunta preferisce fran­ tumarsi…), si afferma una concezione dell’arte che si propone di coglierne in pari tempo l’essenza e la genesi storica. Decisivo, in essa, è il rifiuto di considerare l’estetica una branca separata del sapere. L’arte è si un prodotto della divisione del lavoro estesa al linguaggio, ma proprio per questo ogni dottrina che pretenda di identificarne il senso occultando la frattura che l’ha generata, si lascia sfuggire il meglio: il movimento stesso della cosa, che si vorrebbe in fondo arrestare mediante una mera definizione di genere. Par­lare sul serio dell’arte vuol dire parlare dell’uomo. Non si dà un’estetica che non sia anche un’antropologia. Di fronte al­l’alta esigenza che il pensiero di Adorno si sforza di preservare in tempi ostili ad una riflessione che ignori gli artificiali steccati fra i quali prospera il sa­pere amministrativo, i diversi e ricorrenti tentativi di fon­dare un’estetica scientifica si rivelano per quel che sono: trionfa in essi la pretesa di estendere all’arte lo stesso trat­tamento che il dominio, di cui quella invoca da sempre il superamento dialettico, infligge alla natura e alla natura nell’uomo. Allo sforzo di soggiogare il mondo naturale, che è il fine in cui tutte le moderne ideologie si rico­noscono affini e continua...

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fasc. n. 10 settembre 1967 www.opcit.it/10

Semiologia e urbanistica ROLAND BARTHES

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L’oggetto di questa mia conversazione riguarda alcuni problemi della semiologia urbana. Ma devo subito affermare che chi volesse abbozzare una semiotica della città dovrebbe essere insieme semiologo, specialista dei segni, geografo, storico, urbanista, architetto e, probabilmente, anche psicanalista. Siccome evidentemente non è il mio caso – infatti non sono nulla di tutto questo, ma appena un semio­logo – le riflessioni che mi accingo a presentare saranno riflessioni di amatore, nel senso etimologico della parola: amatore di segni, colui che ama i segni; amatore di città, colui che ama le città. Perché amo le città ed amo i segni. E questo doppio amore (che probabilmente è uno solo) mi spinge a credere, forse con qualche presunzione, nella possibilità di una semiotica della città. A quale condizione, o piuttosto, con quali precauzioni, quali preliminari, sarà possibile una semiotica urbana? Questo è il tema delle considerazioni che svolgerò. Vorrei iniziare col ricordarvi una cosa notissima, dalla quale prenderò le mosse: lo spazio umano in genere (e non soltanto lo spazio urbano) è sempre stato significante. La geografia scientifica, e particolarmente la cartografia moderna, possono essere considerate come una specie di obliterazione, di censura, imposte dall’oggettività (che è una forma di immaginario come un’altra) alla significazione. E prima di parlare della città stessa, vorrei ricordare alcuni fatti della città stessa, vorrei ricordare alcuni fatti della storia culturale dell’Occidente, e segnatamente di quella dell’antichità greca: l’abitato umano, la «οικουμενη» – come possiamo intenderlo attraverso le prime carte dei geografi greci: Anassimandro, Ecateo, o attraverso la cartografia mentale di un uomo come Erodoto – costituisce un vero discorso, colle sue simmetrie, opposizioni di luoghi, colla sua sintassi e i suoi paradigmi. Una carta del mondo di Erodoto, realizzata graficamente, è costruita come un linguaggio, come una frase, come un poema, su opposizioni: paesi caldi e paesi freddi, paesi conosciuti e paesi sconosciuti; poi opposizione tra uomini da una parte, mostri e meraviglie dall’altra, etc. Se dallo spazio continua...


fasc. n. 12 maggio 1968

Questioni di estetica empirica

www.opcit.it/11

VITALIANO CORBI

Ci domanderemo innanzitutto se davvero, come molti ritengono, teorie diverse di interpretazione dei fatti artistici siano sempre necessariamente tra di loro incompatibili, nel senso che la verità di una di esse escluda in ogni caso quella delle altre, o se piuttosto non si debba ammettere che un’ipotesi, per quanto generalizzata o ricondotta a un contesto teorico ampio e rigoroso, non può esaurire la totalità e la complessità del fenomeno artistico e che, per questo, almeno in via di principio, tra differenti proposte di interpretazione si possano stabilire rapporti non solo di reciproca esclusione ma anche di concordanza e di integrazione. Del resto, mentre la varietà degli approcci che un’opera d’arte può tollerare è un fatto emergente sia storicamente che all’interno di una medesima situazione culturale, è abbastanza evidente che la convinzione dell’incompatibilità tra teorie estetiche differenti deriva soprattutto dal concepire l’estetica speculativamente, come filosofia dell’arte, partecipe, in quanto tale, di quella pretesa di compiutezza e di universalità tipica dei sistemi filosofici dei quali l’estetica, al pari dell’etica e della logica, ad esempio, costituirebbe un momento. In tal caso, infatti, trattandosi di teorie il cui campo di riferimento e di applicazione non è delimitabile né empiricamente né operativamente (in rapporto, cioè, ai metodi e alle tecniche di indagine), poiché vuole identificarsi, quel campo, con la totalità assoluta ed incondizionata del fenomeno artistico, la loro reciproca incompatibilità, prima ancora d’essere constatata sul fatto, si dichiara come un caso di contraddizione logica. Ma, se dal cielo delle filosofie speculative si discende sul più modesto terreno della conoscenza empirica, è lecito ammettere che ipotesi differenti possono illuminare momenti distinti del fenomeno artistico, ovvero descrivere un medesimo momento in modi differenti, per il fatto di servirsi di concetti e di tecniche diversi. Sarà opportuno, a questo punto, precisare che, per quanto tra i vari tipi di rapporti in cui possono venire a trovarsi due ipotesi sull’arte debba essere incluso anche quello della complementarità (qualora il fenomeno continua...

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fasc. n. 14 gennaio 1969 www.opcit.it/12

La prossemica: un nuovo apporto all’architettura? VIRGINIA GANGEMI

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Il quadro delle ricerche e degli studi semiologici si è di recente arricchito di una nuova branca disciplinare: la prossemica. Il suo teorico, Edward T. Hall, attraverso considerazioni derivate inizialmente da studi di antropologia e biologia, e sulla scorta di analisi comportamentistiche, indaga sulla struttura dello spazio umano, giungendo a configurare una vera e propria Semiologia dello spazio. In altri termini la ricerca di Hall tende a costituire per lo spazio quello che la linguistica costituisce per l’universo dei segnali verbali, utilizzando e superando i contributi degli studi americani sulle scienze del comportamento. Hall opera nel solco aperto dagli studi degli antropologi F. Boas, E. Sapir, L. Bloomfield e B.L. Whorf che per primi evidenziarono le profonde differenze esistenti tra le famiglie linguistiche. In particolare Whorf approfondisce il tema del rapporto del linguaggio col pensiero e con la percezione. Egli afferma che il linguaggio è un vero e proprio elemento costitutivo della formazione del pensiero e che, quindi, la vera percezione che un uomo ha del mondo che lo circonda è programmata dal linguag­ gio che egli parla… poiché due lingue diverse programmano spesso il medesimo insieme di eventi in modo totalmente diffe­ rente, nessuna opinione e nessun sistema filosofico dovrebbe es­ sere ritenuto immune da influenze linguistiche. Hall traspone i concetti espressi da Whorf su di un contesto più vasto verificandone l’applicabilità all’intera sfera del comportamento umano ed utilizza gli strumenti della ricerca linguistica per indagare sui comportamenti culturali degli individui e sulla complessa rete delle relazioni spaziali tra uomo e ambiente, fino ad oggi oggetto di studio della ecologia. Hall confuta la tesi che l’esperienza sia ciò che accomuna tutti gli uomini, che dunque sia sempre possibile scartare in qual­ che modo linguaggio e cultura per risalire all’esperienza, stabi­ lendo un diretto ed originario contatto con l’altro. Codesta cre­ denza, implicita e spesso esplicita, sulla natura del rapporto fra continua...


fasc. n. 14 gennaio 1969

La poetica dell’arte povera

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VITALIANO CORBI

Il dibattito intorno alla cosiddetta arte povera, svoltosi sui cataloghi della galleria De’ Foscherari e raccolto poi in un unico fascicolo a cura di P. Bonfiglioli (Quaderni De’ Foscherari, Bologna, 1968) interessa soprattutto perché in esso sono confluiti alcuni temi centrali dell’arte d’oggi. Nel vuoto esistente fra arte e vita – scrive G. Celant nella presentazione della mostra bolognese dell’arte povera – il libero progettarsi dell’uomo, il legarsi, creativo, al ciclo evolutivo della vita (siamo alla osmosi fra i due momenti) per un’affermazione del presente e del contingente. Là un’arte com­ plessa che mantiene in vita la «correptio» del mondo, col tenta­ tivo di conservare «l’uomo ben armato di fronte alla natura». Qui un’arte povera, impegnata con l’evento mentale e comporta­ mentistico, con la contingenza, con l’astorico, con la concezione antropologica, l’intenzione di gettare alle ortiche ogni «discorso» univoco e coerente (la coerenza «apparente» è un dogma che bi­ sogna infrangere), ogni storia ed ogni passato, per possedere il «reale» dominio del nostro esserci… arte come stimolo a verifi­ care continuamente il nostro grado di esistenza (mentale e fisi­ ca)… Un momento freschissimo che tende alla «decultura», alla regressione dell’immagine allo stadio preiconografico, un inno all’elemento banale e primario, alla natura intesa secondo le uni­ tà democritee e all’uomo come «frammento fisiologico e menta­ le»… Ne deriva una fisicizzazione di un’idea, un’idea tradotta in «materia», un modello, formato ingrandito, dell’apprendimento mentale e fattuale, naturalmente non una fisicizzazione vitalisti­ ca ed orgiastica, ma «mentalistica». L’autore ponendosi alla convergenza tra idea e immagine, diventa il vero protagonista dell’evento, si integra all’attualità e al divenire evolutivo delle sue idee». Non importa verificare quanto questa poetica dell’arte povera s’addica alle opere degli artisti presenti alla mostra (Pistoletto, Pascali, Kounellis, Paolini, Merz, Anselmo, Zorio, Piacentino, Prini, Boetti e Fabro), poiché il dibattito si è svolto quasi sempre prescindendo dalla continua...

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fasc. n. 16 settembre 1969 www.opcit.it/14

Significanti e significati della Rotonda palladiana RENATO DE FUSCO, MARIA LUISA SCALVINI

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Gli studi di semiologia architettonica sono andati sin qui svolgendosi in un ambito esclusivamente teorico, e si sono risolti essenzialmente nella trasposizione al campo dell’architettura di concetti propri della linguistica. Com’è noto, questa costituisce il settore più evoluto della semiologia, la quale, intesa come scienza generale dei segni e della loro significazione, presenta sia una fondazione teorica generale, sia una sistematica, peculiare a ciascun campo di applicazione. E, se in altri settori l’indagine vale anche se limitata all’ambito teorico, in quello architettonico invece, proprio le istanze che il corpus della disciplina impone, rendono indispensabile collegare gli assunti generali alla loro verifica applicativa. Questa esigenza, che finora è stata solo enunciata, si riflette nella presente rassegna in un primo tentativo di lettura semiologica di un’opera architettonica specifica. All’inizio della nostra ricerca si è presentata l’alternativa della scelta, come oggetto dell’analisi applicativa, di una singola opera o di uno «stile». In entrambi i casi, infatti, si delineavano interessanti prospettive di ricerca. L’analisi dell’opera presentava i vantaggi di una storicità più determinata, di una esperienza critica più consueta, e di una documentazione talvolta assai ricca anche in senso iconografico e iconologico. L’analisi di uno «stile», viceversa, si ricollegava più direttamente alla metodologia strutturalistica, con i vantaggi connessi alle invarianti sociologiche e tipologiche, e soprattutto con quelli derivanti dalla nozione di codice. Abbiamo scelto lo studio semiologico dell’opera, perché l’ipotesi teorica dalla quale siamo partiti – identificazione delle componenti del segno con il binomio spazio interno-esterno – trova in essa un riscontro più tangibile. Nella gamma, evidentemente assai vasta, delle opere che per la loro rappresentatività si sarebbero prestate a costituire l’oggetto della nostra analisi, abbiamo preferito la Rotonda di Palladio, sia perché si tratta di un’opera paradigmatica in sé, sia perché, intendendo di dare un contributo alla moderna storia dell’arte e non alla continua...


fasc. n. 16 settembre 1969

Valori iconologici in architettura

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GILLO DORFLES

Negli ultimi tempi possiamo, davvero, parlare d’una «moda semiologica» che si è affermata nei più vari territori culturali. Non vorrei però che questo termine ‘moda’, suonasse derogatorio: anche la moda – è chiaro – ha i suoi aspetti positivi; intanto perché è proprio la moda a portare fino nelle regioni in apparenza più frivole, alcune grandi costanti stilistiche d’un’epoca; e poi perché anche la moda (l’ha fatto ad es. Barthes) si può prestare a sua volta ad acute e minuziose indagini semiologiche. Dunque, se è «di moda» parlare di semiotica e di linguistica perché non dovremmo parlarne anche a proposito dell’architettura e del disegno industriale? E, infatti, negli ultimi anni si sono avuti molti tentativi di dare una classificazione e un’impostazione semiologica alle ricerche critiche e strutturali dell’architettura. Il mio proposito, oggi, vuol essere solo quello di esporre alcuni momenti che, secondo me, possono essere considerati «utili» per un’impostazione semiologica del problema; cercando soprattutto di distinguere quello che era, sino a ieri, l’aspetto iconologico, e quello che è oggi piuttosto l’aspetto semiologico d’una critica e d’un’analisi del linguaggio architettonico. Perché ho detto «sino a ieri»? Perché, come è ben noto, l’influsso degli studi panofskiani, soprattutto applicati alla pittura e alla scultura, si è, in un secondo tempo, esteso anche all’architettura e ha fatto sì che, da molti autori, si tendesse ad analizzare il «messaggio architettonico» (questo termine, veramente, è d’uso più recente, già dipendente dagli studi legati alla Teoria dell’Informazione e alla cibernetica) da un punto di vista prevalentemente iconologico, figurativo, proprio considerato che tale messaggio avesse un valore comunicativo quale è appunto quello dell’icone: dell’immagine figurale; o – se vogliamo invece accettare la definizione morrissiana di questo termine – di «quel segno che ha in sé alcune delle proprietà che tende a denotare»; e, nel caso dell’architettura, è evidente che il «segno» architettonico ha in sé tali proprietà nel senso più completo; è cioè un tipico segno iconico. Ecco, dunque, come, già partendo dall’iconologia continua...

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fasc. n. 18 maggio 1970 www.opcit.it/16

Semiotica e architettura. Alcuni problemi teorico-applicativi EMILIO GARRONI

Prospettive metodiche. Il modello tipologico

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Chiariamo subito che le prospettive metodiche che se­guiranno non hanno in alcun modo la pretesa di essere cor­rette da ogni punto di vista, né di essere tecnicamente ese­guibili. Ammettiamo fin d’ora che esse potrebbero non es­sere utilmente applicabili da un punto di vista circostanzia­tamente e sistematicamente operativo. Esse valgono solo come esemplificazioni di metodi operativi possibili, confor­ tati talvolta da suggerimenti applicativi suscettibili di ap­pro­fon­di­ mento, al fine di esibire concretamente con­si­dera­zioni valide soprattutto ad un livello teorico. Ai nostri fini ciò sembra infatti sufficiente, il problema di un adeguato me­todo operativo (certo assai importante) ponendosi solo in sede di teoria applicativa sistematica e di effettiva analisi di oggetti architettonici dati. Con questa essenziale precisa­zione preliminare, diciamo subito che anche l’elaborazione e l’applicazione di un modello tipologico risolve adeguatamente il malinteso teorico della continuità, a patto che le unità così determinate siano appunto unità formali e non materiali. Perfino gli elementi «colonna», «trabeazione», ecc., se con essi si intende individuare non i «segni» o gli elementi dalla cui unione e realizzazione risulti l’oggetto architettonico nella sua globalità e concretezza, ma semplicemente gli elementi formali di uno dei possibili modelli in riferimento al quale un oggetto architettonico può essere analizzato, sono a questo patto corretti e permettono di rileggere positivamente anche i tentativi di costruire una semiologia materiale dell’architettura. Ma in ogni caso, pur con tutte le specificazioni possibili e lasciando comunque aperte le poche ulteriori indicazioni orientative testé fornite, un modello tipologico sembra nello stesso tempo troppo generico e troppo ristretto per consentire analisi sufficienti dell’oggetto o degli oggetti architettonici, quali che essi siano. Per un verso, infatti, esso non permette di stringere abbastanza da vicino continua...


fasc. n. 19 settembre 1970 www.opcit.it/17

Segni e simboli del tempietto di Bramante RENATO DE FUSCO, MARIA LUISA SCALVINI

Fra le opere di Bramante, S. Pietro in Montorio è quella che maggiormente si presta ad interessi di natura iconologica e semiotica; anzi, proprio la compresenza e al limite l’intrec­ciarsi in essa di valenze disponibili per interpretazioni ap­partenenti e all’una e all’altra sfera, ci consentiranno in questa sede sia di approfondire un tipo di lettura, quella semiologica, ancora tutta da esperire, sia di contribuire ad una più esatta distinzione fra le due discipline. In prima approssimazione, e per motivi del tutto ope­rativi, diciamo che qui intenderemo per simbolo «una cosa che sta per un’altra», ossia tutto ciò che costituisce ele­mento di rimando referenziale; mentre per segno intendiamo – come già abbiamo avuto occasione di definire altrove – una unione di significato e significante da noi identificata con il binomio spazio interno-esterno. Cogliamo l’occasione per precisare che, nel­ l’associare questi due binomi, non in­tendiamo stabilire una corrispondenza di termine a termine, bensì una equivalenza tra i due binomi stessi nella loro va­lenza totale. In altri termini, se è vero che lo spazio esterno svolge il ruolo del significante e quello interno il ruolo del significato, non si verifica tuttavia una mera identificazione, a due a due, fra i quattro termini così individuati, né una netta separazione fra le due entità spaziali considerate; in­fatti, data la natura omogenea di queste, non è possibile – co­sì come invece avviene in linguistica per l’immagine acu­stica e il concetto corrispondente – ritrovare l’esatto punto di passaggio dallo spazio interno a quello esterno, dal si­gnificato al significante. In ogni caso, e riducendo al minimo l’impiego di nozioni teoriche, questo studio si propone di analizzare il significato del tempietto bramantesco non in una specialistica visuale semiologica, bensì in quella che consideriamo una partico­lare angolazione storica. Infatti, è proprio la prospettiva sto­rica, coniugata con l’indagine segnica, che più avanti speci­ficheremo, che ci consente di affrancarci da un generico sim­bolismo, appartenente a tutta la cultura rinascimentale, per cogliere le valenze significative contrassegnanti l’individualità – appunto storica – dell’opera in esame. continua...

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fasc. n. 20 gennaio 1971 www.opcit.it/18

Utilità storiografica di una dicotomia linguistica renato de fusco

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Alcuni articoli pubblicati sulla nostra rivista, che co­sti­tui­scono dei tentativi di applicazione semiologica alla «lettura» storica di monumenti famosi, sono stati accolti dalla critica con pareri discordanti. Accanto ai numerosi giudizi positivi, espressi in via «amichevole» o in modo esplicito quanto autorevole da studiosi come Sergio Bettini, non sono man­cate una serie di riserve, che giudichiamo altrettanto fondate non foss’altro perché riflettono i nostri stessi dubbi. In sostanza ci si chiede se il metodo storico non contenga già gli elementi necessari per accertare i valori semantici e in genere comunicativi dell’architettura; in tal caso non si giu­stifica il ricorso alla disciplina semiologica ed al suo apparato teorico. Ora, a parte la necessità di un maggiore approfondimento come tale, anche noi ci siamo posti ovviamente lo stesso interrogativo e di volta in volta abbiamo trovato una motivazione che, moda strutturalista a parte, giustificasse la nostra ricerca: prima convincendoci che l’archi­tettura sia un linguaggio, poi paragonando la semiologia all’iconografia e più recentemente riflettendo sulle indicazioni di una celebre dicotomia saussuriana, quella sintagmatico-associativa, cui dedichiamo il presente articolo. A tale recente riflessione peraltro siamo stati indotti dalla lettura del libro di Brandi La prima architettura barocca, e da quello di Koenig, Architettura e comunicazione, entrambi pubblicati l’anno scorso. La posizione di Brandi è nota; egli riconosce due vie per l’indagine artistica, quella basata sull’«a­stanza» e l’altra sulla semiosi e, privilegiando la prima, ha fornito nel volume suddetto una stimolante lettura strutturale delle opere di Pietro da Cortona, Borromini e Bernini. Più avanti vedremo la relazione tra l’assunto di Brandi e la dicotomia di cui ci occupiamo. Il libro di Koenig è una estensione metodologica del suo precedente volume Analisi del linguaggio architettonico; in particolare, il confronto tra la sua conce­zione del segno architettonico e la nostra è stato determinante per le riflessioni sulla suddetta dicotomia saussuriana. continua...


fasc. n. 23 gennaio 1972

La «riduzione» culturale

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RENATO DE FUSCO, GIUSEPPE FUSCO

È comune esperienza che l’odierna sovrapproduzione di beni culturali (termine che lasciamo per ora imprecisato) risulta sempre più sproporzionata non solo alla capacità ricettiva del più vasto pubblico, ma anche a quella dei gruppi interessati ad un dato settore e persino a quella del ricercatore più specializzato. E stato osservato che è in atto la più grande inflazione di studi irrilevanti di tutta la storia della civiltà: migliaia di articoli, monografie, libri, conferenze, programmi di ricerca, progetti d’urbanistica, d’architettura, di design; senza parlare dell’enorme congerie di opere prodotte nei vari campi artistici e soprattutto degli oggetti, suoni ed immagini che i mezzi di comunicazione di massa riversano nell’ambiente urbano. In generale questi beni culturali sono pertanto eccedenti rispetto alloro impiego, costituiscono offerte senza domanda, risultano messaggi spesso incomprensibili se non addirittura privi di senso. D’altra parte esistono una indubbia crescente capacità di apprendimento, una implicita richiesta di conoscenza e una conseguente domanda di beni culturali, come dimostrano il desiderio di partecipazione, l’aumento del numero degli «aventi diritto», l’esigenza di superare i limiti dell’istruzione scolastica tradizionale, i pressanti problemi dell’università di massa e più in generale della cultura di massa. Questo evidente divario tra domanda ed offerta può essere attribuito in varia misura al fatto che o i beni culturali proposti non sono quelli richiesti oppure tra gli uni e gli altri c’è una identità sostanziale, ma una notevole difformità comunicativa. Quali che siano i motivi di tale disfunzione – alcuni sono stati da tempo individuati dalla critica sociologica – resta il fatto che essa coinvolge tutti: il grande pubblico come il più solitario studioso che, appena fuori dal suo particolare campo d’indagine, entra immediatamente nel novero di quel pubblico con gli stessi problemi ed esigenze. Il divario sopra indicato diventa poi di primaria importanza per coloro che operano nel settore didattico d’ogni ordine e grado. Enunciato così l’aspetto più tangibile del problema e nei suoi termini più generali (giusto continua...

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fasc. n. 24 maggio 1972 www.opcit.it/20

Il design: processo e fruizione ORIOL BOHIGAS

1. Processo e artefatto

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Il design può essere definito soltanto come un caratteristico processo di creazione di forme, in una successione di fasi chiaramente stabilite e differenziate. A distinguerlo da qualsiasi altro campo crea­ tivo è proprio questa catena processuale nella quale praticamente nessuna fase emerge come «causa» diretta né tampoco come determinante il prodotto in modo particolare. Promozione, elaborazione di dati e ipotesi formali, progetto, produzione e uso non appaiono con queste medesime caratteristiche nella musica, nella pittura, nell’artigianato, nella letteratura, nella pianificazione territoriale e nemmeno nelle forme storiche di quegli elementi che oggi vengono disegnati. Il risultato finale è un determinato prodotto la cui forma è stata condizionata da tutte le specifiche circostanze del processo. A questo prodotto diamo il nome di «artefatto» utilizzando una terminologia abituale, per esempio, in S. A. Gregory, che non va confusa con l’uso di questo stesso termine in altre discipline, come la ricerca biologica. «Artefatto» è, cioè, un prodotto del lavoro umano, il risultato materiale della progettazione, tutto ciò che è stato progettato e fabbricato. È il risultato materiale di questo processo di design. Ma una volta che l’artefatto ha acquisito una sua propria vita, costituisce un elemento indipendente al quale occorre applicare giudizi non specificamente relazionati al processo che lo ha costituito. L’uso, il significato, i valori estetici e culturali possono essere considerati indipendentemente dalla sua biografia e in accordo, invece con la sua reale e attiva presenza nella nostra attualità. Così, possiamo classificare due fenomeni indipendenti che ammettono analisi e valutazioni autonome: il processo del design di un artefatto e l’artefatto in sé. Questa distinzione è stata stabilita più chiaramente in altre discipline. Althusser, per esempio, nel commentare «Il Capitale» distingue nettamente il mode d’exposition e il mode d’investigation. Il secondo di questi «modi» è rappresentato dai lunghi episodi della indagicontinua...


fasc. n. 25 settembre 1972

Note sull’arte concettuale

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DANIELA DEL PESCO, MARIANTONIETTA PICONE

Il termine L’espressione arte concettuale è nata negli anni ’66-’67, per designare l’attività di alcuni artisti i quali danno più importanza alle idee e ai concetti che sono alla base del loro fare che al prodotto oggettuale. Benché si rea­lizzino ancora frequentemente oggetti, si tende a presen­tare interventi a livello progettuale o ad esprimersi attra­verso azioni e comportamenti o a limitarsi ad analisi dei problemi dell’arte e del pensiero. La costante comune ed essenziale di tutte queste esperienze è l’evidenziazione del procedimento mentale che vi soggiace. Il termine arte concettuale è stato riferito, in un primo momento, alla produzione di artisti come Kosuth, Barry, André e, in seguito, ai gruppi inglesi Art-Language e Ana­lytical Art, i quali prendevano in considerazione gli attributi tradizionali dell’opera d’arte, non avendo come unico fine quello di sottostarvi, ma per indagarli, per cer­care in che cosa essi determinino l’opera. Per costoro, l’arte concettuale non significa riduzione dell’opera a una idea, a un concetto, ma «idea» dell’arte, «concetto» dell’arte. Oltre a tale accezione restrittiva di tipo analitico, il termine arte concettuale è venuto successivamente assu­mendo un senso più generale, per non dire generico, nel suo associarsi ad esperienze molto diverse tra loro, spesso di tipo comportamentistico. In tal modo, concet­tuali non sono solo gli artisti che indagano sull’arte, ma anche quelli che, attraverso oggetti o, più spesso, com­portamenti, si richiamano a concetti di qualsiasi natura. Alcuni precedenti del concettualismo comportamentistico L’origine di questa tendenza risale all’attività svolta, fra la fine degli anni ’50 e gli anni ’60, da alcuni artisti, tra cui J. Cage, A. Kaprow, R. Rauschenberg, il gruppo Fluxus, La Monte Young, S. Paxton, Y. Klein, J. Beuys, P. Manzoni, G. Paolini, P. Pascali, J. nellis, i quali, agendo in campi molto diversi – dal teatro Kou­ continua...

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fasc. n. 32 gennaio 1975 www.opcit.it/22

Chi ha paura del cannocchiale? Umberto Eco

Una immagine può rappresentare relazioni che non vi sono!!! Com’è possibile? (Wittgenstein, Quaderni, 30-9-74).

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La semiotica contemporanea si è riposata per lunghi anni su una tripartizione che sembrava soddisfare le esi­genze del buon senso, quella tra simbolo, indice e icona. La triade appariva così comoda che si tendeva a dimenticare l’origine peirciana, la si mutuava piuttosto dalla trattazione morrissiana, e in ogni caso non la si problematizzava troppo. Era chiaro, il rapporto tra la parola / sedia / e una sedia è convenzionale e arbitrario; quello tra una immagine di una sedia e una sedia è iconico, perché la sedia raffigurata ha qualche proprietà delle sedie reali; e il rapporto tra il mio dito puntato sulla sedia e la sedia è indicale, perché implica la compresenza. Naturalmente permanevano perplessità cir­ca la nozione di indice (quale è la differenza tra il dito che punto su una bandiera, per mia iniziativa, e la direzione del vento che la bandiera, garrendo, suggerisce per forza di inferita causalità?) e rimanevano oscuri i rapporti tra indice e icona (una foto sembra una icona, ma è il risultato di impronte lasciate da un oggetto reale, dunque è l’indice di una causalità inferibile), ma tutti erano piuttosto tranquilli circa i rapporti tra arbitrario (convenzionale e magari per­sino «digitale») e motivato (o analogico, o iconico). La foto di Brigitte Bardot è diversa dal nome / Brigitte Bardot /. Nessun dubbio. Infatti sui passaporti delle brigate rosse si può lasciare un nome falso ma occorre mettere una foto vera. Il linguaggio verbale è arbitrario e le immagini disegnate sono iconiche. Non si rifletteva molto sul fatto che la differenza tra / Tamburino arresta Miceli / e / Miceli arresta Tamburino / non è soltanto politica, è anche iconica, perché lo spostamento di posto, da destra a sinistra, implicherebbe un deprecabile spostamento di signi­ficato: dunque l’iconico si nasconde anche in seno ai sistemi detti arbitrari. Ma non si rifletteva neppure sul fatto che posso interpretare una foto continua...


fasc. n. 34 settembre 1975

La teoria di Hjelmslev e l’architettura: alcuni problemi

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Cettina Lenza

Ancora su Hjelmslev: e con ragione, se, come pare dimo­strare la recente ed insolita fortuna critica, la sua teoria linguistica è divenuta un punto di riferimento inevitabile. Ci proponiamo, a nostra volta, di fare il punto; e cioè di verificare, rifacendoci nuovamente a Hjelmslev, le numerose proposte, da più parti avanzate, d’estendere i principi della glossematica ad ambiti diversi e, in modo particolare, all’ar­ chitettura; non tralasciando, con ciò, di sottolineare alcuni aspetti problematici e di formulare qualche ipotesi. La nozione di segno nella glossematica Occorre dire subito che era nelle intenzioni, in varie occasioni rese esplicite, dello stesso linguista danese fornire un modello ricalcabile in molte e diverse discipline, di modo che la comune impostazione metodologica consentisse di superare l’atomismo culturale degli studi odierni, seguito all’alto grado di specializzazione, per produrre un’enciclopedia generale delle strutture di segni. Come Hjelmslev riformulasse la nozione di segno all’in­terno della sua teoria è proprio quanto cercheremo di rias­sumere brevemente in questo paragrafo. Ovviamente, in tale operazione, egli non poteva tralasciare di richiamarsi al rove­sciamento, già operato da Saussure, della concezione tradi­zionale del segno come «segno di qualcosa», alla quale veniva, com’è noto, contrapposta l’idea del totale risultante dall’associazione di un significante a un significato. Ma quelli che erano gli elementi di una coppia (significante/significato) venivano immediatamente trasformati da Hjelmslev in termini di un rapporto, nei due terminali o funtivi, cioè, (espressione e contenuto) della funzione segnica; nel che sta l’idea giustissima che essi vivano di quel loro reciproco farsi e che non sia opportuno accertarne una «natura» a sé stante, anteriore e indipendente dal legame che li unisce. Infatti, non soltanto vi è solidarietà tra la funzione segnica ed i suoi terminali continua...

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fasc. n. 37 settembre 1976 www.opcit.it/24

Assenza - presenza: due modelli per l’architettura FULVIO IRACE

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Scopo di questo articolo intende essere la formulazione di una proposta di lettura delle vicissitudini attuali della disci­plina, delle varie poetiche, delle susseguentisi dichiarazioni di principio, dei contrapposti schieramenti, di tutto ciò, in­somma, che costituisce l’intricato paesaggio dell’architettura negli ultimi anni: l’avanzamento, cioè, per l’architettura di due modelli culturali in conflitto, quello della presenza e quello dell’assenza. Inizialmente elaborati da R. Barilli per essere applicati alla narrativa, essi sono stati poi estesi a tutto l’ambito della ricerca artistica, con particolare attenzione a quanto è av­venuto nelle arti visive o plastiche; e finalmente a una sede generale di «pensiero», ovvero di proposte metodologiche, epistemologiche, psicologiche, … relative almeno alle co­sid­dette scienze umane. I due modelli, ottenuti mediante la voluta accentuazione di alcuni aspetti dell’esperienza storica contemporanea, assu­ mono così un valore semplificatorio nei riguardi della realtà: si tratta di una operazione di semplificazione e quindi di alterazione e parzializzazione, completamente giustificata però dai fini conoscitivi che si propone. Giacché, se è vero che una contrapposizione dei due modelli può apparire, in taluni casi, eccessivamente schema­tica, dato l’intersecarsi di talune esperienze che sembrano oscillare tra l’uno e l’altro polo, va però considerato che essa rende, nel complesso, evidente il senso delle opposizioni e meno frammentario il campo delle conoscenze, permetten­done la classificazione all’interno di due grossi schieramenti concettuali. D’altra parte non si può dire che manchino nel campo della storia e della progettazione esempi recenti di riduzione, mediante l’inserimento di elementi di catalizza­ zione delle varie esperienze. La proposta zeviana delle sette invarianti del codice an­ticlassico mirante alla riduzione dei testi alla lingua, nella convinzione che il passaggio storia-progettazione deve essere mediato dalla lingua, pena la non comunicazione; la fonda­ zione da parte di A. Rossi di una architettura di tendenza, che sottocontinua...


fasc. n. 39 maggio 1977

La sociologia del gusto di Jean Baudrillard

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GERARDO RAGONE

1. Premessa Nell’opera di Baudrillard possono individuarsi tre aspetti principali. Anzitutto la critica che l’autore muove alle teorie economiche e sociologiche del consumo in quanto teorie parziali e di superficie, ben lontane dal cogliere le reali funzioni del processo di consumo nelle società a capitalismo maturo. Il secondo aspetto riguarda invece l’elaborazione di una teoria sociologica del gusto ed in particolar modo dei meccanismi di differenziazione sociale operanti nella selezione degli oggetti e dei beni di consumo e nell’organizzazione dell’ambiente domestico, ossia una teoria delle «… strutture inconsce che regolano la produzione sociale di differenze…». Il terzo aspetto riguarda infine i processi culturali ed artistici ed il significato che essi assumono nei contesti sociali caratterizzati da un’alta intensità delle comunicazioni di massa. È chiaro che questa tripartizione si giustifica solo per comodità di esposizione, ma, come si vedrà più avanti, i tre aspetti sono organicamente fusi in un solo discorso, in un unico quadro teorico, che è quello della critica della cultura borghese in quanto produttrice di differenze segniche, di valori-segno differenziali e gerarchici. Prima di analizzare questi tre aspetti dell’opera di Baudrillard converrà allora soffermarsi brevemente sul concetto di valore-segno e sul suo rapporto con il modo capitalistico di produzione. È su questi due problemi che poggia infatti l’intera costruzione teorica del sociologo francese. La tesi che Baudrillard sviluppa nei suoi tre principali saggi è che il modo di produzione borghese non sarebbe soltanto relativo al sistema economico del capitale, ossia alla «struttura» in senso marxiano, ma anche all’ambito dei segni propri della «sovrastruttura». Questo modo di produzione avrebbe trasformato i segni da «valori culturali» in valori di scambio generalizzati nel consumo, nella dépense, nella ricchezza come lusso e come spreco. La «logica delle merci» avrebbe così raggiunto un continua...

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fasc. n. 42 maggio 1978 www.opcit.it/26

L’idea della pittura in Lévi-Strauss Antonio D’AVOSSA

Delimitazione del campo

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Attraversiamo in diagonale l’opera di Claude Lévi-Strauss a partire dall’articolo The Art of Northwest Coast at the American Museum of Natural History, apparso nel 1943 nella «Gazette des Beaux Arts» di New York, sino alla più recente ricerca, pubblicata nel 1975, La voie des masques. Sicuramente le tracce, a volte disperse, di questo percorso concorrono alla configurazione di una teoria dell’arte, e più ancora di un sistema della pittura, nel­l’opera dell’antropologo francese. Singolarmente, infatti, a più di trent’anni di distanza, l’analisi delle maschere della Costa del Northwest ripropone, ma con una metodologia ormai accertata, una polemica attenzione alle produzioni estetiche di quelle popolazioni. I capitoli XIII e XIV dell’Antropologia strutturale, uno studio comparato delle arti dell’Asia e dell’America, e l’analisi della pittura facciale dei Caduvei, contenuta in Tristi Tropici, aprono l’orizzonte di un’ipotesi di grande interesse per comprendere l’evoluzione del suo pensiero estetico. Ne Il pensiero selvaggio l’arte viene situata a metà strada tra la conoscenza scientifica e il pensiero mitico o magico. Nel­ l’Ouverture a II crudo e il cotto, dopo alcune importanti considerazioni sulla pittura e la musica, Lévi-Strauss riprende la comparazione innescata nell’Antropologia strutturale per la lettura delle strutture dei miti come una partitura d’orchestra trascritta da un dilettante perverso, così come tutta la materia della Mitologica è organizzata sul modello della struttura pluridimensionale e sincrodiacronica delle forme musicali quali la cantata, la sonata, il preludio, la fuga, etc. La musica viene a costituire, così, una via mediana tra l’esercizio del pensiero logico e la percezione estetica. Il Finale della Mitologica è interamente dedicato a una sorta di polemica chiarificazionedifesa di quelli che sono stati i temi sviluppati dallo strutturalismo lévi-straussiano fino a quel momento. Non a caso, la controcritica si snoda sulla fortuna che lo strutturalismo ha ricevuto in questi ultimi continua...


fasc. n. 43 settembre 1978

La post-avanguardia

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MARIANTONIETTA PICONE PETRUSA

Dai tempi di Hegel la formula della «morte dell’arte» ha avuto una straordinaria fortuna, accompagnando fino ad oggi le sorti dell’avanguardia. Questa, anzi, si è nutrita di ciò, con­trap­po­nen­dosi ad ogni forma di arte ufficiale e celebrando la corrosione sistematica di tutti gli stereotipi artistici fino al­l’abolizione dello stesso oggetto d’arte. L’avanguardia tende alla «morte dell’arte» – scrive For­tini – distruggendo la comunicazione (pseudo-afasie, lin­guag­­gi crip­ tici) o identificandola con qualsiasi atto pratico; sosti­tuendo il comportamento all’opera; esaltando i prodotti cul­turali di massa o il kitsch. Anzi secondo Pedullà, le avan­guardie tendono al suicidio. E in realtà è da più di un secolo che l’avanguardia interpreta la parte della moribonda, e di questo vive. Tuttavia la morte dell’arte nel sistema filosofico di Hegel doveva avvenire con la confluenza di questa nella filosofia e dunque nella speculazione dell’Idea Assoluta con la cessazione della bellezza come forma sensibile dell’Idea. I vari filoni dell’avanguardia – pur facendo le debite differenze – si sono adoperati a dare credibilità a questo assunto ereditan­do proprio dalla filosofia idealistica l’attitudine a spostare il discorso dal suo specifico «sensibile» appunto all’Idea. È il fenomeno – già rilevato ampiamente a livello di teoria del­l’arte – che Argan ha in varie occasioni sottolineato come passaggio dall’artistico all’estetico. Il rifiuto della «mate­rialità» dell’arte (o la sua trasfigurazione simbolica) derivava dalla stessa mentalità antipositivistica (che allora era tutt’uno con antiborghese) che aveva fatto proprio il concetto di mor­te del­ l’arte. Campione esemplare di questa situazione è Marcel Duchamp. La sua eredità non bisogna valutarla oggi dalla qualità degli oggetti – del tutto vanificata – quanto rispetto al procedimento critico che vi è dietro. Rendere inagibili le categorie artistiche fino al punto di fare un’opera che non sia un’opera d’arte: questo è lo scopo principale delle sue ricerche. E se dall’impressionismo, al postimpressionismo, ai fauves, al cubismo si era scardinato il sistema visivo di basi prospettiche, rimanendo però su un piano rigorosamente pit­torico, Ducontinua...

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fasc. n. 47 gennaio 1980 www.opcit.it/28

Architetto e ingegnere anna giannetti

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Il termine architetto deriva etimologicamente dal greco, ἄρχω, comando, e τέκτον, costruttore, quindi letteralmente vuol dire capocostruttore; mentre ingegnere deriva dalla voce del latino volgare ingenium, macchina e particolarmente macchina bellica, per cui l’ingeniarius sarebbe stato in origine l’ingegnere militare. Ovviamente le interpretazioni dei due termini e le loro attribuzioni sono state diverse nei secoli, ma mentre il significato etimologico primario della parola architetto è rimasto immutato dal ’400 in poi, sulla natura dell’ingenium latino si è ampiamente dibattuto, soprattutto durante il secolo scorso, legandolo variamente all’ingegno o talento necessario per esercitare la professione, alla meccanica e ai meccanismi in generale, o addirittura ad un verbo incingere del latino medievale e quindi alla recinzione delle città con palizzate o mura. Il termine greco ἄρχιτέκτον con il suo significato di progettista, chiaramente distinto dai comuni operai, comincia solo con l’epoca classica a prevalere sul più antico τέκτονες, costruttore di legname, usato da Omero. Pur circondato dal disprezzo per la propria attività manuale, come tutti gli artisti, l’architetto greco è un libero professionista che presta la sua opera allo stato, unico grande committente del tempo, e che opera in un vasto campo disciplinare che va dal Partenone di Ictino, ai Propilei di Mnesicle, all’intervento urbanistico di Ippodamo di Mileto, abbracciando ugualmente l’idraulica e le opere militari, la creazione di macchine e l’invenzione di ordigni di uso civile e bellico. L’ampiezza della sua attività professionale e la scarsissima considerazione in cui sono tenute in Grecia tutte le forme di specializzazione e di abilità particolare, limitative della παιδεία platonica, escludono la presenza di ingegneri nel mondo greco, mentre fanno sì che pittori come Bupalo di Chio e Mandrode di Samo, o scultori come Fidia siano anche architetti. Sono invece per ora i matematici e i filosofi ad occuparsi di alcuni settori divenuti poi tradizionali dell’ingegneria: l’agrimensura, la livellazione e la topografia sono per loro oggetto di studio come branche della geocontinua...


fasc. n. 48 maggio 1980

Prima e dopo il Post-modernismo

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MARIA LUISA SCALVINI

Se le radici formali del Post-Modernism sono da qual­che parte, è nel Manierismo che stanno; questo giudizio di Paul Gold­ berger esprime in modo estremamente sintetico un concetto (appunto la ‘derivazione’ del Post-Modernism dal linguaggio del Movimento Moderno in maniera analoga a quella in cui l’architettura manierista ‘derivò’ dal linguaggio del Quattro- e del primo Cinquecento), che con varie formu­lazioni è tesi ricorrente nella letteratura critica dedicata alle contemporanee tendenze di punta dell’architettura. Queste tuttavia, proprio per la loro proclamata eterogeneità, non potevano non far riproporre, altresì, il termine «eclettismo»: beninteso capovolgendone più o meno esplicitamente, in senso positivo, le connotazioni negative di cui lo aveva caricato la prima storiografia del Movimento Moderno. Ne sono scaturiti ulteriori, variamente suggestivi ‘paralleli’, ed è venuta così a delinearsi una sorta di ‘genealogia sincronica’ del Post-Modernism – da una fase «manierista» ad una di «radical eclecticism» (ovvero, come vedremo più oltre, da una fase Late Modern ad una Post-Modern, che sarebbero compresenti nella situazione attuale). In senso molto generale, può dirsi che la teorizzazione e la pratica della deroga caratterizzino sia il Manierismo che il Post-Modernism; sotto un profilo più specifico, è stato in­vece chiamato in causa un altro fattore: il prevalere, cioè, dell’immagine sulla forma. Per il Manierismo, tale aspetto era stato già osservato a suo tempo da Tafuri; per il Post-Modernism, l’ha recentemente ribadito Goldberger, ponendo in evidenza di questa linea, come tratto distintivo, la domi­nanza dell’immagine in sé, la tendenza a far sì che sia questa a determinare la forma, e non viceversa. Tuttavia, alla luce della definizione di Classicismo matu­ rata dalla contemporanea storiografia architettonica, la pre­sente situazione disciplinare non sembra tanto accostabile a quella tardocinquecentesca, quanto piuttosto – ma come vedremo, si tratta di un’analogia ‘di superficie’ – a quella del lungo periodo («the vaste gulf of Revivalism», lo ha chiamato Collins) che va dalla crisi del continua...

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fasc. n. 50 gennaio 1981 www.opcit.it/30

Fortuna critica della “Tendenza” ROBERTA AMIRANTE, Fabio DUMONTET, massimo PERRICCIOLI, Sergio PONE

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La nostra rassegna si propone di raccogliere i più signifi­cativi contributi della critica contemporanea sulla corrente architettonica nota come la «Tendenza». Essa si compone di opere, programmi, esposizioni, e di una letteratura in parte dovuta a critici dell’architettura più o meno favorevo­li ad essa, in parte agli stessi protagonisti, identificabili pe­raltro solo in base a considerazioni sulle caratteristiche delle loro opere e dei loro scritti e non per formali adesioni alla teorica del movimento, non essendo mai esistito un manifesto e relativi firmatari. Tutto ciò è stato del resto già rilevato in più occasioni. Giorgio Muratore scrive infatti: architettura di tendenza, ter­ mine approssimativo e taumaturgico, coper­tura paraideologica e metastorica di una realtà assai artico­lata, variegata, complessa e contraddittoria; Renato Nicolini, sempre a proposito dell’uso del termine «Tendenza»: ciò comporta prendere atto della sua attuale equivocità, perché vi corrispondono significati palesemente e di­ rei necessaria­mente diversi; lo stesso Aldo Rossi, infine, così si esprime: essa [la «Tendenza»] non può nascere da slogans o mani­festi, ma dalla realtà di quei lavori – siano studi o pro­getti – che si muovono in una direzione precisa, razionale, ostinata, verso un nuovo significato dell’architettura. Ci siamo trovati di fronte ad un materiale molto eteroge­neo e ad una produzione in atto, ed è per questo motivo che la nostra rassegna privilegia, rispetto ai brani di legamento, i giudizi critici – citati testualmente, così come è nella formula della rivista – che includono tutti i brani ri­tenuti più significativi per la ricostruzione di una «immagine globale». Quanto alla cronistoria della vicenda, non la da­remo per nota, ma neanche la sintetizzeremo all’inizio della nostra rassegna; essa scaturirà dalla stessa struttura del pre­sente lavoro, che in un primo tempo avevamo pensato di articolare per temi (il rapporto con il movimento moderno, l’architettura e la città, la tipologia, la memoria collettiva, la didattica, la storia, il monumentalismo etc.) ma che, ad una più attenta continua...


fasc. n. 52 settembre 1981 www.opcit.it/31

L’espressione “Movimento Moderno”

Gabriella D’Amato, Italo Prozillo

Da anni ormai si parla di crisi del Movimento Moderno, di crisi dell’architettura moderna e, recentemente, di crisi di un più vasto «progetto moderno». Le tre espressioni, specialmente le prime due che sottintendono l’altra, appaiono in vario modo nei libri di storia e, in generale, nella lette­ratura architettonica relativa alla produzione del nostro se­colo. Vi sono, infatti, autori che parlano specificamente di Movimento Moderno; altri che lo adoperano come sinonimo di architettura moderna e disputano tra loro su quali ten­denze ed architetti debbano considerarsi «dentro» o «fuori» di esso; altri ancora distinguono l’architettura moderna in­tenzionalmente dal Movimento Moderno. Senza la pretesa di giungere ad esaurienti definizioni delle tre espressioni sud­dette, ci proponiamo in questo scritto, incentrato soprattutto su quella di Movimento Moderno, di apportare un contributo al chiarimento terminologico sperando che ne consegua anche uno concettuale. Con l’espressione Movimento Moderno andrebbe pre­ci­sato, in primo luogo, se si debba intendere: a) un’entità sto­rica ovvero una reale successione di eventi; b) un «artificio storiografico», a sua volta distinguibile in un serio schema metodologico – facente capo, ad esempio, alla nozione di «tipo-ideale» – oppure in una interessata quanto superficiale nozione di comodo; c) un fenomeno che partecipa del­l’una e dell’altra natura. Si tratta cioè di stabilire se il Movi­mento Moderno appartenga alla storia, alla storiografia o ad entrambe. Per dare una risposta a quegli interrogativi cominciamo con l’analizzare i termini dell’espressione Movimento Mo­derno. Tra le definizioni date dal Lalande alla parola «mo­vimento» si legge: Mutamento collettivo di idee, opinioni o tendenze; mutamento di organizzazione sociale. E in un altro autore, Renato Poggioli, si trova che lo sconfinamento al di là dell’ar­ te, questa aspirazione a quella che i Tedeschi dicono una «Wel­ tanschauung», è forse il carattere precipuo onde distinguere, da quelle che si chiamano scuole, quelli che si chiamano movimen­ ti… Movimento è… un termine tecnico, ormai proprio della sto­ continua...

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fasc. n. 53 gennaio 1982 www.opcit.it/32

Il design tra “radicale” e “commerciale” gabriella d’amato

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Lampadine colorate, archi, cornici, laminati stampati a macchie di leopardo, attaccapanni totemici, fili in tensione, superfici laccate con colori aggressivi o tenerissimi e dap­pertutto una profusione di decorazione e colori: sono gli in­gredienti del più attuale design apparso nelle recenti mostre del settore. Ma in che cosa consiste questa linea di design da alcuni battezzata post-radicale, da altri Neomodern, da altri ancora New International Style e per la quale sicura­ mente altri nomi non tarderanno a venire? Innanzitutto va precisato che il Neomodern affonda le sue radici in quel radical-design sorto all’indomani del Sessantotto e protrattosi più o meno fino alla metà degli anni Settanta; e, benché questo tema sia stato oggetto di una rassegna nel n. 26 della nostra rivista, riteniamo utile, in questa sede, richiamarne alcuni concetti fondamentali. Il radical-design o controdesign nasceva con aspetti e modi in linea col fenomeno delle avanguardie degli anni Sessanta generalmente ad opera di giovani architetti formatisi nel clima della contestazione studentesca e trovatisi all’indomani della laurea in una realtà di aperta crisi professionale. Quindi già dall’inizio si faceva portatore di un’aporia di fondo: da m Iato, infatti, costituiva uno sbocco verso settori disciplinari aperti e praticabili – e come tali esulanti, per le loro implicazioni con la pratica, dalla nozione specifica di avanguardia – e dall’altro si poneva come atto di contestazione al sistema perciò riconducibile proprio al discorso delle avan­guardie. Infatti, come si notava in quegli anni, consciamente o no il modello a cui si fa riferimento è quello del designer-artista, che con un ruolo culturale d’avanguardia crea nuove sollecitazioni secondo un procedimento di novità e pro­voca­zioni tipico delle arti figurative. Il radical-design si pre­sen­tava pertanto con una tale varietà di atteggiamenti da ren­derne difficile una definizione, tuttavia tra le sue caratteri­stiche esponenti vi erano quella di caricare l’oggetto di significati in maniera formalmente provocatoria e di riven­dicare un’area creativa in cui esercitare l’invenzione poetica al di fuori di paralizzanti considerazioni funzionalistiche. continua...


fasc. n. 56 gennaio 1983

Dall’America. Warhol e Kosuth

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ANGELO TRIMARCO

1. Troppo a lungo si è insistito sulla diversità Europa/America. Sull’arte europea legata, di volta in volta, all’ideologia e all’utopia, alla lotta di classe e alla speranza in un mondo migliore. Sulla cultura artistica americana più disincantata e cinica, meno patetica e senza ansie di riscatti o di rinnovamenti sociali. Di questa lacerazione (naturalmente schematica e forse grezza ma sicuramente non del tutto falsa) non c’è dubbio che i campioni ci sono apparsi per tanto tempo Andy Warhol e Joseph Beuys. Ci è sembrato che potessero rappresentare, proprio per le loro decisioni estreme, due modelli di intendere l’arte e la vita, due pratiche differenti. Tanto diverse che, pur non potendosi neppure sfiorare, si possono però mettere a confronto. Un faccia a faccia che, in vero, non è mancato quando Andy Warhol ha congelato Beuys in tre grandi ritratti proprio come anni prima aveva fatto con Marilyn Monroe con Liz o con Mao, con Marion Brando. Insomma, quando anche Joseph, uomo e angelo insieme, animale e uomo al tempo stesso, è penetrato nella sconfinata distesa di persone e cose raffreddate nel silenzio di una posa o nell’immobilità di un gesto, gettate infine nell’anonimato. Mentre questo accade inevitabilmente ritornano quelle parole lontane dette a Swenson da Warhol alla fine dell’autunno del ’63. «Mi resi conto che qualsiasi cosa stavo facendo doveva essere morte». È, dunque, da questa morte che Warhol è partito per costeggiare personaggi e leggende, per consegnarci immagini senza vita e senza amore, per pareggiare Jacqueline Kennedy ai grovigli di rottami e alla Camp­ bell’s Soup, per allineare Beuys al vuoto disperato delle Blue Electric Chairs. Ora, dopo Beuys, è il turno di Giorgio de Chirico, greco di nascita, con amori profondi per la cultura tedesca e francese (oltre naturalmente che italiana). I nomi che si citano sono quelli famosi della décadence, anzitutto il pensiero di Schopenhauer e poi quello di Nietzsche. E con loro, com’è opportuno, i grandi visionari da Böcklin in avanti. I raccordi luminosi, dunque, della civiltà filosofica e artistica più recente che ha in odio le grandi narrazioni e il continua...

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fasc. n. 57 maggio 1983 www.opcit.it/34

Il mercato come opera d’arte ACHILLE BONITO OLIVA

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In una società post-industriale, come quella in cui vi­viamo, dove non esistono più tabù o superstizioni ideolo­giche causa di rimozioni e censure, è possibile aprire un discorso e fare un’analisi lucida di un fenomeno quale quello del mercato dell’arte. D’altronde l’arte contemporanea vive in un sistema articolato di funzioni, corrispondenti ad al­trettanti ruoli, giocati dall’opera, dalla critica, dal pubblico e dal mercato appunto. Nel Medioevo l’artista vive protetto dalla struttura cor­porativa delle arti e mestieri, in cui la produzione artistica è pareggiata ad altre attività meno culturali, in quanto si pone l’accento prevalentemente sull’aspetto della produzione materiale ed artigianale dell’opera. La committenza parte in prevalenza dalla Chiesa o dal Comune e non esiste ancora l’idea del collezionismo, della tesaurizzazione dell’opera d’arte. Nel Rinascimento, verso la fine del Quattrocento, l’artista si svincola dalle corporazioni, si emancipa socialmente ri­spetto al ceto artigianale entro cui era stato posto prece­dentemente ed afferma il privilegio di una nuova identità, quale produttore di un manufatto particolare e prezioso, legato alla fantasia ed all’invenzione. Questa emancipazione consegna l’artista ad un nuovo tipo di committenza, quella capricciosa del Principe, da cui comincia a dipendere inte­ramente la sua vita. Il Principe, emulato anche dalla corte e dalla nobiltà in generale, colleziona le opere per la sua qua­dreria privata, comprandole dall’artista anche prima che questi le realizzi, anzi indicando qualche volta i requisiti indispensabili affinché esse vengano accettate. In entrambi i casi, nel Medioevo e nel Risorgimento, la committenza è ben individuata ed esiste un personale tra l’artista ed il destinatario dell’opera. rapporto inter­ Spesso l’artista si muove nella sua produzione proprio sulla cono­ scenza politica e psicologica del suo mecenate, per meglio soddisfare le sue esigenze. Questo non significa asservimento dell’opera, semmai corrispondenza ideale tra le parti. Se re­stano salde e ferme le istanze filosofiche e religiose dell’opera, è sul linguaggio che l’artista apporta la sua cifra personale che lo contraddistingue dagli altri. continua...


fasc. n. 61 settembre 1984

Desiderio d’armonia

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BENEDETTO GRAVAGNUOLO

Il tema emerso con maggior evidenza dal dibattito teorico sul­ l’architettura degli ultimi vent’anni è senza dubbio il ripen­samento sull’eredità culturale del passato. Si è trattato di una questione riproposta con motivazioni ed intenti diversi, ma con tale insistenza da far ritenere non eccessiva la defini­zione di «ossessione della storia». Eppure, rivisto da tale ottica, il panorama dei primi anni sessanta sembrerebbe a prima vista dimostrare il contrario. È proprio allora infatti che quel vasto fenomeno interna­zionale che va sotto il nome di «neo-avanguardia» raggiunse una provvisoria ma significativa egemonia all’insegna del sug­gestivo slogan sulla «nostalgia del futuro». E non è casuale che un autorevole compagno di strada della «internazionale dell’utopia», quale Reyner Banham, abbia dedicato un capi­tolo centrale del suo libro su Le tentazioni del­l’architettura: Megastrutture proprio al 1964, eletto a «mega-anno», annus mirabilis per idee e progetti… l’anno, tanto per cominciare, nel quale Fumihico Maki impiegò per la prima volta il termine stesso di “megastruttura”; in cui fascicoli fondamentali di “Bauen + Woh­ nen” e di “Architectural Forum” contribuirono a cristallizzare il corpo d’idee che si riferiva; in cui un certo numero di forze nuo­ ve, come Archigram, ebbero il primo influsso reale; e nel quale la ture realmente costruite venne maggior parte delle megastrut­ progettata. Quella «marea montante» di profezie avveniristiche, superstrutture utopiche e disegni fantascientifici operò una vi­stosa mitizzazione della tecnologia, caricandola di valori pro­gressivi e di attese escatologiche evidentemente improbabili. Ma, a ben vedere, sotto la scorza della deformazione carica­turale e fumettistica della macchinolatria si celava già il seme dello storicismo. Lo dimostrano, ancor più direttamente delle esplicite affermazioni di Peter Cook sulla necessità di «assor­bire il nuovo nel tradizionale» e sull’importanza di «un dialogo tra conservazione e invenzione», i fotoromanzi di Arata Isozaki sulla città futura in cui i giganteschi piloni di cemento che reggono i grigliati spaziali degli «edifici ponti» coesistocontinua...

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fasc. n. 63 maggio 1985 www.opcit.it/36

Architettura: tra proibizionismo e abusivismo PASQUALE BELFIORE

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Proibizionismo è termine colto, usato nel linguaggio dei chierici per indicare una stagione del passato prossimo nella quale sarebbe stato represso l’istinto verso la fantasia, la memoria, l’immaginario; ma è anche la più recente filosofia del legislatore che in materia urbanistica vieta, limita e sempre più non consente. Abusivismo è parola dei mass media e, pur avendo una costellazione di referenti, designa oggi in particolar modo quello edilizio. Il proibizionismo colto ha provocato negli architetti delle inibizioni delle quali si stenta a liberarsi. Quello legislativo non ha provocato inibi­zioni di sorta se è vero che il recente condono edilizio porterà in sanatoria l’equivalente di cinque città grandi come Napoli. Da un lato, i discorsi degli architetti, ciò che di recente è stato definito il «sovrastrutturale» dell’architettura. Dal­l’altro, il problema della casa, l’equo canone, gli sfratti, le proroghe, il condono edilizio. Due mondi separati, un divario nel quale proibizionismo e abusivismo operano un parados­sale raccordo facendo derivare in buona misura il confuso attivismo dei fatti dal carattere a volte perentorio a volte vago del dibattito. È possibile che non esista una terza via che fermi il pen­ dolo oscillante tra la noia dell’asfissiante cultura e la rabbia per i bisogni disattesi? È possibile che dalla valanga di carta stampata non esca un’idea in grado di mordere i fatti? Statisticamente, marciamo con un fascicolo di rivista al giorno (sono quasi sessanta le testate di architettura, urba­nistica e design stampate in Italia) ed un libro a giorni alterni. Sempre a scadenze giornaliere, conferenze, seminari, tavole rotonde (L’orecchio è stanco, diceva Ceronetti). I giudizi non collimano: abbiamo bisogno di architettura; chi ha stabilito che esiste un vero bisogno di architettura? Ritornano antichi dilemmi: dal Piano al Progetto o viceversa? Il gioco degli opposti: necessità di conoscere la storia; necessità di igno­rare la storia. I sussulti di scepsi totale: l’urbanistica non è una disciplina autonoma. Si vola alto sul campo delle opinioni. Di converso non si decolla su un continua...


fasc. n. 64 settembre 1985

Una terza via per il design

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VANNI PASCA

Com’è noto, non si dà critica senza storia e viceversa, mentre sembrerebbe che nella cultura del design la riflessione storica non abbia trovato un suo ruolo tanto da poter considerare l’anti­ storicismo il vizio di nascita di questa cultura. Si tratta di un’importante affermazione, contenuta in un articolo apparso su questa rivista, che evidenzia un problema non più eludibile da parte della cultura italiana del design. Che, malgrado le apparenze, non si segnala oggi per la particolare vivacità del dibattito, nemmeno sulle riviste specializzate. Non fa contraddizione il fatto, sottolineato da D’Auria in un recente acuto articolo, che l’Italia detiene probabil­ mente il singolare primato di riviste più o meno specializzate che si occupano di arredamento, di bricolage e, appunto, di design. Come si sa, ciò è stato portato spesso a riprova della vitalità della cultura del design. Ma ormai non dovrebbe sfuggire a nessuno come questo primato sia connesso più che altro alle crescenti esigenze promozionali delle industrie in un mercato che, almeno per ciò che riguarda l’arredamento, si presenta alquanto stagnante. Se nel 1966 gli investimenti pubblicitari costituivano il 6,7% degli investimenti totali annui delle industrie del mobile, nel 1976 ammontavano già all’11,7% (nello stesso periodo la ricerca tecnologica passava dal 2,7 al 4,3%); sarebbe interessante conoscere dati più recenti. Ciò, tra l’altro, è fonte di sempre maggiori conseguenze sull’informazione fornita da buona parte delle riviste. Per tornare alla citazione iniziale, essa è senz’altro esatta. C’è forse solo da aggiungere qualcosa per quanto riguarda le cause del fenomeno. Non c’è infatti solo carenza di riflessione storica autonoma. C’è anche una mancata attenzione al dibattito sulla storia dell’architettura che si è sviluppato in questi ultimi venti anni con molto vigore. Dibattito e processo di revisione storiografica troppo avanzati perché sia accettabile che i loro termini non filtrino o filtrino poco e male nella cultura del design (il che è tanto più grave se si tiene conto del fatto che questa dedica gran parte della sua attenzione proprio al design dell’arredo). continua...

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fasc. n. 70 settembre 1987 www.opcit.it/38

Il design e la critica di sinistra GABRIELLA D’AMATO

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Molti al giorno d’oggi vanno revocando in dubbio, almeno nello schieramento politico, una netta distinzione fra destra e sinistra; per la maggioranza quest’ultima va perlomeno ridefinita. Come scrive infatti Alberto Cavallari, l’anarcosindacalismo, il sansimonismo, Prudhon, Marx, Lassalle, Kautsky, …hanno prodotto una visio­ ne del mondo che i ‘fatti’ hanno rivelato errata… La riflessione riguarda tutti i socialismi, investe l’intero percorso dl un’idea e di un movimento, approdati ad una tappa cruciale poiché il ca­ pitalismo stesso non è più quello che si voleva combattere o si credeva finito. Non si può ignorare che la rinascita capitalista ha creato in occidente società diverse, frantumato vecchie classi, operato nuove redistribuzioni di ricchezza, mutamenti profondi di culture e mentalità. Che socialismo è possibile mentre finisce il secolo e finisce il millennio? Come adattare una critica alla prima rivoluzione industriale e una proposta di rifondazione del­ la società basata sull’anti-individualismo alla terza rivoluzione industriale e alle società post-industriali sempre più individuali­ ste? Ora, se questa è la situazione politica, ancora più problematica e in qualche modo anacronistica appare la qualifica di sinistra riferita a settori specialistici, soprattutto a quelli con implicazioni economiche e produttive. Siamo perciò convinti che ad un tema come quello che intitola le presenti note, nessuno dedicherà prossimamente un convegno o un dibattito. Che senso dare allora alle riflessioni che seguono, incentrate su detto tema? Porsi la questione del rapporto fra il design e la critica di sinistra risponde, a nostro avviso, a una duplice esigenza. La prima è di carattere storico, ovvero è il tentativo – vuoi per colmare una lacuna critica, vuoi per non lasciare la questione comodamente archiviata – di ripercorrere un processo di pensiero sulla cultura del design svolto dalla cultura di sinistra. E tra i tanti spunti che l’argomento suggeriva, abbiamo perciò scelto tre temi privilegiati dalla critica in esame: la committenza, l’alienazione e l’eterodirezione. La seconda esigenza è quella di avanzare, continua...


fasc. n. 71 gennaio 1988 www.opcit.it/39

Design: dall’ingegnere all’edonista

GIOVANNI CUTOLO

L’obiettivo di una fabbrica è quello di produrre al meglio delle proprie possibilità, utilizzando le risorse tecniche e umane disponibili in maniera ottimale. Il risultato di questo impegno è il «prodotto», così come esso arriva nei magazzini dell’azienda. La qualità di questo prodotto può essere espressa da un giudizio che si fonda sul processo di produzione, sicché si definisce di qualità quel prodotto che vede utilizzate al meglio le risorse tecniche e umane ed i materiali impiegati; oppure da un giudizio comparativo che giudica il prodotto dato in rapporto a tutti gli altri prodotti simili che sono reperibili sul mercato. Insomma si può ritenere di qualità un prodotto perché rappresenta il miglior risultato possibile utilizzando quei dati materiali e quelle date macchine; oppure si dice che il tal prodotto è di buona qualità perché migliore degli altri esistenti sul mercato anche se esso non rappresenta ciò che di meglio si potrebbe produrre nella fabbrica da cui esso proviene. evidente quindi che il giudizio di qualità è influenzato da fatti interni ed esterni al processo produttivo vero e proprio. Concorrono a definire il giudizio circa la qualità di un prodotto sia considerazioni di cultura industriale che altre di mercato o, potremmo dire, di cultura commerciale. Esiste pertanto una qualità industriale ma anche una qualità commerciale. La loro combinazione determina il successo di un prodotto, la sua durata, arrivando talvolta a modificare le caratteristiche del mercato. Che è mercato di prodotti ma anche mercato di rapporti (mercato merci + persone). Il successo, ma soprattutto la durata del successo, sono influenzati tanto dalla qualità del prodotto quanto dalla qualità del rapporto che accompagna il prodotto dal magazzino della fabbrica, attraverso il mercato, sino alla sua destinazione finale d’uso, presso il suo consumatore finale. È un fatto che la qualità produttiva tende oramai, almeno nei paesi più progrediti, a venir considerata un qualcosa di scontato. Si dà per implicito che, per esempio, il prodotto orologio segni il tempo e dia l’ora esatta. Il giudizio sulla qualità di tale orologio, quel giudizio che il consumatore esprime muovendosi continua...

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fasc. n. 75 maggio 1989 www.opcit.it/40

Architettura e decostruzione LIVIO SACCHI

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Nell’estate del 1988 Philip Johnson e Mark Wigley allestiscono una piccola mostra al Museum of Modern Art di New York intitolata «Deconstructivism». Viene messo a confronto il lavoro di sette architetti: Frank Gehry, Daniel Libeskind, Rem Koolhaas, Peter Eisenman, Zaha Hadid, Coop Himmelblau e Bernard Tschumi. Si tratta in realtà di non molto di più della curiosa intersezione di esperienze diverse, tutte però fortemente legate ad un comune referente linguistico, il Costruttivismo russo, all’idea di dislocazione, deviazione, distorsione, alla tensione verso l’inesplorato potenziale della modernità. A quasi sessant’anni di distanza dalla storica «Modern Architecture» del ’32, curata dallo stesso Johnson assieme a HenryRussell Hitchcock e ad Alfred Barr – che celebrava gli eroi degli anni venti, Mies, Le Corbusier, Gropius, Oud – il Decostruttivismo non si pone come un nuovo stile. Piuttosto è la confluenza del lavoro di alcuni importanti architetti che dal 1980 ad oggi hanno adottato approcci simili che hanno avuto come risultato forme molto simili. Ma già qualche mese prima la Tate Gallery, assieme all’Academy Group, aveva organizzato il primo «International Symposium on Deconstruction», con una parte dedicata all’architettura ed una che ne copriva le questioni più strettamente filosofiche, oltre a quelle connesse alle arti visive. Con i contributi del convegno è nato un numero speciale di «Architectural Design» intitolato Deconstruction in Architecture e curato da Charles Jencks, che raccoglie progetti di Tschumi, Hadid, Coop Himmelblau, Zenghelis, OMA, Gehry e Morphosis, oltre che di Ambasz e di SITE. Osserviamo tra parentesi che di decostruzione si è cominciato a parlare anche in riferimento alle arti visive, specialmente a proposito di una serie di artisti che, più o meno consapevolmente, si collocano all’interno di tale linea. Fra i decostruttivisti neomoderni spiccano Julian Schnabel, Sigmar Polke, David Salle, Malcolm Morley, Georg Baselitz, Philip Guston, lo stesso Anselm Kiefer; fra i decostruttivisti minimalisti Valerio Adami, Arakawa e Daniel Buren; fra i decostruttivisti neocontinua...


fasc. n. 78 maggio 1990 www.opcit.it/41

Design come arte delle cose amabili

EZIO MANZINI

1. Visto che il dibattito cui sono stato sollecitato ad intervenire si riferisce alla possibilità di insegnare e imparare l’arte, e visto che il mio intervento si riferisce specificamente al design, mi sembra necessario partire da una premessa relativa al modo in cui, a mio parere, il design può essere inteso come arte. Per essere più breve e più chiaro mi baserò su una citazione di George Kubler: Supponia­ mo che il nostro concetto dell’arte possa essere esteso a compren­ dere, oltre alle tante cose belle, poetiche e non utili di questo mondo tutti in generale i manufatti umani, dagli arnesi di lavoro alle scritture. Accettare questa premessa significa semplicemen­ te far coincidere l’universo delle cose fatte dall’uomo con la sto­ ria dell’arte, con la conseguente e immediata necessità di formu­ lare una nuova linea di interpretazione nello studio di queste stesse cose. Ciò apparirà più facile se si sceglierà di procedere dal punto di vista dell’arte anziché da quello dell’«uso», giacché se partiamo unicamente dall’uso saremo portati inevitabilmente a trascurare tutte le cose non utilizzabili, mentre, se consideriamo la desiderabilità delle cose, allora saremo capaci di vedere gli oggetti utili nella giusta luce di cose a noi più o meno care (G. Kubler, La forma del tempo, Einaudi, Torino 1976, p. 7). Il senso di questa citazione, a mio parere, dovrebbe essere posto alla base di ogni didattica del design. In essa, tra l’altro, è implicita una definizione dell’attività di design che trovo molto corretta e produttiva: il design è un’attività che concorre a rendere abitabile il mondo. Ad organizzarlo cioè in modo che le cose di cui ci si circonda e gli ambienti in cui si vive siano «desiderabili e cari», oltre che utili. È questa una definizione che potrà forse sembrare generica e ovvia, ma che in fondo, nella storia della cultura del design, è sempre stata contraddetta. Tradizionalmente infatti, il design è stato pensato – e insegnato – come uno strumento per l’industrializzazione del mondo. Nella tradizione culturale europea ciò era visto all’interno di un quadro etico (industrializzazione dei prodotti come strumento per la continua...

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fasc. n. 79 settembre 1990 www.opcit.it/42

Design: una teoria ermeneutica del progetto RENATO DE FUSCO

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Abbiamo visto altrove che la fenomenologia del design si compone di quattro momenti: il progetto, la produzione, la vendita e il consumo. In questa sede si occuperemo solo del momento progettuale, avvertiti tuttavia che esso è sempre correlato con gli altri. Così, nel progettare un oggetto, non perderemo mai di vista che dovrà essere prodotto in un determinato modo, venduto secondo alcune regole del mer­cato, consumato dal pubblico secondo certi usi e costumi. Questa fondamentale proprietà di interagenza, che pre­senta una circolarità fra il tutto (il prodotto di design) e le sue parti, si ritrova anche all’interno del solo momento pro­gettuale. Anche il progettare infatti si compone di quattro fasi o momenti: 1) i dati di partenza; 2) l’intuizione; 3) la rappresentazione; 4) la critica operativa. Preciseremo meglio questi punti dopo aver svolto alcune considerazioni priori­tarie. Anzitutto va osservato che molte confusioni, alcuni ma­lin­tesi, più di un errore concettuale in materia di progettazione derivano dal fatto di non aver ben chiarito l’eterogeneità riscontrabile nel lavoro progettuale; le quattro fasi sopra elencate hanno una natura estremamente eterogenea: ora si tratta di implicazioni pratiche (la tecnica), ora concettuali (i criteri), ora inventive (l’estetica), ora soggettive (la qualità), ora oggettive (la quantità), ecc. Prendere coscienza di queste diversità significa in primo luogo rafforzare l’idea che nel lavoro progettuale si opera per parti, che mirano tuttavia a tradursi in un esito unitario. Come conciliare parzialità e unitarietà? Il problema non è nuovo nella teoria della progettazione: sin dalla symmetria vitruviana si parla di un accordo fra le parti ed il tutto, accordo che viene espresso successivamente in altri termini, dalla concinnitas albertiana fino alla formula organico-razionalista del rapporto forma-funzione, che solo apparentemente è un binomio: la forma infatti è il tutto che, a meno di oggetti estremamente elementari, ingloba più fun­zioni, ovvero più parti. Già queste prime considerazioni ci portano a stabilire una «naturale» analogia continua...


fasc. n. 85 settembre 1992

Una tassonomia per il design

www.opcit.it/43

ANTONIO D’AURIA, RENATO DE FUSCO

A differenza di altri testi dedicati alla didattica di una disciplina, avente per oggetto un unico prodotto, si pensi al manuale dell’architetto, un libro diretto all’insegnamento del design dovrebbe considerare tutti gli oggetti prodotti indu­strialmente e che affollano il nostro ambiente quotidiano. Tuttavia, ad elencarli per esteso non si andrebbe oltre un catalogo merceologico, peraltro continuamente da aggiorna­ re, di poca o nulla utilità per l’insegnamento progettuale del design. Come rendere il nostro testo inclusivo e in pari tem­po caratterizzante i prodotti da esaminare? come ritrovare la circolarità fra il tutto merceologico e le parti proprie di ogni settore? e, in definitiva, come conciliare le opposte con­cezioni monistica e pluralistica del design? La classificazione Si evita l’elencazione passiva e al tempo stesso si esa­mina il maggior numero possibile di prodotti ricorrendo ad un’operazione tipicamente strutturalista che, ricordiamolo, rende semplice ciò che è complesso e ricerca le invarianti in sistemi di oggetti e oggetti singoli differenti fra loro. Bisogna pertanto, prima di iniziare qualunque didattica pratica di design (ma tale pratica doveva essere preceduta da un’articolata impostazione teorica), preordinare una struttu­ra, una sistematica, una tassonomia, una classificazione che, composta dal minor numero possibile di categorie contenga il maggior numero possibile di prodotti. Evidentemente il principio strutturalista suddetto si associa o addirittura si identifica con un altro tipicamente riduzionistico: sono in­fatti le invarianti riscontrabili nei prodotti a far sì che essi si possano ridurre in poche categorie. In base a quali criteri può costruirsi questa struttura-classificazione? Certamente, sia pure in una diversa misura, utilizzandone alcuni già noti di tipo merceologico, tecnolo­gico, funzionale, ecc. Ma questo genere di criteri si rivela necessario ma non sufficiente alla didattica del design. Quan­to alla merceologia, essa dà luogo ad una classificacontinua...

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fasc. n. 95 gennaio 1996 www.opcit.it/44

Ricordo di Arturo Carola renato de fusco

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La morte di una persona cara, di solito e a parte le piccole formalità di rito, non si ricorda per iscritto, ma quella di Arturo Carola, avvenuta alla fine dell’anno scorso, mi dà questa possibilità perché, oltre ad essermi amico, egli era anche l’editore di questa rivista. Non rammento il nostro primo incontro tanto eravamo giovani, ma fu certamente agli inizi degli anni ’60 che si consolidò una attiva frequentazione, quando, in sodalizio con il compianto Renato Bacarelli, egli diede vita alla galleria «Il centro». Come architetto ne arredai la prima sede in via San Pasquale e più tardi la seconda in via dei Mille. L’apertura di questa sala di esposizione fu per Napoli uno straordinario evento; non che mancassero in precedenza gallerie private, quelle che ospitavano opere di artisti tradizionali e quelle frequentate dai gruppi d’avanguardia, ma «Il centro» aveva qualcosa in più. Anzitutto il programma di far conoscere nella nostra città il meglio della produzione internazionale, dall’astrattismo-concretismo all’informale, dall’arte programmata alla pop-art; né la galleria si limitò ad esporre quadri e sculture; furono anche invitati i maggiori storici e critici d’arte, che animarono conferenze, dibattiti e incontri. In tal senso si realizzò effettivamente un «centro» dell’arte contemporanea. Il terzo fattore caratterizzante la galleria fu proprio la presenza di Arturo Carola che, figlio della più alta borghesia industriale napoletana, richiamò l’intera classe sociale cui apparteneva, in precedenza legata all’arte tradizionale e da lui iniziata all’interesse per quella moderna. La componente più positiva della borghesia, fatta di spirito d’iniziativa imprenditoriale, di promozione sociale e culturale, ebbe a Napoli in Arturo Carola la sua maggiore espressione, almeno per quanto riguarda la nostra generazione. E ciò sia per gli atti che lo videro protagonista, sia principalmente per gli accenti signorili e discreti che li caratterizzarono. Riferendomi solo a quelli dell’arte e della cultura di cui posso dare testimonianza, Arturo Carola favorì il rinnovamento del gusto in questi settori evitando traumi e conflitti. Amatore d’arte d’ogni tempo e paese, affiancato dalla continua...


fasc. n. 100 settembre 1997 www.opcit.it/45

Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia

LUCIA PIETRONI

Gli oggetti tecnici, e più in generale gli oggetti d’uso prodotti industrialmente, evolvono secondo un processo di «selezione interna», legato fondamentalmente ai mutamenti delle condizioni tecnologiche ed organizzative della loro produzione e secondo un processo di «selezione esterna», dovuto alla loro accettazione da parte del mercato e al loro grado di «adattamento» e di «adattabilità» ai cambiamenti che avvengono nel contesto socio-culturale in cui svolgono le loro funzioni. Per «adattamento» si intende la capacità di rispondere in modo competitivo ai bisogni del mercato e per «adattabilità o fitness» si intende la capacità di mantenere ed ampliare la propria «plasticità evolutiva», ovvero la possibilità di sopravvivere e continuare ad evolvere in una grande varietà di ambienti. Alcuni oggetti, nella loro evoluzione tecnica, raggiungono un grado di «specializzazione funzionale» tanto elevato da rischiare di essere coinvolti in un processo di «disadattamento» rispetto anche al più lieve cambiamento delle condizioni ambientali in cui vengono prodotti ed utilizzati. Questo fenomeno di «iperspecializzazione o iperfinalizzazione», che viene definito da Gilbert Simondon, in Du mode d’existence des objets techniques, ipertelia, quando si manifesta – nei processi di adattamento di un oggetto al suo «ambiente interno», cioè al contesto tecnico-industriale, e al suo «ambiente esterno», cioè al contesto socio-culturale – genera, il più delle volte, un fenomeno di sovradattamento funzionale ovvero una riduzione dell’autonomia evolutiva dell’oggetto rispetto ai mutamenti ambientali, che ne condizionano sempre più la sopravvivenza e lo sviluppo. Il sovradatta­ mento funzionale – scrive Simondon – va talmente lontano che giunge a taluni schemi vicini a quelli che, in biologia, si collocano tra la simbiosi e il parassitismo: certi piccoli aerei velocissimi non possono decollare agevolmente se non portati da uno più grande che li sgancia in volo (…). L’ipertelia, descritta da Simondon come la tendenza verso una specializzazione esagerata, rappresenta quindi un reale ostacolo al processo evolutivo di un oggetto tecnico, in continua...

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fasc. n. 102 maggio 1998 www.opcit.it/46

Architettura tra esperienze e aspettative ROSA LOSITO

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Che la storia abbia sempre a che vedere con il tempo, è un’af­ fermazione ovvia. Ma ci è voluto molto tempo prima che fosse esplicitamente tematizzato qualcosa come il tempo storico. Ne cercherei la scoperta nell’età dell’Illuminismo. Precedentemente troviamo articolazioni del corso storico secondo categorie miti­ che o teologiche, che definiscono un inizio, una metà e una fine. Le osservazioni sulla nascita di una coscienza temporale specificamente storica da parte di Reinhart Koselleck, storico tedesco docente ad Heidelberg e a Bielefeld dal 1973, e la sua definizione di tempo storico, nell’ambito, come vedremo, di una semantica concettuale, costituiscono lo spunto per alcune considerazioni di carattere analogo sulle possibilità metodologiche di lettura del­l’architettura contemporanea. Solo a partire dal XVIII secolo si comincia a indagare la storia in base a criteri immanenti alla storia stessa, per cui come ebbe a dire Kant: finora la storia si è modellata sulla cronologia; ora si tratta di far sì che la cronologia si modelli sulla storia. Questo [è] il programma dell’Illuminismo: ordinare il tempo sto­ rico in base a criteri che potessero venir derivati dalla conoscen­ za della storia stessa. Con l’affermazione del concetto di «età moderna» – che sorge dal presente, [e] a sua volta indica un fu­ turo ancora aperto – diversa da quelle precedenti, in quanto vie­ ne conosciuta non ex post, ma direttamente, nel suo farsi, e di una nuova categoria temporale, il «progresso» – che riconduce a un unico concetto la differenza tra il tempo finora passato e il futuro che deve ancora venire – legato alla volontà degli uomini e alla loro pianificazione, diventa necessario sviluppare metodi peculiari che consentano di riconoscere l’identità delle differenti dimensioni temporali. La storia in quanto disciplina moderna sorge là dove la frattura della tradizione ha disgiunto qualitati­ vamente passato e futuro. […] Da questo momento è possibile che la verità della storia si trasformi con il trasformarsi del tem­ po o, più esattamente, che la verità storica possa essere di volta continua...


fasc. n. 104 gennaio 1999

La storiografia è progettazione

www.opcit.it/47

RENATO DE FUSCO

Quanto segue non è un’autorecensione del mio recente libro Storia dell’idea di storia, né della sua riduzione intitolata «Artifici» per la storia dell’architettura, bensì una ulteriore semplificazione della tesi per cui esiste una forte similitudine fra la storiografia della nostra disciplina e il progetto architettonico. Con la presente nota, in altri termini, intendo completare il ciclo che va dal primo libro, dedicato alla generale riflessione sulla storia tout court, al secondo in cui tale riflessione è applicata ad una storiografia particolare, quella dell’architettura e dell’arte, fino alla esposizione più sintetica di queste idee nel presente articolo. Quasi sempre finora quando architetti e critici si sono occupati della storia, il punto di base è stato il rapporto fra storia e progettazione, il quale ha generato il doppio errore: da un lato, s’è ritenuto che il progetto fosse totalmente dipendente dall’esperienza storica e, dall’altro, che questa non potesse affatto servire alla progettazione. La questione era, a mio avviso, mal posta e quindi incapace di dare una valida risposta. Non è alla storia – con l’eccezione che vedremo – che va riferita la pratica progettuale, quanto piuttosto alla storiografia. La confusione di questa con la storia, lo scarso uso in alcune lingue del termine «storiografia», l’ambiguità con la quale molti autori utilizzano il termine «storia», ecc., sono tutte cause degli equivoci e malintesi che si sono prodotti nel nostro campo. Il primo chiarimento pertanto va operato sulla distinzione dei due termini, recentemente modificati in storiarealtà e in storia-studio, che evidentemente, al di là della correttezza lessicale, denotano addirittura due mondi diversi. Inoltre il loro rapporto possiede la prima e più grande caratteristica storica, quella della problematicità. Infatti, non si dà storia senza una storiografia che la racconta, né storiografia senza storia mancandole la materia da studiare. Donde la considerazione che fra l’una e l’altra c’è distinzione ma non separatezza. Un altro aspetto problematico – ed entriamo nel vivo dell’argomento architettura – sta in ciò che il rapporto suddetto è reso più complesso dall’essere gli eventi della stocontinua...

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fasc. n. 112 settembre 2001 www.opcit.it/48

Internet non s’addice all’architettura renato de fusco

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Che la tecnologia digitale sia cosa di grande rilievo, tale da modificare l’economia, il lavoro, i rapporti sociali, il costume, il nostro stesso modo di pensare, è idea universalmente diffusa ed accettata. Chi non impara, utilizza, sviluppa le nozioni e i concetti di questa tecnologia si pone fuori del mondo; a chi pensa male dell’informatica si può applicare, mutatis mutandis, il famoso motto dell’Ordine della Giarrettiera, Honi soit qui mal y pense. Tutto ciò riconosciuto, la tecno-ideologia oggi imperante si presta ad alcuni equivoci che vanno chiariti. Qui ne discuterò due: quello che riguarda il concetto di «informazione» e l’altro che associa indiscriminatamente l’architettura all’informatica ovvero ad Internet, qui scelta come emblema dell’intero corpus disciplinare. Al centro della teoria digitale è il concetto di «informazione» che è stato ipostatizzato, ovvero esagerato oltre le sue effettive possibilità, specie per quanto riguarda la nostra disciplina. Nel linguaggio cibernetico, un’informazione è un elemento di conoscenza recato da un messaggio che ne è il supporto e di cui essa costituisce il significato. Quando i messaggi sono redatti secondo un codice determinato, si può valutare l’informazione che trasmette un messaggio in caratteristiche date, introducendo delle unità d’informazione. Da questa definizione emergono tre cose: l’informazione è un elemento di conoscenza; può variare da codice a codice ed è misurabile come vuole un’apposita teoria, quella appunto dell’informazione. L’informazione pertanto non è materia o energia (Norbert Wiener), né spirito o soggettività (Gotthard Günter) ma solo e semplice informazione, notizia, fattore di conoscenza da trasmettere ad altri. Secondo Maldonado, la natura dell’informazione è rimasta un problema teorico relativamente aperto. Non c’è da stupirsi dunque che in una società come l’attuale, in cui l’informazione sta assumendo un ruolo fondamentale, alcuni tendano a vedere nel processo di informatizzazione in corso una sorta di globale dematerializzazione e persino di spiritualizzazione del mondo in cui viviamo. A mio avviso, tale processo non riguarda una «sostanza», altrimenti continua...


fasc. n. 114 maggio 2002 www.opcit.it/49

L’italianità dell’architettura italiana

RENATO DE FUSCO

Come ogni sistema, anche quello dell’architettura geopolitica si compone di un tutto, nel nostro caso, la produzione europea, e di parti, le produzioni nazionali; cosicché un ordine logico vorrebbe un rapporto ermeneutico fra l’una e le altre. Di conseguenza, in quanto architetti, dovremmo collaborare alla formazione di un linguaggio europeo e al tempo stesso conservare le specificità nazionali, altrimenti rischiamo, da un lato, l’omologazione e, dal­l’altro, l’isolamento nazionalistico. Abbiamo usato il condizionale, primo perché quest’ordine sistematico non è riscontrabile sempre nella realtà e secondo perché esso si pone oggi in vista dell’unità politica europea. Quanto al primo punto, mentre le architetture nazionali o regionali sono percepibili e definibili, quella continentale lo è assai meno o addirittura è indefinibile. Ancora una volta il modello linguistico serve di chiarimento: non esiste una lingua europea, bensì quelle d’Italia, di Francia, di Spagna, di Germania, ecc.; né la somma di quest’ultime fa la lingua d’Europa. E tuttavia qualcosa in comune c’è: parlando con un interlocutore europeo ci accorgiamo che è tale anche se usa l’inglese come gli americani del Nord o lo spagnolo come quelli del Sud. Relativamente al secondo punto, questi problemi che finora hanno interessato i linguisti e/o gli storici dell’architettura, oggi si pongono a tutti coinvolgendo la formazione didattica e l’esercizio professionale degli architetti. L’ampliamento della questione è causato dalla citata costituenda unione politica del continente che comporta non pochi dubbi. Dico subito – a titolo puramente personale – che questo evento va accolto con alcune riflessioni critiche. La mia generazione cominciò a sentire parlare di Europa in relazione all’architettura da Edoardo Persico che, a sua volta, aveva trasferito nel nostro campo quanto Piero Gobetti sosteneva in quello politico-culturale. Si trattava di una concezione liberale e altamente ideale che non somiglia affatto all’organizzazione attuale, tutta calata dall’alto senza alcun segno della volontà popolare, inevitabilmente pratica, economico-finanziaria e politico-partitica. Bencontinua...

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fasc. n. 115 settembre 2002 www.opcit.it/50

L’architettura «piccola» ALESSANDRA DE MARTINI

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Nel precedente numero della rivista, interamente dedicato al­ l’architettura italo-europea, è emersa l’idea di una italianità dell’architettura italiana i cui caratteri dominanti sono la contestualità, la classicità razionale e la dimensione piccola delle fabbriche. Se i primi due termini sono stati oggetto di una ampia e varia letteratura, che l’architettura italiana sia “piccola” appartiene ad un terreno inesplorato. Eppure a nessuno sfugge, soprattutto se di ritorno dagli Stati Uniti, ma anche da Parigi o da Berlino, che assistiamo ad un salto di scala considerevole tra quelle realtà urbane e le nostre minute città. Come non era sfuggito a Josef Hoffmann che durante il suo viaggio in Italia (1896) venne attratto, più che dalle tappe classiche del Grand Tour, dall’anonima architettura spontanea unitaria e ‘conchiusa’ rappresentata nei suoi disegni come aggregazione di volumi semplici e soprattutto contenuti da un punto di vista dimensionale. Anche Goethe nel suo Viaggio in Italia (1786-1788) aveva notato la ricorrente caratteristica del piccolo dei nostri monumenti: il teatro Olimpico di Vicenza, afferma, è un teatro su modello antico ma in piccole proporzioni ed indicibilmente bello; la rotonda di Pal­ ladio è mirabilmente proporzionata […] ma per le esigenze della villeggiatura di una famiglia signorile sarebbe appena sufficien­ te; Santa Maria della Minerva a Foligno è un tempio di propor­ zioni modeste come si conveniva a una città tanto piccola. Dal Settecento ad oggi, nonostante la considerevole crescita urbana, la dimensione architettonica del piccolo rimane una costante e lo skyline delle città d’Italia continua ad avere un andamento essenzialmente orizzontale con rari picchi di verticalità: le cupole e le torri italiane non sono sufficientemente svettanti da raggiungere guglie, pinnacoli e tiburii nordici e la sporadica presenza nel tessuto urbano di grattacieli è percepita da sempre come nota stonata, come un fuori scala, e mai come elemento caratterizzante e innovativo da un punto di vista linguistico. Il grattacielo Pirelli di Gio Ponti, ad esempio, è stato etichettato «Pirellone», un accrescitivo tanto ridicolo quanto continua...


fasc. n. 125 gennaio 2006 www.opcit.it/51

Design: dalla produzione al mercato

GIOVANNI CUTOLO

Per migliaia di anni essere imprenditore ha significato, prevalentemente, svolgere un’attività mercantile, raccogliendo e trasferendo al mercato prodotti vegetali, animali o minerali, insieme a pochi manufatti artigianali. Ancora per tutto il Medio Evo sino alla fine del ’700, è il mercante che si fa imprenditore finanziando frequentemente attività produttive svolte a domicilio allo scopo di assicurarsi l’esclusiva di vendita dei prodotti. Il mercante-imprenditore seleziona e raccoglie prodotti, naturali e di trasformazione artigianale, per poi farne mercato, sviluppando un’iniziativa commerciale il cui principale assetto non è il saper vendere ma il saper comprare. Con la Rivoluzione industriale le merci cessano di essere fatte a mano e in pochi esemplari e, grazie all’uso di energia non umana né animale, vengono prodotte a macchina e in grandi quantità, anche se, usando un termine che tradisce una sorta di nostalgia incrostata al linguaggio, continuano ad essere definite «manufatti». Questa pro­duzione utilizza ovviamente materie prime naturali, vale a dire commodity, trasformandole onde renderne più agevole l’utilizzo e la commercializzazione ma anche per ottenere prodotti sempre diversi, in maniera tale da variare continuamente un’offerta destinata a crescere in maniera esponenziale. Non c’è dubbio che l’impresa protagonista degli ultimi duecentocinquanta anni sia stata l’impresa industriale di produzione, quell’industria che con i suoi prodotti ha trasformato i mercati, modificando al tempo stesso profondamente le consuetudini, i desideri ed il modo di vivere della gente. Quell’industria che, nella continua ricerca di nuovi spazi per alimentare il proprio sviluppo, è andata incessantemente cercando nuovi prodotti e nuove e più convenienti modalità per affermarli e sostenerli. L’impresa di servizi nasce dalla constatazione della difficoltà che il mercato incontra nel distribuire al consumo prodotti sempre più sofisticati e complessi che il consumatore non riesce a capire con facilità.. In una situazione di grande diffusione delle conoscenze e delle tecniche produttive, le aziende incontrano sempre maggiori difficoltà a continua...

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fasc. n. 130 settembre 2007 www.opcit.it/52

Architettura, arte applicata RENATO DE FUSCO

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In tanto parlare di comunicazione, ritengo sia utile riprendere una nozione in passato mal posta e quindi accantonata, quella di arte applicata. Essa rientra nella serie di binomi utilizzati dall’estetica per meglio definire gli aspetti polivalenti dell’arte. Le arti si dicevano maggiori e minori, liberali e meccaniche, dello spazio e del tempo, libere e non libere, la bellezza veniva distinta in vaga e in adhaerens, le arti scisse tra «pure» o appunto applicate, ecc. Ogni stagione della storia dell’arte ha proposto una sua particolare interpretazione a seconda del modo di pensare, dell’organizzazione lavorativa, delle concezioni sociali. Prima di procedere oltre, accenniamo brevemente al significato di alcuni di questi binomi. Senza rifarsi al mondo antico per alcune di tali distinzio­ni, quella tra arti maggiori e minori risale all’età comunale a proposito della diversa importanza tra le corporazioni delle Arti e dei Mestieri; durante il Rinascimento la differenza era data dalla separazione tra artisti e artigiani e dall’intento di ridimensionare le corporazioni. Come ha osservato Fer­ dinando Bologna, lo strumento sociale del rigido sistema gerar­ chico furono le Accademie del Disegno, delle quali la prima fu quella istituita dal Vasari a Firenze nel 1562, la più esplicitamen­ te programmatica e influente fu l’Accademia di San Luca in Ro­ ma, nata nel 1577 col fine di sostituire l’antica corporazione degli artisti, ma già nel 1593 eretta a scuola d’arte per iniziativa di Federico Zuccari […]. Dall’origine, le Accademie ebbero per fine di formare ed associare in un corpo socialmente solidale gli arti­ sti “dotti” e “speculativi”. Il binomio maggiori­minori ha seguito l’alternarsi delle vicende storiche dell’arte e della critica, donde i momenti di rivalutazione dell’artigianato, da William Morris a Riegl. La separazione fra liberali e meccaniche è ancora più antica e coinvolge molte arti: la retorica, la geometria, l’aritmetica, l’astronomia, la musica, mentre si dubitava che fossero liberali le arti figurative. Emblematica della mentalità del tempo è la distinzione di S. Tommaso, il quale chiamava liberali le arti, che riguardano l’abito continua...


fasc. n. 131 gennaio 2008

Il Design oggi

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VANNI PASCA

Una domanda s’aggira tra i designer: cos’è il design oggi? (cos’è diventato’? dove sta andando’?) Esiste ancora, o si è talmente esteso nelle sue pratiche da aver perso ogni identità, fino a identificarsi con un concetto un po’ generico, di “progetto” tout court (e forse vale la pena ricordare che in inglese design significa appunto: progetto)? È evidente come questa domanda ammetta due possibili interpretazioni. La prima richiede che si analizzino i processi in atto. La seconda implica il rimpianto per i bei tempi che furono: nel nostro paese, in particolare, i bei tempi del “design italiano”, inteso (secondo l’ossimoro proprio dell’interpretazione tradizionale) come manifestazione multiforme ma unitaria, in buona parte derivata dalla tradizione bauhausiana (intesa anch’essa come monolitica). Per impostare diversamente il problema, sarebbe utile fare riferimento alla tesi degli storici dell’economia che parlano di tre fasi della rivoluzione industriale, dalla seconda metà del ’700 a oggi, e leggere ii design nel suo diverso manifestarsi, teorico e pratico, nelle diverse fasi. Ciò aiuterebbe a comprendere come le sue espressioni si siano modificate, riformulate, ampliate in ognuna di esse. Del resto, la stessa classica formulazione di Renato De Fusco, quella che identifica il design in “un unitario processo: il progetto, la produzione, la distribuzione, il consumo”, andrebbe letta, secondo chi scrive, analizzando come queste quattro dimensioni si siano manifestate con modalità diverse di fase in fase. Per fare qualche esempio: dalla fabbrica ottocentesca al fordismo e al postfordismo; dal primo sviluppo dei consumi nell’ottocento, alla società dei consumi, fino alle attuali modalità connesse alla mondializzazione, alla competitività internazionale, alla digitalizzazione della comunicazione. E quindi, verificare anche le modificazioni della progettazione in rapporto a queste trasformazioni, definendo per il design i fattori di continuità ma anche il suo diverso esprimersi di fase in fase. Anni fa, in un convegno dal titolo «Design: storia e storiografia», si assumeva per storiografia la messa in prospettiva storica degli studi storici stessi, la continua...

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fasc. n. 133 settembre 2008 www.opcit.it/54

Per un’architettura normale PASQUALE BELFIORE

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L’editoriale di Francesco Dal Co sul n. 764 di «Casa­bella» (marzo 2008) dal titolo Architettura normale in un Paese normale merita d’essere ripreso, sia per la rilevanza critica degli argomenti trattati, sia per i tanti motivi di concordanza con le tesi espresse ma anche per i pochi ma importanti punti sui quali le perplessità sembrano motivate. D’obbligo tuttavia un preliminare e sintetico ragguaglio sul contenuto dell’articolo. Gli argomenti affrontati sono molti ma in pratica riconducibili a cinque ordini di problemi: la crisi degli Uffici Tecnici periferici e centrali dell’amministrazione pubblica che nel passato hanno realizzato la spina dorsale delle infrastrutture e dei servizi del Paese (Quest’opera di smantellamento, intrapresa per miopia politica e insipienza amministrativa, era apparentemente giustificata dall’in­ tento strumentalmente condiviso di favorire la liberalizzazione dei mercati e la crescita delle capacità imprenditoriali); il ruolo di tangentopoli nella riscrittura delle leggi e delle procedure regolanti appalti e concorsi che restano comunque farraginose e non trasparenti (Nell’Amministrazione pubblica italiana si sono diffuse procedure che consentono di surrogare l’assunzione di responsabilità con l’in­ terpretazione della norma); il rapporto dell’architettura con il mondo dell’informazione e il fenomeno delle “archistar” (i media italiani si occupano di architettura unicamente quando dal mondo dell’ar­ chitettura o da quanto intorno ad esso accade giungono “notizie” assimilabili ai generi “spettacolo” e “scandalo” di cui sono soliti occuparsi. Degli architetti ci si interessa quasi unicamente quando è possibile parlarne alla stregua di una stella del cinema o di un celebre cantante); la condizione professionale arretrata e disagiata nella quale operano gli architetti italiani (Gli studi sono piccoli, scar­ samente attrezzati, per lo più inadeguati ad affrontare la competi­ zione con le formazioni professionali straniere); la necessità d’una architettura “normale” (In questo fascicolo di «Casabella» presen­ tiamo alcune opere “normali”, costruite per “normali” committen­ ti, evitando di occuparci di progetti “spettacolari” o “scandalosi”). continua...


fasc. n. 134 gennaio 2009

Abitare la razionalità

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FRANCO PURINI

L’architettura vive oggi una condizione critica caratterizzata da una molteplicità di problematiche contrastanti, segnata dalla compresenza di più direzioni di ricerca in conflitto tra di loro, sottoposta dall’arte a una pressione che si sta facendo insostenibile, resa difficile da una diffusa indeterminazione dei rapporti che essa intrattiene con gli ambiti che la definiscono come un sistema. Superando ampiamente, ma anche deformando in modo sostanziale gli orizzonti, tendenti a una risemantizzazione dell’architettura, che Renato De Fusco aveva individuato nel 1967 nel suo Architettura come mass medium, gli edifici si sono trasformati in misura sempre maggiore in veicoli pubblicitari a servizio della logica astratta e atopica delle real estate; parallelamente l’architettura ha rinunciato a prefigurare nuove prospettive per la città, limitandosi a registrare a posteriori ciò che in essa avviene. Al contempo la stessa idea di architettura si è fatta così plurale, relativa e metamorfica da rendersi indefinibile e di fatto inoperante, con il risultato che la ricerca teorica e la riflessione critica stanno subendo un’eclisse crescente mentre ogni ipotesi disciplinare appare confusa, intercambiabile e incidentale. Questa situazione babelica la quale, specialmente in Italia, dove esiste un’abnorme sproporzione tra il numero degli architetti e le opportunità di cui essi dispongono, è una situazione che per inciso qualcuno potrebbe anche ritenere, a ragione, endemica, è pervenuta recentemente ad un livello per più di un verso patologico. In questo contesto così impervio e complesso, pur se, per altro verso, proprio per questi suoi caratteri suggestivo e avventuroso, l’unica possibilità di costruirsi un punto di vista dotato di una qualche oggettività, dal quale dedurre una serie di conseguenze provviste anch’esse di una certa solidità concettuale, consiste nel chiedersi a che cosa serva l’architettura. In effetti, solo una risposta motivata alla domanda su quale sia il ruolo dell’architettura sembra in grado di chiarire le finalità e le priorità dell’atto costruttivo. Su questo interrogativo si è svolto recentemente un convegno all’Accademia Normale di San Luca, che continua...

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fasc. n. 136 settembre 2009 www.opcit.it/56

Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere dell’arte? FRANCESCA RINALDI

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Il tema è sfuggente e finisce con l’imbattersi, inevitabilmente, in quello ampio e irrisolvibile della natura dell’arte genericamente intesa. L’atteggiamento diffuso della cosiddetta adiaforizzazione dell’arte, ovvero della sua estensione illimitata ad ogni forma d’espressione, tende infatti a includere nelle fila dell’arte qualsiasi azione creativa del nuovo o modificatrice dell’esistente. Con inevitabili implicazioni critiche e operative, ovviamente. Nel caso di fenomeni ibridi come questi, in più, la ricerca viene contaminata dalle forti aderenze con il carattere effimero del fenomeno di costume che trasferisce velocemente certe ricorrenze imitative da un ambito dell’immagine all’altro senza interporvi alcun filtro discriminante. Lo stesso accomunare nel discorso pratiche decorative tecnicamente disomogenee come piercing, tatuaggio e graffito urbano compromette la chiarezza dell’analisi che rischia di trascurare una necessaria cornice euristica unitaria. Evitando allora l’inutile sforzo di formulare qui una definizione onnicomprensiva dell’arte o una sua classificazione di rigore ci limiteremo a sondarne le declinazioni nei casi particolari di cui ci stiamo occupando, procedendo per individuazione e scomposizione delle dinamiche e degli elementi connotativi, esibiti o latenti. Affrontando in apertura la galassia del decoro corporale, una prima osservazione riguarda l’accidentalità del fenomeno ovvero la sua ri-apparizione improvvisa dai tempi della Marina storica e delle galere: rimasti come animali in letargo ai margini del­l’Oc­ci­ dente, da poco più di vent’anni il piercing e il tatuaggio hanno conosciuto un successo macroscopico che verosimilmente può attribuirsi a un’esigenza di differenza rispetto alla omologazione estetica della massa. Di fatto, da marcatore di una differenza, essi sono rapidamente slittati in una moda deprivata di referenti culturali che finisce con l’innescare altre forme di appiattimento, quando non di esplicita acriticità. È fin troppo nota (e spesso malintesa) la posizione di Loos che, a inizio secolo, annota come il Papua copre di tatuaggi la procontinua...


fasc. n. 137 gennaio 2010

Ricordo di Rogers

www.opcit.it/57

ALESSANDRO CASTAGNARO

In occasione del centenario della nascita di Ernesto N. Rogers (1909-1969) numerosi sono stati i convegni, gli scrit­ti, le manifestazioni organizzate in Italia e all’estero che hanno ulteriormente rivalutato sul piano storiografico la figura del grande maestro. A partire dal 1934 si collocano i suoi primi significativi scritti sulla rivista Quadrante; nel 1939 Rogers si rifugiò in Svizzera a causa delle leggi razziali fasciste. Intanto lo studio BBPR, proprio con l’emanazione di tali leggi nel 1938, e ancor più durante il periodo di occupazione nazifascista, di­venne uno dei punti di riferimento per la Resistenza milanese e il movimento Giustizia e Libertà. Sono di questo periodo, tra novembre 1938 e marzo 1939, le lettere che Rogers scrive e che rappresentano il senso di un accorato smarrimento: Credeva­ mo di essere i primitivi di una nuova era, catecu­meni usciti dalla Terra. E forse dovremo invece aggiunge­re i nostri petali appassi­ ti al mucchio delle cose finite. L’epoca passa su di noi come un rullo compressore: siamo tutti schiacciati dagli eventi. Dovrà la nostra generazione non servire ad altro che quale sottostrato per edificare le venture? Così come fosse solo una di quelle che ci hanno preceduto. Questo compito può servire alla collettività, ma pesa ancor più terribilmente sulla coscienza di quegli spiriti che presumevano di essere già pronti per la vendemmia. A causa del loro impegno politico-sociale Banfi e Belgiojoso furono deportati durante gli ultimi anni della seconda guerra mondiale nel campo di concentramento di Mauthausen-Gusen, dove Banfi perse la vita. Dopo la guerra Rogers si distingue per la collaborazione alla rivista Domus, che diresse nel breve periodo ’46-’47: per il rapporto con il CIAM e, soprattutto, per l’importanza dei suoi editoriali redatti quale direttore di «Casabella» (1954-1964). Mantenendo sempre una stretta coerenza tra i suoi scritti e la pratica militante di architetto, fondamentale fu il suo contributo innovativo, negli anni ’50-’60, al problema della storia sia dal punto di vista teorico, sia come elemento basilare per la progettazione. Trattano tale tema, in maniera emcontinua...

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fasc. n. 139 settembre 2010 www.opcit.it/58

Cinque voci sulla venustas in architettura PAOLA SCALA

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Nel numero 136 di questa rivista Emanuele Carreri ha pubblicato un articolo dal titolo: Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia, un divertente dialogo, una sorta di taglia e cuci tratto dal blog che da marzo a maggio 2009 si è tenuto sul sito web www. eurau10.it. Il dialogo tra Bellezza, Architettura, Mercato e Democrazia si svolge a New York, lungo la rampa che lega i sette livelli del Guggenheim (primo e ultimo edificio che ascolti le ragioni di architettura, mercato e democrazia, e sia an­ che bellissimo). Quel giorno il Guggenheim ospita – guarda caso – una mostra sull’architettura contemporanea: tante immagini, pochi e aforismatici commenti. Alla Bellezza non piace la piega che stanno assumendo le cose nel mondo, e medita, arrivata in cima alla rampa, di buttare giù almeno uno dei suoi interlocuto­ ri. Ma neanche Architettura, Mercato e Democrazia sembrano tanto tranquilli. Nei giorni 23, 24, 25 e 26 giugno 2010, è stato «messo in scena» un nuovo dialogo tra architettura mercato e democrazia, non sul palcoscenico del Guggenheim di New York, ma su quello del Centro Convegni Partenope di Napoli, dove si è svolta non una mostra di architettura ma «Eurau 10», 5° edizione delle giornate Europee della Ricerca Architettonica e Urbana, convegno dal titolo: Venustas, architettura/mercato/democrazia. L’edizione napoletana, coordinata e diretta da Roberta Amirante della Facoltà di Architettura di Napoli, si proponeva dunque di indagare e organizzare un confronto tra le tante, possibili interpretazioni del concetto di venustas in epoca contemporanea. I circa centosettanta interventi dei relatori provenienti da tutta Europa, selezionati per partecipare alle quattro giornate di studio, costituiscono altrettante risposte alle domande poste dagli organizzatori del convegno nel call for paper lanciato nell’ottobre del 2009: è possibile ancora oggi parlare di una «bellezza» tutta interna all’architettura? Il termine bellezza è effettivamente il più appropriato per raccontare la venustas dell’architettura nel tempo del mercato e nell’epoca della democrazia mocontinua...


fasc. n. 142 settembre 2011

Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea

www.opcit.it/59

PAOLA GREGORY

La drammatica iconoclastia di Libeskind, “l’architettura della morte improvvisa” di Coop Himmelblau, la “visione rovesciata” di Eisenman, l’engagement degagé di tante ar­chitetture di Gehry, ma anche la perturbante semplicità di Zumthor, il muto silenzio del Vietnam Veterans Memorial di Maya Lin, la “estetica del miracolo” di Nouvel, il “nulla” o “quasi nulla” del Blur Building di Diller & Scofìdio: di­verse sono le espressioni che sembrano richiamare, in tempi recenti, una dimensione che potremmo definire “sublime” in architettura, quel nescio quid che fin dai tempi antichi eccedeva la validità normativa dei canoni di gusto, rifiutan­do di lasciarsi cristallizzare nella chiusura della forma in se stessa e costringersi nel conformismo di regole e costrutti mentali. Quando la grandezza o l’assenza di limiti minaccia di mandare in frantumi la comprensione della forma; quando l’idea del bello si vede brutalmente esclusa da particolari dissonanze, sproporzioni, deformità, che suscitano tutta­ via un’impressione struggente; quando i punti di riferi­mento stabiliti per dar senso e ordine al mondo sensibile ci vengono a mancare, appare difficile comprendere ciò che stupendoci ci attrae, perché è proprio del sublime colpire e destituire l’immaginazione e l’intelligenza con l’acutezza dolorosa di un piacere fugace, inimmaginabile e im­pensa­bile. Effetto di un’esperienza che investe il soggetto, folgorandolo e sospendendolo nelle sue acquisizioni abituali, e allo stesso tempo veicolo privilegiato di tale esperienza, il sublime mette in moto uno scambio continuo fra il soggetto e l’oggetto, l’io e l’altro, il dentro e il fuori, il finito e l’infinito, il sensibile e l’intelligibile. è l’evento che accade e il suo accadimento – sottolinea Baldine Saint Girons – richiede la metamorfosi o la “sublimazione” almeno provvisoria di tutto ciò con cui entra in contatto. Si tratta dunque di una “causalità circolare” in cui i termini piuttosto che definirsi in una reciproca opposizione dialettica si aprono a una dipendenza differenziata, a una dinamica interrelazionale che si sviluppa – è essencontinua...

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fasc. n. 142 settembre 2011 www.opcit.it/60

Le cose che contano PIETRO NUNZIANTE

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Già nelle prime pagine di Spazio, tempo ed architettura, Giedion riconosce che l’arredamento della vita quotidiana, gli oggetti senza rilievo che sono il risultato della produzione in serie – cucchiai, bottiglie, bicchieri, tutte le cose che guardiamo ora per ora senza vederle – sono diventate parte della nostra natura. Esse si sono intrecciate nelle nostre vite, senza che noi ce ne accor­gessimo. Giedion esprime il nucleo dell’indagine che lo porterà negli anni seguenti, durante il suo secondo soggiorno negli Stati Uniti, alla scrittura del più importante testo sulla storia ed evoluzione del progetto in epoca industriale. Ci riferiamo qui a: Mechanization Takes Command: A Contribution to Anonymous History, pubblicato a New York nel 1948; testo che può essere considerato come fondativo per la storia del design, il cui titolo diventerà in italiano: L’era della meccanizzazione, traduzione che riteniamo im­propria e parziale. In primo luogo perché il testo di Giedion non si riferisce ad un periodo storico circoscritto, bensì ad un processo, quello del­l’affermazione graduale dei principi che la meccanizzazione genera nell’organizzazione delle attività produttive e della vita quotidiana, così come nella trasformazione dei modi della creatività che attraversa diverse epoche. Lo studio di Giedion prende in esame fatti avvenuti nell’arco di un millennio, fatti eterogenei, ma a cui applica una stessa attenzione, uno sguardo che giunge a configurare un’inedita fenomenologia della meccanizzazione. Sotto questa luce la costruzione dei motori e quella degli utensili, quella del mobilio come la configurazione dell’ambiente domestico appaiono frutto di un unico insieme di processi. La traduzione del titolo in italiano omette l’approccio diacronico dell’analisi: l’autore svolge un percorso a partire da alcuni casi studio emblematici, disinteressandosi di fornire un quadro dello sviluppo complessivo del sistema industriale entro cui si colloca l’indagine storica. In secondo luogo, nel titolo in italiano, è omesso del tutto il predicato, quello che sostanzia i principali interrogativi di Giedion: Takes Command vuol dire alla lettera: prende il cocontinua...


fasc. n. 145 settembre 2012

Che cos’è la critica

www.opcit.it/61

RENATO DE FUSCO

Una delle parole più usate nel linguaggio moderno è «critica» e con un senso, per un verso, tra i più banali, per un altro, tra i più problematici. Secondo Wikipedia, la critica, dal greco κρινω (di­ stinguo) è un esame circostanziato di un fatto o di un’opera let­ teraria, scientifica, teatrale, artistica, valutandone gli aspetti contenutistici, estetici e storici. Spesso per critica si sottintende che in essa si debbano riportare, prevalentemen­te, pareri antite­ tici e negativi: ciò non è sempre vero, ma va notato che ha spesso maggior rilevanza la confutazione o stroncatura di un’opera ri­ spetto a una descrizione elogiativa della stessa. Insomma anche il sapiente web conferma che, almeno in parte, solitamente per critica s’intende dir male di qualcuno o qualcosa. Per una prima identificazione della critica leggiamo dalla stessa fonte: Lo sviluppo storico delle forme cultu­rali evidenzia una stretta connessione tra la cri­ tica sia con la creazione artistica sia con i modelli ed il pensiero filoso­fico, estetico ed etico. Quindi esiste una “saldatura” fertile fra le idee sviluppatesi in un contesto sociale nei riguardi delle attività artistiche e la produzione di tipo intellettuale che viene denominata “critica”, che consente un passaggio di influenze re­ ciproche. Per quanto riguarda la cultura occidentale, la nascita della critica può coincidere con le prime tracce di valutazioni estetiche-critiche presenti nelle ope­re di Aristotele, di Platone e nelle commedie di Aristofane (http://it.wikipedia.org/wiki/critica). Oggetto del saggio In questa sede, oltre a smentire la suddetta rilevanza negativa, si vuole indagare sul significato più profondo del termine «critica», ovvero conoscerne la natura, la struttura, il suo statuto; e ciò al di là della «critica d’arte» che fa la parte del leone nell’uso del nostro termine, mentre nella real­tà quotidiana si parla di critica a proposito di tutto l’agire umano, dalla religione alla politica, dai fatti della continua...

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fasc. n. 145 settembre 2012 www.opcit.it/62

Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri PASQUALE BELFIORE

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Uno dei romanzi più recenti di Andrea Camilleri – Dentro il labirinto, Skira 2012 – affronta il tema della morte di Edoardo Persico. L’incursione nel genere delle storie del­l’arte da parte d’uno dei narratori italiani di maggior successo non è inedita, essendosi egli già occupato di Caravag­gio e Renoir. Inattesa invece lo è nel caso di Persico la cui scomparsa nella notte tra il 10 e 11 gennaio del 1936 è stata da sempre attribuita a una crisi cardiaca in soggetto già da tempo sofferente. Da quella data a oggi, in più d’una occasione il nome di Persico e le cause della sua morte sono stati riportati alla luce in ambienti non di architettura, con Gualtiero Peirce, Leonardo Sciascia (senza risultati) e Oreste Del Buono che ne scrisse sul supplemento «Tuttolibri» de «La Stampa» nel 1993. Il giudizio su questo ritorno più recente dell’enigma Persico è controverso. Il libro è stato accolto in ambiente letterario con il consueto favore riservato ad ogni uscita editoriale di Camilleri. È stato invece recensito con motivate riserve in sedi più specializzate da critici e storici dell’architettura con la sola, incomprensibile eccezione di «Casabella», la rivista di Persico. Ricorrendo per ora alla consueta formula valutativa degli spettacoli sulla stampa, si potrebbe dire che il libro ha riscosso successo di pubblico ma non di critica. Giudizi calzanti appieno, l’uno e l’altro, perché il romanzo è ben riuscito nel suo genere ma le riserve avanzate dalla critica architettonica appaiono ragionevolmente fondate. Ammesso (ma non concesso) che parole come enigma e labirinto siano del tutto confacenti alla biografia di Persico, alla fine della lettura si ha la netta sensazione che l’enigma non sia stato sciolto, dal labirinto non si sia usciti e la soluzione – per dichiarazione dello stesso Camilleri – sia stata affidata alla “invenzione narrativa” e dunque tutta dentro una finalità letteraria. Se le cose sono in questi termini, perché allora conferire al libro quel carattere di romanzo storico che in realtà non possiede? Perché moltiplicare in modo esponenziale le motivazioni della morte e poi ammettere che nessuna di esse è dimostrabile? Perché inserire dettagli continua...


fasc. n. 149 gennaio 2014

Maker

www.opcit.it/63

SERGIO PONE, SOFIA COLOBELLa

Se fai qualcosa, gira un video. Se registri un video, postalo. Se lo posti, diffondilo tra i tuoi amici. I progetti condivisi online di­ ventano ispirazione per altri e opportunità di collaborazione. I singoli maker, connessi glo­balmente in questo modo, diventano un movimento. Milioni di appassionati del fai-da-te, che una vol­ ta lavoravano da soli, improvvisamente cominciano a lavorare insieme. Le idee, una volta condivise, si trasformano in idee più grandi. I progetti condivisi diventano di gruppo e … possono da­ re origine a prodotti, movimenti e persi­no settori economici. Il semplice fatto di “fare le cose in pubblico” può diventare il moto­ re dell’innovazione, persino quando ciò non era voluto. Si tratta semplicemente di ciò che fanno le idee: quando vengono condivi­ se si diffondono. Chris Anderson, tra i primi studiosi del movimento dei Maker, definisce così questo nuovo e affascinante fenomeno; ma per comprenderne appieno la portata bisogna interrogarsi sulla natura del terreno in cui pianta solidamente le sue radici: il Web. La natura del Web La grande ragnatela mondiale (World Wide Web) vive e prospera nella dicotomia tra il vecchio principio del copyright (in italiano diritto d’autore) e quello più nuovo, dal nome, ironico ma denso di significati, di copyleft. Richard Stallman, fondatore della Free Soft­ ware Foundation e creatore del termine, lo contrappone al copyright (right in inglese oltre a “diritto” significa anche “destra”) usando il suffisso left, ovviamente come “sinistra”, ma anche con il secondo significato di “lasciato”. E infatti il web è il teatro delle più grandi battaglie del secolo per i diritti di sfruttamento commerciale di idee molto remunerative, ma è anche il luogo della libera circolazione di idee altrettanto interessanti e potenzialmente fruttifere, “lasciate” a disposizione di tutti. Per esempio la storia del sito più visitato del mondo dal 2009 al 2012, il motore di ricerca Google, è un intreccio continua...

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fasc. n. 150 maggio 2014 www.opcit.it/64

Abduzione e valutazione ROBERTA AMIRANTE

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Come si spiega che un insieme di soggetti che non condividono paradigmi scientifici (i docenti/ricercatori dei settori della progettazione architettonica) insegni una disciplina dallo statuto «incerto» nell’Università (e non più nelle Accademie)? L’ipotesi, solo apparentemente banale, che potrebbe spiegare il fatto sorprendente è questa: quei soggetti possono essere considerati un esempio di comunità scientifica; e il prodotto tipico di quella disciplina, il progetto di architettura, può essere considerato un esempio di attività scientifica. Ma come si fa a portare il progetto di architettura, se non dentro, almeno accosto alle pratiche della ricerca scientifica e della sua valutabilità?. Forse, piuttosto che continuare a domandarci in astratto se il progetto di architettura ha valore di ricerca scientifica, possiamo, più pragmaticamente, chiederci se può valere come ricerca scientifica. Non si tratta di aderire passivamente alle logiche, certamente discutibili, dei meccanismi recentemente applicati dalla nostra Agenzia di Valutazione o dalle commissioni di abilitazione, ma di cogliere opportunamente (e, visto come sono andate le cose, perfino «opportunisticamente») un segnale dei tempi. È tempo di trovare i modi per esibire il progetto come prodotto di una ricerca, magari non proprio scientifica ma almeno scientificamente disciplinata: «senza se e senza ma» rispetto alla sua origine (pura, applicata, professionale, didattica …) ma con svariati (e concordati) «se» rispetto alla sua potenziale «traduzione» in materiale valutabile da una comunità scientifica in grado di riconoscerne il valore. Compiti difficili: il rischio di ripercorrere sentieri interrotti è altissimo. Ma proviamo a metterla in un altro modo: immaginiamo che i membri della virtuale comunità scientifica composta da tutti quelli che insegnano la (e fanno ricerca sulla) progettazione architettonica nei Dipartimenti (Scuole, Facoltà, qui i nomi non contano: a oggi sono 475 tra ordinari, associati e ricercatori, quelli che hanno dovuto sottoporsi alla valutazione dell’ANVUR), delle Università italiane (tanto per cominciare, ma poi, prima possibile, di tante altre Università) si continua...


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Le pagine dell’ADI Associazione per il disegno industriale a cura di Dario Moretti

Che senso ha fare design partendo da un oggetto storico (anzi, da un documento che risale a un oggetto pensato nel III secolo a.C.) fondato su funzioni e tecnologie senza alcuna possibilità di diffusione sul mercato di oggi? Prendere le distanze dal mercato può far molto male al design, ma a certe condizioni fa benissimo alle idee dei designer e alla loro cultura professionale. In questo caso particolare ricostruire un esemplare funzionante di un orologio ad acqua il cui progetto è attribuito ad Archimede (e i cui disegni ci giungono attraverso un trattato arabo del X secolo) diventa un’iniziativa di design perfettamente attuale. Non si tratta di interpretazione filologica ma del percorso delle idee (principi fisici, concetti meccanici, idee formali) che occorre ricostruire e coordinare in un processo per arrivare a soluzioni progettuali concrete. Felice Ragazzo, docente di Tecnologie e Progettazione al Corso di laurea in Disegno industriale della Sapienza Università di Roma, insieme con un gruppo di lavoro del Centro di Ricerca e Formazione permanente per l’insegnamento delle discipline scientifiche del­l’Uni­­versità di Roma Tor Vergata, ha ricostruito l’orologio ad acqua di Archimede e illustra qui il percorso con tutte le sue ricadute positive: concettuali, formative e alla fine perfino di immagine del design italiano. Un percorso caratterizzato dallo stesso atteggiamento che sta alla base dei principi professionali che l’ADI sostiene dagli anni Ottanta e che ha recentemente ripreso con il suo Design Memorandum 2.0, il manifesto etico che esprime la fisionomia del designer nel prossimo futuro così come l’ADI vuole promuoverla: la figura di un professionista che frequenta le linee di confine tra scienza, tecnica, comportamento, percezione estetica, per farne una sintesi in un oggetto funzionante. Un percorso che – come dimostra il progetto dell’orologio di


ADI

Archimede – sfocia non solo in una salutare ginnastica mentale per i designer, ma anche in una fisionomia del Made in Italy e della creatività non propagandistica e quindi tanto più solida e duratura. Acqua, Tempo, Design Su Archimede e Abu\ lu\ nuyu\ s al-Nag¨ga¨ \r al-Handası \ Felice Ragazzo L’argomento vero e sostanziale sarebbe: Orologio acqueo archimedeo a ore disuguali, da manoscritti arabi: così è stato battezzato l’oggetto di cui parliamo, così recita la targhetta apposta a fine lavori (fig. 1). Ma, in squisita chiave progettuale, e dunque di design, la que­­stio­ne, così inquadrata, farebbe inevitabilmente cadere l’ac­cento sulla fisicità dell’oggetto, il quale, in effetti, è costituito da un sistema di vasche integrate in una sorta di impianto idrico. Ma è ben più significativo mettere in luce il fluire dell’acqua al suo interno, la quale, nella purezza che la identifica, incarna la funzione sublime di segnare il tempo che scorre. Dunque, come pure qualche altra volta nel design è capitato, l’oggetto della progettazione non ha tanto riguardato l’involucro o il contenitore, ovvero ciò che si tocca e appare a prima vista, bensì il sistema che anima la sostanza amorfa implicata. Più precisamente, ha riguar1. L’Orologio acqueo archidato il fenomeno che accade per via medeo a ore diseguali: disedel dispositivo approntato, solitamen- gno preparatorio del progette meno facile da percepire, in una to. Il dispositivo è assestato specie di scambio tra materiale e im- all’inizio del ciclo a ora zero (ore 6 del mattino). materiale, o meglio tra mezzo e fine.


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Tre motivi di interesse È bene subito chiarire il senso della locuzione “a ore diseguali”: nell’antichità vigeva il principio di suddividere in parti uguali il tempo dall’alba al tramonto, tempo che, mese per mese, ha lunghezze diverse. Va anche precisato il senso della locuzione “da manoscritti arabi”, poiché il documento su cui si è fondata tutta l’operazione è un manoscritto arabo risalente al X secolo circa, con la traduzione commentata di un testo, attribuito ad Archimede, a opera di Abu\ lu\ nuyu\ s al-Nag¨g¨a\r al-Handası \, oggi conservato a Parigi presso la Bibliothèque Nationale de France (fig. 2). Il manoscritto, arricchito da tre immagini, reca il titolo Trattato di pneumatica ed è relativo al meccanismo degli automi, degli organi, delle clessidre, etc.1.

2. L’Orologio acqueo di Archimede nel manoscritto arabo del X secolo conservato presso la Bibliothèque Nationale de France. 1   Il manoscritto fa parte di una collezione di trattati e frammenti di trattati conservati presso la Bibliothèque Nationale de France: Par: THÉODOSE. Auteur du


Acqua, Acqua, Tempo,Tempo, Design Design ua, Tempo, Design Su Archimede e Abūlūnuyūs al-Nağğār al-Handasī Su Archimede e Abūlūnuyūs al-Nağğār al-Handasī Archimede e Abūlūnuyūs al-Nağğār al-Handasī Felice Ragazzo Felice Ragazzo ce Ragazzo ADI

L’argomento vero e sostanziale sarebbe: Orologio L’argomento vero eOrologio sostanziale sarebbe: Orologio acqueo acqueo archime-archimegomento vero e sostanziale sarebbe: acqueo archimedeo disuguali, a ore disuguali, manoscritti arabi: così èbattezzato stato battezzato a ore da arabi: così è stato a ore disuguali, deo da manoscritti arabi: cosìmanoscritti è da stato battezzato Anche tipologia ‘orologi ad acqua’ va lavori subito l’oggetto di cui della parliamo, così la targhetta apposta a fine lavori l’oggetto di acuiriguardo così recita larecita targhetta apposta a fine getto di cui parliamo, così recita laparliamo, targhetta apposta a fine lavori fatta una precisazione. Se ne conoscono vari esempi, ma nessuno di (fig. 1). Ma, in squisita chiave progettuale, e dunque di design, la (fig. 1). Ma, in squisita chiave progettuale, e dunque di design, la 1). Ma, in squisita chiave progettuale, e dunque di design, la questione, così inquadrata, farebbe inevitabilmente cadere l’accento quelli noti ed esistenti può essere ricondotto al ‘progetto’ di Archiquestione, così inquadrata, farebbe inevitabilmente cadere l’accento stione, così inquadrata, farebbe inevitabilmente cadere l’accento sullaindell’oggetto, fisicità dell’oggetto, ilinquale, inèeffetti, è costituito da un sistema sulla quale, effetti, costituito da un sistema a fisicità dell’oggetto, il fisicità quale, effetti, è costituito da un sistema mede. Vedremo meglio inilche cosa consista la differenza e ciò costidi vasche integrate in una sorta di impianto idrico. Ma è ben vasche integrate in una sorta di impianto idrico. Ma è ben più si- più siasche integrate in di una sorta di impianto idrico. Ma è ben più situisce una felice sorpresa, la quale ­– una volta di più – mette in evignificativo mettere in luce il fluire dell’acqua al suo interno, la quale, gnificativo mettere in luce il fluire dell’acqua al suo interno, la quale, icativo mettere in luce il fluire dell’acqua al suo interno, la quale, denza la fecondità inventiva e la capacità anticipatrice in senso pronella purezza che la sublime identifica, incarna la funzione di segnare nella purezza chelalafunzione identifica, incarna la funzione sublimesublime di segnare a purezza che la identifica, incarna di segnare priamente moderno del genio siracusano. Si tratta del principio di ilche tempo che scorre. Dunque, come pure qualche altra nel design il tempo scorre. Dunque, come qualche altra volta nelvolta design mpo che scorre. Dunque, come pure qualche altra voltapure nel design retroazione. è capitato, della riguardato progettazione tanto riguardato capitato, l’oggettol’oggetto dellaha progettazione non ha non tantohariguardato apitato, l’oggetto èdella progettazione non tanto Intanto, già una questione strettamente l’involucro o si ilevidenziata contenitore, ovvero ciò che sie tocca e aappare l’involucro o ecco il contenitore, ciò che si tocca appare prima a prima volucro o il contenitore, ovvero ciò che toccaovvero e appare aprima prima legata all’originalità tipologica dell’oggetto ‘Orologio ad acqua’, vista, bensì il sistema che anima la sostanza amorfa implicata. Più vista, bensì il sistema che anima la sostanza amorfa implicata. Piùla a, bensì il sistema che anima la sostanza amorfa implicata. Più quale già di per sé motiva ampiamente l’attenzione prestata. precisamente, ha riguardato il fenomeno che accade per via del dispoprecisamente, ha riguardato il fenomeno che accade per via del dispoisamente, ha riguardato il fenomeno che accade per via del dispositivo approntato, solitamente meno da percepire, in una specie sitivoMa approntato, solitamente meno facile dafacile percepire, in una specie c’è molto altro che merita essere considerato. o approntato, solitamente meno facile da percepire, in di una specie scambio tra materiale e immateriale, o tra meglio tra di escambio traesempio, materiale immateriale, oalmeglio mezzo emezzo fine. e fine. cambio tra materiale immateriale, o meglio tra mezzo e fine. C’è,diper ile tema relativo calcolo della longitudine,

che non risulta così facile come quello della latitudine, basato, come Tredimotivi di interesse motivi interesse motivi di interesse Tre noto, sull’osservazione della stella polare.

Se si voleva conoscere la longitudine tra due località, per esemÈsubito bene subito chiarire il della senso della locuzione “a ore diseguali”: il senso locuzione “a ore diseguali”: ene subito chiarireÈ ilbene senso dellachiarire locuzione “a ore diseguali”: pio tra due isole o due città, ilbeninteso adiuna certa distanza, occorrenell’antichità vigeva principio suddividere in parti nell’antichità vigeva il principio di suddividere in parti uguali iluguali tem- il tem’antichità vigeva il principio di suddividere in parti uguali il temva concordare preventivamente la simultanea attivazione di due oropo dall’alba al tramonto, tempo che, mese per mese, ha lunghezze dipo dall’alba al tramonto, tempo che, mese per mese, ha lunghezze didall’alba al tramonto, tempo che, mese per mese, ha lunghezze dilogi in occasione di un’eclissi lunare, valutare il tempo trascorso fiverse. verse. e. Vaprecisato anche precisato ildella sensolocuzione della locuzione “dadifferenza manoscritti no all’alba successiva al successivo mezzogiorno. La di arabi”, anche il o senso “da manoscritti arabi”, anche precisato il Va senso della locuzione “da manoscritti arabi”, il documento si è longitudine. fondata tutta l’operazione è un manoilèpoiché documento sul’operazione sisuè cui fondata tutta l’operazione è un manotempo dava lacui differenza hé il documento supoiché cui si registrato fondata tutta èdi un manoscritto arabo al Xcirca, secolo circa, conantica, la traduzione commentascritto arabo risalente al un X secolo con la traduzione commentato arabo risalente al X Ecco secolo circa, con la traduzione commentadunque, surisalente di terreno di conoscenza con signifitatesto, di un testo, attribuito adattraente Archimede, adiopera di Abūlūnuyūs alta di attribuito ad a opera Abūlūnuyūs ali un testo, attribuito ad un Archimede, a opera diArchimede, Abūlūnuyūs alcativi risvolti tecnici, una seconda motivazione di interesse Nağğār al-Handasī, oggi conservato a Parigi presso la Bibliothèque Nağğār al-Handasī, oggi conservato a Parigi presso la Bibliothèque ğār al-Handasī, oggi la Bibliothèque perconservato l’OrologioaadParigi acquapresso di Archimede. Nationale de (fig. France manoscritto, arricchito da tre immagiNationale de France 2). (fig. Il manoscritto, arricchito da tre immagionale de France (fig. 2). Il manoscritto, arricchito da2). treIlimmagiSi può fare un ulteriore passo avanti e parlare di un terzoalmotivo ni, reca il titolo Trattato di pneumatica ed è relativo meccanismo ni, reca il titolo Trattato di pneumatica ed è relativo al meccanismo eca il titolo Trattato di pneumatica ed è relativo al meccanismo di interesse, tutto sulle vicende che1 hanno 1 degli automi, degli organi, delle clessidre, etc.1riportato Archidegli automi, degliincentrato organi, delle clessidre, etc. i automi, degli organi, delle clessidre, etc. mede al centro dell’attenzione degli studiosi rinascimentali. Se ne

1 1 Il di manoscritto fauna parte didiuna collezione trattati e frammenti di trattati conservati manoscritto fa parteedi collezione di trattati ediframmenti di trattati conservati anoscritto fa parte di unaIlcollezione trattati frammenti trattati conservati presso la Bibliothèque dePar: France: Par: THÉODOSE. presso Bibliothèque Nationale Nationale deAuteur France: THÉODOSE. Auteur duAuteur texte, du texte, o la Bibliothèque Nationale delaFrance: Par: THÉODOSE. du texte, texte, YAḤYĀ ibnibn Muḥammad IbnIbn abī?okr al-Maġribī (Moḥyī al-Dīn). Auteur dutexte, YAḤYĀ MuḤammad abī?okr al-Maġribī (MoḤyīAuteur al-Dīn). YAḤYĀ ibn MuḤammad Ibn al-Dīn). abī?okr al-Maġribī (MoḤyī al-Dīn). duAuteur texte, du YĀ ibn MuḤammad Ibn abī?okr al-Maġribī (MoḤyī Auteur du texte, texte, ARCHIMÈDE. Auteur MUḤAMMAD ibnal-Ḥusayn. al-Ḥusayn. Auteur du ApolARCHIMÈDE. Auteur du texte, texte, MUḤAMMAD ibn du texte, ARCHIMÈDE. Auteur texte, du MUḤAMMAD ibn Apolal-Ḥusayn. Auteur duAuteur texte, ApolHIMÈDE. Auteur du texte, MUḤAMMAD ibndu al-Ḥusayn. Auteur du texte, texte, Pergaeus (0262?-0190? av.‫راجنلا‬ J.-C.). Auteur du texteet et ‫سوينولوبا‬ lonius Pergaeus (0262?-0190? J.-C.). texte lonius Pergaeus (0262?-0190? J.-C.). av. Auteur duAuteur texte etdu ‫سوينولوبا‬ ‫راجنلا راجنلا‬ s Pergaeus (0262?-0190? av. Apollonius J.-C.). Auteur du texte et av. ‫سوينولوبا‬ ‫لا‬‫يسدن‬. du texte. Date: 1500 | disponible sur duAuteur texte. Date: 1500 | disponible ‫لا‬‫يسدن‬. du texte. 1500 | disponible sursur http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/ ‫يس‬. Auteur du texte. Date: 1500. Auteur |Auteur disponible sur Date: http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b52000453w ‫ت‬‫بيذ‬ ‫سويسودات تالاقم‬ http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b52000453w Contient: Contient: ‫ت‬‫تالاقم بيذ‬ ‫سويسودات‬ btv1b52000453w Contient: «Remaniement des /gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b52000453w Contient: ‫ت‬‫سويسودات تالاقم بيذ‬ traités de Théodose sur les sphères», par Moḥyî al-Dîn Yaḥyâ ibn Moḥammad ibn abî Schokr al-Maghrabî.; Traité de pneumatique, attribué à Archimède, touchant le mécaIII III Abu\ lu\ nuyu\ s al-Nağğār III nisme des automates, des orgues, des clepsydres, etc.; alHandasī, ṢanÆat al-zāmir.; ; Fragment d’un traité de géométrie.; «Traité du compas parfait et de la manière de s’en servir», par Moḥammad ibn al-Ḥosaïn. Per le figure dell’Orologio cfr. pp. 73, 83, 84.


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interessò Piero della Francesca, successivamente lo fecero, tra gli altri, Galileo Galilei e i suoi allievi Bonaventura Cavalieri ed Evangelista Torricelli. Tutto ciò, qualche secolo dopo l’influsso che la conoscenza archimedea esercitò sulla cultura araba. Al tempo stesso, merita considerare la piega che questo filone prese successivamente: la visione elaborata da Archimede con i suoi mezzi – sperimentali oppure intuitivi, ma non per questo meno rigorosi – non ha più avuto quel ruolo di timone negli sviluppi della scienza. Non più, quindi, intuizioni trasversali e sperimentalismi, ma sempre più astrazioni settoriali e immaterialità; motivo non secondario, tra l’altro, del rigetto e della disaffezione verso lo studio della matematica, che affliggono così largamente tanti di coloro che vi si avvicinano. Da Archimede a Bézier: il calcolo della parabola Per fornire un esempio del rinnovato interesse verso Archimede nel periodo rinascimentale, utile a spiegare aspetti relativi al nostro Orologio, ci si può riferire al metodo di costruzione della parabola, così come sviluppato da Cavalieri per studiare il moto dei proiettili (fig. 3); metodo fondato su quello archimedeo di calcolo dell’area del segmento di parabola. Tale metodo è definito “meccanico” e consiste nel mettere a confronto un segmento di parabola con un triangolo, come detto, sulla scia di un teorema archimedeo, di cui è qui fuori luogo dare conto. Senza ora entrare nei dettagli, merita tuttavia mettere in evidenza il fatto che si tratta di un metodo che permette di giungere in modo 3. Schema della costruzione della parabola secondo Bonaventura Cavalieri. rigoroso ad un ri­sultato di tipo


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matematico-geometrico, mettendo a confronto una coppia di pesi, secondo opportune modalità di bilanciamento. In effetti, da un lato sono poste come in un mazzo tante sottili striscioline di parabola, dall’altro tante altre di triangolo, rispettandone però la forma, come in una sorta di stadera. Si comprende al volo che tutto ciò allude al calcolo infinitesimale, le cui prime elaborazioni, a prescindere dalle precoci intuizioni archimedee, iniziarono proprio sul finire del Rinascimento. Ma va anche riportato che Archimede pervenne allo stesso risultato pure con la sola forza del pensiero, ricorrendo al cosiddetto metodo di esaustione, così altamente considerato anche ai giorni nostri2. Come già anticipato, ci interessa il metodo di costruzione della parabola di Cavalieri, in quanto, collegandolo al teorema di Torricelli, ne possiamo ricavare indicazioni progettuali per l’Orologio che ci interessa. Il criterio di costruzione della parabola è chiaramente indicato nella figura 3: consiste nel determinare una serie di punti tramite la combinazione di due tipi di velocità: uno, in orizzontale, a velocità costante, un altro, in verticale, a velocità uniformemente accelerata, ma che in una pratica di disegno consiste nel costruire un reticolo di parti uguali per lato in un parallelogramma, intrecciato opportunamente da una serie di linee radiali da un vertice3. Invece il teorema di Torricelli si può così sintetizzare: la velocità di fuoriuscita dell’acqua da un ugello è pari a quella di caduta, alla quota dell’ugello stesso, dato un certo dislivello. Ecco dunque qualche ulteriore accenno ad un modo di fare design, in diretta connessione con quelli che sono stati i prolegomeni di ascendenza rinascimentale, oggi da tutti richiamati, per dare lustro al Made in Italy. Davvero un motivo forte di attrazione. Un gruppo di lavoro Tutta questa materia, in senso squisitamente scientifico, è oggi oggetto di studio, ricerca e promozione culturale intrapresa dai professori Franco Ghione, direttore del Centro di Ricerca e Formazione 2   Cfr. F. Ghione, Archimede, Cavalieri, Bézier, in “Progetto Alice”, 2003 - I, vol. IV, n. 10. 3  Ibid.


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permanente per l’insegnamento delle discipline scientifiche dell’Università di Roma Tor Vergata, e Laura Catastini, componente del Consiglio Direttivo del Centro4. È altresì coinvolto un gruppo di scuole di livello superiore nella regione Lazio, in vista di particolari obiettivi pedagogico-didattici: in particolare quello di far di nuovo amare ad un pubblico di giovani generazioni, tra cui quello che magari in futuro farà design, la tanto deprecata matematica. Si è venuto così a formare un gruppo di lavoro interdisciplinare che lavora alla formazione di un “Museo della Scienza” itinerante5, anche in considerazione del fatto che, tuttora, nella città di Roma ancora non ha visto la luce un Museo della Scienza degno di una capitale plurimillenaria. Il gruppo di lavoro si avvale della collaborazione del Laboratorio di Didattica della Matematica e della Fisica dell’Università di Roma Tor Vergata, nella persona dell’esperto di didattica della Fisica dottor Giovanni Casini. Per la realizzazione fisica degli oggetti scientifici c’è la partecipazione dello studio di modellistica ArchDelta di Roma, rappresentato da Felice Patacca, con la collaborazione del modellista Walter Sergiusti. Infine occuparsi di design è toccato a chi scrive. Dell’iniziativa è venuto a conoscenza lo studioso di scienza araba Rosh-di Rashed6, il quale, vista la portata e la qualità dell’Orologio, si è fatto promotore di un secondo esemplare destinato al Museo di storia delle Scienze esatte di Mascat nel sultanato di Oman, attualmente in corso di realizzazione, ovviamente calibrato in base alla particolare longitudine. Il progetto dell’Orologio Come sempre, un progetto presuppone la disamina di ciò che è già stato fatto. Nella città di Roma, per esempio, esistono due splen4   Gli studi e le ricerche di Franco Ghione e Laura Catastini sono accessibili sul sito: http://crf.uniroma2.it. 5   La prima tappa dell’iniziativa è stata la mostra didattico-documentaria sulla figura di Archimede dal titolo Archimede e le sue idee, un museo itinerante, allestita presso l’IISS “Charles Darwin” di Roma dal 23 al 30 maggio 2014. 6   Rosh-di Rashed è considerato il più importante studioso attuale di scienza araba. È Directeur de recherche émérite al CNRS e professore onorario all’Università di Tokyo.


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didi e famosi orologi ad acqua o “idrocronometri”: uno al Pincio, l’altro nel cortile di Palazzo Berardi7. Nessuno dei due orologi acquei – così come nessun altro conosciuto, a dire degli esperti in materia – si conforma al disegno illustrato nel manoscritto arabo. Qual è la differenza? La mancanza del dispositivo che si rifà al principio di retroazione, la geniale e modernissima invenzione di Archimede. Ma per comprendere meglio tale principio di retroazione, secondo l’invenzione archimedea, è sicuramente d’aiuto dire subito come funziona il dispositivo. In astratto la cosa è semplice: trasformare un flusso d’acqua a velocità decelerata in un flusso a velocità costante. La velocità decelerata è quella che si osserva con il progressivo affievolirsi del getto, per potenza e gittata, con lo svuotarsi del recipiente; la velocità costante, invece, è quella che si osserva nel caso in cui il liquido che fuoriesce dall’ugello in basso sia costantemente rimpiazzato con analoga immissione dall’alto. In questo caso anche la forma del getto, ovvero il tratto di parabola che lo caratterizza, rimane immutata. Ed è così che ci sono le condizioni per valutare lo scorrere del tempo secondo moduli uniformi. In questo consiste l’essenza del concept di Archimede. Dalla teoria all’oggetto Come si passa dall’astratto al concreto? Ce lo indica chiaramente il disegno del manoscritto arabo, il quale, partendo dal basso e poi guardando da destra a sinistra delinea sommariamente i seguenti componenti: • Un recipiente di raccolta dell’acqua a fine processo. • Un serbatoio (impilato sul primo) contenente l’acqua da immettere nel processo. 7   L’idrocronometro sul piazzale del Pincio che dà su piazza del Popolo fu realizzato dal sacerdote e scienziato Giovan Battista Embriaco e dall’architetto comunale di origine svizzera Gioacchino Ersoch. L’idrocronometro di Palazzo Berardi, in via del Gesù 62, è collocato sulla parete di fondo del cortile e si vede bene dalla strada. Il progettista è sempre padre Embriaco, e lo si può far quindi risalire alla metà del XIX secolo.


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• Una sovrastruttura (ulteriormente impilata) che ospita una puleggia collegata tramite una corda ad un galleggiante, flottante nel recipiente di discesa. • Una vasca laterale in cui flotta in alto un galleggiante collegato alla valvola di regolazione e dotato in basso di un dispositivo di scarico che termina con un ugello. • La valvola di regolazione di cui sopra, interposta tra serbatoio di discesa e vasca di regolazione, composta da una sorta di imbuto rovesciato e da una pallina, rispettivamente collegati ad una tubatura discendente e al sottostante galleggiante. • Tubature, condotti e organi idraulici che strutturano il sistema. • Uno Zodiaco a semicerchio incentrato sul tubo che fuoriesce dalla vasca laterale a pressione costante, su cui è montato l’ugello. • Sommari dettagli costruttivi di supporto – piedini, alloggiamenti di riscontro, piccoli invasi sospesi di raccolta dell’acqua, etc. – vagamente ispirati alla cifra tecnico-costruttiva del periodo arabo antico, cui si riferisce il manoscritto. I principi alla base del progetto: retroazione, visualizzazione Una necessaria supposizione concerne il come si sarebbe potuto realizzare – sia al tempo di Archimede, sia a quello dell’estensore del manoscritto parigino – l’oggetto in discussione: due temperie diversissime a prescindere da ogni implicazione geografica, ma che potrebbero avere qualche affinità sotto il profilo tecnologico. In entrambi i casi, infatti, le probabili tecnologie avrebbero sottinteso, all’incirca, tanto i materiali ceramici, quanto quelli metallici (bronzo, rame, stagno, piombo…) oltre a quelli vetrosi, con elevata probabilità che fosse il tornio la macchina a presidio o a monte delle operazioni tecniche. Proprio i materiali vetrosi paiono essere i più suggestivi, in virtù della loro trasparenza. Infatti, soltanto con il vetro si sarebbe potuta osservare la fenomenologia più delicata e originale – oltre che più moderna – consistente nella valvola, la quale, connessa a un galleggiante, regola retroattiva-


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mente il flusso dell’acqua tra il serbatoio di discesa e la vasca a pressione costante un poco più in basso; vasca che ospita il galleggiante stesso. Si tratta di un dispositivo che permette di rendere costante il deflusso dell’acqua in questa seconda vasca attraverso l’artificio di mantenerne costante il livello. L’artificio consiste in un ‘annullamento’ degli effetti gravitazionali del progressivo svuotamento di un normale recipiente, tenendo presente che ciò implica una progressiva differenza di pressione e dunque una progressiva diminuzione di portata con lo scorrere del tempo. Infatti, con il semplice svuotamento, l’indice del tempo sarebbe rapido all’inizio e via via sempre più lento, a mano a mano che l’acqua si esaurisce. In effetti, attraverso la valvola, il fenomeno che si manifesta è più complesso e ciò motiva le virgolette sul termine ‘annullamento’; ed ecco dunque perché è giusto parlare di retroazione. Tutto si spiega con i passaggi infinitesimi di acqua attraverso la valvola, mediante gli infinitesimi abbassamenti del galleggiante (determinati dal flusso relativo all’ugello di scarico); abbassamenti che simultaneamente potenziano il flusso di ingresso (con l’allargamento della sezione di conduzione), ristabilendo pertanto l’equilibrio appena alterato (fig. 4).

4. Particolare del dispositivo archimedeo di retroazione, nella versione progettata per la versione qui descritta dell’Orologio acqueo.


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Retroazione e statistica sono temi importantissimi: hanno un grande impatto sulla modernità e perciò incidono profondamente nei sistemi produttivi e gestionali. Per questo hanno significativi riflessi anche nel design. Prendiamo per esempio i sistemi di controllo: tutti invariabilmente si conformano al principio di retroazione (feedback), di particolare importanza nel funzionamento dei centri di lavoro a controllo numerico, dove i processi di avanzamento degli utensili sono sempre frutto di continue ed istantanee ottimizzazioni. Qualcosa di simile si può dire a proposito del cosiddetto nesting: il processo volto ad ottimizzare il rapporto tra superficie data e porzioni da essa ricavabili con il minor scarto. Ma dove il principio di retroazione trova una delle sue massime espressioni industriali è nella cosiddetta “fabbrica a luci spente”, dove un intero processo produttivo, con controllo umano pressoché nullo, è frazionato in molteplici “magazzini intermedi” i quali si espandono o si contraggono a seconda che, nei segmenti successivi, rallenti o acceleri il processo. Un principio fondamentale, così moderno e al tempo stesso così vetusto, grazie al contributo originale da parte di Archimede. Ma torniamo all’Orologio acqueo. Si tratta ora di vedere come nel manoscritto arabo sia indicato il criterio di visualizzazione dell’artificio volto a trasformare un flusso decelerato in uno continuo, al fine di comunicare la misurazione del tempo. Bisogna osservare il galleggiante situato nel serbatoio di discesa nella colonna principale. Questo galleggiante, a mano a mano che scende, trascina con sé la corda che si avvolge sulla puleggia, facendola ruotare. Se su una delle due facce circolari della puleggia sono incise opportune tacche, le ore si possono leggere grazie a un’astina che fa da riscontro fisso. La visione dell’Orologio comincia a delinearsi più nitidamente, ma è ancora prematuro passare alle concrete fisicità di organi e materiali, poiché bisogna sviscerare la questione essenziale “ore diseguali”. Da un’ora all’altra Nella giornata, come si sa, il tempo di luce è più lungo d’estate e più corto d’inverno, con tutte le variazioni intermedie dettate dalle


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stagioni. Ma c’è di più: la differenza è maggiore via via che ci si avvicina ai Poli, mentre si riduce via via che si procede verso l’Equatore. All’Orologio occorre perciò un sistema che non soltanto trasformi un moto decelerato in uno continuo, ma che inoltre proporzioni il flusso di scarico secondo le diverse lunghezze della giornata nei due semestri. Più precisamente occorre un sistema che cambi in modo controllato – stagione per stagione, mese per mese e, con le possibili approssimazioni, giorno per giorno – la velocità di flusso dell’acqua all’interno dell’Orologio. Il manoscritto arabo delinea questo sistema con notevole chiarezza, ma per focalizzare meglio il funzionamento del dispositivo bisogna dar conto di un dettaglio: la forma a “collo d’oca” del dispositivo in cui è inserito l’ugello in basso nella vasca di regolazione. In questo modo, facendo ruotare il condotto di innesto nella vasca di tale dispositivo, la quota dello zampillo può variare rispetto al pelo dell’acqua, variando di conseguenza la pressione del getto e con esso la velocità di scarico e quindi, in definitiva, la lunghezza delle ore. Si tratta di un marchingegno che fa tesoro di un principio poi elaborato in teorema, come abbiamo visto, da Torricelli. Ora tutto il problema consiste nello stabilire la lunghezza del tratto di collo d’oca interposto tra ugello e condotto di innesto snodato e a tenuta stagna con la vasca, il quale, per altro verso, richiama il funzionamento di un pivot. Ecco come determinare questa lunghezza: stabilita una certa quantità d’acqua da immettere nel sistema, occorre fare in modo che lo svuotamento del serbatoio di discesa avvenga nel tempo di una giornata. Per primo è meglio valutare il tempo di svuotamento in inverno. Infatti, dovendo essere la pressione maggiore e quindi il dispositivo a collo d’oca disteso, l’ugello risulterà più in basso: in tal modo non rimangono residui nella vasca e tutto è più semplice. In seconda battuta va calcolato di quanto occorra alzare la quota dell’ugello (facendo ruotare fino alla posizione eretta il dispositivo a collo d’oca) per fare in modo che si riduca la pressione di scarico, in modo da rendere adeguato, in estate, il tempo di svuotamento del serbatoio. Naturalmente tutto è condizionato dal calibro dell’ugello. Come è noto, a tale riguardo, oggi è usualmente applicato il teorema di Bernoulli, peraltro collegato a quello di Torricelli.


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Lo Zodiaco e la longitudine Resta da precisare la corrispondenza tra angolo di rotazione del dispositivo a collo d’oca e data di misurazione: e qui entra in gioco lo Zodiaco, lo strumento con cui nell’antichità classica e in epoche successive si scandivano i mesi. Nel manoscritto arabo lo Zodiaco è indicato a forma di ventaglio semicircolare, incentrato sull’asse di rotazione del tratto di collo d’oca, che funge da perno di rotazione nel giunto a tenuta stagna con la vasca di regolazione. Ciò in modo che ogni posizione assunta dall’ugello, sia nel primo semestre, partendo dal Capricorno, sia nel secondo, finendo al Sagittario, fosse corrispondente al mese o giorno di riferimento. Rimane da chiarire che cosa occorra fare per adattare l’Orologio alle varie latitudini. In breve, occorre, via via che ci si avvicina all’Equatore, accorciare l’intervallo tra il picco di pressione massima e quello di pressione minima, ovvero tra ‘inverno’ ed ‘estate’. Il che si ottiene accorciando via via il segmento intermedio del dispositivo a collo d’oca. In pratica, se per Roma – con l’Orologio qui considerato – il segmento intermedio del collo d’oca misura 102 mm, per quello dell’Oman misura 3.2 mm, mentre per Bagdad, la città fulcro di tutta questa operazione, misura 80 mm. Per motivi di opportunità di gestione del funzionamento dell’oggetto il ciclo d’azione è stato fissato in un tempo di quattro ore. Inoltre va precisato che, secondo il parallelo di Roma, l’ora corta invernale risulta contratta a 45 minuti, mentre quella estiva risulta dilatata a 75. Naturalmente per misurazioni accurate entrano in ballo molti altri parametri, che presuppongono poi soluzioni pratiche nella sfera tecnica: vanno valutati gli attriti dell’acqua nelle condutture e la sua densità (qui le prove sono state fatte con acqua distillata, anche per prevenire eventuali incrostazioni); occorre calibrare con estrema precisione il diametro del foro dell’ugello; e deve essere massima la corrispondenza tra sfera e imbuto rovesciato nella valvola. Tutti i problemi relativi alla forma dello zampillo hanno avuto un risvolto nel Corso di Atelier da me condotto presso il Corso di


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laurea in Disegno Industriale della Sapienza Università di Roma. Tre brave studentesse, stimolate dalle parole d’ordine “energia – movimento”, “oggetto statico – oggetto dinamico”, hanno sviluppato una fontana a forma di bolla con tanti zampilli. Spinte non soltanto a disegnare le traiettorie applicando la parabola di Cavalieri (che non conoscevano), ma anche a sviluppare i calcoli per valutare portata, gittata e traiettoria (che invece in forma analitica conoscevano alla perfezione), per la prima volta – come mi hanno confessato all’esame – hanno avuto la percezione del nesso tra formula analitica e forma disegnata.

Il design: la forma dell’acqua Come sono state tratte le conclusioni per realizzare il design dell’oggetto? Sulla scorta delle posizioni espresse da Franco Ghione, ho avuto la netta sensazione che bisognasse resistere alla tentazione di approfittare dell’occasione per lasciare il tipico “segno”, disegnando forme di tubi e recipienti. Intuii che bisognava capovolgere la questione, dando forma alla cosa meno ponderabile: il flusso d’acqua che segna il tempo. L’oggetto, dunque, è diventato l’acqua. Nel design l’oggetto è ciò che si vede e che si tocca: sarebbe deleterio, in un progetto di questo tipo, occultare l’acqua in contenitori opachi, anche se di materiali pregiati. L’acqua era ciò che si doveva vedere, come il bario in una macchina a raggi X. Il tocco o la tangibilità potevano anche essere sublimati dalla più intensa e pregnante osservazione, quasi che l’acqua si materializzasse. Perciò tutto, o il più possibile, doveva risultare trasparente. Per il vetro – la scelta migliore – non c’erano né tempi, né budget adeguati, ma il Perspex (polimetilmetacrilato) ha concesso di utilizzarne al meglio le proprietà. Inoltre, mi è sembrato doveroso inchinarmi alla particolare poesia che emana dal manoscritto arabo: le sue tre immagini e quel poco di traduzione dall’arabo antico che si conosce hanno assunto il ruolo di reperto, con tutto ciò che può significare in termini di pregnanza delle fonti. Ma il compito vero era quello di vestire i flussi dell’acqua con un nuovo design. Lo spazio progettuale offerto per l’occasione era comunque ampio.


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Merita dar conto di alcuni aspetti particolari. Si voleva rendere tutto trasparente ma, in effetti, non tutto lo poteva essere: sarebbe stato tecnicamente troppo oneroso realizzare giunti e snodo a tenuta stagna con lo stesso materiale trasparente di vasche e tubi. La soluzione adottata, più che apprezzabile, è stata trovata facendo riferimento alla manualistica idraulica attuale, la quale per questo tipo di manufatti indica l’ottone. Lo stesso problema si è presentato per la viteria, dove il metallo di riferimento è stato l’acciaio inossidabile. Ma qui, per distinguere l’effetto trasparenza dei componenti in cui la viteria è inserita rispetto a quello dell’acqua, si è scelto di satinarli. Il risultato è una certa nebulosità delle forme metalliche, che implica una certa attenuazione di impatto visivo. L’ottone, un tempo accettato per i vistosi dispositivi idraulici, ha finito con l’avere il ruolo di materiale-guida anche in altri dispositivi, necessariamente metallici, per ragioni di ottimizzazione visiva. È il caso, per esempio, dell’albero che sospende la puleggia, oppure dell’astina che funge da lancetta delle ore. Qui, trattandosi di un particolare decorativo, l’ispirazione è stata quella di un onirico sole, splendente e fiammeggiante, grazie a un vetro sfaccettato (di produzione Swarovski) incastonato in una corona fittamente sagomata. Ho fatto cenno prima alla forma degli zampilli. In effetti, la costruzione della parabola, sulla base di un calcolo per determinarne le proprietà a partire da valori di pressione dell’acqua, si è resa utile per costruire il fascio di zampilli necessario a dimensionare il catino di raccolta, in rapporto con i molteplici getti dell’ugello di scarico. Anche il legno ha un ruolo: di legno è il basamento che sorregge ogni cosa e che si alza da terra su rotelle. La specie legnosa prescelta è il castagno, che possiede discrete doti di durabilità in condizioni di umidità elevata. In questo caso si è anche tenuto conto del fatto che, data la provenienza laziale, era disponibile la migliore qualità in Europa. Per facilitare il funzionamento ciclico dell’Orologio, riducendo al minimo il ricorso a interventi umani, occorre considerare un ultimo aspetto progettuale: l’approntamento di un impianto di risalita dell’acqua automatizzato al termine di ogni ciclo, con l’ovvio scrupolo di ridurre l’impatto tecnico e visivo al minimo.


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Un ultimo dettaglio: in una nota, parlando di parabole, è comparso il nome di Bézier. Non è comparso invano, poiché gli innumerevoli segni del modello digitale 3D, come spiega l’articolo di Ghione citato in nota, sono frutto dell’inventiva del celebre ingegnere, che per primo le sperimentò per disegnare le carrozzerie presso la Citroën agli inizi degli anni Cinquanta del Novecento. Infine, sostenuto dalle illuminate argomentazioni di Ghione e Catastini, rincuorato dal forte carisma di Rashed, aiutato dalle robuste com­petenze scientifiche di Casini, assecondato dalle straordinarie mani e CNC di Patacca e Sergiusti, convinto di un progetto forte e originale, il processo progettuale e realizzativo mi si è dipanato nel modo più avvincente. Tutto il resto va visto nel quadro del Made in Italy, interpretato per dialogare con il mondo in modo non stereo­ tipato. Bibliografia essenziale Hill, D., Arabic water-clocks, University of Aleppo, Institute for the History of Arabic Science, 1981. Descrizione di un orologio ad acqua monumentale, di periodo tardo, probabilmente inserito in una moschea a Cordova, in Spagna.


ISSN 0030-3305

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settembre 2014

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I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli

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