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Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco

Comitato scientifico

Comitato redazionale

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Roberta Amirante Pasquale Belfiore Alessandro Castagnaro Imma Forino Emma Labruna (Segretaria di redazione) Francesca Rinaldi Livio Sacchi

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Grafica Elettronica


L. Sacchi, P. Fameli, M.A. Sbordone,

La fine del disegno? 5 Happening come rituale dell’interazione 17 Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli 27 Libri, riviste e mostre 41

Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Michela Bassanelli, Mario Coppola, Cesare de Seta, Giovanni Multari, Massimo Visone.



La fine del disegno? LIVIO SACCHI

In questi ultimi anni si è molto parlato di fine del disegno. A Yale, per esempio, fra il 9 e l’11 febbraio 2012, si tenne un convegno intitolato Is drawing dead? All’evento, organizzato in coincidenza con l’apertura della mostra The Representation of Architecture, 1967-2012 dedicata al lavoro di Massimo Scolari, presero parte fra gli altri e oltre allo stesso Scolari: Mario Carpo, Peter Cook, Michael Graves, Greg Lynn, Juhani Pallasmaa, Patrick Schumacher, Preston Scott Cohen, Stanislaus von Moos, Marion Weiss. Al simposio fecero seguito un gran numero di successivi interventi, pro e contro la tesi, fra i quali quello di Peter Cook pubblicato su “Architectural Review” nello stesso anno. Nel 2014 è stato infine pubblicato il libro di David Ross Sheer The Death of Drawing, che fa il punto sull’argomento con una lunga e articolata dissertazione1. A chi attribuire la responsabilità di tale fine? Naturalmente alla nuova, o seconda rivoluzione digitale in generale, e alla diffusione del BIM, Building Information Modelling, in particolare. Non sappiamo in che misura l’ipotesi della scomparsa (o almeno del tramonto) del disegno come consolidato strumento di elaborazione progettuale dell’architettura sia realistica. Molti concordano tuttavia almeno sull’inizio di una nuova stagione, diversa da tutto ciò che ha segnato il nostro passato di architetti, anche quello più recente, e sulla necessità di rispondere a tali cambiamenti rifondando la nostra

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pratica professionale. Già nel 2005, nel corso del congresso annuale dell’AIA, American Institute of Architects, il Pritzker Prize Thom Mayne, titolare dello studio Morphosis, rivolgendosi agli architetti statunitensi, aveva parlato della necessità di un radicale cambiamento nell’organizzazione degli studi di architettura e, soprattutto, della metodologia progettuale: il titolo del suo intervento – non equivocabile quanto esplicitamente riferito all’avvento del BIM – era Change or Perish, che suona, più o meno, cambia se non vuoi chiudere. Sappiamo tutti, in realtà, che la sfera digitale, da almeno tre decenni, ha significativamente modificato la progettualità e la prassi costruttiva da diversi punti di vista, con mutamenti che appaiono effettivamente sostanziali. Se n’è parlato e scritto moltissimo, anche su questa rivista. Mayne, probabilmente esagerando un po’, aveva avvertito i progettisti americani che, senza convertirsi al BIM, molti qualificati studi sarebbero andati fuori mercato nel giro di cinque anni. Anche se ciò non è avvenuto, siamo tuttavia convinti che l’aut aut sia ancora valido e che ci troviamo dinanzi a una vera e propria rivoluzione, alla fine di un paradigma progettuale che ha storicamente funzionato molto bene per almeno cinque secoli e sulla soglia di una nuova era o, almeno, di una nuova stagione: una seconda rivoluzione digitale, la cui principale sfida è la riduzione del gap creato dalla prima tra il progetto, sempre più virtuale, e la costruzione, ancora inequivocabilmente reale, per citare la fortunata dicotomia utilizzata da Tomás Maldonado nel 19922. Anticipando che ciò che fa andare sostanzialmente in crisi la progettualità consolidata, anche quella più recente che dà comunque per scontato l’utilizzo del computer, è evidentemente l’esponziale crescita della complessità che contraddistingue la contemporanea industria delle costruzioni, proviamo dunque a esemplificare, ricordando dapprima, sinteticamente, due ambiti diversi – quello formale, legato cioè alla nuova estetica derivante dalla progettazione parametrica, e quello che definiremmo smart, che non è che l’evoluzione della domotica – per poi analizzarne più diffusamente un terzo, quello più propriamente proget-


tuale e che pertanto maggiormente ci interessa, legato infine al BIM. Il primo esempio – la progettazione parametrica, ampiamente utilizzata da molti degli architetti più noti e celebrati dalla critica internazionale – si segnala, se non altro, per la forte componente innovativa dal punto di vista formale. Si tratta del cosiddetto Computational Design, che si riferisce alle smart geometries, utili a rappresentare le forme complesse proprie di alcune ambiziose opere: più in generale, del ricorso a superfici geometriche non elementari rese possibili progettualmente dal ricorso ad algoritmi facilmente gestibili attraverso alcuni software grafici (per esempio Grasshopper) ed esecutivamente dal ricorso a macchine a controllo numerico. A tale famiglia è riconducibile gran parte della produzione più spettacolare e recente, in particolare quella afferente alle superfici rigate (usate peraltro con successo, e molto prima dell’avvento dei computer, già da alcuni maestri della modernità a cominciare da Pierluigi Nervi) e alle forme ameboidi, spesso arditamente quanto impropriamente aerodinamiche, tese a suggerire fluidità, dinamismo, sinuosità ecc., spesso prese a prestito da alcuni prodotti di design. I risultati formali raggiunti, spesso interessanti, sono anche indubitabilmente esposti a un alto grado di arbitrarietà morfologica. Ricordiamo per concludere che, collegato a tale ambito parametrico, è il ricorso alle stampanti tridimensionali applicate all’edilizia (3D printing to build), che, sia pur limitatamente a volumetrie semplici, si sta diffondendo soprattutto nei casi in cui è prioritario ridurre i costi di realizzazione. Il secondo esempio è costituito dagli edifici smart o intelligenti. In questo caso l’apporto del digitale non incide sulle forme architettoniche, quanto piuttosto sul funzionamento della fabbrica. Una casa smart, com’è noto, è in grado di dare il benvenuto a chi vi abita aprendo le tapparelle o accendendo le luci, gli impianti di riscaldamento, condizionamento o ventilazione; tenendo sotto controllo il livello di umidità dell’aria oppure attivando una serie di elettrodomestici; ma anche di sostituirsi al buonsenso dei suoi abitanti

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aprendo o chiudendone le finestre a seconda delle temperature esterne e interne o della presenza di vento o pioggia; di allertare il proprietario nel caso di visite sgradite; di adattarsi ai diversi membri della famiglia e alle loro personali abitudini, di innaffiare le piante o dare da mangiare agli animali domestici; di rispondere a esigenze specifiche, anche emergenziali: per esempio a situazioni di carenza idrica, a condizioni meteorologiche avverse o a calamità naturali; di consentire livelli di comfort dignitosi all’interno di spazi minimi; di permettere mobilità e autonomia a disabili anche molto gravi; di proteggere gli anziani soli controllandone i comportamenti e chiedendo aiuto in caso di necessità ecc. Collegata a tale ambito è la sperimentazione di nuovi materiali intelligenti: si pensi ai cementi trasparenti o autopulenti che sono entrati a far parte con successo della migliore progettualità contemporanea. È interessante peraltro osservare come tutto ciò possa abbastanza facilmente venire applicato alle città e all’edilizia storica: inadeguate alle esigenze della modernità (si pensi all’inefficienza dei nostri centri per il traffico automobilistico), si rivelano invece altamente flessibili ai fini della loro progressiva digitalizzazione. Non va tuttavia sottovalutato che la trasformazione dell’architettura e della città tout court in architettura e città smart prevede anche la trasformazione di abitanti e cittadini in smart citizens: una maturazione del senso civico e, soprattutto, dello spirito comunitario e di appartenenza non meno facile da raggiungere del retrofitting tecnico di edifici e quartieri3. Il terzo e ultimo esempio legato alla sfera della progettazione digitale è infine costituito dal BIM, com’è noto Building Information Modelling, ma anche Building Information Management ovvero Behavioural Information Modelling: un acronimo coniato nel 1992 e ulteriormente declinabile come Land o Geospatial Information Modelling, Infrastructure Information Modelling, Landscape Information Modelling, Urban o District Information Modelling se riferito al territorio, alle infrastrutture, al paesaggio, alla città o al quartiere piuttosto che agli edifici, in francese Bâtiments


et Informations Modélisés (le accezioni più aggiornate sono spesso riferite all’Information Management & Modelling oppure al Digital Engineering): un insieme di tecnologie digitali basate, anche in questo caso, su logiche parametriche che, coniugando dati geometrici e alfanumerici, sovrapponendo cioè immagini e informazioni, e assicurando coerenza alla progettazione grazie alla congiunzione con le logiche finanziarie e i quadri contrattuali del ciclo di vita del manufatto, sta assumendo importanza crescente all’interno dei processi di ideazione, rilevamento dell’esistente, progettazione, realizzazione, gestione e manutenzione dell’edificio per il ciclo completo della sua esistenza. Le origini del BIM risalgono agli anni Sessanta nel Regno Unito. In questi primi anni del 21° secolo, molti Paesi (dallo stesso Regno Unito a quelli nordici – in particolare Norvegia e Finlandia –, dalla Francia alla Germania, dall’Australia a Singapore, da Dubai a Hong Kong alla Corea del Sud) ne hanno fatto l’oggetto di politiche strategiche innovative nel settore delle costruzioni. L’anticipazione o il differimento delle scelte progettuali e l’integrazione fra saperi e discipline diverse, comporta la messa in discussione del primato autoriale dell’architetto da parte dei vari stakeholders, cioè, semplificando un po’, di tutti quelli che hanno in qualche modo voce in capitolo. Detto diversamente, l’architetto non è più al centro del processo progettuale e costruttivo, non ne è più l’unico regista: il suo primato è condiviso con altri, spesso più potenti comprimari: oltre agli ingegneri strutturisti e impiantisti, ci sono i costruttori, i fornitori di materiali e componenti, i committenti, i fruitori e gli utenti, gli sviluppatori (developers), gli investitori, i venditori, gli esperti di marketing e gli operatori immobiliari, i gestori, i manutentori ecc. L’architettura si avvicina così al design e al suo classico quadrifoglio, a suo tempo delineato da De Fusco, composto da progettazione, produzione, vendita e consumo4. Un’architettura di successo, al pari di un prodotto di industrial design di successo, è tale nella misura in cui risponde almeno a tali quattro punti. È lo stesso ruolo dell’architetto, delineato da Leon Battista

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Alberti come creatore di forme più che come costruttore, un ruolo che per circa sei secoli ha retto la progettualità occidentale prima e globale poi, con l’affermazione più o meno esplicita della superiorità della conoscenza teoretica su quella pratica, a essere radicalmente messo in discussione rischiando di avvicinarsi piuttosto a qualcosa di simile a quanto collegialmente esperito dai maestri costruttori medievali (fatto salvo un livello infinitamente maggiore di complessità) con conseguenze diverse: la prima delle quali è la progressiva perdita dell’autorialità e il graduale avvicinamento a forme di creatività open source. La progettazione non si basa più sullo sviluppo di un’unica ipotesi, frutto dell’intuito creativo dell’architetto: si cerca invece di tenere in vita, il più a lungo possibile, ipotesi diverse, valutandone la qualità prevalentemente in base alle prestazioni dell’edificio e al possibile comportamento dei suoi occupanti. Si determina, nei fatti, un intreccio fra modellistica e monitoraggio di prestazioni e comportamenti: ciò modifica, epistemologicamente, la natura del prodotto immobiliare e infrastrutturale, mescolando inevitabilmente e in maniera inedita, ruoli, responsabilità e identità dei diversi attori sulla scena dell’industria delle costruzioni. L’intera commessa dipende insomma dalla qualità dei cosiddetti EIR, Employer’s Information Requirement, della formulazione dei fabbisogni informativi della committenza, e dei BEP, BIM Exe­cution Plan, da parte di progettisti, costruttori e gestori. Un processo progettuale che, seguendo procedure codificate quali la Work Breakdown Structure e la Organization Breakdown Structure, realizzi virtualmente, ovvero simuli la costruzione dell’opera. Inutile sottolineare che, in assenza di un committente in grado di configurare i fabbisogni di ciò che viene richiesto e acquistato, l’intero processo digitalizzato ne risulta, in larga misura, compromesso: ciò implica, per esempio, che le simulazioni didattiche, solitamente prive di richieste circostanziate, siano destinate a restare in un ambito ancor più dichiaratamente privo di relazioni con la realtà. Di converso, il principale obiettivo del BIM è, come abbiamo detto, la riduzione del gap fra proget-


tazione e costruzione: possiamo immaginare che ciò contribuisca ad avvicinare l’architettura al suo essere, prima di tutto, arte del fare?5. Le strategie BIM hanno portato alla definizione di road maps che vertono sulla Smart City e sulla Smart Land (ciò che ci riporta al secondo esempio): nel Regno Unito lo UK BIM Task Group parla di Digital Built Britain, in Germania di Bauen Digital, in Francia di Comité de pilotage; in Norvegia è stata delineata una vera e propria strategia industriale di lungo periodo denominata Construction 2025 e corredata dal lavoro di educazione culturale e strumentale del­ l’intero sistema dell’industria delle costruzioni da parte di una task force, attivata già a cominciare dal 2011. Un simile sforzo di coinvolgimento di tutti gli operatori economici risulta molto più decisivo di quanto lo possano essere generiche imposizioni legislative. La Commissione Europea ha comunque recentemente istituzionalizzato e istituito una re­ te comunitaria di rappresentanze governative per i processi di committenza digitalizzati (si parla dei temi più eterogenei: dall’obbligo di considerare l’ambiente costruito come primo fattore di una strategia che include anche i trattamenti farmacologici e clinici, un problema conseguente al progressivo invecchiamento della popolazione, alla centralità delle istituzioni finanziarie chiamate a dare supporto agli investimenti immobiliari e infrastrutturali). Un cambiamento di paradigma che si ripercuote dunque anche sugli aspetti assicurativi e giuridici concernenti la proprietà intellettuale e la responsabilità civile e amministrativa, inclusa la co­siddetta Cyber Security. Una rivoluzione dunque, che, una volta raggiunta la sua piena esplicitazione, rischia seriamente di escludere gran parte delle mentalità e delle professionalità attualmente prevalenti, esigendo invece competenze, culture e saperi molto distanti da quelli oggi disponibili. In un quadro sempre più futuribile, è ipotizzabile che i cosiddetti Intelligent Clients competano sui mercati finanziari globali per attirare risorse verso gli investimenti in grado di mitigare i rischi attraverso una maggiore efficienza del processo progettuale? Che la competizione tra Paesi e so-

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prattutto fra diverse aree metropolitane modifichi sostanzialmente l’ambiente antropizzato? Viene così data vita a una nuova progettazione integrata che non è che una vera e propria simulazione dell’attività costruttiva in tutte le sue fasi: un metodo di lavoro che consente ad architetti, strutturisti, impiantisti, paesaggisti, interior designer, costruttori, produttori, committenti, investitori, gestori, manutentori ecc. di condividere l’intero processo in maniera informatizzata e dialogare facilmente, evitando – o almeno minimizzando – errori e interferenze. In molti Paesi il BIM è visto come l’indispensabile premessa a ogni seria politica industriale nel settore edile e infrastrutturale, ha già raggiunto grande diffusione e viene – il processo è in atto da alcuni anni – reso gradualmente obbligatorio a seconda del tipo di committenza e dell’impegno economico richiesto. Si tratta di una rivoluzione per il mondo delle costruzioni: i software BIM (quali, per esempio, Revit) sono infatti in grado di gestire, simultaneamente e in maniera coerente, diversi livelli di iconicità con una perfetta integrazione fra i primi concept ideativi, i rilievi elaborati mediante laser scanner, le rappresentazioni progettuali bi e tridimensionali, la relativa quantificazione di superfici e volumi, le specifiche tecniche esecutive, i cronoprogrammi nonché i cosiddetti as built, i grafici che registrano l’effettiva configurazione finale dell’edificio e le sue eventuali, successive modificazioni, integrando dunque le tre dimensioni dello spazio architettonico tradizionale con le variabili legate ai tempi e ai costi di realizzazione e gestione del manufatto (per cui si parla di 4D, 5D e anche 6D BIM). Il costante rilevamento dei lavori in corso di esecuzione, una volta trasformato in grafici 2D o 3D, è utilissimo sia per certificare ciò che è stato fatto, sia per ottimizzare ciò che resta da fare. In questo senso, il rilievo entra attivamente a far parte del processo di costruzione del nuovo in maniera storicamente inedita, all’interno di una più generale trasformazione dei modelli rappresentativi dell’architettura e della città in modelli che ne consentono la simulazione. Si parla spesso, in proposito, di leverage, cioè di “far leva” o di “effetto leva”,


indicando con ciò tutto quanto consente di ottimizzare previsioni e stime relative a tempi, quantità e costi. Un’attendibile rappresentazione 3D, consente infatti di passare al 4D e al 5D: si parla di 4D Scheduling per programmare e tenere sotto controllo i tempi di costruzione e di 5D Quantity and Cost per prevedere e controllare le quantità da produrre e i costi di tale produzione. Si parla infine di 6D Facility Model per tutto ciò che riguarda la gestione e manutenzione dell’edificio: il fatto che tali operazioni possano essere pianificate sul modello digitale prima di intervenire fisicamente sul campo significa lavorare di più sul software e meno sull’hardware, determinando evidenti quanto consistenti risparmi di tempo e di denaro e riducendo sostanzialmente i rischi. Ma ciò che è più interessante è che da una parte tali tecnologie contribuiscono in maniera decisiva a impedire gli sprechi purtroppo così frequenti nelle grandi opere pubbliche italiane (dallo stadio del nuoto di Santiago Calatrava al Centro Congressi Italia all’EUR di Massimiliano Fuksas, per limitarci a citare due noti casi romani), tenendo costantemente sotto controllo i costi di realizzazione, gestione e manutenzione, coordinando ogni fase della vita di un edificio dalla sua prima ideazione fino, teoricamente, alla sua demolizione; dall’altra esse stanno sostanzialmente alterando i tradizionali rapporti fra i diversi attori sulla scena edilizia (inclusi quelli con stakeholders e stockholders, cioè con committenti, proprietari, finanziatori e tutti coloro che, a titolo diverso, esercitano poteri decisionali sull’opera da realizzare). La posta in gioco è alta: come s’è detto, è la stessa autorialità come proprietà intellettuale dell’opera ad andare palesemente in crisi, approssimandosi alle nuove, diverse forme di condivisione proprie della contemporaneità più recente (non a caso, in contrapposizione al concetto di copyright, è stato coniato il neologismo copyleft). Parlando in generale di progettazione, Ratti ha inoltre osservato che ripartire da zero ogni volta che si vuole progettare qualcosa è semplicemente poco pratico, ed effettuare individualmente tutte le verifiche, la ricerca e lo sviluppo

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che la ‘massa’ è in grado di offrire, costa molto di più6. L’architettura del nostro futuro sarà frutto di uno sforzo intellettuale e creativo collettivo aperto, come lo è già un’opera enciclopedica quale Wikipedia? I concorsi di progettazione, cui pure si continua a guardare come al modo migliore per assegnare incarichi di rilievo, non stanno forse diventando un enorme spreco di risorse intellettuali e creative? Il ruolo ricoperto dagli investimenti pubblici e privati non può, almeno in alcuni casi, cedere il passo a nuove strategie di crowd-funding sociale? E la didattica dell’architettura – ricordiamolo: arte del fare – non va radicalmente rimessa in discussione alla luce del concetto di costruzione come educazione, dell’insegnare costruendo, dell’imparare facendo, superando cioè il divario tra la sfera digitale e quella fisica, come pure già avviene nei Fab Lab di MIT e di altre sperimentali scuole del mondo? Siamo forse agli esordi di un nuovo paradigma progettuale in cui l’architettura, come si è anticipato, diventa open source (secondo una logica ampiamente sperimentata e condivisa fra i creatori di software), frutto composito di innesti, ibridazioni e feedback diversi, aperta a una estetica hack, che significa “violazione” ma anche “improvvisazione”? In cui la professione, oggi duramente colpita dalla crisi, riuscirà i ridefinire i propri obiettivi, rendendosi più matura e consapevole del proprio ruolo sociale, dei propri limiti e dei limiti delle risorse? Di una rinnovata stagione dell’architettura della partecipazione in cui sia consentito a tutti di interagire creativamente, come già in diversi casi avviene nel campo dell’industrial design? Per concludere, tornando al punto da cui siamo partiti: cosa ne sarà del disegno? Siamo destinati a perderlo e a perdere, fra l’altro, il rapporto tra la sua stessa manualità e quella propria dei processi costruttivi? La rappresentazione sarà sostituita dalla simulazione? Ci auguriamo, naturalmente, di no, consapevoli del fatto che le novità si aggiungono a ciò che le ha precedute senza mai totalmente esautorarle. Ma altri interrogativi si affacciano: il tramonto della stagione, recente, in cui il disegno è stato prima di tutto strumento di comunicazione dell’architettura lo riporterà,


auspicabilmente, a un ruolo di strumento privilegiato della riflessione progettuale?7. Ancora: il nostro lungo ragionamento va riferito esclusivamente all’edilizia o va invece a investire anche l’Architettura? E infine: se siamo convinti di trovarci agli albori di una nuova era (o meglio, meno enfaticamente, di una nuova stagione) per l’industria dell’edilizia, quest’ultima sarà davvero in grado di produrre più velocemente, a costi inferiori e con minori emissioni, un ambiente costruito e infrastrutturato digitalizzato, condiviso, sostenibile, efficiente e intelligente in vista della gigantesca crescita (+ 70%) del mercato globale delle costruzioni prevista per il 2025?8. In molte parti del mondo sembra che sia già così. Se ciò è vero, forse non ha senso piangere su ciò che è accaduto. Singoli architetti potranno restare fedeli ai propri valori, se lo vorranno, ma la disciplina nel suo insieme è già impegnata in una sfida radicalmente diversa. In architettura, le condizioni determinate dalla simulazione, che appaiono sterili alla luce della tradizione, possono offrire nuove possibilità se viste con occhi diversi. Per continuare a fare gli architetti, dobbiamo cambiare le nostre idee9.

1  D. Ross Sheer, The Death of Drawing, Architecture in the Age of Simulation, Routledge, London and New York 2014. 2  T. Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1992. 3  C. Ratti, Smart City Smart Citizen, a cura di M.G. Mattei, Egea, Milano 2014. 4   Cfr. R. De Fusco, Filosofia del design, Einaudi, Torino 2012. 5   Cfr. V. Gregotti, Contro la fine dell’architettura, Einaudi, Torino 2008. 6  C. Ratti, Architettura open source. Verso una progettazione aperta, Einaudi, Torino 2014, p. 71. 7   Cfr. V. Gregotti, Il Disegno come strumento di progetto, Marinotti, Milano 2014. 8  Cfr. Il mercato delle costruzioni 2015, XXII Rapporto congiunturale e previsionale CRESME, CRESME, Roma 2014. 9  D. Ross Sheer, op. cit., p. 192.

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Happening come rituale dell’interazione PASQUALE FAMELI

Una riconsiderazione critica del concetto di happening che si ponga al di là di eccessive segmentazioni categoriali risulta oggi quanto mai necessaria, non solo per riconoscere a esso una certa autonomia rispetto al teatro, ma anche per cercare di inquadrare un simile fenomeno nel clima culturale a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e i primissimi anni Sessanta, affidandoci alle preziose prospettive teoriche di Allan Kaprow e Jean-Jacques Lebel. L’ormai popolare etichetta di happening viene usata per la prima volta nel 1959 dallo stesso Kaprow in un articolo pubblicato sulla rivista letteraria «The Antologist» e trova piena consacrazione con le azioni eseguite dall’artista statunitense, allievo di John Cage, presso la Reuben Gallery di New York nell’ottobre dello stesso anno: 18 Happenings in 6 Parts. Lo segue a ruota Red Grooms con Play Called Fire, The Walking Man e The Burning Building, mentre arrivava anche una qualche conferma dai “vecchi parapetti” europei con Hommage à John Cage eseguito da Nam June Paik alla Galerie 22 di Düsseldorf. Il 1960 è un anno esplosivo, che vede la realizzazione di numerosi eventi newyorkesi: alla Reuben Gallery si susseguono infatti The Big Laugh e Coca Cola, Shirley Cannonball? di Kaprow, The Small Cannon, A Small Smell e American Moon di Whitman, The Magic Train Ride di Grooms, Snapshots from the City di Oldenburg, The Smiling Workman, The Car Crash e The Shi-

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ning Bed di Jim Dine. Nel 1961 emerge invece una scena europea per la quale va riconosciuto a Lebel il ruolo di apripista, poiché già autore nel 1960 di una Cérémonie funèbre a Venezia, e non a caso definito da Nam June Paik come figure de proue du Happening en France et en Europe1. L’esplosione mondiale di Fluxus e il suo battesimo europeo tenutosi a Wiesbaden nel 1962 ha poi concimato il terreno per una nuova fioritura, tanto che nel 1963 si registrano la pur breve adesione di Joseph Beuys al network di Fluxus, il passaggio del Wiener Aktionismus di Hermann Nitsch e Otto Mühl dalla pittura “sanguinaria” alla performance “rituale” e, in luglio, la presenza di Allan Kaprow a Parigi con un happening realizzato presso i magazzini Au Bon Marché. Il moltiplicarsi delle esperienze europee nel 1964, come ad esempio quelle di Gabor Altorjay a Budapest, di Milan Knížák a Praga o di Edward Krasinski a Varsavia, non impedisce allo happening di conoscere comunque il suo momento di massima maturazione a New York con Calling di Allan Kaprow, culmine di quel graduale processo di conversione dello spettatore in partecipatore cui si ambiva sin dall’inizio: le varie azioni di Calling erano infatti state avviate in momenti diversi e in zone sparse e distanti della Grande Mela, così che nessuno potesse avere una visione realmente completa e globale del loro svolgersi. Al susseguirsi di eventi, spettacoli e performance tra America ed Europa, si aggiunge inoltre un proliferare di etichette, a dire il vero capziose e dai confini piuttosto labili, per via della tendenza degli artisti stessi alla formulazione di nomenclature personali e arbitrarie, con pretese distintive spesso irrilevanti: Theater Pieces per Robert Whitman, Comedies per Red Grooms, Ray Gun Theatre per Claes Oldenburg. A queste si aggiungono altre sottocategorie coniate sul campo e accumulatesi in pochissimi anni: Cock Fight o Pocket Drama per azioni da svolgersi in piccoli ambienti intimi come studi, camere, cantine, Extravaganza per concertazioni di poesia, danza e musica che mescolano il circo al vaudeville, Guided Tour o Pied Piper per itinerari e percorsi attraverso cui guidare gli astanti a scoprire ciò che


succede abitualmente in quei luoghi, Suggestions per brevi frasi simili ad haiku giapponesi eseguibili solo sul piano concettuale, Activity per la partecipazione a comuni atti della vita di tutti i giorni, e infine Event per brevissime azioni compiute di fronte a un pubblico che assiste frontalmente come in una comune rappresentazione teatrale o in un concerto musicale. Frattanto anche la critica ha offerto definizioni diverse del medesimo fenomeno, senza giungere a un preciso accordo sulla sua allocazione nell’ambito del teatro o in quello delle cosiddette arti visive, sostanzialmente riconducendo ciascuno il fenomeno al proprio campo di interesse, testimoniando una volta di più, la complessità dell’operazione. Michael Kirby, ad esempio, considera lo happening come una forma di teatro in cui diversi elementi alogici, compresa l’azione scenica priva di matrice, sono montati deliberatamente insieme e organizzati in una struttura a compartimenti2, mentre Pierre Restany lo definisce più semplicemente come sintesi dell’informazione artistica3, non nascondendo una certa preferenza per l’ambito del visivo, linea sposata anche da Susan Sontag che, rifacendosi alla dicitura di teatro dei pittori, usa definizioni come collage animati o trompe-l’œil animati4. A questa linea critica sembra, in una qualche misura, dare ragione anche lo stesso Kaprow quando ammette che le origini dello happening non vanno cercate tanto nel teatro, quanto ricondotte a un momento topico della ricerca pittorica statunitense5, e cioè a quella via al di là del cavalletto6 riconosciuta da Clement Greenberg al dripping di Jackson Pollock, che ha aperto a una concezione coreutico-gestuale del fare artistico, permettendoci di annoverare tra i precedenti dello happening anche il gruppo Gutai di Osaka. Ma al di là di tutte le possibili segmentazioni tassonomiche proposte a caldo da artisti e critici, è opportuno stabilire innanzitutto quali siano i tratti dominanti di un simile fenomeno per comprenderne la natura profonda, partendo proprio da quella generica ma significativa affermazione di Kaprow per cui gli happenings sono eventi che semplice-

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mente accadono7. L’ineffabile ambiguità dello happening, votato alla più incondizionata mescolanza di gesti, approcci e materiali eterogenei senza matrice, si amplifica infatti nella sua continua oscillazione tra lo “spettacolo”, nella sua più generica accezione etimologica, e quindi ciò che attrae lo sguardo, e l’azione “partecipata”, che riconfigura di volta in volta il ruolo degli astanti. Proscritti gli specialismi del teatro tradizionale, gli apparati e la “quarta parete”, le poetiche dell’accadimento si collocano nell’orbita di decostruzione delle sintassi sceniche, delle arti visive, della declamazione poetica e della musica attuando una “deterritorializzazione” (Deleuze-Guattari) di queste unità precostituite, disponendo tutti i residui di queste forme espressive su un piano di radicale orizzontalità, nella libera combinazione di compartimenti autonomi, animata da fluide sinergie e continue ibridazioni intermediali. Rifiutando le capacità interpretativo-psicologiche dell’attore convenzionalmente inteso, le poetiche dello happening riconducono il ruolo dell’operatore al compimento di gesti comuni, ma privati della loro funzione quotidiana, per assumerli così come pratiche puramente estetiche. La voluta elusione della possibilità di produrre significato e il continuo ripiegarsi del senso su se stesso veicolano e dichiarano la necessità di scatenare concatenamenti interattivi tra individui che non giungano ad alcun obiettivo: si fa, infatti, leva sul processo nel suo divenire, rispondendo a un “principio di indeterminazione” che, in alcuni casi, ambisce a uno sviluppo esteso, dilatato, potenzialmente infinito, senza soluzione di continuità. Imprevedibilità e probabilismo dominano, come nel flusso dell’esistenza, lo svolgersi delle azioni e la continua riconfigurazione “schismogenica” (Bateson), quel processo di differenziazione delle norme comportamentali del singolo soggetto che scaturisce da interazioni cumulative tra più individui. Negli happenings si ripropongono infatti le indomabili logiche della vita stessa, canalizzate in un flusso spaziotemporale non frazionabile ma continuo, nella “durata” (Bergson), gesti, spostamenti e deviazioni che il singolo partecipante pone condizionando, più o meno volontaria-


mente, la reazione dell’altro, e venendone, a sua volta, condizionato. Una simile relazione, nella quotidianità come nella ricerca artistica più esplicitamente votata ai fatti esperienziali, può svolgersi in modi numerosi e diversi (fisicisti e massicci o sottili e discreti), ma pur sempre espressi in un’immediatezza e con una flagranza che, proprio come negli happenings, non possono ammettere progettazioni e organizzazioni precostituite, lasciando anzi alla casualità e all’indeterminatezza la regia delle azioni. L’attenzione si focalizza quindi sul processo di coinvolgimento, di interrelazione tra i partecipanti, e la pressoché totale assenza di parametri convoglia la globalità dell’atto performativo nel flusso indistinto dell’esperienza quotidiana. Le molteplici componenti di uno happening sono spesso autonome, non coordinate nel loro sviluppo, e si combinano in alogici rapporti simultanei su più livelli, in una sincronicità di avvenimenti non correlati che arrivano a mescolarsi, confondersi e complicarsi fino alla più irrimediabile entropia. Si tratta di veri e propri “comportamenti emergenti”, interazioni nonlineari tra gli elementi implicati che giungono alla formazione di schemi complessi a partire da regole e premesse semplici ed elementari, dinamiche rintracciabili anche nelle relazioni sociali. Quest’ultima considerazione risulta essere molto proficua ai fini di un’analisi che, pur riconoscendone l’autonomia, vuole comprendere e motivare la natura relazionale dello happening in un più ampio orizzonte epistemologico. Assecondiamo allora quella proposta di Filiberto Menna per cui la riflessione sull’arte di comportamento dà i propri migliori frutti se posta in una prospettiva sociologica, e ricordiamoci che proprio nel 1959, anno di nascita dello happening, il sociologo canadese Erving Goffman pubblica The presentation of self in everyday life, divenuto ormai un classico della disciplina. In questo saggio l’autore si propone di analizzare le dinamiche della socialità ricorrendo a un’antica metafora, quella della vita sociale come drammaturgia, come performance, presentandoci però un teatro

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“impoverito”, inteso come concreto spazio di interazioni effettive, investigato tanto nei suoi aspetti legati alla rappresentazione continuativa e costante, quanto in quelli della relazione casuale e del confronto umano anche solo episodico. Così come gli happenings si incentrano su azioni comuni e quotidiane, nella microsociologia di Goffman si rileva un’attenzione agli atti minimi della vita di tutti i giorni, a gesti solitamente considerati insignificanti (ma invece tra i più significativi), fino ad allora trascurati in quello stesso ambito disciplinare. Proprio per la mancanza di obiettivi specifici, per la concentrazione sull’agire in sé, quindi non finalizzato a perseguire un possibile obiettivo, si verifica spesso negli happenings quel tipo di interazione che Goffman dice non focalizzata, determinata quindi da una molteplicità di azioni simultanee alogiche e irrelate, in cui non esiste un condiviso focus di attenzione, ma solo una condizione di “co-presenza” in cui gli individui si espongono solo potenzialmente a ogni tipo di modalità interazionale. L’io del soggetto che prende parte a un happening si riduce, fin quasi ad annullarsi nella pluralità di azioni in cui si trova invischiato, privo di una responsabilità esecutiva singolare, ma co-partecipe di un processo generativo in cui l’identità, ben lungi dall’essere stabile, organica e duratura, si struttura localmente, manifestando a pieno la sua congenita mutevolezza, altro punto cardine del modello del sociologo nordamericano. In relazione a ciò, Goffman, rielaborando sul piano microsociologico idee fondamentali del pensiero di Émile Durkheim, intuisce come nella società contemporanea il self sia l’oggetto religioso, sacrale, di un nuovo “culto dell’individuo”, e che la sua presentazione e la sua continua ricostruzione si inverino in piccoli cerimoniali facenti parte della vita di tutti i giorni. Non sembrerebbe del tutto in disaccordo Kaprow, dato che per lui, mediante gli happenings, le nostre azioni diventano rituali e la nostra vita quotidiana si trasforma8, e Lebel sembra persino parafrasare Goffman quando afferma che il momento dello happening è un momento forte, sacro, mitico, nel corso del quale la nostra percezione, il nostro comportamento,


la nostra stessa identità vengono modificati9. Consuonano con queste idee anche le considerazioni critiche di Udo Kultermann il quale, concorde con l’ipotesi di assegnare allo happening un significato di pertinenza sociologica, rileva negli aspetti dell’approccio intermediale il recupero di un’originaria funzione dell’arte come funzione della vita, come risultato dello sciamanismo moderno e corrispondente a forme rituali e più vicino ai culti misterici della preistoria, che rivelano peraltro una rivalutazione di valori psichici, magici, mitici10. Anche Kaprow fa cenno, di tanto in tanto nei suoi vari scritti, che tra i due poli sia possibile stabilire e rintracciare dinamiche comuni, evitando però di attribuire a queste esperienze carattere mistico o religioso. Sulla stessa linea si pone Lebel affermando come a differenza di uno sciamano che, nel corso di un cerimoniale, asseconda un dogma cosmogonico, l’artista che innesca un happening cerchi la sua cosmogonia nell’agire stesso, attivando e ponendo in comunicazione diretta e reciproca, in quello che definisce un legame cosmico, i mandala interiori di ciascun individuo11, operando in quell’equazione aperta che è il rapporto uomo-mondo. Il perfetto tempismo con cui Kaprow e Goffman hanno simultaneamente proposto le loro concezioni non solo ne rafforza il senso, ma pungola in noi l’idea che tra i due possano esserci stati dei contatti, anche indiretti. Non ci è dato stabilirne il momento esatto, ma sappiamo per certo che Kaprow venga a conoscenza delle teorie di Goffman, tanto da menzionarle e discuterle in uno scritto del 1977 dedicato alla performance come atto partecipativo; la descrizione così precisa delle idee del sociologo canadese, il modo chirurgico in cui ha dissezionato i suoi testi e le teorie in essi contenute, lascia trapelare l’interesse che l’artista americano ha nutrito nei suoi riguardi, forse proprio per via di quella comune intenzione manifestatasi negli stessi anni a riconsiderare, pur se per vie e motivi differenti, le azioni quotidiane come performance. In questo scritto Kaprow chiarisce come, nei gesti di ogni giorno, manchino la consapevolezza e la responsabilità della conduzione di una perfor-

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mance, ma conclude precisando che ciò che deve risultare interessante per l’arte è il potenziale performativo dei gesti quotidiani, ossia che le abitudini di tutti i giorni possono essere usate come veri e propri spettacoli fuoriscena12. Si tratta, in fondo, della medesima considerazione espressa già nel 1966 anche da Giuseppe Chiari, per il quale realizzare un happening equivale ad assumere un atto che si compie nella vita quotidiana, abitualmente, distrattamente, quasi senza accorgersene, come un atto significativo13 o quella suggestiva affermazione dello scrittore Jean-Marie Le Clézio, per il quale realizzare un happening porta a estrarre un fatto dal suo contesto e prendere coscienza che il mondo è uno spettacolo all’interno del quale noi stessi siamo spettacolo14. Ciò che interessava a Kaprow erano proprio l’attivazione e l’osservazione di comportamenti umani, così come la moltiplicazione dei rapporti trans-individuali, ossia di quelle stimolanti dinamiche relazionali che il pragmatista statunitense John Dewey etichettava come “transazioni”. Nonostante non venga mai nominato nei suoi scritti, Dewey rappresenta davvero il padre intellettuale di Allan Kaprow15, e la sua prospettiva filosofica fa da pendant alla lezione estetica che l’americano aveva ricevuto da John Cage. Un segnale più chiaro di altri dell’influenza di Dewey su Kaprow lo abbiamo proprio nell’uso che fa, nel medesimo scritto del 1977, del termine transations proprio per indicare atti di relazione tra individui. Troviamo d’accordo anche Lebel, per cui lo happening stabilisce una relazione da soggetto a soggetto e, al di là delle possibilità di stabilirne la durata o contenerne lo sviluppo, ciò che risulta fondamentale, imprescindibile, è il verificarsi del contatto intersoggettivo16. L’uso di questa parola ci permette di stabilire un’altra “proporzione” culturologica: se Dewey è, come precedentemente rilevato, il riferimento filosofico di Kaprow, quello di Lebel è senza dubbio Merleau-Ponty – menzionato dall’artista stesso nel saggio del 1966 – e strenuo promotore di una centralità della relazione tra l’io e l’altro nell’esplorazione del piano esistenziale. Quest’ultimo rilievo chiude il cer-


chio della nostra indagine: transazionismo e intersoggettività sono infatti concetti paritetici, del tutto omologhi, e quindi corrispondenti; essi sono il motore degli studi di Goffman così come quello delle poetiche di Kaprow e di Lebel, e assumono in esse una centralità tale da fare dello happening il paradigma estetico dell’interazione sociale.

1   Da una lettera di Paik diretta a Lebel risalente al febbraio 1967 e riportata in E. Decker, I. Lebeer (a cura di), Nam June Paik. Du cheval á Christo et autres écrits, Éditions Lebeer Hossmann, Bruxelles 1993, p. 167. 2  M. Kirby, Happenings (1965), trad. it., De Donato, Bari 1968, p. 28. 3  P. Restany, Une tentative américaine de synthèse de l’information artistique: les Happenings, in «Domus», 405, Agosto 1963, pp. 36-41 [trad. it. mia]. 4   Si veda S. Sontag, Contro l’interpretazione (1966), trad. it., Mondadori, Milano 1998, p. 360. 5  A. Kaprow, Happenings on the New York Scene (1961) in Id., Essay on The Blurring of Art and Life, University of California Press, Berkley 2003, pp. 3-7. 6  C. Greenberg, Arte e cultura, trad. it., Umberto Allemandi, Torino 1991, p. 154. 7  A. Kaprow, Happenings cit., p. 16 [trad. it. mia]. 8   Ivi, p. 43 [trad. it. mia]. 9  J.-J. Lebel, Le happening, Éditions Denoël, Paris 1966, p. 49 [trad. it. mia]. 10  U. Kultermann, Vita e arte. La funzione degli intermedia (1970), trad. it., Gorlich, Milano 1972, pp. 13 e 209. 11  J.-J. Lebel, cit., p. 35 [trad. it. mia]. 12  A. Kaprow, Participation Performance (1977), in Id., Essay cit., p. 187 [trad. it. mia]. 13   Riportata da T. Trini, Chiari, musica e insegnamento, in G. Chiari, Musica madre, Prearo, Milano 1973. 14   L’affermazione risale a un articolo del 1965 ed è riportata in J.-J. Lebel, cit., p. 49 [trad. it. mia]. 15   Come afferma Jeff Kelley nella prefazione a A. Kaprow, Essay cit., p. XXVI. 16  J.-J. Lebel, cit., pp. 55 e 58.

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Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli MARIA ANTONIETTA SBORDONE

Premessa Il filo conduttore dei temi del confronto è rintracciabile nel significato originario della professione del designer e nella evoluzione teorico-critica interna alla disciplina; ai caratteri che ne costituiscono il senso, trasmissibili attraverso modelli teorici nel campo della critica e della ricerca, si affiancano approcci metodologici utili nella pratica professionale del designer. Il quadro generale di riferimento accomuna le diverse posizioni che, sebbene con diversi gradi di astrazione e caratterizzazioni specifiche, e fondandosi su criteri – nella loro valenza oggettiva – attribuibili ad una moltitudine di azioni, influiscono direttamente nella pratica e sulla teoria del Design. Il tema della sostenibilità, ad esempio, quando ancora non individuato nella sua attuale organica complessità, e andava ancora definendosi per gradi, transitava da una prima idea di adattabilità delle azioni ai contesti, ad una che dell’appropriatezza valutava gli impatti, approdando poi a categoria generale di riferimento. Il tema del design in Papanek è incentrato sulla sostenibilità della pratica del Designer, risultato di una preventiva “sostenibilità degli intenti”, secondo il presupposto che il progettare ha come scopo di “imporre un ordine significati-

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vo” in senso ampio; mentre in Findeli si condensa nella dimensione intangibile della “sostenibilità delle relazioni” tra diversi ambiti, per configurare un ecosistema di interazioni complesse. I presupposti di Papanek hanno origine nella consapevolezza di una “mancanza di impegno sociale nella progettazione”, delineando una zona d’ombra che si frappone tra il designer e l’individuazione dei veri bisogni delle persone, “delle effettive e reali necessità”, relegandolo al ruolo di disegnatore per una minoranza di addicted. Per A. Findeli, le questioni di fondo hanno origine nelle domande ricorrenti relative al significato, alla natura, al ruolo, al senso, alle logiche e ai valori sui quali riposa l’“atto del design” e concretamente significa dare una risposta su quali sono “i concetti del progetto di design che determinano, inquadrano, regolano o giustificano” la disseminazione del pensiero e l’indagine sui modelli del Design. Ecosistema dei contesti umani. La sostenibilità dell’agire del designer

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Il tema dell’agire del designer è centrale nella trattazione di Viktor Papanek e il saggio “Progettare per il mondo reale”, dall’illuminante sottotilo, “Il design: come è e come potrebbe essere”, apre alla critica sul fare design e formula azioni concrete da intraprendere per progettare tenendo conto delle necessità delle persone e dei valori emergenti nella società. Se l’origine del fare è la progettazione, questa deve ritornare nel suo alveo originario; deve cioè essere “significativa”, ponendosi al di sopra delle categorie del “bello”, del “brutto”, dell’“astratto”, del “carino”, vincolandosi, quindi a ciò che è la “funzione”, pur infrangendo la formula bauhausiana che “tutto ciò che funziona si presenta bene”. Lo schema del “complesso funzionale”1 chiarisce i legami tra il valore estetico e la funzione dell’oggetto: le sei parti che compongono il complesso funzionale, vertici di un esagono, sono l’uso, la necessità, la telesis, l’associazione, l’estetica, e il metodo, al centro, all’interse-


zione dei segmenti che congiungono i vertici, si trova la funzione. Alla stregua di un convitato di pietra, la funzione, pivot intorno al quale il complesso funzionale agisce, orienterà d’ora in avanti la progettazione che non può ignorare i dati di partenza per trasformare in modo consapevole “l’ambiente umano, i suoi strumenti e, per estensione, l’uomo stesso”2. Sebbene, all’inizio della storia del disegno industriale, il progettista/designer si preoccupa prevalentemente dell’accettazione fisica del prodotto da parte del suo pubblico3, la percezione delle qualità del prodotto passa in prima istanza attraverso una sorta di “bellezza appropriata”4. Nei decenni successivi diventerà terreno di scontro, laddove l’estetica bauhausiana formulerà i criteri del gusto nell’era della produzione industriale. Assicurati, quindi, i canoni estetici del design del prodotto industriale, il passo successivo si focalizza sull’accettabilità sociale5, rivolta ad un consumo di massa assoggettato alle tecniche persuasive del marketing generatore di due effetti: “lo styling e l’obsolescenza”6. Definite le dinamiche dello styling e dei vari gradi e tipi di obsolescenza7, rilevabili ed estendibili in relazione ai tempi e ai loro contenuti (formali, tecnici e di uso), Papanek rileva un passaggio fondamentale nella pratica del designer che si discosta sempre più dai veri bisogni delle persone. Negli anni ’60 si radicalizza in modo drammatico il divario tra le classi sociali, i meno abbienti diventano i senza-diritti, intere fasce della popolazione vivono ai margini della società e nel resto del mondo, intere Nazioni chiedono beni di prima necessità. Nell’Occidente post-industriale si ridefiniscono le categorie dei bisogni che passano dai bisogni di base (basic needs), ai bisogni sofisticati (sophisitcated needs); si approda ai bisogni latenti (latent needs) per l’analisi dei quali bisogna riconsiderare fattori elementari come la qualità dell’aria, la qualità e quantità dell’acqua e l’aspirazione ad una qualità della vita che dipende dal tempo di cui si dispone per l’acquisizione di esperienze e conoscenza. Il designer assoggettato alle dinamiche culturali e tecnologiche della crescente “coca-colonizzazione” del mondo, è di fronte all’assunzione di re-

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sponsabilità etica per colmare “la mancanza di impegno sociale nella progettazione”8. Uno schema riproduce l’impegno del designer in campo sociale, un triangolo dove una piccola area, relegata nel vertice superiore, definisce il “campo del progettista” a scapito della quasi totalità dell’area del triangolo che rappresenta il “problema reale”. Il riesame di Papanek dei bisogni della società rimette in discussione il valore e l’impegno del designer industriale; fermo restando l’approccio progettuale classico, il designer con la sua capacità creativa dovrebbe focalizzarsi su “speciali gruppi di bisogni” che derivano dal vivere “tutti nel paese della mente umana”. L’uomo e i suoi bisogni, riportati al centro della progettazione, oggi sono un dato acquisito, soprattutto se si pensa alle dinamiche di co-design dove l’utente è integrato nel processo di progettazione e dove ciascuno esprime il proprio bisogno “speciale”. Papanek anticipa quello che poi sarà il Design Thinking che stabilisce l’approccio all’innovazione Human-Oriented, conseguenza dello User-Centered Design, calato nel sociale, nei contesti di vita, dove il benessere si valuta secondo parametri dinamici; derivanti dall’emergere di problematiche che trovano nella discussione, nella conoscenza e nella condivisione, una prima risposta al problema, recepita poi nella fase creativa dove all’ascolto fa seguito l’azione. Il concetto di valore in Papanek

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Il concetto di valore, in “La civiltà del Kleenex”9 è un nodo centrale nella trattazione essendo un elemento su cui riflettere soprattutto in relazione al fenomeno dell’obsolescenza e per converso della persistenza di un prodotto nel breve e nel lungo termine. Papanek introduce il concetto di obsolescenza programmata riportando il termine “forzata”, conseguenza delle logiche della produzione e di marketing che inducono a disfarsi degli oggetti dopo il loro ciclo di vita. Per estensione sono coinvolti non solo i beni di consumo, ma “la maggior parte dei valori umani come qualcosa di cui disfarsi dopo l’uso (…). Gettare via i mobili, i


mezzi di trasporto, i vestiti e gli elettrodomestici, può presto portarci a pensare che i matrimoni (e gli altri rapporti personali) siano articoli da buttar via e che su scala globale le nazioni, e magari anche interi subcontinenti, sono da buttar via come il Kleenex”10. Il concetto di valore in Papanek è riconducibile al modello della “triade delle limitazioni” di Robert Lindner11. Secondo questo modello l’uomo, durante la sua esistenza, cerca disperatamente con le sue azioni di spezzare i vincoli imposti dal triangolo di ferro nel quale è imprigionato, trattandosi di barriere di varia natura: dalla conquista del suo habitat naturale; al superamento delle “limitazioni imposte dall’equipaggiamento biologico”; fino alla conquista della longevità “se non del­ l’immortalità”12. Misurando ogni conquista attraverso il concetto di progresso che in questa accezione è inteso come superamento dei limiti imposti e “in base ad esso la sola esistenza di una persona, le attività e gli scopi di un gruppo, persino le conquiste di una cultura, possono essere stimate e considerate nel loro giusto valore”13. Lo scopo dell’adozione del modello della “triade delle limitazioni” è di poterlo usare come “filtro primario per stabilire il valore sociale dell’atto progettuale”14. Cosicché ogni progetto o prodotto è passibile di autovalutazione in base alle performance e al reale impatto che ha nel contesto di vita per il quale è stato pensato, determinandone il grado di utilità in relazione al perseguimento del bene comune. La trattazione che segue è incentrata su vari argomenti, tra i quali l’utilità dell’automobile; sebbene in origine realizzi il superamento della triade, con il passare del tempo, diventa uno status symbol sovraccarico di “falsi valori” che ne hanno offuscato il significato e lo scopo. L’argomento cardine per Papanek è l’impegno sociale e il valore del progetto di design che risiede nell’assunzione della responsabilità nel superamento della dicotomia in auge, di un mondo fatto di superproduzione e di sottonutrizione. Bilanciare i due termini ha implicazioni politiche ed economiche di portata internazionale, il designer può dare valore al proprio atto progettuale adottando un comportamento che evolve dal:

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“trascorrere un po’ di tempo nel paese sottosviluppato e di elaborare lì i progetti veramente adatti ai bisogni della gente del posto”15; il designer va nel paese sottosviluppato e addestra i designers locali; fino a che il designer si trasferisce nel paese e insegnerà ai designer a educarne di nuovi, “in altre parole diventerà un progetto-seme”, si tratta di un tipo di progettazione che mette in piedi un programma e che diventa immediatamente operativo. Il processo progettuale del design in Findeli o il modello dell’“eclisse dell’oggetto”

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In Findeli il design è parte dell’evoluzione dei sistemi sociali, quindi è un elemento costitutivo, affatto estraneo ai fenomeni ad esso collegati (prodotti di design, pratica del design, ecc.), ne discende che la teoria del design si fonda, senza equivoci, sul rendere più intellegibile l’atto del design. Difatti, l’intellegibilità è indispensabile alla costruzione dell’insegnamento del design che si basa su un tipo di attività riflessiva “per fecondare l’attività pratica essendo la riflessione teorica situazionista propria dei professionisti illuminati”16. Il modello de “L’eclipse de l’objet dans les theories du projet en Design”, per l’autore è un tentativo di riorganizzare le teorie sul progetto di design esistenti e ricavarne una sintesi utile come strumento cognitivo che indicizzi gli elementi non immediatamente intellegibili. Per Findeli è necessario fornirsi di strumenti che aiutino i giovani designer ad individuare e a selezionare elementi quali: “la corretta successione delle logiche adottate (analogia, deduzione, abduzione, ecc.), le finalità che motivano gli iniziatori del progetto, i conflitti di razionalità e di valori su cui si basa, la gerarchia delle problematiche di cui è oggetto, la giustificazione delle scelte metodologiche, tecnologiche, estetiche ed altro, i limiti del contesto epistemologico adottato, ecc.”17. Il modello tipologico de l’eclisse de l’oggetto ha delle condizioni iniziali con una successione tipologica (attori, processo e oggetto) percorribili a monte e a valle. Caratteristica di tutti i progetti di design è la “cerniera” (a


valle dell’oggetto) fase in cui avviene la consegna o ricezione dell’oggetto o del prodotto del progetto, “a partire dalla quale il processo diventa irreversibile e cambia radicalmente di regime: passa dal regime della concezione al regime della ricezione (o dell’appropriazione e uso)”18. Naturalmente questa dinamica è propria al design del prodotto (prima il progetto, la realizzazione, l’acquisizione e poi l’uso), non vale più se già pensiamo al design dei servizi e al co-design, o agli oggetti immateriali come i software o addirittura quelli open source la cui progettazione è condivisa e non vi è più autorialità distinguibile. A monte del­ l’oggetto, e cioè nello spazio della concezione e della progettazione, le teorie che si sono succedute sono incentrate sull’oggetto, poi sui processi, per confluire in quelle che si concentrano sugli attori del progetto. A valle dell’oggetto, il centro di interesse si riposiziona dall’oggetto alle sue funzioni, di recente verso l’esperienza o, ancora sui contesti di vita degli utenti. Il modello così definito è stato poi sperimentato in sede didattica, seminariale e professionale, sia per produrre design, sia nell’osservazione e nella descrizione del fare design. Inoltre, essendo l’interpretazione del modello molto ampia (semiologica, sistemica ed evoluzionista, socio-critica), nell’economia del presente saggio ripercorriamo l’interpretazione filosofica che Findeli propone come la più completa per meglio coglierne la complessità. In un primo momento il modello costituito da tre focus (tipi), “l’oggetto, i processi e gli attori”, asseconda l’idea di fondare la pratica e la teoria del design affidandosi alle discipline scientifiche che per ognuno dei focus ne descrive i caratteri e ne amplifica le possibilità: per l’oggetto ci si “appoggia principalmente all’estetica, alla tecnologia, alla scienza dei materiali (…) e alle arti applicate per rendere conto delle proprietà degli oggetti; per descrivere e comprendere in maniera più scientifica possibile i processi messi in atto nella conduzione del progetto di design, è richiesto l’apporto della logica matematica, così che delle scienze umane e sociali nella loro versione behavioriste (…); quanto agli attori, si fa affidamento lo stesso alle scienze antro-

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po-sociali, nella loro veste interpretativa, fenomenologica e qualitativa (…), alla sociologia delle organizzazioni, (…) al­l’antropologia culturale, etc.”19. In seguito Findeli dichiara che il modello, così configurato, aumenta i gradi di complessità tale da perdere l’originaria freschezza intellettuale, sicché, “piuttosto che l’ancoraggio alle diverse discipline scientifiche, si individuò una lettura filosofica”. Una sorta di trasposizione dei “grandi temi della filosofia moderna, oramai dei classici, come quelli utilizzati da Kant (ragione pura o logica, ragione pratica o etica, giudizio sul gusto o estetica)”, che associati ai tre focus (tipi), non snaturano l’idea del modello pervenendo alle seguenti associazioni; l’oggetto è il campo privilegiato dell’estetica, i processi e le funzioni sono di dominio della logica, gli attori, da una parte con le loro interazioni, e dall’altra con i modi di vita degli utenti, sono campo dell’etica. L’interpretazione del modello e la sua sperimentazione hanno messo in luce un elemento che induce a nuove riflessioni ovvero il modello può predire la sua futura evoluzione? In risposta si prefigurano due scenari, ognuno dei quali è suscettibile di evolvere verso una pratica del design che si inquadra indiscutibilmente nel quadro dello sviluppo sostenibile, in particolare nel suo aspetto sociale di pratica responsabile. Il modello, in relazione alla tradizione filosofica moderna, risulta completo ed esaustivo e dopo aver preso atto della sua caratterizzazione e della sua passata evoluzione, Findeli azzarda una sua previsione futura: “il primo scenario ci racconta della possibilità che si realizzi una “sorta di metaestetica. Diversi indizi ci invitano a considerare un tale scenario, tra cui l’apparizione di un forte interesse per la filosofia estetica (…). Nel campo del design si assiste da una parte alla scomparsa di tabou imposti dai modernisti per qualsiasi approccio estetico autonomo, d’altra parte ad un tentativo di mettere fine alla deviazione della filosofia estetica in favore del solo ambito dell’arte (l’estetica è una dimensione antropologica fondamentale che si esercita in ogni ambito umano, non solo nei musei e nelle gallerie d’arte)”20. Per Findeli la meta-estetica si dispone ad inte-


grare in un atto unitario l’estetica, la logica e l’etica, ai quali corrispondono nel modello, rispettivamente, l’oggetto, i processi e gli utilizzatori, per dare vita “all’atto del design e del suo utilizzo come esperienze umane complete e belle”. Findeli cerca di definire la meta-estetica o estetica generale dell’atto di design e del suo utilizzo (o utilizzazione) non come una teoria dell’azione bensì come un orizzonte di senso del processo del design. Ipotesi che fa rabbrividire chi come “Paul Ricœur considera “mortali” o “pericolose simili affermazioni perché non immaginano che possa realizzarsi l’idea di una scienza della prassi umana”; Findeli riporta quanto Ricœur afferma in merito; “poche idee sono oggi più salubri e più liberatorie dell’idea che ci sia una ragione pratica, ma non una scienza della pratica (Ricœur 1986)”21. Il secondo scenario previsto da Findeli, parte dall’osservazione secondo cui “la filosofia moderna si è strutturata in reazione a quella che la precedeva che considerava la teologia come la ‘filosofia principe’ (…)”. Nel tempo, ed in considerazione del fatto che è stata diluita o integrata negli altri campi dalla tradizione moderna, in varie forme, Findeli afferma che l’“onto-teologia e la metafisica” sono state considerate, nel primo caso, non “specifica della filosofia della scienza e nel secondo si è stimato che la questione ontologica poteva essere confidata esclusivamente alla ragione scientifica. (…)”. Il risultato che ne consegue è che grazie all’anti modernismo del postmoderno, l’onto-teologia è riapparsa e secondo Findeli dà luogo al secondo scenario: “se dunque si completa il paesaggio filosofico secondo questa dinamica, è consentito di includere nel modello (dell’eclissi dell’oggetto) l’ontologia e l’antropologia, in seno alle quali si evidenziano nuove posizioni ancora più fondamentali che non nello scenario dove emergono le questioni estetiche. Tra queste figurano ad esempio: l’esperienza del progetto è un’esperienza umana fondamentale? Quali sono le spinte per iniziare un progetto? Chi è il responsabile del progetto? Dove l’animo umano trae ispirazione creativa? Il nostro rapporto con il mondo è esclusivamente d’uso? Qual è il nostro comportamento quando ac-

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quisiamo un nuovo oggetto? Qual è la natura profonda del mondo artificiale? ecc.”22. Il modello dell’eclisse dell’oggetto pone in evidenza lo spostamento del centro di interesse dall’oggetto verso un sistema di relazioni complesso e strettamente interrelato: in prima istanza alle strutture metodologiche che fondano l’azione progettuale e l’esperienza d’uso; all’ecologia generale delle azioni incentrata sugli attori; inoltre, in una visione prospettica, il centro si sposta sia verso un’estetica generale del progetto di design, sia verso un approfondimento ontologico dell’esperienza del progetto, da un punto di vista del progetto di design che del progetto d’uso, ovvero dell’“antropologia dell’uso del modo artificiale” (esperienza d’uso). Conclusioni. Approdi Design Thinking e confluenze Human Design

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Il confronto tra i due autori se da un lato, mette in luce le differenze del dato di partenza, filosofico in Findeli, pragmatico in Papanek, approda a considerazioni e riflessioni con diversi gradi di approfondimento che conducono entrambe a confluenze inaspettate sulle prospettive progettuali e metodologiche del fare e pensare nel design. Si individuano posizioni discordanti, tra le quali quelle che riguardano il valore estetico che in Papanek, seppure, abbia un carattere relazionale, inserito all’interno dello schema del “complesso funzionale”23, laddove le sei parti che compongono il complesso funzionale, – l’uso, la necessità, la telesis, l’associazione, l’estetica, e il metodo – ruotano intorno alla funzione, centro dove agisce il complesso funzionale che orienta la progettazione e dove l’estetica è un valore relazione che non ha capacità proprie preordinate. Mentre in Findeli si presuppone uno scenario dove la meta-estetica agisce in maniera preordinata; Findeli, infatti, introduce la definizione di meta-estetica o estetica generale dell’atto di design e di utilizzo (o utilizzazione) non come una teoria del­l’azione o subordinata alla funzione come in Papanek, bensì come un orizzonte di senso del processo del design


che contribuisce ad affermarsi come nodo problematico ed autonomo nella metodologia del design e nell’agire del designer. Le confluenze individuate portano al contenuto del fare design che in Papanek si apre verso la responsabilità etica e sociale, dove l’azione del designer può influire sulla riconsiderazione dei bisogni in Occidente e nei Paesi Terzi. Il ruolo del design nella pratica progettuale deve predisporsi all’ascolto delle esigenze degli utenti, individuare i “bisogni speciali” di cui la società è portatrice, ed incanalare le aspettative degli utenti verso l’etica delle azioni progettuali. L’idea è incentrata sull’agire secondo il principio di spezzare i vincoli definiti dal modello della “triade delle limitazioni” ed aiutare a sviluppare le abilità di ognuno con lo scopo di creare, nel caso della progettazione per i Paesi in via di sviluppo, dei “progetti-seme”; si crea una sorta di vivaio di buone prassi condotte dalle popolazioni locali, innestando un processo di autodeterminazione per lo sviluppo locale sostenibile e responsabile. Il modello della “triade delle limitazioni” si concede per essere utilizzato come una sorta di screening per ogni progetto o prodotto realizzato, determinandone il grado di utilità in relazione al perseguimento del bene comune che suggerisce, da una parte, i criteri per una più consapevole e giusta progettazione e dall’altra, considera le capacità creative ed intuitive delle persone che l’hanno adottato e che interagiscono e con esso. Findeli nel caso della dimensione sociale del ruolo del designer e della responsabilità diretta del designer, dichiara che la sfera del sociale non è un dato del progetto di design, bensì è il design parte integrante dell’evoluzione dei sistemi sociali. Il design, quindi, è un elemento costitutivo della società, e come tale ne discende che la teoria del design ha lo scopo di rendere intellegibile l’atto del design alla stregua di un qualsiasi processo con cui si identifica un settore disciplinare. Prosegue affermando che il modello de “L’eclipse de l’objet dans les theories du projet en Design” è stabilito con lo scopo di riannodare le maglie delle maggiori teorie sul design storicizzate e in voga, per affermare che esistono degli scenari sul design con fondamenti filosofici e

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che in ambito scientifico la disciplina può avvalersi o meno del riconoscimento, evidenziando che la caratterizzazione del metodo porta inevitabilmente a porsi delle questioni su un dato essenziale: se la meta-estetica si dispone ad integrare in un atto unitario l’estetica, la logica e l’etica, per dare vita “all’atto del design e di utilizzo come esperienze umane complete e belle”, allora perché non fondare la metaestetica o estetica generale “dell’atto di design e di utilizzo (o utilizzazione)” non come una teoria dell’azione bensì, come una “scienza della prassi umana”? Sfatando l’assunto (Ricœur 1986) secondo il quale va bene che ci sia l’idea di una ragione pratica, ma non una scienza della pratica, alla quale Findeli tende con la caratterizzazione del design attraverso il suo modello. Entrambi gli autori considerano la sostenibilità dell’agire del designer e dello scopo ultimo del design come l’attuazione più ampia dei temi della sostenibilità; inducono a considerare temi progettuali mutuati dalla progettazione ambientale (biomimetica) e dall’astrarsi sempre più dalla dimensione materiale dell’oggetto per approdare ad una società liberata dai vincoli della proprietà per sviluppare attitudini progettuali che consentono l’uso dei beni condiviso. Bibliografia V. Papanek, Progettare per il mondo reale. Il design: come è e come potrebbe essere, Mondadori Editore, 1973. A. Findeli, L’eclipse de l’objet dans les theories due projet en Design, The Design Journal, vol. 8, 2005.

V. Papanek, Progettare per il mondo reale, p. 18.  V. Papanek, op. cit., p. 33. 3   H. Dreyfuss in proposito scrive “Se il punto di contatto tra prodotto e pubblico diventa punto di attrito, allora il disegnatore industriale avrà fallito il suo compito”, in Designing for people, Simon & Schuster, New York, 1955. 4  V. Papanek, op. cit., p. 35. 5   H. Van Doren definisce l’industrial design come “la pratica di analizzare, creare, ed elaborare prodotti per la produzione di massa. Il 1 2

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suo scopo è inventare forme che possano (…) essere accettate (…)”, rivista “Industrial Design”, Mac Graw Hill, New York 1954. 6  V. Papanek, op. cit., p. 39. 7   V. Papanek inidividua tre tipi di obsolescenza “tecnologica, materiale e artificiale”, p. 39. 8  V. Papanek, op. cit., p. 58. 9  V. Papanek, op. cit., p. 83. 10  V. Papanek, op. cit., p. 84. 11  R. Lindner, Prescription for Rebellion, Reinhart, New York 1952. 12   La triade delle limitazioni è una gabbia triangolare che circonda l’uomo. Ogni faccia è composta da un impedimento: il mezzo con cui l’uomo deve vivere; l’equipaggiamento che ha a disposizione; la mortalità. 13  V. Papanek, op. cit., p. 72. 14  V. Papanek, op. cit., p. 73. 15  V. Papanek, op. cit., p. 82. 16  A. Findeli, L’eclipse de l’objet dans les theories due projet en Design, The Design Journal, vol. 8, 2005. 17  A. Findeli, op. cit., p. 40. 18  A. Findeli, op. cit., p. 43. 19  A. Findeli, op. cit., p. 44. 20  A. Findeli, op. cit., p. 45. 21  A. Findeli, op. cit., p. 46. 22  A. Findeli, op. cit., p. 46. 23  V. Papanek, Progettare per il mondo reale, p. 18.

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Libri, riviste e mostre

D. Arasse, Storie di pitture, prefazione di B. Comment e C. Bébard, Einaudi. Ci sono intelligenze che saltano a piè pari la loro specializzazione: un caso esemplare nella storia dell’arte è Daniel Arasse, nato nel 1944 a Onan (Algeria) e morto a Parigi a cinquantanove anni. La solida formazione di normalista (greco, latino, letteratura) s’evince in ogni sua pagina: da ragazzo era stato a Firenze, fu uno choc e l’arte italiana divenne il destino della sua vita. Dunque maestri come André Chastel (con il quale ebbe un problematico rapporto nel corso del tempo), Louis Marin, Pierre Francastel l’iniziarono alla storia dell’arte. Storie di pitture, prefazione di B. Comment e C. Bébard, Einaudi (pp. 222, ill.), raccoglie venticinque puntate trasmesse da France Culture nell’estate del 2003 pochi mesi prima che se ne andasse. Essendo fine luglio-agosto non le seguii, ma leggere queste pagine mi ha turbato: perché è come ascoltare la sua bella voce e percepire ogni sfumatura del suo

versatile talento. Dopo essere stato per sette anni direttore del­ l’Istituto francese di Firenze, Arasse nel 1993 fu chiamato all’École des hautes éteudes en sciences sociales dove concluse la sua carriera. Le conversazioni sono un distillato della sua cristallina intelligenza e sono un testamento destinato a colleghi, allievi e lettori. Un testamento sbrigliato, perché senza lo statuto della pagina scritta e i ceppi delle note. La maggior parte di queste conversazioni hanno come fil rouge la Prospettiva declinata in ogni suo risvolto teorico, ma sempre ricondotto ad un’opera in cui fa la parte del leone la pittura. Il testo più citato è De Pictura di Leon Battista Alberti dove, questo genio dell’Umanesimo, mette a punto un sistema scientifico e teorico che è alla base della civiltà rinascimentale. Alberti è l’unico contemporaneo che cita Leonardo da Vinci nei suoi scritti. “L’invenzione della prospettiva si costruisce rapidamente in un secolo o un secolo e mezzo per uno stravolgimento completo delle scene di rappresentazione,

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è in ogni caso abbastanza rapido, e allo stesso tempo quando si scende nei dettagli di ciò che è successo, ci si rende conto della complessità di questa trasformazione, complessità logica poiché gli obiettivi teorici della prospettiva non sono di poco conto”. La prospettiva fu un’autentica rivoluzione che “non cambia da Masaccio fino a Monet”, dice perentorio: chiarendo subito la differenza tra prospettiva monofocale centrale e bifocale quale è quella che vedono gli occhi. Questo sistema vede contemporaneamente sulla breccia Brunelleschi, Donatello, Piero della Francesca, Ghiberti, Lippi, Angelico e tutte le discipline a cominciar dall’architettura, ed è la prospettiva la “rappresentazione del potere dei Medici”, perché essa ha una “dimensione politica”. Ecco un tipico guizzo di Arasse che valica lo specialismo. La prospettiva vien detta da Alberti commisuratio – costruzione di proporzioni in funzione della distanza – termine che Piero usa, ma titola il suo trattato De prospectiva pingendi ponendo il problema del finito e dell’infinito, in un momento in cui la cartografia e la rappresentazione dello spazio urbano pone le sue radici: Firenze incipit. Un fondamentale rimando eluso da molti colleghi che poco praticano l’iconografia urbana. I fiamminghi eccellono nella prospettiva, ma essi non fissarono le regole matematiche teorizzate a Firenze, dice fondatamente; tra il 1415-50 essa s’evolve, e affina le sue regole: “c’è una dialettica retorica tra profondità fittizia dello spazio e il sorgere fittizio della figura”. È impossibile seguire la rete dei rimandi da

Masaccio a Fouquet, da Raffaello a Leonardo eccetera. Fino a Las Meninas di Velázquèz, dove ingaggia un corpo a corpo con la celebre lettura di Michel Foucault: testo geniale “storicamente sbagliato”. E quanto se ne è discusso con Arasse, insistendo io proprio sulle “debolezze” in prospettiva del filosofo e così ne scrissi in un saggetto. Ma come non restare incantati dal suo Elogio paradossale di Foucalult? Talune conversazioni vertono sul restauro e sul dettaglio, e insistono sulla necessità (sempre attuale) di inserire la storia dell’arte nella scuola francese. Arasse non è certo diplomatico e talvolta le sue sono vere e proprie frustate: sulla discussione Masolino-Masaccio innescata da Pierre Francastel, a proposito di Roberto Longhi (se non erro l’unico italiano citato, vizietto francese e non solo) dice: “ho una grandissima ammirazione, ma di lui detesto il modo di approccio alle opere e soprattutto l’arroganza”; né è più tenero con Svetlana Alpers, che “pretende di spiegarci la pittura olandese” escludendo Rembrandt e Veermer dal suo celebre libro. Le pagine su L’atelier del pittore sono tra le più sagaci, ma Arasse ha uno spiccato senso del comico: a proposito di uno studioso americano che intende dimostrare che Veermer aveva un grosso problema sessuale e aveva paura delle donne, dice: “Ora, come si può aver paura delle donne, e fare dodici figli con la propria moglie?”. Non si potrebbe dir meglio per mettere alla berlina un modo di far storia dell’arte (specialistica?) che precipita nel comico. Contro lo psicologismo, l’ana-


cronismo (la lotta di classe di Hauser), il positivismo del significato (Gombrich) è spesso esilarante. Daniel Arasse ha lasciato un cantiere abbandonato di opere non concluse: L’art dans ses oeuvres. Théorie de l’art et histoire des oeuvres (per l’editore Regard) e Le refelet perdu (edizioni Denoël). Di Arasse Einaudi ha pubblicato anche L’ambizione di Vermeer (2006) in cui fa pelo e contropelo a Svetalana Alpers, e Non si vede niente. Descrizioni (2013). con una impeccabile prefazione di Claudia Cieri Via. In questo ultimo testo spicca il testo sull’Adorazione dei Magi di Bruegel il Vecchio e il testo su Las Meninas. Temi che ricorrono in questo ultimo libro che raccolgono le sue belle conversazioni radifoniche, ed esse – posso dire con spirito amicale – sono un filo che lui ci tende dall’Ade. C. d. S. A. D’Auria, Abitare nell’emergenza Progettare per il postdisastro, Edifir edizioni Firenze 2014. In un’epoca di cambiamenti climatici che aumentano esponenzialmente il numero di catastrofi ambientali – tra cui i tornado, gli tsunami, le frane e le alluvioni – il libro “Abitare nell’emergenza” di Antonio D’Auria è attualissimo e di grande interesse. Il testo affronta direttamente la tragedia che interessa un numero crescente di comunità afflitte da una calamità naturale e costrette a un esodo di massa, ab­ bandonando il proprio centro urbano di appartenenza per spo-

starsi nelle strutture temporanee – le quali spesso diventano permanenti – comunemente chiamate campi che, anche in Italia, sono purtroppo all’ordine del giorno (si pensi, in primis, ai campi dei rifugiati a L’Aquila che, a distanza di anni, aspettano ancora la ricostruzione della città). L’autore analizza il fenomeno da una prospettiva problematica che si fa carico delle questioni psicologiche, sociali, economiche, urbanistiche e architettoniche, nella volontà di proporre alcune soluzioni capaci di alleviare la sofferenza delle vittime di tali eventi, mettendo a fuoco il delicato periodo che va dall’abbandono dei luoghi colpiti dalla calamità alla sistemazione definitiva (sia essa il ritorno nelle abitazioni dopo la riqualificazione, il re-insediamento in altri luoghi o la permanenza nei campi). Anzitutto il testo mette a fuoco i due problemi essenziali della questione: gli alloggi transizionali, quindi le loro caratteristiche morfo-tipologiche, e l’organizzazione del campo (il master-plan). Prima di addentrarsi nelle problematiche di carattere urbanistico, l’autore si sofferma su un punto cruciale del discorso: la natura processuale e non statica di questo tipo di progettazione, che deve tenere sempre presente le numerosissime incognite e i parametri che di volta in volta, a seconda della situazione, cambiano la natura del progetto preventivo, che, per sua stessa definizione, deve essere elastico e adattivo. Principale obiettivo deve essere evitare, per quanto possibile, la sindrome del displacement, lo spaesamento e il disorientamento

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che coglie chi è costretto a lasciare le proprie case, le proprie strade e la propria città trasferendosi altrove. Per questo il campo deve avere precise caratteristiche di accoglienza, deve essere rassicurante e soprattutto deve essere affiancato dalla conoscenza da parte dei rifugiati di una chiara prospettiva di futuro, della durata della loro permanenza e di ciò che avverrà in seguito. A proposito della progettazione e della dislocazione del campo, D’Auria promuove il ricorso alla democrazia partecipativa che, soprattutto in situazioni critiche, serve a coinvolgere in prima persona le vittime del disastro, in maniera da pervenire a scelte condivise. Ciò è indispensabile per garantire consapevolezza e serenità nel momento in cui una serie di questioni cruciali – dalla posizione del campo all’organizzazione interna, fino ai moduli abitativi – vengono discusse e decise. L’autore sottolinea anche come, in realtà, tale pratica non debba essere sopravvalutata, tenendo presente l’eventualità che (come dimostrano numerosi esempi tra cui quello del “Villaggio Matteotti” a Terni di De Carlo, tra il 1969 e il 1980) gli stessi utenti optino per configurazioni diverse da quelle proposte dal progettista – magari non comprese appieno – per loro in realtà meno favorevoli e vantaggiose. Il testo suggerisce comunque un approccio concertato anziché una pianificazione autoritaria, in maniera che lo strumento urbanistico sia elastico e duttile, capace di adattarsi alle condizioni reali senza porre restrizioni troppo rigide e, quindi, spesso inapplicabili e contropro-

ducenti in situazioni emergenziali. Una importante considerazione viene fatta a proposito del posizionamento del campo, da preferirsi nelle vicinanze di infrastrutture e servizi esistenti e da scegliere secondo una logica di infill anziché di sprawl, cioè optando per aree già urbanizzate (centro abitato ove possibile, aree di sedime ricavate da demolizioni di edifici dismessi, suoli edificabili disponibili) oppure, nel caso ce ne sia la disponibilità, edifici dismessi o complessi disponibili (caserme, opifici, ecc.). Questa logica risulta essere di gran lunga la più efficace nell’ottica di un veloce re-insediamento nei centri urbani di provenienza e consente di non consumare ulteriore suolo. In alternativa risulta comunque necessario scegliere per il campo – provvisorio o meno – un terreno il più vicino possibile ai centri disastrati. Il testo affronta poi il tema della progettazione di un campo non solo provvisionale ma capace di ospitare i rifugiati per un tempo lungo o, addirittura, indefinito. In questo caso assume grande importanza la tipologia dell’insediamento e, nella volontà di garantire una continuità tra il tessuto spaziale di provenienza (che il più delle volte è storico) e quello del nuovo insediamento, l’autore sottolinea la preferibilità di una disposizione organica non ippodamea, più simile a quella dei centri storici europei stratificati. A proposito di tale questione – il testo suggerisce degli interessanti riferimenti tra cui le nuove Instant Town o le antiche African Kraal – l’autore mette in evidenza il fatto che la caratteristica essenziale del campo sia di


aderire all’immaginario urbano dei residenti, facendo i conti anzitutto con le aspettative – e quindi con le abitudini e la memoria – di questi ultimi. D’Auria approfondisce anche la questione della “sostenibilità” del campo, intesa sia come capacità di entrare in una relazione equilibrata con l’ecosistema insediato, sia come facoltà di preservare l’identità, e quindi gli usi e i costumi, dei residenti. Inoltre il campo, la sua forma urbana, deve essere, per quanto vi concerne, in grado di garantire equità sociale ed evitare qualsiasi forma di ghettizzazione. A questi scopi l’autore suggerisce la relazionalità del progetto rispetto alle forme urbane e architettoniche sedimentate nel territorio – le più valide anche rispetto all’adattamento bioclimatico – e l’attento studio della vegetazione e del paesaggio, in maniera che il campo sia correttamente orientato (sfruttando l’esposizione più favorevole), occupi la minore area possibile di suolo e, quindi, stabilisca un equilibrio estetico e fisiologico con il paesaggio, dal momento in cui, scrive D’Auria, “appare evidente che la «sostenibilità globale» (…) ha a che fare in prima istanza con la salvaguardia dell’ambiente naturale – che determina per tanti versi quello culturale”. Anche in relazione alla necessaria conciliazione tra innovazione tecnologica e risultato estetico finale, che deve essere in grado come anticipato di tener conto delle aspettative dei residenti, l’autore analizza l’importanza delle Valutazioni d’Impatto Ambientale (VIA) in quanto strumenti capaci di “mettere a siste-

ma” le problematiche di natura ecologica, sociale, economica e paesaggistica valutando secondo approcci multi-criterio l’impatto sul territorio del nuovo insediamento. Per quanto concerne la scelta della tipologia dei moduli abitativi del campo, D’Auria sottolinea la necessità di evitare – per quanto possibile – residenze monofamiliari disseminate sul terreno in favore di una compattezza e di una densità che permettano la vitalità dei nuovi spazi. Il testo chiarisce anche l’importanza, al­l’interno del campo, di un baricentro – ispirato dalle migliori esperienze urbanistiche internazionali, dalle New Towns britanniche alle migliori pratiche svedesi definite come vincenti ibridi razional-organici – dove si condensino le attività collettive (scuole, servizi pubblici, attività di rappresentanza, eccetera), in maniera da rendere possibile lo sviluppo di uno “spazio pubblico” non come mera somma di spazi esterni accessibili, ma come spazio capace di supportare lo sviluppo di uno spirito comunitario e l’espressione del potenziale individuale. Ciò, secondo l’autore, può essere ottenuto non già con la semplice presenza di ambienti aperti, ma attraverso una corretta costituzione/configurazione degli spazi esterni, disposti secondo un tipo urbano la cui struttura sia coerente, continua, connessa; configurati attraverso un sistema policentrico composto da unità spaziali differenziate e ciascuna dotata di una propria enclosure, di un precipuo carattere, costituendo così materica spina dorsale della comunità.

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Da qui l’autore suggerisce il borgo medievale come tipo urbano più adatto per un nuovo insediamento, dal momento in cui la variatio, l’interconnessione, l’irregolarità e, in una parola, la complessità di tali tessuti meglio si prestano al raggiungimento dei suddetti obiettivi. D’Auria sottolinea l’importanza vitale di spazi verdi attrezzati pubblici e suggerisce edifici che – secondo la lezione di Aldo Rossi – adottino, per quanto possibile nei limiti di un linguaggio contemporaneo, i colori, i materiali e le forme del contesto urbano originario, preservando così il carattere dei luoghi. Le costruzioni, anziché stilisticamente povere ed eccessivamente uniformi, dovrebbero permettere inoltre modifiche, personalizzazioni e addizioni; ciascuna residenza dovrebbe essere altresì dotata di una propria area verde privata, evitando l’utilizzo di capsule abitative interamente prefabbricate – inadeguate alle necessità psicologiche di un insediamento permanente – e l’eccesso di tecnologia sempre più comune che trasforma il progetto in una bizzarra spettacolarizzazione. Ciò dovrebbe contribuire a evitare l’artificiosità dei campi tradizionali e a permettere un eventuale riutilizzo per destinazioni d’uso differenti (studentati, alloggi per giovani coppie, impianti turistici o strutture per l’accoglimento dei migranti). In conclusione, “Abitare nell’emergenza” suggerisce che il nuovo insediamento sia rispondente agli standard tracciati dai protocolli internazionali per la sostenibilità (tra cui il LEED) con edifici a zero emissioni, e sia progettato utilizzando come tracciati

regolatori di partenza eventuali sentieri già presenti nell’area, di modo che la forma del nuovo borgo, oltre ad essere intrinsecamente ecocompatibile, sia organicamente intrecciata al suo sito anziché rigidamente sovrimposta, mirando a una profonda e armonica fusione tra il nuovo insediamento e il suo ambiente. M. C. A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo, Donzelli editore, Roma, 2014. Orizzontalità, invisibilità, tem­ poraneità, diffusione, partecipazione, sono alcune delle prerogative dei Monumenti per difetto, protagonisti dell’ultimo libro di Adachiara Zevi. Scritto in occasione del Settantesimo anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, come prosecuzione del primo libro dedicato alla strage romana (Adachiara Zevi, Fosse Ardeatine, Universale di Architettura, ed. testo& immagine, Torino, 2000), il volume traccia una riflessione ulteriore sul ruolo e sull’evoluzione di monumenti e memoriali. Il mausoleo romano, esito del primo concorso dell’Italia democratica (1945), pone le basi per alcuni atteggiamenti e linguaggi che sono diventati indispensabili in un progetto di memorializzazione. Se, fino ad allora, le prerogative dei monumenti erano state: unicità, staticità, ieraticità, persistenza, iper­ trofia dimensionale, simmetria, centralità, retorica, indifferenza al luogo, aulicità dei materiali, eloquenza, esproprio delle


emozioni, il mausoleo segna una prassi mnemonica nuova. Non è più una semplice stele, un oggetto da contemplare, ma diventa un percorso da agire per rivivere personalmente il dramma. Analizzando la distribuzione dei singoli episodi, naturali, artistici e architettonici che si ritrovano lungo il percorso, si nota come il centro del monumento sia un vuoto. Da questo spazio dell’assenza è possibile scorgere tutti i singoli eventi che strutturano il piazzale e che si possono fruire liberamente: la collina, l’ingresso alle gallerie, il luogo delle sepolture e il gruppo scultoreo. In questo senso il mausoleo si pone come antitesi del monumento: non occupa infatti una postazione privilegiata né impone un percorso preferenziale, ma, quasi invisibile dalla cancellata d’ingresso si fa fruire dinamicamente, come uno dei tanti episodi del complesso, per visioni di scorcio, parziali e successive. A partire dalle Fosse Ardeatine come luogo da percorrere, spazio architettonico fruibile, l’autrice traccia le tappe principali dell’evoluzione del monumento che diventa brano di città, monumento a scomparsa o invisibile e, infine, monumento diffuso. Ogni tappa si concentra su un caso studio esemplare che viene analizzato, descritto e interpretato in modo approfondito, con continui rimandi alla storia dell’arte che arricchiscono costantemente la lettura di significati e spunti interessanti. Passo successivo al mausoleo romano è il Memoriale per gli ebrei assassinati in Europa (Denkmal fuer di ermordeten Juden Europas) dell’architetto Peter Eisenmann a

Berlino perché riprende ed estende il carattere urbano del monumento. Il processo che ha portato alla realizzazione del memoriale è stato lungo e ricco di controversie; le prime richieste di costruzione compaiono nel 1988 ma bisognerà attendere fino al 2005 per vederlo realizzato. In mezzo ci sono stati due concorsi, 528 progetti presentati, titubanze e una serie di vicissitudini. Alla fine la scelta è ricaduta sulla proposta di Eisenmann-Serra che, a causa dei sostanziali cambiamenti richiesti rispetto al progetto originario (una diminuzione del numero dei pilastri, una diminuzione della loro altezza, un ampliamento della larghezza dei corridoi) verrà firmato solo dal­ l’architetto. I 2711 pilastri che compongono il memoriale nascono da una griglia urbana con chiari riferimenti al minimalismo. Alcuni accorgimenti, come la variazione delle altezze dei singoli parallelepipedi e il movimento del suolo, rendono la fruizione del visitatore “instabile, dissestata e squilibrata”. La griglia razionale diventa struttura labile, disorientante, insicura e rispecchia il tema della follia, della ragione che diviene pazzia. Il memoriale di Eisenmann rappresenta una nuova tappa nella storia della commemorazione: da monumento come percorso a monumento come brano di città […] il memoriale di Berlino è sempre aperto, come il resto della città; ci si imbatte in esso senza saperlo. C’è chi ha criticato il memoriale perché sottoposto ad ogni genere di evento improprio, definendolo a toilet, chi perché troppo labirintico e concettuale, chi perché non ha

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nulla di autentico. In realtà proprio la contaminazione degli usi, la profanazione dello spazio, per usare le parole di Giorgio Agamben, permettono di far entrare questo memoriale nella vita di tutti i giorni. La scelta più radicale spetta però al contro-monumento o monumento a scomparsa, definizione che racchiude una serie di atteggiamenti che caratterizzano alcune opere dalla metà degli anni Ottanta a oggi, in cui la Zevi individua il tipo di realizzazione più consono alla cultura ebraica: l’ebraismo è una religione anti-idrolatrica, che mette al centro la responsabilità in­dividuale, la tradizione orale, il libro, il commento e l’interpretazione continua. Il monumento tradizionale invece spinge all’idolatria, perché lo si venera, ci commuove e fa piangere. I contro-monumenti, termine coniato dallo storico americano James Young, si pongono, come dice la parola stessa, contro uno o più caratteri esemplari del monumento. Il Monumento contro il fascismo, la guerra, la violenza – per la pace e i diritti umani dei coniugi Gerz (Mahnmal gegen Faschismus, Krieg, Gewalt – für Frieden und Menschenrechte, 1986) è il caso per eccellenza. Una colonna quadrata alta dodici metri e destinata alla lenta scomparsa nel suolo dopo sette anni, si trasforma in monumento attivo poiché richiede la partecipazione della popolazione nel processo di rielaborazione della memoria. Il suo intento non è di consolare ma di provocare, non vuole rimanere in eterno ma essere soggetto al continuo cambiamento e alla spa­ rizione, vuole stimolare un’interazione con i passanti, non rima-

nere perfetto, ma poter essere violato. I contro-monumenti in alcuni casi dimostrano “fisicamente” la loro volontà di andare “contro” a dei caratteri noti e codificati, in altri riducono al minimo l’ingombro materiale e l’espressività, diventando mimetici, come nel progetto dei cartelli di Renata Stih e Frieder Schnock nel quartiere Schöneberg di Berlino, o invisibili come nel Monumento contro il razzismo a Saarbrücken: il monumento dei Gerz è orizzontale, coincide anzi con il pavimento, con la strada, con la città. Nel­l’im­pos­ sibilità di distinguerlo dal semplice manto stradale, si cammina su di esso, su quei nomi, su quei cimiteri interrati. Prima di giungere all’ultima tappa di questo percorso, l’autrice si sofferma sulla descrizione di due musei, entrambi fondamentali per il ruolo che hanno avuto nel percorso di definizione della memoria collettiva in relazione ai drammi della Shoah: il National Holocaust Memorial Museum di Washington come memoria letterale e il Jüdisches Museum di Berlino come memoria esemplare, per usare le definizioni di Tzvetan Todorov. Nel primo caso il museo ricrea in modo letterale nel­ l’organizzazione degli spazi e nella selezione dei materiali, l’atmosfera di distruzione e controllo di un campo di concentramento: Il progetto realizzato si mostrava alla fine come un campo di concentramento contratto e rinchiuso su se stesso, forse più simile a Mauthausen che ad Auschwitz, con torrette ravvicinate, camminamenti aerei simili a quelli dei capannoni industriali o ai percorsi “separa-


ti” previsti per i cittadini ebrei durante il nazismo (Ruggeri Tri­ coli, Trauma. Memoriali e musei fra tragedia e controversia, 2009, p. 396). L’ampliamento di Daniel Libeskind rappresenta nell’architettura stessa il dramma; l’edificio è pensato come luogo performativo, un meccanismo che il visitatore può interpretare secondo le sue sensazioni, attraversando e percorrendo lo spazio, non traduce in modo letterale gli spazi ma evoca delle sensazioni. Libeskind definisce il suo progetto Between the lines, dall’intersezione di due line spezzate si formano cinque grandi spazi vuoti che simboleggiano una perdita, una mancanza. Il museo di Berlino con la sua architettura diventa esso stesso memoriale, raccontando in prima persona, nei percorsi, nei vuoti e negli spazi, la memoria degli eventi, è un’architettura emozionale. Dopo questa necessaria digressione sul ruolo del museo come contenitore di memorie per eccellenza, la Zevi conclude il suo viaggio con il monumento diffuso, per ora ultimo baluardo di questo percorso di 70 anni di storia dei monumenti. Caso paradigmatico sono gli Stolpersteine, termine tedesco che significa pietre d’inciampo, del­ l’artista tedesco Gunther Dem­ ning. Obiettivo titanico e quasi impossibile del progetto è riportare a casa le 10 000 000 persone che hanno perso la vita nei campi di concentramento. Iniziato nel 1993 a Colonia, il progetto conta oggi 45 000 nomi incisi in 17 paesi europei e 898 città tedesche. L’opera consiste in un piccolo sampietrino d’ottone posto davanti alla porta di casa in cui abitò il deportato e sul

quale sono incisi il nome della persona, l’anno di nascita, la data e il luogo di deportazione e, quando nota, la data di morte. L’assenza di retorica, nella targa si inciampa infatti casualmente, l’integrazione urbana, la diffusione, il rapporto tra passato e presente e tra individuo e collettività rendono il monumento ancora più distante dai suoi caratteri originari di unicità e centralità: non sono centripete come un monumento, non occupano un luogo simbolicamente prominente ma sono centrifughe come una mappa urbana. Non esigono contemplazione ma una fruizione dinamica e temporalizzata. Nell’evoluzione tracciata dalla Zevi emerge una nuova visione poetica del monumento quale strumento prezioso per una rielaborazione attiva, critica e personale della memoria, ma il passato non elaborato, cioè non compreso, non divenuto esperienza, pesa come un’eredità muta, minacciosa, sul futuro (Jed­ lowski, Memoria esperienza e modernità, 1989, p. 144). La memoria cessa di essere concepita come un monolite di pietra che funge da simbolo e monito, per diventare un’espressione fluida attraverso l’uso di forme maggiormente conciliatorie in grado di penetrare nella vita di tutti i giorni. Il libro non ha una vera e propria conclusione, lascia aperta la strada a nuove tappe, nuovi progetti che attraverso l’arte e l’architettura siano in grado di stimolare una elaborazione sempre nuova della memoria e della storia. M. B.

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Gio Ponti, Amate l’Architettura, Rizzoli, Milano 2014.

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Il volume di Gio Ponti, Amate l’Architettura, è la riedizione di un lavoro del 1957 di cui recentemente Rizzoli ha pubblicato la terza ristampa integrale. È un volume con pagine di diversi colori tanto che, visto di taglio, restituisce l’idea di un folder denso di appunti, questioni e temi raccolti in un succinto archivio. La passione e l’ottimismo per l’architettura che Ponti sente e descrive è, senza dubbio, passione per l’umano e testimonianza dell’umano vivere. Un intellettuale equidistante anzi distaccato da tutti gli indirizzi, da tutti i movimenti istituzionalizzati e definiti – novecento e razionalismo – anche se osservatore partecipe, curioso e cordiale di tutto quanto costituiva dibattito, pensiero, lavoro. È necessario fissare questo, che è la descrizione che Lisa Ponti fa di suo padre, per comprendere il valore che assume l’architettura di Ponti che è forma profondamente ed intimamente legata ad una idea precisa dell’architettura, che è regola, come possibilità di indagare il possibile, guardando contemporaneamente i fatti singolari e la loro appartenenza al molteplice, così come l’essere e il divenire. Questa rimane, probabilmente, la ragione di fondo per prendere oggi ancora in mano il libro e ritrovare questa sintesi di anima e di corpo, di progetto e costruzione che appare oggi irrimediabilmente perduta, e vivere le atmosfere dei suoi lavori densi di tensione narrante ininterrotta e precisa. Icona della modernità, Amate l’architettura, è un libro-breviario, autobio-

grafia di un autore nella sua piena maturità. Ponti ha 66 anni, ed è all’apice della sua carriera, anni in cui vede sorgere l’opera che più gli assicurerà popolarità internazionale, il Grattacielo Pirelli (1956-1960). L’architettura è un cristallo per Gio Ponti, una forma definita e conclusa, come un’opera d’arte che non si può perfezionare. In quest’idea di purezza cristallina, si introduce un rapporto fra architettura e struttura per definire ciò che deve essere visibile, in cui l’uso inventivo di materiali e tecniche risolverà le necessità di costruzione e durata. Architettura e struttura si possono identificare: secondo Gio Ponti il grattacielo Pirelli è un esempio. L’architettura del grattacielo mostra i principi di leggerezza, aspirazione alla durata, unione di tecnica e forma, rappresentatività, progetto della visione notturna, che Ponti ribadisce con chiarezza nel suo libro, quasi il testo fatto di appunti, frasi, colori, restituisse quella densità di azioni e conoscenza proprie del progetto di architettura. L’edificio condensa idee ed esprime una concezione unitaria e definitiva: la copertura è conclusa con una vela, tessere di ceramica ricoprono le strutture a vista, le vetrate continue su profili in alluminio sono un’invenzione tecnica e formale, le grandi luci libere in pianta propongono moduli spaziali e orientano la struttura portante su due coppie di setti trasversali centrali e, ai lati, sui quattro setti obliqui a vista. Una essenziale e appassionata architettura, come i suoi scritti. Potremmo definire così oggi il libro Amate l’architettura, essenziale e appassionato, un te-


sto che stratifica significati e definizioni, al pari di una costruzione e in fondo come tutti i testi che Gio Ponti ha pubblicato sulle pagine di Domus, di stile e in tutti i suoi scritti. Trent’anni di attività dal 1928, anno della fondazione della rivista Domus, fino alla stesura di questo originale volume, in cui l’architetto milanese ha messo in sequenza la sua idea di architettura attraverso una quantità impressionante di pensieri, non un libro sull’architettura ma un libro per l’architettura, non un libro architettato, ma una collezione di idee piuttosto che un coordinamento di idee … contano le espressioni di un pensiero comune per tutti, comunicabile e possibile a tutti. Un’esortazione, un imperativo forse, che oggi più che mai suona come una necessaria fiducia nel­ l’architettura e nel suo essere risultanza concreta delle attività umane che essa interpreta ed esprime, una dose di positività che porta con sé questo libro. Questa sua necessità di esprimersi con la scrittura è sicuramente insita nella sua adesione a ruoli molto speciali di un architetto operante tra gli anni venti e gli anni ’60, e oltre, che svolge contemporaneamente e parallelamente il mestiere di Direttore di una rivista di architettura. Rileggere oggi gli scritti di Ponti nel suo libro Amate l’architettura, da chiarezza e valore soprattutto ai suoi progetti, facendoci riconoscere le sottili trame del suo pensare l’architettura, dei suoi ragionamenti mai banali, sempre molto precisi pur spaziando in una vasta scala di intervento. L’architettura è un cristallo,

l’architettura pura è un cristallo, quando è pura, è pura come un cristallo, magica, chiusa, esclusiva, autonoma, incontaminata, incorrotta, assoluta, definitiva, come un cristallo. È cubo, è parallelepipedo, è piramide, è obelisco, è torre: forme chiuse e che stanno … Architettura comincia e finisce. È evidente solo ripercorrendo oggi le sue parole come Ponti pratichi l’esercizio della scrittura per verificare e dare pensiero ai suoi progetti ed alle sue opere. Era consapevole Ponti e nel suo libro ne ha dato testimonianza, della emblematica saldatura tra progetto, inteso come ideazione, e realizzazione, intesa come complessità tettonica. Il complesso Pirelli è, in questo senso, probabilmente l’opera che maggiormente testimonia questa consapevole saldatura, tema su cui ritorna a più riprese nel libro, una partecipazione decisa e vissuta, ad una ricerca di architettura nella sua finitezza che piegava a questa, tutte le altre dimensioni del costruire. Si trattava, senza dubbio, di una innata sensibilità e allo stesso tempo di una cifra culturale propriamente umanistica ancorata alla tradizione italiana, capace di coniugare scienza e arte, descrivendone negli scritti e nelle opere, autonomia e complementarietà, definendo l’idea e allo stesso tempo l’esigenza di una cultura collettiva, un terreno comune, un profondo e chiaro senso del significato di espressione. Possiamo dunque affermare che la metafora Pontiana dell’architettura come cristallo, di un’ar­ chitettura giudicabile come figura di perfetta compiutezza, con-

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sente di recuperare oggi il carattere di una essenzialità architettonica che rappresenta la condizione necessaria per amare ancora oggi l’architettura, metafora per inseguire un immagine di purezza, di ordine, di slancio e di immobilità, di perennità, di silenzio e di canto (di incanto) nello stesso tempo: di forme chiuse, dove tutto fosse consumato nel rigore dei volumi e di un pensiero. È evidente come il suo progetto è costantemente disegnato dalle parole e dalle espressioni che lo descrivono. Lo stile della scrittura di Ponti non è lo stile di chi scrive di architettura, così come di pittura o scultura, lo stile di Ponti non si rivolge alla letteratura come se questa fosse una scienza, parafrasando una espressione di Cesare Garboli ma, al contrario, costruisce un immaginario letterario a partire dalla costruzione dell’architettura e dal fare architettura. Ponti scrive di architettura per precisare il valore dell’architettura stessa, con pochi e misurati aggettivi capaci di cogliere l’essenzialità delle cose, come amava dire parafrasando Picasso e ritornando a parlare del suo grattacielo Pirelli nel 1974 … chi è giovane è giovane sempre. Questo edificio è nato giovane e adesso è come se fosse fatto oggi. Cioè non è invecchiato e non invecchierà mai perché è un edificio essenziale e l’essenzialità è una una virtù che non si può superare. In questo senso la modernità figurativa e costruttiva del palazzo Pirelli rappresenta da più di cinquant’anni la vera essenza del suo lavoro di architetto che fissa

il senso stesso di modernità non come valore in sé, ancorato semplicemente al progresso tecnologico e fattore di rottura con le tradizioni, ma modernità intesa come modulazione di un linguaggio collettivo in un preciso contesto storico e geografico come era Milano in quegli anni. I suoi scritti sono le pagine di un racconto autobiografico in cui si fondono il lavoro dell’architetto che progetta e costruisce con l’architetto che continuamente fissa e struttura il suo racconto dell’architettura, contesa tra una sostanziale contemporaneità ed una contiguità di significati tra antica e nuova architettura, indicando una traiettoria che può far affermare che, Amate l’architettura, ha consentito a Ponti di anticipare quel carattere comunicativo di immediata e agevole figuratività architettonica. Amava l’architettura dunque Gio Ponti e avvertiva la responsabilità del costruire … Dico spesso: obbedire all’edificio (cioè all’architettura). Ciò mi conduce ad addentrami in un argomento che mi è caro, quello di considerare la natura veramente appassionante di quei rapporti singolari che ad un certo momento insorgono … fra l’opera in progetto e chi la sta progettando; rapporti che, se obbediti … conducono vantaggiosamente, e difilato, a visioni generali e lucide dell’architettura … L’opera … va loro manifestando … le sue esigenze che sono di essenzialità, unità, verità, originalità, rappresentatività, coerenza … esigenze che debbono essere ascoltate, interpretate ed obbedite, cioè espresse … gli architetti hanno sem-


pre seguito un ordine e le antiche personalità (da Palladio, al Bernini) si sono espresse non nella creazione ma nel modo il più valido di sviluppare un’architettura nel quadro di un linguaggio accettato e di leggi riconosciute. Le «creazioni» non esistono in architettura… Ho conosciuto Ponti ascoltando, come lui diceva, l’edificio, il grattacielo Pirelli, e raccogliendo tutta una serie di indizi e tracce che continuamente hanno reso evidente la struttura del suo testo e la sapiente semplificazione di ragionamenti inizialmente e naturalmente complessi. Un testo perfettamente leggibile in quanto ordinato con le chiare e millenarie regole del costruire. Immaginare una architettura equivale, nel testo Pontiano, a costruire il luogo della condivisione di saperi e di azioni. Ancora oggi nel progetto per il suo restauro, l’edificio Pirelli, così come accadeva durante la sua realizzazione, ha fissato le ore più belle dedicate a questo edificio … che ci raccolgono tutti a ragionare attorno ad esso, ed è (e sarà) l’edificio a renderci sempre tutti concordi. G. M. M. Panzeri, Architettura moderna e progetto umanistico. Storia, formazione, comunità (1945-1965), con contributi di G. Contessi e M.A. Crippa, Jaka Book, Milano 2013. Un nuovo contributo storiografico utile alla comprensione della storia dell’architettura va sempre accolto con favore e letto

con attenzione, in particolare per quanto riguarda gli avvenimento del Novecento. La proliferazione di pubblicazioni sull’architettura contemporanea scaturisce spesso da una maggiore scorrevolezza di lettura per il pubblico interessato e da una maggiore convenienza per il mercato che abbraccia la fortuna di questo filone oramai non più di nicchia, ma che anzi ha raggiunto oramai una consolidata felice veste grafica. Parliamo di analisi storico-critiche di singoli codici stile e reportage compilativi sulla produzione d’au­ tore, monografie che possono presentarsi in una veste più o meno divulgativa, più o meno scientifica o, ancora, integrazioni e aggiornamenti degli studi, talvolta circoscritti a particolari aree territoriali. Un discorso analogo vale anche per il libri di storia dell’architettura in cui scorre linearmente il corso degli eventi secondo gli stilemi a noi più consuetudinari. Il mercato librario negli ultimi decenni celebra con una certa continuità il successo dell’architettura contemporanea, che ha raggiunta una significativa visibilità anche nei confronti del grande pubblico per il carattere mediatico delle grandi opere, addirittura la sua spettacolarizzazione ha rafforzato la qualità artistica delle stesse fotografie di architettura, con un successo che ha raggiunto la grande distruzione. Come è evidente però questo rincorrere gli eventi riduce sempre più il tempo di vita di un testo. Al contrario, prospettive critiche nate sulla base di nuove ricerche o scaturite da formazioni culturali eterogenee risultano certamente di grande stimolo per il rinnovo della

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storiografia di settore per gli studiosi più curiosi. Oggi, appare sempre più chiaro che il crollo delle ideologie avvenuto alla fine del cosiddetto ‘secolo breve’ ha messo fortemente in crisi il sistema delle periodizzazioni, inclusa la stessa universalità che aveva inteso raggiungere il Movimento Moderno, mentre un emergente tematica della rottura pone nuove domande per nuove periodizzazioni ed evidenzia regionalismi espressivi all’interno dello stesso razionalismo antistoricistico. Una misura del cambiamento può essere vista nella revisione del percorso metodologico nella stessa arte del costruire. Un progetto di umanesimo è effettivamente esistito nel secondo dopoguerra, oppure l’attribuzione della qualifica di umanistica all’architettura moderna di quel periodo è in realtà propria della storiografia più recente, a noi contemporanea? Partendo da questo presupposto, una tematica dell’umanesimo del moderno è stata ricostruita e rintracciata nello studio di Miriam Panzeri. Il lavoro è il frutto del dottorato di ricerca in Storia dell’arte contemporanea, sostenuto nel 2012 presso l’Università degli Studi di Torino e l’Université Paris 1 Panthéon Sorbonne su Il progetto di un nuovo umanesimo nella cultura architettonica in Italia e in Francia dopo la Seconda guerra mondiale (1945-1965). In tal senso, il libro è incentrato sull’analisi della intenzionalità di un nuovo umanesimo nella cultura architettonica in Italia dopo il 1945. Ma cosa è esattamente l’umanesimo? Senza volere entrare nello specifico delle sue differen-

ze definizioni che si sono avvicendate nel corso della storia, in particolare per quella del Novecento, potremmo ascrivere all’umanesimo principalmente i principi della storia dell’uomo, gli ideali della libertà e l’atto pedagogico, che rinvia quindi a cultura ed educazione classica. La novità dell’apporto alla storia dell’architettura trova corrispondenza nell’approccio culturale da parte della giovane storica dell’arte, come nota in apertura Gianni Contessi (Movimenti moderni e storicità del progetto umanistico). Questi rileva che se l’architettura storicamente è una delle arti del disegno di vasariana memoria e se, banalmente, si contempla che l’insegnamento della storia dell’arte possa essere affidato a chi ha compiuto studi di architettura, non si comprende perché da qualcuno non sia ammessa la possibilità reciproca e opposta: vale a dire che non l’architettura in quanto specifico corpo disciplinare, bensì la critica e la storiografia possano essere coltivate dagli storici dell’arte, a loro volta refrattari a occuparsi dell’architettura contemporanea. La ricerca si muove e fonda la propria rilettura attraverso uno studio quasi esclusivo delle fonti, ritornando alle origini delle storie dell’architettura, scevra del peso critico successivo ai primi apporti della critica coeva, liberandosi della stratificazione storiografica, tranne poche e rare eccezioni di scuola. Un tentativo di compensazione di questo presupposto viene colmato in conclusione con gli Appunti per una bibliografia, in cui Panzeri


inserisce una nota sintetica, imperfetta e incompleta per sua ammissione, con lo scopo di offrire la traccia minimale della ricerca e quei contributi più recenti che aiutano a meglio definire il significato di umanesimo moderno. Con un atteggiamento quasi archeologico, l’autrice procede per strati preoccupandosi di recuperarne uno alla volta nel modo più nitido possibile, senza pretendere di ricostruire subito l’intera storia del sito, come sottolinea Maria Antonietta Crippa nella sua postfazione (Per la continuità di un’architettura come «mondo umano»). Un metodo filologico strumentale alla conoscenza, più che all’interpretazione, delle coordinate culturali di una intenzionalità e di una volontà di moderno all’interno della storia e non più contro la storia stessa; un’indagine che intende servire alla critica un ripensamento sulle origini della trasformazione del linguaggio dell’architettura più recente inserito nella didattica della storia militante e fondativa di quegli anni. Il libro si compone di tre parti, a cui corrispondono tre eroi che hanno consentito la trasformazione di una progettualità a lungo sperata, ma poi disattesa per le contingenze storiche e per le direttive assunte dal regime prima della liberazione. Tre esponenti di spicco della borghesia ebraica in Italia e protagonisti della cultura in Europa capaci di avviare il processo critico, teorico e applicativo del progetto umanistico: Bruno Zevi, Ernesto Nathan Rogers e Adriano Olivetti. Il capitolo sull’Umanizzazio-

ne dell’architettura: dalla storia alla Bildung è interamente dedicato al contesto storico-culturale che guida Zevi all’insegnamento presso l’Istituto Universitario d’Architettura di Venezia e al suo apporto nella valorizzazione della storia dell’architettura nella formazione universitaria e al ruolo operativo della storia stessa, ovvero della trattazione di soggetti storici quale mezzo di storicizzazione della contemporaneità, incentivando il confronto e la traslazione di istanze da altre epoche a quella dell’attualità. Si profila così un processo che ha reso contemporaneo il valore della storia, aprendo di fatto il concetto di monumentalità alla stessa architettura contemporanea che da cronaca si è fatta storia. L’autrice sottolinea che, preoccupato del distacco che si è andato accentuando tra progettazione e studio della storia, Zevi propone delle riforme perché la disciplina storica diventi ‘il cardine non soltanto delle facoltà ma di tutta la vita e la cultura architettonica’. Infatti, il giovane professore di Storia dell’arte e storia e stili dell’architettura è consapevole che tale introduzione influenzerebbe l’intero corso degli studi, apportando cambiamenti rilevanti nell’educazione professionale dei futuri architetti. Invitando gli storici dell’arte ad accogliere le ragioni dello studio della storia dell’architettura moderna, lo stesso Zevi sottolinea quanto sia sempre la coscienza dell’arte contemporanea a determinare le prospettive dell’interpretazione storica e, quindi, del giudizio estetico. Pertanto, senza un approfondimento della conoscenza della genesi e

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degli sviluppi dell’arte moderna, un critico d’arte rinuncia a vedere con occhi moderni. All’interno del rapporto tra storia e progetto, l’autrice mette in evidenza quanto i quindici anni di insegnamento trascorsi allo IUAV non lo hanno bloccato nella torre eburnea della sicurezza metodologica: egli si pone e pone il proprio metodo nuovamente in gioco. Invertendo i ruoli, Zevi fautore di una storia operativa dell’architettura, nelle sue prolusioni ai corsi, sottolinea che l’interesse del docente storico nei confronti della contemporaneità progettuale si rivela indispensabile anche nella formazione universitaria. Come il riuso del neo-dorico nell’Europa di Bonaparte incarna valori democratici che rinviano all’Atene di Pericle e assume valori moralizzanti, così per Zevi la volontà di umanizzare si confonde e coincide con il bisogno di moralizzare, avviando in questo modo la coltivazione di un progetto di nuovo umanesimo urbano. Il capitolo intermedio, Progettare un nuovo umanesimo: dalla Bildung alla storia, concentra l’attenzione sull’apporto di Ernesto Nathan Rogers all’umanizzazione dell’architettura. Questi, af­fine eppure lontano dal collega Zevi, radica nella più recente attualità gli argomenti degli editoriali nelle riviste da lui dirette. Individua nel principio della libertà uno dei valori fondanti dell’umanesimo, ma ancor di più nella conoscenza storica uno dei principi formativi del nuovo architetto. Egli ammira l’umanesimo rinascimentale per la capacità di interpretare la storia e di river-

sarla in una nuova tradizione e in una continua evoluzione formale. Secondo una tripartizione albertiana che chiama in causa utilità, morale ed estetica, Rogers indossa le vesti dell’architetto-intellettuale alla maniera in cui Leon Battista Alberti era intervenuto attraverso i suoi scritti. Il principio di libertà e l’applicazione alla comprensione sensibile dei fenomeni storici, nota l’autrice, conducono lo sforzo didattico di Rogers dall’apologia della storia al pericolo dello storicismo, inteso nell’accezione che tale filosofia è andata acquisendo dalla metà degli anni quaranta. Ma questo atteggiamento non riesce ad evitare alcune ambiguità interpretative e formali da parte dei suoi allievi che mettono in gioco le questioni dello stile. Avviene così che Rogers abbracci l’ortodossia della libertà e dell’eterodossia per tenere vivo un colloquio costruttivo, affermando che la libertà genera libertà e inoltre lo sforzo di comprensione verso il pensiero degli altri fa sì che non cadiamo nel quietismo. In anni di vivacità culturale e di attiva polemica, storia e storicismo non possono essere coincidenti. Nel corso della lettura, Panzeri chiarisce gradualmente come durante gli anni cinquanta, la storia è diventata la più attiva tra le discipline vicine al­ l’architettura, forte anche del­ l’evanescenza della teoria architettonica coeva. Mentre, negli anni sessanta, la storia e la tradizione rappresentano valori peculiari di un’epoca che si sta chiudendo. Il valore della libertà dalla casa dell’uomo alla casa della


comunità restituisce un Adriano Olivetti come nuovo signore del­ l’umanesimo italiano. L’industriale, attraverso la propria esperienza, fa rivivere il ruolo della committenza della prima età moderna. Come Lorenzo il Magnifico con la sua cerchia di artisti e intellettuali, ma soprattutto come Alfonso d’Aragona, duca di Calabria, con il Poggio Reale di Napoli è il regista unico di un complesso cresciuto per episodi singoli, costruendo uno dei modelli di riferimento per la villa moder-

na, così Olivetti ad Ivrea apre una nuova stagione per l’architettura in Italia. La questione umanistica appartiene piuttosto alla modernità architettonica del periodo maturo, post-rivoluzionario, e non già alle metamorfosi strutturaliste o antropologiche degli anni sessanta; ieri come oggi, la maturazione del processo umanistico ha rinnovato il linguaggio nel segno della continuità storica e culturale. M. V.

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Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 61. Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62.  Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63.  Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64.  Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65.  Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre N. 66.  Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre N. 67.  Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre N. 68.  Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69.  Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70.  Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre

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N. 71.  Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre


N. 72.  Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73.  Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74.  Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75.  Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76.  I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre N. 77.  Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre N. 78.  L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79.  Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80.  Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81.  Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82.  Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre N. 83.  Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre N. 84.  Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85.  Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86.  Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87.  Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre

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N. 88.  L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89.  Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90.  L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91.  «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92.  Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93.  La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94.  Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95.  Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96.  Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97.  Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98.  Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99.  Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre N. 100.  Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101.  Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102.  Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre

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N. 103.  Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre


N. 104.  La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105.  L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106.  Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107.  Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108.  Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109.  Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110.  Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111.  Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112.  Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113.  Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114.  L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115.  L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre N. 116.  Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117.  Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118.  Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre

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N. 119.  L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120. Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121.  La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122.  L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123.  Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­ l’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125.  Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126.  L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127.  Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128.  Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129.  Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 131.  Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 132.  Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI


N. 133.  Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134.  Abitare la razionalità - Per una nuova clas­si­ficazione delle arti - Il design ae­ro­nautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135.  Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137.  Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138.  Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­ l’ADI N. 139.  Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibattito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 150. Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 151. I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale - Le pagine dell’ADI N. 152. Due modi di essere nel web - De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità - La crisi del prodotto nel “design del prodotto” - Libri, riviste e mostre

Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998

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