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maggio 2009
numero 135
Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli
Electa Napoli
Selezione della critica d’arte contemporanea
rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Alessandra de Martini, Emma Labruna, Livio Sacchi Segreteria di redazione: Rosa Losito Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 081/7690783 Amministrazione: 80121 Napoli, Via dei Mille, 16 - Tel. 081/4297440 Un fascicolo separato e 9.00 (compresa IVA) - Estero e 10.00
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Electa Napoli
L. Prestinenza Puglisi, Costruire di nuovo D. Baroni, Il design ai tempi della crisi N. Galvan, Arte programmata e Manfredo Massironi Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Rossano Astarita, Beatrice Benedetti, Francesca Lanz, Federica Lombardini, Angela Rui.
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Costruire di nuovo LUIGI PRESTINENZA PUGLISI
Quando, qualche anno fa, il sindaco di Bologna Sergio Cofferati decretò l’abbattimento delle Gocce di Mario Cucinella ebbe un plauso che oggi si direbbe trasversale. La gran parte dei bolognesi, di destra, di centro e di sinistra non tollerava che proprio nel cuore della città potessero sorgere due leggere strutture di forma e di materiali moderni. E ai pochi che sottolineavano che l’intervento di Cucinella era di dimensioni modeste, rimuovibile e tale da risolvere brillantemente la penosa storia di un sottopasso che, abbandonato, era diventato un elemento di degrado urbano, si rispondeva che mai nessuno aveva osato accostare forme tanto stridenti alla piazza simbolo della storia della città e sede del palazzo di re Enzo. Dimenticando, ovviamente, che questo edificio apparentemente medioevale era in realtà il frutto di un successivo e molto fantasioso rifacimento. L’episodio è emblematico. Contro l’architettura contemporanea, non importa quanto moderata, si coalizza immediatamente una schiacciante maggioranza. Che crede ancora al mito del Belpaese, che gode nel consumare i pasti nell’Antica Locanda o nell’Antico Forno, che va alla ricerca del Mulino Bianco e che scrive accanto alla propria attività commerciale “dal 1898”, dal “1956” o addirittura “dal 1988” come se il tempo passato fosse di per sé sinonimo di qualità. Il risultato è che il Paese si sta proponen-
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do anche agli operatori turistici come un luogo vecchio e ammuffito. Lo testimonia la recente proliferazione di pubblicità che vantano le nostre città d’arte come luoghi in cui il tempo si è fermato. Valga per tutti quella recente promossa dalla città di Ferrara dove si mostra la foto di una strada del centro storico senza persone e senza veicoli, mentre la scritta promette l’alta velocità. Quella, ovviamente, del pensiero che chissà per quale ragione, in un ambiente così depresso, dovrebbe correre a mille. E così se prima “modernità” era parola magica per giustificare qualsiasi scempio, oggi “storia” è il passe-partout per bloccare qualsiasi iniziativa anche la più ragionevole. Si può, infatti, essere d’accordo che la nuova teca dell’Ara Pacis firmata da Richard Meier non sia un capolavoro, ma certo è un’opera onesta e necessaria per valorizzare un reperto che giaceva da anni nel più miserevole stato di abbandono. Contro la sua costruzione si è sollevato, invece, un diluvio di critiche che, poi, anche di fronte all’evidenza – e cioè il successo in termini di dati d’afflusso della struttura – ha fatto fatica a fare marcia indietro. Da qui l’imbarazzo del neosindaco Alemanno che dopo aver dichiarato, in campagna elettorale, che l’obbrobrio doveva essere demolito, ha dovuto arrampicarsi sugli specchi, una volta eletto, per salvare insieme faccia e buon senso. Ciò che è stato, affermano compatti ambientalisti e soprintendenze, non può essere modificato o alterato. E non solo fisicamente ma anche simbolicamente. A Torino non si può realizzare un grattacielo più alto della Mole Antonel liana, a Pisa della Torre pendente. Lo sanno bene Renzo Piano e Dante Benini che hanno dovuto limitare l’altezza delle loro proposte, anche se lontane chilometri dai suddetti monumenti. Una limitazione questa che ha poco o nulla a che vedere con le valutazioni estetico formali che invece sarebbe opportuno mettere in campo quando si discute di nuovi edifici. Vi sono poi gli interventi nelle aree verdi o nella campagna. Dove è ammesso solo lo stile rurale: paramenti in
pietra, tegole in cotto, archi in mattone, possenti travi di legno a vista. Come se – e per di più dopo le lezioni della Casa sulla Cascata di Wright o di casa Farnsworth di Mies – in campagna non si possa vivere che in finti casolari e solo il peggior stile vernacolare sia in grado di garantire il rispetto del territorio. Altrimenti è subito pronta una campagna stampa, magari sul Corriere della Sera e su La Repubblica con titoli che parlano di ecomostri e di cementificazione. Seguiti dall’appello di numerosi intellettuali. A testimonianza che il fronte del no, oltre ad essere trasversale, non nasce solo dai pregiudizi di chi si rifugia nella storia a buon mercato per fuggire dallo squallore della periferia, ma è il portato di una visione reazionaria oramai profondamente radicata nella nostra cultura. Quella, per capirci, che ancora crede che il futurismo sia stato un fenomeno eccessivo, che Giovanni Pascoli e Giosuè Carducci fossero grandi poeti, l’Eur un centro direzionale sin troppo moderno e Marcello Piacentini un poeta che ebbe solo il torto di aderire al fascismo. Per loro l’Italia è il Paese dove regna l’equilibrio e la bellezza. Che non può essere alterato con ipotesi avventate e tanto meno con nuove costruzioni. Come prova la vicenda dell’auditorium di Ravello affidato, grazie a una intuizione di Domenico De Masi, al brasiliano Oscar Niemeyer. Credo che poche vicende siano state tanto tormentate. E se la si è potuta risolvere ciò è stato dovuto solo a due fattori: la perseveranza di De Masi che ha smontato le accuse che venivano mosse alla costruzione e la scelta del progettista, unanimemente considerato uno dei maggiori a livello mondiale e per di più centenario e quindi abbastanza anziano da non incorrere nell’accusa di essere il frutto del fenomeno dello star system. Anche in questo caso si può discutere o meno sul valore formale della proposta dell’architetto brasiliano, ma ciò che colpisce è l’ottusità con la quale gli ambientalisti hanno difeso lo status quo, dichiarando che la costiera amalfitana è bellissima ma dimenticando che, se lo è certamente in molti punti, in altri non lo è affatto. E che l’auditorium
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si trova a sorgere, riqualificandolo, proprio su uno di questi luoghi degradati. A dar voce al club degli anticementificatori, oltre che la stampa e gli intellettuali, concorrono i personaggi dello spettacolo. Tra questi Adriano Celentano, Beppe Grillo e Vittorio Sgarbi il quale ha scritto un libro sull’Italia vista come un paese sfigurato. Ma, poi, come assessore del comune di Piazza Armerina, ha avuto la responsabilità di quello che a mio parere è uno degli scempi archeologici più gravi della recente storia italiana. Lo smantellamento della sistemazione dei mosaici della Villa del Casale progettati da Franco Minissi: uno dei capolavori della museografia del secondo novecento. Al suo posto una ricostruzione della villa che, sempre a mio giudizio, rassomiglia molto alle peggiori operazioni disneylandiane. E poi i critici d’arte, che spesso di architettura ne capiscono poco e nulla, nonostante una brillante tradizione che risale a personaggi del calibro di Carlo Giulio Argan, Cesare Brandi, Sergio Bettini. Di architetti che, come Paolo Marconi, Italo Insolera, Pier Luigi Cervellati pensano che l’unica strada percorribile sia il riuso e la conservazione. E, infine, di sociologi che accusano l’architettura contemporanea di creare luoghi inumani e senza identità. Tra questi vi è Franco La Cecla che ha recentemente pubblicato un libro dal titolo Contro l’architettura. E il cui successo, anche tra gli architetti, è il segnale di una cultura che nei confronti del nuovo si muove con un atteggiamento sempre più masochista. Solo la rivista Casabella ha avuto il coraggio di stroncarlo mettendo in luce che l’intero saggio, più che una motivata critica dell’architettura, è un ben congegnato pamphlet pubblicitario che vuole ridimensionare il merito dei progettisti per mettere in luce quello dei sociologi. E la cui la tesi si potrebbe riassumere in: se mi prendete come consulente, potrete realizzare progetti migliori. Il movimento contro l’architettura ha dalla sua, ovviamente, alcune ragioni. A partire dagli anni cinquanta si è costruito spesso senza criterio. Da questo punto di vista,
l’ambientalismo è stato uno strumento per riflettere sul pae saggio e per salvare il territorio. Inoltre se non fosse stato per l’opera delle Soprintendenze, importanti opere storiche sarebbero state demolite o compromesse in maniera irrimediabile. Oggi però il quadro si è rovesciato e in maniera paradossale. Ogni albero appare come un’ultima spiaggia e ogni edificio di nessun valore come un’opera straordinaria meritevole di un atteggiamento conservativo e ricostruttivo. Di questa follia sono testimonianza anche le vicende travagliate di un paio di opere che si stanno oggi costruendo in Italia. Il Maxxi, il museo progettato dalla Hadid a Roma, è stato deturpato dalla imposizione di una facciata consistente in un frammento di una preesistente caserma. E si dice che il sindaco Alemanno abbia dato il benestare alla realizzazione del nuovo edificio di Renzo Piano all’Eur solo a condizione che l’architetto usasse più travertino. Come se questo marmo, molto usato nelle opere fasciste, garantisse da solo una maggiore aderenza al genius loci. Nello stesso tempo, mentre si tutela ossessivamente qualsiasi reperto ottocentesco o del primo novecento, anche il più banale e formalmente insulso, si accetta che il piccone demolitore si abbatta sulle poche opere di valore del secondo novecento che ancora resistono nel nostro Paese. Si ricostruisce in stile una mediocre stazione a Napoli ma non si tutela a Roma l’ampliamento della Galleria d’arte moderna di Luigi Cosenza, uno dei protagonisti del razionalismo architettonico. Si abbatte, ancora a Roma, il Velodromo di Cesare Ligini e si realizzano le torri di Renzo Piano proprio nel lotto in cui insistevano quelle – sempre di Ligini – che conseguentemente sono state demolite. Non si riesce a tutelare la casa Furmanik al lungotevere Flaminio di Mario De Renzi, a cui tra le varie mutilazioni sono state tolte le persiane scorrevoli che ne caratterizzavano il prospetto, e non si riesce a porre in Toscana sotto vincolo le opere di Vittorio Giorgini, uno dei protagonisti, colpevolmente dimenticati, delle vicende dell’avanguardia italiana degli anni sessanta.
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A rendere disgustoso questo delirio è la crescente opera di falsificazione e disneylandizzazione dei centri storici. Dove opera una strategia: quella del falso antico. Tralascio per brevità di parlare dell’arredo urbano: pacchiano e in finto ottocento, come se un lampione, una palina dell’autobus, un cestino della spazzatura, una panchina o un’edicola dei giornali non possano essere che in stile. Ma ciò che è ancora più grave è che tra i peggiori falsi vi sono i sempre più numerosi palazzi acquisiti e restaurati dalla Camera, dal Senato, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dal Quirinale, cioè da istituzioni che dovrebbero avere a cuore la modernizzazione del Paese. Vi è, infine, la strategia del “dov’era e com’era”. All’interno della quale annovererei la riedificazione del Teatro La Fenice a Venezia. Chi scrive non è contrario, in linea di massima a questa modalità di intervento. Anzi, in certi casi, rifare fedelmente un edificio può essere utile. Come lo è stato per il campanile a piazza San Marco a Venezia ricostruito identico dopo un crollo oppure per il padiglione di Barcellona di Mies van der Rohe. Bisogna però sapere che, quando si ricostruisce, la copia non è mai fedele all’originale, se non altro perché non si ha mai la documentazione sufficiente. In più si perde un’occasione per realizzare un’opera contemporanea che potrebbe arricchire il tessuto urbano con nuove ed inaspettate valenze. E se ridisegnare Piazza San Marco in maniera convincente è impresa pressoché impossibile – motivo per il quale è bene che il campanile sia stato riedificato tale e quale – progettare zone meno delicate è impresa doverosa, ovviamente a condizione che vengano consultati i migliori architetti. In proposito è utile ricordare che noi abbiamo perso occasioni d’oro: si pensi solo all’ospedale di Le Corbusier o alla palazzina di Wright sul Canal Grande a Venezia. E, detto tra parentesi, oggi con l’aria di conservazione che tira, sarebbe impossibile affidare a Carlo Scarpa, Franco Albini o BBPR le ristrutturazioni dei musei con i quali si sono resi famosi. E sono convinto che neanche la modesta casa alle Zattere di Ignazio Gardella a Venezia, la Bottega
di Erasmo di Gabetti e Isola a Torino o la palazzina INAIL di Giuseppe Samonà e di Egle Trincanato a Venezia sarebbero state autorizzate. La cultura del non costruire si basa su cinque assunti, cinque idola tribus, apparentemente razionali e ragionevoli ma in realtà poco sensati. Il primo è: c’è troppo costruito. Il secondo: la densificazione crea caos e disordine. Il terzo: il verde è una risorsa preziosa. Il quarto: il nuovo propone spazi invivibili. Il quinto: anche quando i nuovi spazi sono vissuti, distruggono l’identità dei luoghi. Vediamo di confutarli. A chi afferma che c’è troppo costruito e che in città come Roma un settimo degli appartamenti è sfitto, viene da rispondere che se ce ne fosse veramente troppo non ci sarebbe mercato e quindi non ci sarebbe richiesta edilizia. Mentre invece c’è ed è sostenuta, come testimoniano i prezzi troppo alti. Mentre un aumento dell’offerta di spazi calmiererebbe il mercato. Inoltre risulta che in Italia ci sono 36,3 mq. di abitazione pro capite, meno dei 62,7 del Lussemburgo, dei 43,6 della Svezia, dei 41,3 dell’Olanda, dei 36,6 della Francia. Mentre i mq. di territorio pro capite sono 5054, quasi il doppio dell’Olanda e del Belgio. Ovviamente questi dati non vogliono dire che occorra costrui re senza regole. Ma indicare che, a condizione che si punti alla qualità, è possibile pensare a nuove costruzioni. Soprattutto se queste sostituiscono quelle esistenti, spesso di pessima qualità che oggi si ritrovano in quasi tutte le aree semiperiferiche, periferiche e metropolitane. La seconda obiezione – che la densificazione crei caos e disordine – appare smentita dalle grandi realtà metropolitane. Manhattan, per esempio, è una città densa ma molto meno caotica di Los Angeles o della periferia di Napoli. Bisogna cominciare a pensare anzi che gli standard urbanistici nati dalla Legge Ponte sono uno strumento utile ma antiquato che non tiene conto che il verde può stare in quota, i servizi pubblici all’interno degli edifici con altre destinazioni, i parcheggi pubblici sostituiti da quelli privati combinati con un buon trasporto pubblico su ferro. Sia-
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mo tutti d’accordo, poi, che il verde sia una risorsa preziosa. Ma si dovrebbe anche pensare che oggi non ha più senso teorizzare la separazione tra città e campagna. Stiamo andando infatti verso la città territorio dove costruito e non costruito convivono in modalità nuove. E ciò, come hanno dimostrato gli olandesi, non vuol dire certo un abbandono della coscienza ecologica. Ma solo la consapevolezza che il verde è un materiale da costruzione, forse il più prezioso, ma come tanti altri. Che il nuovo costruito sia invivibile – e siamo al quarto postulato – è un preconcetto. Basta andare in giro per le migliori città europee che hanno realizzato in tempi recenti numerosi e qualificati interventi edilizi alla scala urbana quali Barcellona, Rotterdam, Londra, Parigi per rendersi conto che non è vero. E poi occorre considerare che, di regola, i nuovi quartieri per funzionare al meglio hanno bisogno di trenta quaranta anni. Solo in tale lasso di tempo gli abitanti riescono, infatti, ad imporre agli spazi quegli aggiustamenti che li rendono umani e vitali. Detto tra parentesi, ciò vuol dire che i progetti aperti e flessibili si adattano meglio, mentre quelli rigidi – quali lo Zen a Palermo o il Corviale a Roma – danno una cattiva prova di sé, proprio a causa di quella che da alcuni critici è considerata, invece, la prova dell’integrità formale e ideologica dell’opera. Il quinto punto – l’identità dei luoghi – è oggi particolarmente sentito. Ma si confonde l’identità, che è un processo che impone continue modificazioni e arricchimenti, con la ricerca dello stereotipo. Per ritornare a un esempio che abbiamo già fatto, il travertino non fa l’identità di Roma così come la pagoda non fa quella di un ristorante cinese. E oggi a costruire l’identità dell’Italia contribuisce, e non può non farlo, la sua dimensione europea e il suo appartenere a uno scenario mondiale. Non capirlo vuol dire costringerci a vederla come il paese delle pizze, delle piazze, della pasta, dei mandolini e delle gondole. Una prospettiva che direi repellente ma che si legge oramai in trasparenza nella maggior parte dei nostri centri storici sem-
pre più ingessati e mummificati. Si potrà sostenere che lo vogliono i turisti. Due risposte. Personalmente aborro l’idea di dover fare il centurione per attrarre a Roma visitatori. E poi, i dati dei flussi turistici mostrano che i paesi che stanno investendo in modernità ci stanno superando anche in questo settore. Segno che si preferisce un’ora di fila in meno in un museo attrezzato ed efficiente a una gita in gondola da cento euro dove, chissà perché, ti cantano anche O sole mio.
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Il design ai tempi della crisi DANIELE BARONI
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La vertiginosa caduta dei sistemi finanziari nei mesi di passaggio dalla fine del 2008 al nuovo anno, la crisi delle economie di mercato, gli effetti della globalizzazione, costringono molte imprese a serie riflessioni sull’offerta produttiva, anche quella strettamente connessa con le metodologie del design. Eppure la spinta non può che avvenire verso strategie innovative; a cominciare da uno dei settori che da alcuni decenni tengono alto il prestigio del «made in Italy»: il comparto del mobile e dell’arredo. Sulla fatidica domanda: «che fare?», si può ipotizzare che da questa sfida il sistema produttivo – dall’imprenditore al progettista, dal distributore internazionale ai curatori di fiere e esposizioni – dovrà fare di necessità virtù, fino al punto che qualche indicazione, o meglio, qualche tendenza innovativa, tra non molto prenderà forma. Va registrato purtroppo che una evidente stagnazione, nonostante la continuità della qualificazione produttiva, negli ultimi anni c’è stata. Tra gli studiosi e i critici, uno storico dell’arte come Fulvio Carmagnola, ha accusato il sistema design Italia di un eccessivo spostamento verso il marketing: «… il design da un lato tende a diventare a tutti gli effetti una parte delle strategie globali di marketing, a integrarvisi; dall’altro tende, in un certo senso, a sfuggire a se stesso»1. E ancora, facendo proprie le parole di Ettore Sottsass, Carmagnola
sostiene che il Maestro, capo carismatico di Memphis, «rimproverava al design attuale di aver perduto la sua carica utopica legata all’invenzione e alla creatività individuale e di essersi consegnato alle fredde strategie del marketing»2. Critiche che riteniamo eccessive e sproporzionate, dal momento che non risulta così massiccia la presenza del marketing nel settore dell’arredo, dove è possibile che al progettista interpellato da un’azienda venga proposto un briefing, ma è del tutto impensabile che l’ideazione sia sostituita dalla costrizione progettuale. Il design dunque rappresenta uno dei motori della crescita economica, proprio – come ha sottolineato Andrea Branzi – «per la sua capacità di creare nuovi prodotti, imprese e mercati»3. Il design, nella sua accezione più ampia, è stato interpretato dagli anni Novanta in poi, «come un’attività in grado di generare quella innovazione continua (estetica, funzionale o merceologica), indispensabile alla crescita dei sistemi produttivi»4. Dentro a questo sistema produttivo, il design italiano rappresenta una peculiarità fenomenica, sia pure frammentata fino alle micro-imprese, per aver saputo trasformarsi in un laboratorio aperto, e nell’accogliere i maggiori progettisti di ogni parte del mondo. Inoltre, nel settore del mobile è attivo un crescente numero di giovani che si formano nelle scuole di specializzazione, nei master, nelle più avanzate facoltà universitarie, non solo italiane. Basti ricordare la vivacità di alcune manifestazioni, come il Salone del Mobile di Milano e tutto l’indotto che si crea intorno ad esso: centinaia di manifestazioni, mostre, iniziative culturali del «Fuori Salone». Sarebbe forse il caso però di riuscire a capitalizzare meglio gli sforzi propositivi di quelle giornate, superando la spontaneità così fortemente effimera. E sottolineando in senso positivo ciò che per Carmagnola sono invece luoghi comuni, quando afferma che «nemmeno raccontandone la genesi contestuale, come molte volte si è fatto nel caso italiano: il tessuto di piccole aziende, la creatività diffusa, il carattere territoriale, la simbiosi personalizzata e irripetibile fra imprenditore e proget-
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tista e così via»5; luoghi comuni oppure segni connotativi di un successo? Senza ironia, si tratta di un sistema che mostra grande flessibilità nell’affrontare ogni anno nuove sfide, anche nei momenti come l’attuale, quando un’accorta politica economica consiglierebbe prudenza nell’esporsi con gli investimenti. Ponendo sempre più attenzione ai mercati internazionali in un periodo di forte pressione in senso negativo, è comprensibile che gli imprenditori guardino ai programmi di produzione con una certa preoccupazione. Tale preoccupazione però rischia di rendere riduttiva ogni aspirazione sotto il profilo dell’immagine e della sostanza del prodotto, se si dovesse sperare che in qualsiasi modo, ogni proposta venisse favorevolmente accolta dalle più diverse culture dell’abitare esistenti al mondo. «Forse uno dei tratti caratteristici della tradizione italiana – sempre secondo Carmagnola – consiste proprio nell’interpretazione più strettamente estetico-formale della disciplina, con esiti che hanno prodotto la sua gloria passata e la sua debolezza attuale»6. Un’evoluzione moderata
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Va ricordato che nel corso degli anni Novanta il design italiano, in particolare proprio nel settore dell’arredo, ponendosi di fronte alla globalizzazione dei mercati, ha iniziato a perdere parte della sua unicità, allineandosi sul piano delle tendenze a un design più internazionale. La tendenza più significativa sembrava essere il «minimalismo», che la maggior parte dei designer stranieri proponeva alle aziende italiane. Si trattava dunque di individuare linguaggi estetico-formali di più facile accettazione non solo fra gli occidentali, ma anche nei mercati di Paesi emergenti e di differenti culture. «Il minimalimo aveva questa origine, come rilancio di codici espressivi elementari, eleganti, esportabili»7. I risultati purtroppo non hanno fornito affermazioni così positive a favore di questa tendenza, alla quale i progettisti italiani non hanno saputo aggiungere indicazioni di particolare successo. Possiamo considerare il «minimalismo» un fenomeno
internazionale senza una ben definita filosofia, sviluppatosi nel mondo anglosassone, in particolare nel Regno Unito, e che ha interessato l’architettura, l’arte, il design, la moda. In taluni casi ha evidenziato alcune contraddizioni, come per esempio, la produzione di oggetti d’arredo di una semplicità formale talvolta disarmante, a cui però hanno corrisposto prezzi di vendita al pubblico non adeguati. Il caso più clamoroso è forse quello che riguarda Claudio Silvestrin – un designer italiano in controtendenza, perché lavora a Londra – il quale progetta forme elementari di un indiscutibile suggestivo purismo, utilizzando materiali di pregio, attribuendo così ai suoi oggetti un plus che li destina inevitabilmente a una «nicchia» di possibili acquirenti, come nel caso delle cucine che egli disegna per Minotti. I progetti che si possono ritenere più interessanti e classificabili sotto l’egida, sia pure a grandi linee, minimalista, hanno carattere più sperimentale e in taluni casi anche di particolare abilità costruttiva, come avviene nella poltroncina «Knotted» di Marcel Wanders, prodotta da Cappellini nel 1995, dove l’intera seduta è realizzata con corda annodata. Con una realizzazione anch’essa di tipo artigianale, anche in questo caso nel catalogo Cappellini, la poltroncina «Wooden chair» di Marc Newson, che si compone di una ventina di asticelle curvate di circa quattro metri di lunghezza ognuna, che si intersecano formando la struttura della poltroncina. Fra i recuperi e le riproposte di pezzi storici di questi ultimi mesi, c’è un tris di mobili disegnati da AG Fronzoni, la «serie 64», presenti nel catalogo Cappellini, in profilato metallico a sezione quadrangolare verniciato in bianco o in nero, secondo i rigidi dettami del suo autore. Considerato da alcuni critici uno dei padri del minimalismo, in realtà Fronzoni (1923-2002), va ricordato come un asceta del progetto, che travalica ogni tendenza; egli ha operato per decenni fra comunicazione visiva e design secondo una visione rigorosamente etica. Parafrasando Eisenman, si può dire di Fronzoni che «i suoi oggetti sono idee, appartengono alla sfera del linguaggio»8.
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In anni piuttosto recenti, in Italia, c’è stato, da parte di alcuni progettisti e di qualche produttore, un timido orientamento verso forme più disegnate nel mobile, soprattutto nelle sedute. Ad esempio, superfici decorate o traforate, come nel caso degli oggetti disegnati da Patricia Urquiola, sia per Moroso sia per B&B. Vi sono poi forme scultoree come quelle di Ron Arad nei tavoli in acciaio o nelle poltrone e divani della serie «Victoria and Albert» per Moroso, in cui si rompono i rigidi schemi geometrici adottati da altri designer. Per Driade, Arad ha progettato una poltroncina a dondolo (MT3), in polietilene, realizzata con tecnologie di stampaggio rotazionale, bicolore e superficie diversificata: goffrata all’esterno, liscia all’interno, con taglio finale dei fianchi eseguito con macchina a controllo numerico. Un oggetto di indiscutibile raffinatezza ma forse ideato più per una esibizione realizzativa che rispondente a esigenze funzionali. Dotata di un’analoga tecnologia, è la panca disegnata da Christophe Pillet per Serralunga (2007), prodotta anch’essa con stampaggio rotazionale in polietilene e con una forma ad anello molto allungato. Ancora una volta dunque, il miglior design di ricerca, sia quello rigorosamente semplificato sia quello più decorativo, non sempre trova ampia destinazione nelle necessità di un grande pubblico, e pertanto non può nemmeno risultare di grande interesse per il marketing; viene invece assimilato da una categoria di «cultori del gusto», da intellettuali tendenzialmente un po’ collezionisti, non necessariamente anche benestanti. È la conferma che gli oggetti di design per l’arredo vivono una loro piena autonomia e nella maggior parte dei casi, di un libero inserimento nell’ambiente a cui sono destinati. In tale settore infatti, non sono più emersi modelli abitativi convincenti e sostenuti da qualche teoria. Da tempo, ci si è orientati soprattutto sull’aggregazione di elementi singoli, dal punto di vista della tipologia, e non più – o quasi – mobili coordinati e componibili. Di frequente in Italia, quando si tocca l’argomento prezzi nel settore dei mobili e dei complementi di arredo, si fa riferimento all’organizzazione dell’Ikea, considerata
un modello, sia sotto il profilo della filosofia del vivere quotidiano sia per le sue strategie di marketing, quelle sì, non vi è dubbio, vincenti. Rifacendosi alla cultura della moderna civiltà scandinava, più in particolare quella svedese – terra di origine dell’Ikea – questa grande società, semplificando fino all’essenziale le caratteristiche del gusto nella produzione funzionalista del passato, dallo stile neoclassico gustaviano fino alle poltroncine di Bruno Mathsson e forse anche di Gunnar Asplund, riesce a stupire e a convincere sul rapporto qualità-prezzo. Questo difficilmente può avvenire per qualche impresa italiana, o associazione di imprese, per via di come è congegnato il nostro sistema produttivo. Quantomeno bisognerebbe tornare ad alcune esperienze del passato come negli anni Cinquanta, quando un grande magazzino come la Rinascente selezionava alcuni mobili di buon gusto, commercializzandoli a prezzi accessibili quantomeno al consumatore medio; non è un caso che fu proprio la Rinascente ad aver istituito nel 1954 il primo Compasso d’Oro. Al giorno d’oggi, come sappiamo, i costi di produzione sono lievitati molto, ma il design italiano, in particolare quello del mobile, per poter mantenere una posizione dominante non può che operare sulla qualità di esecuzione, con le tecniche più avanzate, con i materiali in assoluto più innovativi, basandosi sui princìpi di etica, ricerca estetica, massimo rispetto per ogni forma di ecocompatibilità, cercando di individuare e selezionare quei mercati internazionali che possono risultare ricettivi in questo senso. Come è avvenuto in passato, proponendosi di fare sistema e possibilmente costituire dei modelli di indiscusso valore per interpretare il miglior stile di vita. È importante non dimenticare che il buon design eleva lo status culturale, oltre a quello sociale. Il contributo dei nuovi materiali plastici Un discorso a sé stante merita la produzione di oggetti in cui predominano i materiali plastici; e va fatto presente
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che in questo settore l’azienda Kartell, da decenni (è stata fondata nel 1949), è tra i leader mondiali. Infatti, in quel primo periodo di grande crescita del design italiano, soprattutto degli anni Sessanta, alcuni fra i maggiori progettisti si accostarono alle tecnologie produttive delle materie plastiche ottenendo risultati sorprendenti tramite lo stampaggio a iniezione. Fra questi, Marco Zanuso e Richard Sapper, Joe Colombo, Vico Magistretti, Anna Castelli Ferrieri, Gae Aulenti, Carlo Bartoli9. Poi sopravvenne la crisi petrolifera dei primi anni Settanta con gli effetti deterrenti noti a tutti. Successivamente, qualche anno dopo, ci fu una ripresa e un rilancio con nuovi compositi migliorati nella qualità per il trattamento di finitura dell’oggetto stesso, e per una predisposizione al recupero e riciclaggio. L’accettazione da parte del grande pubblico all’inserimento nella casa di sedie e piccoli mobili in plastica, sia pure lentamente, in qualche caso è cresciuta fino alla produzione di grandi numeri. Solo qualche sporadica perplessità nel ritenere quegli oggetti più adatti agli ambienti di uso pubblico che non alla residenza privata. La formula vincente è sempre comunque da attribuire al buon disegno, al gradevole cromatismo, alla leggerezza e, spesso, alla trasparenza dell’oggetto, e a una qualità di esecuzione ineccepibile. Dalla metà degli anni Novanta in poi si è sviluppata una terza fase, in cui i produttori, a cominciare dalla stessa Kartell, hanno ulteriormente affinato gli impianti della rea lizzazione tecnologica, e questo al di là del valore progettuale di un Philippe Starck o di Antonio Citterio. Interessante è la connessione fra materiali diversi come nel caso del policarbonato, polipropilene, poliuretano, metacrilato, da una parte, e alluminio o acciaio, dall’altra. A competere, da tempo, in questo specifico settore c’è anche Driade, con pochi modelli di sedute in materiali plastici, molto selezionati e disegnati soprattutto da Starck, con forme lineari, ma al tempo stesso classicheggianti, che evocano stilemi déco alla Ruhlmann. Di notevole interesse anche sotto il profilo qualitàprezzo, sono alcune recenti realizzazioni della ditta Magis,
come la seggiolina per bambini «Trioli» di Eero Aarnio in polietilene a stampaggio rotazionale, colorata e dalla forma che si presta al gioco infantile. Quasi sempre gli oggetti e le sedie prodotte da Magis sono ideate per un loro utilizzo polivalente – per esterni e per interni – come avviene spesso per i mobili in plastica, ma sempre con una elevata qualità produttiva e forme eleganti e attraenti, come nel caso della «Easy chair» di Jerszy Seymour (2005), oppure come la «First chair» di Stefano Giovannoni (2007), entrambe in polipropilene caricato con fibra di vetro e ottenuta con la tecnologia di air moulding. Una ricerca continua, a livello internazionale, avviene nel settore dei materiali compositi e la presenza di un campionario come quello di «Materials Connexion», in costante aggiornamento, lo testimonia. Tra questi, un polimero brevettato con cui Segis, su disegno dello Studio Bartoli Design, ha realizzato una sedia (R606) con una configurazione rigorosamente squadrata, come se fosse rigida, e invece questo materiale offre una morbida elasticità che consente una buona adattabilità ergonomica nella seduta. Un risultato interessante lo offre la sedia «Supernatural» di Ross Lovegrove per Moroso (2006); prodotta per stampaggio a iniezione del poliammide rinforzato con fibra di vetro, ha forme sinuose ed eleganti. Fra le componenti che possono fornire dei contributi per migliorare il futuro del design italiano, ci sembra di poter dire che non mancano di certo né la tecnologia, né la creatività dei progettisti; e nello specifico di questo settore, con il rinnovato impegno di porre la massima sensibilità al problema ambientale, cercando di cogliere l’opportunità di operare in modo sostenibile; consci oramai che la sostenibilità non può più essere un termine generico, ma pretende approfondimenti di carattere scientifico. Il design e la filosofia delle piccole cose Se spostiamo la nostra attenzione su un settore considerato troppo spesso «minore» ed etichettato di comple-
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mento, ci rendiamo conto di quante valide proposte di design si possono incontrare. Pensiamo per un attimo alla ricchezza e alla varietà dei prodotti gastronomici del territorio italiano, alla cucina con tutte le sue invarianti nazionali, ed anche con le pressoché infinite variabili nelle ricette e potremo verificare quanto il design è presente nel settore degli utensili e delle suppellettili per la tavola e la cucina. È perfino pleonastico chiamare in causa una delle pratiche più significative secondo il concetto di «qualità della vita» in Italia: il caffè. Immediatamente si pensa alla caffettiera napoletana dal design anonimo, ma anche alla rilettura fatta in tal senso da Riccardo Dalisi (1979-87), e poi alla Bialetti di storica memoria, alla «Conica» di Aldo Rossi per Alessi (1983); agli oggetti per la tavola da lui pensati come microarchitetture; sull’argomento esiste una cospicua letteratura in proposito. E ancora, uno come Richard Sapper, che spazia dai progetti per l’informatica alla cucina e che per Alessi ha disegnato una caffettiera e una macchina elettrica più complessa per fare l’espresso; inoltre, con la collaborazione di noti chef, ha definito varie pentole per specifiche funzioni, della serie «La cintura di Orione»10. Senza particolari esigenze da parte dei grandi cultori della gastronomia, una recente serie di pentole è stata disegnata da Matteo Thun, denominata «Archetun», per TVS; si tratta di pentole prodotte in lega di alluminio pressofuso con manici atermici in materiale termoindurente, dalla elegante configurazione. Vi sono poi oggetti di design della tradizione domestica diventati veri e propri status symbol, che in molti arredi vengono esibiti in bella mostra proprio per il loro valore estetico, e in questo il catalogo Alessi è fortemente rappresentativo. Dal bollitore con l’uccellino di Michael Graves al colapasta di Enzo Mari, che rimanda agli archetipi di questa tipologia di strumenti, al tanto discusso e criticato, ma altrettanto diffuso, spremiagrumi «Juicy Salif» di Philippe Starck, del 1990. Nel comparto dell’acciaio per la produzione delle po-
sate, al di là delle varie serie disegnate in passato dai fratelli Castiglioni o da Marco Zanuso, così come della prestigiosa produzione Sambonet di sempre, oppure, delle più recenti posate di Marc Newson (Alessi, 2003), è curioso incontrare attrezzi con specifiche funzioni. È il caso di un oggetto selezionato dall’ADI (Design Index 2005), un coltello per l’utilizzo di un’apposita operazione gastronomica: il taglio del formaggio di fossa, disegno di Giampiero Bianchi. Un utensile che si caratterizza per l’impugnatura ergonomica e l’affilatura solo per metà della lama e soltanto su un verso. Sembra una citazione di alcuni coltelli che Tapio Wirkkala realizzava per il trattamento del pesce nel suo isolamento degli inverni finlandesi, durante gli anni Cinquanta. Anche Denis Santachiara ha disegnato una coppia di coltelli per formaggio a pasta dura, interamente realizzati in acciaio inox, per la Fratelli Guzzini. Sia in questo particolare settore di supporto alla cucina e alla tavola, sia per quanto riguarda il mobile, il design italiano è costantemente impegnato nell’innovazione, dalla forma fisica del prodotto materiale alle tecniche per realizzarla, ma al tempo stesso, senza dimenticare la cultura materiale della tradizione, secondo il pensiero di una moderna antropologia culturale. Fulvio Carmagnola, Fine dell’innocenza, in «ADI Design Index 2005», Editrice Compositori, Bologna 2006. 2 Ibidem. 3 Andrea Branzi, E il secolo ha perso tutti i suoi confini, in «L’Europeo», numero speciale per Triennale Design Museum, 2009. 4 Ibidem. 5 Fulvio Carmagnola, op. cit. 6 Ibidem. 7 Andrea Branzi, op. cit. 8 Antonino Saggio, Peter Eisenman. Trivellazioni nel futuro, Testoimmagine, Torino 1996. 9 Anna Castelli Ferrieri, Plastiche e design, Arcadia Edizioni, Milano 1984. 10 Alberto Alessi, La fabbrica dei sogni. Alessi dal 1921, Elec ta/Alessi, Milano 1998. 1
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Arte programmata e Manfredo Massironi Nicola Galvan
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Gli anni sessanta hanno visto, nell’emergere delle ricerche visuali e cinetiche, manifestarsi forse per l’ultima volta lo spirito rivoluzionario delle Avanguardie storiche. I nuovi scenari sociali e culturali seguiti alla ricostruzione post bellica, determinati dall’accelerare dell’industrializzazione, dal nuovo potere persuasivo della comunicazione di massa, dal tradursi nel quotidiano e nel «domestico» della ricerca tecnologica, sembravano chiamare il mondo dell’arte a un rinnovato coinvolgimento nel corpo vivo del proprio tempo. Ad apparire superato era d’un tratto quella sorta di ripiegamento esistenzialista – che si affermava attraverso l’identificazione, intima e fisica, dell’artista con il gesto e la materia – qualificante le principali tendenze espressive del decennio precedente. La pur minima distanza temporale creatasi rispetto alle distruzioni della guerra, che il progresso tecnico scientifico aveva aiutato a perpetrare, suggeriva inoltre a una nuova generazione di artisti europei, ormai insensibili ai convenzionali riferimenti rappresentati dalla Natura e dall’interiorità, di riallinearsi con il loro operato alla modernità contemporanea: la sua eventuale contestazione sul piano politico-sociale non ostava con il proposito di dominarne i meccanismi e coglierne le opportunità, anche se allo scopo di mutarne il destino. Probabilmente solo con l’esperienza dadaista le arti vi-
sive si spinsero in modo analogo a porre in discussione il loro stesso statuto, grazie a un atteggiamento intellettuale che prendeva di mira il mito dell’artista e il feticismo legato all’unicità del prodotto creativo. All’origine della loro confutazione, da parte di ciò che all’alba di quel decennio venne indicato come «Nuova Tendenza», erano prevedibilmente le ambiguità intrattenute dall’Arte con la propria dimensione mercantile. Mai come allora invece, gli operatori di una corrente avvertirono l’esigenza di raccogliersi, oltre che sotto comuni manifesti e programmi, nell’ambito di autentici «Gruppi» di ricerca, desiderosi di guidare il proprio sguardo oltre il mero contesto artistico: ne sortì una condotta multidisciplinare che cercava corrispondenze con la scienza nei contenuti teorici e con il design industriale nelle modalità progettuali, e che conferiva valore politico agli aspetti organizzativi del lavoro di gruppo. Se il principio di collettivizzazione delle varie fasi creative si sarebbe diversamente modulato a seconda dei casi, il risultato oggettuale venne da tutti perseguito tentando di superare le forme espressive della pittura e della scultura. Esso sarebbe stato proclamato, fin nelle intenzioni, come anti rappresentativo ed esteticamente autoreferenziale. Per gli esponenti della tendenza si trattava di dare vita a strutture visive da intendersi genericamente in divenire, «macchine» atte a sviluppare una forma critica di conoscenza nello spettatore, affinché questi giungesse a guardarsi guardare: essi palesarono con questa intenzione un’assonanza, in misura diversa pertinente, con le teorie della Gestalt elaborate da Koffka, Köhler, Wertheimer e dagli altri ricercatori della psicologia della forma. In un arco breve di tempo, si registrò la proliferazione apparentemente spontanea – e in buona parte delocalizzata rispetto ai grandi centri dell’arte contemporanea – di un numero elevato di Gruppi dediti alle nuove ricerche visive, formazioni che ebbero diverse occasioni di confronto nell’ambito di mostre collettive organizzate in Europa, oltre cortina e più tardi negli Stati Uniti. Tra questi vi era il francese Group de Recherche d’Art Visuel (che aveva
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quali protagonisti Morellet, Le Parc, Sobrino, GarciaRossi, Stein, Yvaraal), l’Equipo 57 spagnolo (costituito da Duart, Ibarrola, Serrano), il tedesco Gruppo 0 (Mack, Uecker, Piene), e, in Italia, i milanesi del Gruppo T (Boriani, Anceschi, Varisco, Colombo, De Vecchi) ed i loro concittadini del più tardo MID (Barrese, Grassi, Laminarca, Marangoni). Vi era poi il padovano Gruppo Enne, tra i più decisi nel ricercare una concreta interconnessione tra arte e scienza, teoria e prassi operativa. La formazione veneta, nata sul finire del 1959 come Gruppo Enne, dal numero espresso in greco dei suoi nove componenti originari, vedeva tra le sue fila Alberto Biasi, Edoardo Landi, Toni Costa, Ennio Chiggio e Manfredo Massironi, al quale Padova dedica ora un’esposizione antologica. Ultima di una serie recente di iniziative, la mostra contribuisce a riaprire il sipario su di uno storico protagonista della linea «analitica» dell’arte contemporanea, e con lui sui contenuti e le possibili conseguenze di un’intera stagione: di questa Massironi può essere indicato come uno dei più lucidi esponenti teorici, e una delle principali coscienze critiche1. Massironi e il Gruppo Enne: il nuovo oggetto visivo
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L’opera di Massironi si è d’altronde sempre identificata con il versante speculativo del suo pensiero, del quale ha espressamente visualizzato i processi di analisi estetica. Non è inesatto affermare che il principio della forma, e quello dello sguardo, si siano nel tempo definiti come le polarità entro cui si è mossa la sua riflessione. Se a questa coppia tematica può tutto sommato essere ricondotta, nelle sue costituenti essenziali, qualunque esperienza artistica, riassumendone la finalità esecutiva e il momento della fruizione, lo stesso rilievo assume nel caso di Massironi un significato più preciso: a illuminarlo sono la sistematicità e la consapevolezza che, nel suo caso, hanno caratterizzato l’indagine dei concetti sopra indicati. La stagione creativa di cui l’artista, nato nel 1937 a
Padova, è considerato uno dei principali protagonisti, ha i suoi prodromi in una diffusa volontà, per Massironi al pari dei diversi operatori, di recuperare le componenti strutturali e geometriche dell’immagine artistica, raggiungibili attraverso una rinnovata rigorosità del ricercare: aspetti che era necessario sottrarre all’eclissi da essi conosciuta nella folgorante stagione dell’Informale, e il cui esempio poteva essere ritrovato nelle realizzazioni del Costruttivismo, del Neoplasticismo, dell’Arte Concreta, divenute presto un punto di riferimento storico per Massironi e per molti dei suoi compagni d’avventura. Ma è in particolare il lungo viaggio espressivo dell’artista, giunto fino ai nostri giorni e non ancora esaurito, che può in effetti essere interpretato come una peculiare verifica dei tanti percorsi, possibili ed illusori, della forma e della loro avventura nello sguardo che li accoglie. Uno strumento quest’ultimo attraverso cui le fenomenologie visive proposte da Massironi si riproducono nei termini di una autentica esperienza dal valore cognitivo: non è d’altronde un caso se, proprio grazie agli artisti della tendenza, l’osservatore abbia visto mutare la propria condizione in quella di fruitore, venendo coinvolto nell’opera come ideale termine di completamento della stessa. La mostra «La dinamica dell’oggetto visivo», ospitata negli spazi della Galleria Civica Cavour, prende le mosse, dal punto di vista temporale, dal declinare degli anni Cinquanta: è allora che comincia a delinearsi, agli occhi di un giovanissimo Massironi, lo sfinimento concettuale e stilistico della corrente informale, nell’ambito della quale pure si erano già manifestate le intuizioni che avrebbero contribuito a gettare le basi del suo superamento. «Momento 2», più noto oggi come Il cartone ondulato, presenta ancora una volontà, probabilmente desunta dall’opera di Alberto Burri, di «dipingere con la materia» – in questo caso, e forse significativamente, un materiale – immediatamente raffreddata nel suo impatto emozionale dalla limitazione estrema, in parte provocatoria, del contributo manuale del l’autore. Un azzeramento espressivo e rappresentativo che
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nello stesso periodo Piero Manzoni proietterà, con i suoi «Achrome», tra le mitologie dell’arte contemporanea. Inoltre, nel contrasto tra le scanalature orizzontali e verticali dei cartoni da imballaggio utilizzati, determinato dalla giustapposizione dei singoli pezzi, nella trama visiva dettata dalle diverse incidenze luminose, l’opera manifesta in nu ce quell’interesse per i meccanismi della percezione che diverrà una costante della ricerca di Massironi, e con essa di quella degli artisti della tendenza nascente. A breve, l’incontro con personalità affini porterà alla nascita del «Gruppo Enne», una delle prime, e tra le più rilevanti, esperienze di collettivizzazione dell’operare artistico. Sino alla metà degli anni sessanta, il gruppo padovano condividerà la progettazione e l’esecuzione non dunque di quadri o sculture, ma di oggetti visivi, secondo un programma dalle marcate venature ideologiche che, assorbendo l’apporto del singolo nel lavoro comune, abiurava rispetto all’egocentrismo peculiare all’attività d’artista. Sono gli anni di opere avveniristiche nella concezione ed artigianali nella realizzazione, che si articolano nello straordinario, ancorché virtuale, movimento imposto alle «Strutture a quadrati ruotati», ma anche nelle ambiguità riflettenti della «Fotoriflessione variabile» e della «Struttura a riflessione deformata», o nella preziosa vertigine geometrica serigrafata su cristallo di «Cerchi più quadrati». Lavori questi tutti visibili nella mostra padovana, i cui titoli nulla concedono alle fascinazioni della metafora, limitandosi a descrivere propriamente il fenomeno visivo affrontato. Ma sono d’altronde le stesse realtà oggettuali prodotte dal Gruppo a inchiodare alla loro esistenza puramente fisica concetti quali quello di spazio o, soprattutto, di luce, girando in quest’ultimo caso le spalle a secoli di simbolismi rappresentativi, manifesti soprattutto in ambito pittorico. Ha scritto a questo proposito Getulio Alviani, protagonista e continuatore a titolo individuale della Nuova Tendenza: Molte delle nostre ricerche vertevano sulla luce e la sua fenomenologia, la luce come fenomeno, mai – come era sempre accaduto – metafora della luce2.
Il Programma È del 1962 la nascita dell’espressione Arte program mata, in seguito alla mostra itinerante dedicata alla nuova corrente ospitata per il suo esordio, significativamente, nel negozio milanese della Olivetti, su iniziativa di Bruno Munari3. La presentazione firmata da Umberto Eco, già teorizzatore in “Opera aperta” delle infinite moltiplicazioni di senso afferenti le diverse realtà estetiche, contribuisce a condurre lo sguardo del mondo culturale sul nuovo movimento artistico, che oramai rivela le sue ramificazioni internazionali. Il termine programmazione ne diviene in effetti una delle parole d’ordine, pure assumendo, a seconda dei casi, diverse sfumature semantiche. Ha così riflettuto, rievocando in tempi recenti quella storica iniziativa espositiva, Marco Meneguzzo: All’inizio degli anni Sessanta la parola «programmazione» aveva lo stesso effetto evocativo di «informatica» negli anni Ottanta (o di «relatività» negli anni Venti, «atomico» negli anni Cinquanta…): un’idea nell’aria, un concetto sufficientemente vago e altrettanto sufficientemente preciso per sentirsi partecipi di un mutamento epocale in atto, anche solo pronunciando quella parola. (…) Esisteva la programmazione in senso stretto, come possibilità di avviare un processo solitamente cognitivo attraverso un linguaggio-codice, di cui si potevano prevedere almeno i primi effetti; ma anche programmazione come attenzione agli effetti di una certa azione, cioè programmazione delle reazioni possibili; e ancora programmazione come ottimizzazione del linguaggio e del lavoro, modellando l’operare artistico sugli schemi dell’industria; infine, programmazione in senso amplissimo, come progetto di cambiamento sociale – naturalmente in una prospettiva non vicinissima –, attraverso nuovi comportamenti umani, esemplificati da rinnovate concezioni etico-estetiche (ad esempio con la creazione di «gruppi”» artistici). (…) In altre parole, l’idea di programmazione allar-
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gava a dismisura il territorio d’azione dell’”operatore estetico” – termine coniato in margine all’attività dei gruppi, proprio in quegli anni, per sostituire la parola «artista» – o del ricercatore, aggiungendo alla oggettivizzazione razionale dei lavori realizzati uno spirito innovatore anche rispetto ai rapporti dell’arte con altri campi produttivi4. Per Massironi e l’Enne, il termine sembra riferirsi alle strategie formali che, implicate nella progettazione dell’o pera, debbono guidare la sua compiuta osservazione: centrale è dunque la pianificata, selettiva sollecitazione delle facoltà percettive del fruitore, che da lì a poco più di un’entità del movimento, attraverso la pratica delle installazioni ambientali – già a loro modo esperite da artisti come Fontana o Gallizio, parte della «costellazione» informale – chiamerà ad un coinvolgimento multisensoriale e pienamente corporeo. Ancora i protagonisti del Gruppo Enne, distinguendosi da coeve, affini esperienze italiane, quali il Gruppo T di Milano, dedito più frequentemente a realizzazioni caratterizzate da un movimento reale, declineranno secondo proprie modalità quel cinetismo che gli artisti della corrente andavano rievocando dalle utopie della vecchia avanguardia futurista. L’aspetto dinamico apparirà, almeno in molti casi, implicito alle strutture dell’opera, che risulterà in effetti generata da ipotetiche rotazioni o movimenti dei suoi elementi costituitivi: processi a cui poteva risalire lo sguardo di un fruitore immaginato a propria volta come soggetto «mobile», il quale, tramite differenti dislocazioni fisiche, avrebbe visto oggetti e superfici mutare cogliendo le diverse interazioni tra le loro componenti e la luce ambientale, e con esse il conseguente variare dell’effetto visivo. Op e Pop
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Simili aspetti saranno alla base di quella declinazione optical – dalla fortuna soprattutto americana – della tendenza, la quale, dopo una rapida ascesa, subirà lo scacco
del successo internazionale della Pop Art, coadiuvato dai forti interessi economici che ne sosterranno l’affermazione. Secondo lo stesso Massironi venne suscitata una contrapposizione tra Op e Pop Art, che si risolse decisamente a favore di quest’ultima, penso anche per effetto di una qualche decisione di ordine politico economico. (…) Ritengo possibile l’esistenza di una «richiesta» avente quale obiettivo il successo di un’arte identificabile come americana5. La proiezione nella dimensione espressiva dei miti dell’immaginario di massa, al centro dell’estetica pop, coglierà una delle sue affermazioni più rilevanti, proprio nei confronti della Nuova Tendenza, nell’ambito della storica Biennale veneziana del 1964. Contemporaneamente, il tema dell’oggetto industriale conosceva nel contesto artistico un’eco crescente, ma soprattutto quando affrontato in termini opposti rispetto al proposito degli operatori cinetici: ad essere in gioco non era infatti il rinnovamento della sua fase aurorale, rappresentata dal progetto, ma la mera presentazione ed implicita riconversione estetica della sua «morte» funzionale. Era quanto perseguito in particolare dai protagonisti del Nouveau Réalisme6, riuniti e presentati come «gruppo» – da intendersi in un’accezione affatto diversa dalle formazioni cinetiche – per la prima volta a Milano nel 1960 da Pierre Restany7. Nel frattempo l’Enne, e con esso le diverse entità del movimento, iniziavano gradualmente a riconoscere l’esaurirsi delle utopie legate al lavoro creativo di gruppo, minate dal cedere della coesione interna e dalla facoltà del Mercato di disattivare il portato rivoluzionario di ogni Avanguardia artistica. Dalla metà degli anni sessanta in poi, la dissoluzione dei Gruppi procederà inarrestabile, ad esclusione della particolare esperienza del MID di Milano8. Non è inutile, a questo proposito, citare l’analisi compiuta nel decennio successivo da Giulio Carlo Argan, uno dei più attenti esegeti di quella avventura creativa, incline a individuare contro di essa una generale «cospirazione» posta in essere dal sistema dell’arte: Il sabotaggio dei
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gruppi fu istigato dai mercanti, ma è anche vero che le poetiche d’equipe screditavano il mito della personalità dell’artista e le negavano il vantato diritto all’arbitrio. L’idealismo ancora e sempre imperante poteva ammettere il raptus gestuale ma non il progetto elaborato, la materia appena manipolata ma non il grafico e il diagramma, il segno ma non il disegno. Con l’Informale la critica, per quanto ricusata, conservava un senso di gara verbale con l’opera mentre con la corrente visuale-cinetica veniva integrata nella disciplina operativa del progetto, come verifica metodologica e necessario raccordo tra cultura visualizzata e verbalizzata, ciò che la privava dell’irrinunciabile licenza di non pensare9. Oltre l’arte cinetica
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Massironi, al pari di altri compagni di strada, intraprenderà un cammino di ricerca individuale non ideologicamente disgiunto dalle esperienze citate, che nel suo caso si esplicherà nello studio sistematico della psicologia della percezione, avvenuto nel contesto della docenza universitaria e della produzione di un vasto numero di pubblicazioni. Uno dei contenuti più rilevanti dell’esposizione padovana, voluta e curata da Annamaria Sandonà, è costitui to dalla possibilità di seguire l’evolversi dei suoi studi sperimentali nel versante dell’attività creativa, che l’artista non ha fortunatamente mai abbandonato10. Soprattutto, il confronto diretto tra le opere individualmente progettate e realizzate, situabili prima e dopo l’esperienza con il Gruppo, attraverso l’emergere di una serie di costanti estetiche e concettuali concorre a meglio delineare il profilo espressivo di Massironi, e conseguentemente il suo apporto specifico alle ricerche visuali. Ad esempio, «Struttura con filo», risalente al 1960, condivide con le tarde «Piegature leggere» la volontà di conferire struttura, forma, e dunque «pregnanza», nientemeno che allo spazio vuoto; ma, più in generale, diviene leggibile come a percorrere la sua vi-
cenda artistica sia un atteggiamento sorvegliatamente ludico, teso a negare all’opera d’arte le sue funzioni estetiche conosciute. Un approccio che prosegue idealmente la lucida, a tratti ironica insofferenza verso le convenzioni espressive che orientava l’opera di molti artisti sperimentali – vengono alla mente tra i più noti, oltre l’ambito cinetico, Yves Klein ed il già ricordato Manzoni – dei primi anni sessanta. Si veda a questo proposito la contorsione multipla di un quadro «ribelle» alla sua stessa vocazione rappresentativa, divenuto un’entità oggettuale dalle facce sovrapposte («Doppia piegatura»), o le trappole spaziali pensate per solidi «a crescita incontrollata». Spicca poi per acume la semplicità catastrofica11 del «Capolavoro» (da intendersi: «lavoro del capo»), un’opera che potrebbe essere leggibile come divertissement se non racchiudesse, nella sua essenzialità formale, infinite implicazioni concettuali e fenomenologiche, quali la visualizzazione della forza di gravità. È infatti l’attrazione di quest’ultima a orientare il disporsi di una banale catenella, che diviene implacabilmente, e misteriosamente, perfetta diagonale geometrica di tre telai rettangolari che ne condividono il punto di ancoraggio. La lunga ricerca condotta infine sul tema del nodo, costruzione complessa ed elusiva riguardo la propria natura strutturale, sembra riassumere diversi aspetti dell’ultima ricerca di Massironi, che tra gioco intellettuale, inganno dello sguardo, fedeltà al rigore geometrico, imprevedibilmente riapre al generarsi spontaneo della metafora: Ogni cosa per quanto inerte può essere sottoposta ad una interpretazione di tipo metaforico. Tra questa ed una di ordine letterale credo le mie opere preferiscano assumere una posizione volutamente ambigua, come tenessero idealmente aperta la possibilità di scegliere in ogni momento entrambe le direzioni. (…) Il nodo, attraverso l’emersione di implicazioni quali il legame, la molteplicità, è qualcosa che può dare vita ad un ambiente vasto di metafore. Per affinità, mi viene alla mente un libro come «La piega», che Gilles Deleuze
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compose partendo dal pensiero di Leibniz: in questo, ragionando sul concetto indicato dal titolo, venivano a generarsi quelli di dispiegamento, spiegazione e così via. In sintesi, proprio i lavori legati al nodo offrono un versante metaforico ed uno letterale, «rigido», geometrico12. Per una esaustiva ricostruzione storica della stagione dell’Arte Programmata e i suoi Gruppi, ed in particolare della vicenda del Gruppo Enne, si indica quale possibile testo di riferimento: I. Mussa, Il Gruppo Enne. La situazione dei gruppi in Europa negli anni ’60, Bulzoni Editore, Roma. In merito alle numerose riflessioni svolte da Massironi sui contenuti e le vicende riguardanti il movimento, si segnalano in particolare i testi a sua firma: Appunti critici sugli apporti teorici all’interno della Nuova Ten denza dal 1959 al 1964, in Nova Tendencjia 3, catalogo della mostra, Zagabria 1965 Ricerche Visuali, in Situazioni dell’arte contemporanea. Testi delle conferenze tenute alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, Roma 1976 Una ricca antologia di suoi interventi dal carattere affine è stata di recente raccolta in A. Sandonà (a cura di), Massironi. La dinami ca dell’oggetto visivo, catalogo della mostra, Società editrice U. Allemandi & C., Torino 2008. 2 G. Alviani, Dagli anni cinquanta alla fine delle N.T., in Man fredo Massironi. Ricerca visiva e arte, arte e ricerca visiva, catalogo della mostra, Palazzo Mozzi Borgetti, Macerata 2007. 3 Nell’occasione erano presenti opere del Gruppo Enne, del Gruppo T, di Enzo Mari e dello stesso Munari, a cui vennero aggiunte, nelle tappe successive dell’esposizione, opere a firma di Getulio Alviani e del Group de Recherche d’Art Visuel. 4 M. Meneguzzo, Arte Programmata 1962, in Arte program mata, catalogo della mostra, Castello visconteo-sforzesco, Galliate (Novara), 2002. 5 M. Massironi, N. Galvan, Le forme dello sguardo. Conver sazione con Manfredo Massironi, in A. Sandonà (a cura di), Massi roni. La dinamica dell’oggetto visivo, cit., p. 25. 6 “(…) È vero che produzione e consumo formano un ciclo; ma, allora, in quale punto del circolo si pone, in quale si adempie l’istanza del valore estetico? Per gli artisti delle correnti visuali e cinetiche si pone al principio, come un’idea-immagine la cui struttura dovrebbe riprodursi, sia pure con varianti specifiche, in ogni tipo di oggetto: e si pone come struttura spaziale o di relazione, sicché l’oggetto è considerato soltanto come sito di relazioni, forma 1
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capace di conservare intatto il proprio valore in qualsiasi situazione. Per gli artisti Pop si pone alla fine, come sembianza dell’oggetto ingigantita e trasfigurata dall’ingordigia o dalla sazietà del consumo. (…) Il gusto dell’inflazione, dell’esagerazione, del travisamento e dello scambio dei significati oggettivi tradisce negli artisti Pop un atteggiamento ironico, ‘a posteriori’ (…). Alla simbologia geometrica Op si oppone una simbologia o, piuttosto, una sintomatologia emblematica Pop, di segno contrario, realistico: il sesso, la politica, la morte”. G.C. Argan, Nuove tecniche d’immagine, catalogo della mostra, VI Biennale di San Marino, Palazzo dei Congressi, San Marino 1967. 7 Di poco anticipata dalla pubblicazione del Primo Manifesto del Nouveau Réalisme, la mostra alla Galleria Apollinaire comprendeva opere di Arman, Dufrène, Hains, Klein, Tinguely e Villeglé. 8 Il Gruppo “Movimento Immagine Dimensionale”, fondato nel 1964, rispetto ad altre entità della tendenza concepì sino dagli esordi la comunicazione visiva in un senso ancora più allargato, dedicandosi a linguaggi diversi: film, grafica, pubblicità, architettura, fotografia, oggetti, ambienti. Nel 1967 si ricostituì come MID Design/Comunicazione Visiva, proseguendo la propria attività nell’ambito del design sino al 1992. 9 G.C. Argan, L’artistico e l’estetico, in Situazioni dell’arte con temporanea, cit. 10 Massironi ha comunque fortemente diradato la sua attività espositiva dalla fine degli anni sessanta in poi. Rarissime, e sostanzialmente molto recenti, sono in particolare le sue mostre personali; più frequenti sono da allora le sue presenze in mostre collettive, sia con opere realizzate individualmente, sia con opere del Gruppo Enne. 11 Questa stimolante sintesi, che potrebbe essere utilizzata per diversi oggetti realizzati da Massironi, si deve ad Ugo Savardi, ed è stata raccolta durante la conferenza “Un percorso fra gli inganni della visione”, da lui tenuta nell’ambito della mostra “Massironi. La dinamica dell’oggetto visivo”, che costituisce lo spunto per il presente articolo. Savardi, professore di Psicologia Generale presso l’Università di Verona (ruolo ricoperto prima di lui proprio da Massironi), ha nell’occasione più compiutamente argomentato: “L’opera enfatizza quanto l’apparente distanza tra essa e la capacità di carpirne il significato possa essere ridotta quasi al niente una volta identificati gli elementi che la strutturano. Visti gli elementi della struttura e la loro relazione si produce, nell’osservatore, un effetto sorpresa per la estrema semplicità degli elementi identificati e coinvolti: si tratta di segmenti e di un perimetro di una semplice figura geometrica. A questa semplicità si connette, in maniera inversamente proporzionale, la complessità della sequenza di argomentazioni e connessioni possibili entro la struttura dei processi cognitivi coinvolti: immagini mentali, rapporto tra vedere e pensare, problem solving ecc. È caratteristica della ricerca nell’ambito della fenomenologia sperimentale della percezione ricorrere metodologicamente ad uno spoiling della comples-
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sità dei problemi percettivi. La pratica è quella di mostrare attraverso semplicissime esemplificazioni per immagini, problemi di natura complessa con notevoli, o “catastrofiche”, ricadute non solo nell’ambito delle leggi strettamente vincolate a meccanismi della percezione, ma all’intero sistema di definizione epistemica della conoscenza dei saperi e tra i saperi. Massironi, in tutto il suo lavoro, scientifico ed artistico, procede utilizzando in maniera raffinata il principio di minimo non solo come poetica invocata nel contesto dell’arte, ma come pratica metodologica necessaria anche all’estetica della ricerca empirica in ogni disciplina scientifica”. 12 M. Massironi, N. Galvan, Le forme dello sguardo. Conver sazione con Manfredo Massironi, in A. Sandonà (a cura di), Massiro ni. La dinamica dell’oggetto visivo, cit., p. 28.
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Libri, riviste e mostre
G. Veronesi, Difficoltà politiche dell’architettura in Italia 19201940 (1953), postfazione di G. Contessi, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2008. La lettura – o meglio, rilettura – del libro che Giulia Veronesi scrisse nel 1953 sulle “difficoltà politiche” dell’architettura italiana durante gli anni del Regime Fascista sulle prime impedisce di approfondire i concetti lasciando ancorato il lettore ai fatti e ai protagonisti. Che sono questi: un maturo critico d’arte morto a Gusen dopo aver dovuto assistere alle torture del figlio; un battagliero architetto e critico militante prima fascista, poi antifascista, infine martire a Mauthausen; un “povero” critico d’ar te autodidatta, già operaio alla Fiat, che diventa uno dei più lucidi indagatori del panorama artistico europeo e muore a soli a 36 anni nel pieno delle energie intellettuali; infine un giovane e capace professionista che costrui sce alcune delle migliori opere dell’architettura italiana e europea tra le due guerre prima di
morire in preda a deliri depressivi dopo il ritorno dalla tragica campagna di Russia. Un libro, dunque, questo della Veronesi, che è in primo luogo un registro di decessi, un accorato epicedio. Ma a tenere insieme le quattro storie è la comune battaglia in favore dell’architettura moderna che allora si definiva nuova e razionalista – l’architettura che ha rifiutato schemi ed estetiche neoclassici – in contrapposizione a quella che era considerata vecchia e, forse, irrazionalista, checché ne dica la più recente storiografia che tende quasi a fare di Piacentini&C. i veri alfieri dell’architettura italiana della prima metà del Novecento. In realtà, i quattro protagonisti sono uniti oltre l’architettura proprio da quelle “difficoltà politiche”, intese nel senso più nobile del termine, quello ormai in disuso, e cioè, essenzialmente uma ne, come la Veronesi stessa anticipa nella Premessa, o ancora morali. Non si tratta solo della moralità della forma architettonica ma di una morale che investe l’esistenza stessa degli uomi-
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ni. Accanto all’idea di un’architettura ritenuta progetto integrale e forse – azzarda Gianni Contessi nella postfazione alla ristampa del libro – persino integralista, dalle vicende narrate emerge il drammatico senso di attualità, ancora oggi quando pur in circostanze sociali nazionali e internazionali così mutate rispetto agli anni descritti e al 1953, sembra essersi perso definitivamente il significato autentico del l’intellettuale, che secondo la Ve ronesi, più severamente d’ogni altro uomo, deve render conto della civiltà cui concorre a dar forma, e che lo esprime. Fra gli intellettuali, volente o nolente, consapevole o inconsapevole, l’architetto, insieme con lo scrittore, è il più direttamente impegnato. Giustamente Contessi scrive che da almeno una trentina d’anni è in atto, nella critica e nella storiografia delle arti e dell’architettura, un’azione revisionista decisamente anticipatrice, rispetto a quella molto più accidentata che, da più parti, è stata condotta e ancora si continua a condurre sul terreno della storiografia politica pura. Sul termine a quo di siffatto discorso, almeno per quanto attiene al campo dell’architettura, è da considerare precursore il saggio di Cesare de Seta (La cultura architettonica in Italia tra le due guerre, 1a ed. 1972), seguito nel 1984 dalla prima stesura de Gli architetti e il fasci smo di Giorgio Ciucci per l’Enciclopedia Einaudi divenuto volume autonomo nel 1989. Ma è nel 1990, anno di pubblicazione presso Laterza del libro su Piacentini di Mario Lupano che si
registra una vera e propria virata storiografica. Pertanto Contessi non si sottrae alla tesi comune di chi si è interessato dell’architettura degli anni del Fascismo: e cioè che non tutto quanto fu prodotto dalla cultura del fascismo fu solo ciarpame. Infatti è stato sostenuto più volte, ed è vero, che alcuni stavano da una parte, altri da un’altra, ma il giudizio critico e non politico ha sempre riguardato le opere e non gli uomini, le architetture e non gli architetti. È bene che si sgombri il campo da questa che sta per diventare una fissazione storiografica che si millanta quale revisionista ma in realtà non appare necessaria più di tanto da almeno tre decenni, come si è detto, a meno che non si voglia postulare la necessità di un revisionismo del revisionismo. Ma prima del libro, che secondo Contessi va collocato nel suo tempo, che fu quello di un’“Italia anno zero”, a tre anni dall’uscita della Storia di Zevi, a due dal Gropius di Argan e dalla IX Triennale che ospitò proprio una sezione commemorativa degli stessi protagonisti del saggio veronesiano, un cenno va fatto all’autrice. Chi era dunque Giulia Veronesi, che nel lontano 1967 pubblicò uno dei suoi ultimi scritti proprio su questa rivista (cfr. Su alcune mostre del l’estate italiana, «Op. Cit.», n. 10). Sorella del pittore astrattista Luigi Veronesi, Giulia fu essenzialmente un’autodidatta, prima ancora che allieva di Giolli, come ha ricostruito Miriam Panzeri nella puntuale biografia, alla “Accademia libera femminile di cultura e di arte” di Milano, fondata nel 1924 dal professore di
filosofia Vincenzo Cento, poi amica di Persico e Alfonso Gatto e collaboratrice di Pagano a «Ca sabella». Contessi ce la presenta sullo sfondo di altre figure femminili sulla scena dell’architettura negli anni tra le due guerre: la Brizio e la Mazzucchelli, la Sarfatti, la Wittgens e la Nicco Fasola, più impegnate sul fronte pubblico ed editoriale. Dunque pure la Veronesi è una femme de lettres, un personaggio sostanzialmente unico nella storia dell’esercizio “moderno” “al femminile”, e soprattutto in anni di emancipazione femminile molto relativa e circoscritta; ella però non scrive avendo l’usbergo di una docenza universitaria o di un patronage politico, disciplinare o extra; è davvero una libera battitrice, soprattutto colta e per necessità incline alla «poligrafia», capace di intendere, come i suoi maestri diretti e no, sia i fatti dell’architettura sia quelli della pittura, fino alle arti applicate. Il suo background culturale è quello milanese degli anni trenta, che tradotto in nomi vuol dire il filosofo Antonio Banfi, Vittorio Sereni, Enzo Paci, Remo Cantoni, Giovanni Anceschi e, poi, il gruppo di “Corrente” con Ernesto Treccani, Giansiro Ferrata, Duilio Morosini, Alberto Lattuada e i pittori Guttuso e Birolli: un coacervo di energie intellettuali, di quasi pen satori garroniani (Sinisgalli, Vittorini, Carrieri, Quasimodo, Bottoni, Baldessari, etc.) che si riuniva nei mitici caffè letterari dove i ricordi presero un domani secondo i versi del poeta Gatto. Il tema forte di tutti i suoi scritti, non solo dei quattro medaglioni che compongono questo
Difficoltà politiche dell’architet tura in Italia 1920-1940, è quello della moralità dell’architettura e in architettura, secondo quella che fu per tutta la sua vita la perdurante linea critica giovanile impostata sulla scia del pensiero cattolico di Persico e Giolli volto alla ricerca del nuovo uomo. Di una moralità che con la nuova forma dell’architettura e di tutto quanto ci sta intorno deve investire l’esistenza stessa degli uomini. Moralità fa anche rima, in questo ragionamento, con quell’orgoglio della modestia di cui parlava Pagano. Dunque a pochi anni dalla fine della guerra e dalla prematura scomparsa dei compagni di strada e idee, ella avverte l’obbligo morale di fare sapere, e soprattutto di fare ricordare come e quanto la storia civile dell’Italia moderna in decenni cruciali sia stata intrecciata a quella delle arti e della cultura. Contessi non tace il pericolo o limite primo di questo libro veronesiano, ovvero l’appartenenza dell’autrice alla medesima tragica stagione dei protagonisti raccontati, insomma il suo forte commitment. Il saggio dunque rivela a ben vedere la doppia valenza di opera di valore storiografico e anche di testimonianza storica [dettata, come accennato], da un’urgenza profonda e sofferta. Del resto è la stessa Veronesi che nel presentare i suoi quattro eroi tragici, ne traccia i profili umani e professionali anche attraverso l’ambiente e il contesto culturale, arricchendo la sua testimonianza con le voci di altri protagonisti, citazioni, lettere, te sti, intrecciandoli più volte negli
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eventi, in accordi e disaccordi (si pensi alla ricostruzione del rapporto Giolli-Persico, della codirezione di Casabella di Persico e Pagano, dell’atteggiamento non certo benevolo di Pagano verso Terragni, etc.), cosicché tutto ci scorre davanti agli occhi, con il sapiente accostamento delle immagini, e ci appare molto più vicino emotivamente, anche se ormai contrassegnato dalla giusta distanza storica. Tale evidente vicinanza ai fatti e ai personaggi, dice Contessi, se talora cede a una vena di sentimentalismo o di lieve enfasi fortunatamente non mai veramente deteriori (si tenga conto della generazione cui l’autrice apparteneva), in effetti è sempre sostenuta dalla capacità di leggere lucidamente i fenomeni e le loro connessioni, facendoci cogliere la temperatura di quel disagio, di quelle difficoltà che attanagliarono artisti e intellettuali alle prese con il provincialismo italiano, con la meschinità della dittatura e gli opportunismi di tanti, talentati o mediocri.
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L’importante figura di Raffael lo Giolli è presentata attraverso un parallelismo apparentemente insanabile tra il nazionalismo della borghesia italiana, sensibile al clima fascista e al nuovo «neoclassicismo» e l’europeismo di Le Corbusier. Giolli, maestro dell’autrice, che le fece conoscere Persico, è il primo a «scoprire» l’opera di Ponti, ma soprattutto il primo ad amare nelle inedite forme della «casa brutta» di Muzio il soffio innovatore dell’architettura risvegliata. La Veronesi ne sottolinea la capaci-
tà critica di un giudizio equilibrato tra movimento razionalista e «Novecento». Il mezzo e il fine è la difesa dell’artista in quanto tale, a cui si riconosce il diritto di scegliere la forma della propria intima rivolta: nella libertà raggiunta dal linguaggio del l’artista doveva essere implicita l’intima libertà, la virtù del l’uomo. Missione dell’artista, questa, venata di romanticismo, così come quella del critico che deve riconoscerlo e difenderlo, di cui la stessa Veronesi si sente diretta erede. Anche il ritratto di Giuseppe Pagano indugia sugli aspetti umani (era un sentimentale, un generoso e caldo tribuno; e un uomo probo), e sulle apparenti contraddizioni dell’uomo-militare-artista che pensava di poter risolvere le difficoltà morali con l’azione: era nel compromesso, egli «faceva il fascista» per poter fare, e perché i giovani potessero fare, architettura. A distanza di anni la Veronesi rivede le proprie intransigenti posizioni di allora (a me pareva che, in Grecia, il maggiore Pagano andasse a combattere contro l’architetto Pagano), comprende e apprezza la soluzione mora le di Pagano che scelse inizialmente – a fronte del silenzio e dell’immobilità – di utilizzare il fascismo per affermare la nuova architettura: un’architettura, un’opera d’arte autentica non è forse moralità in atto, fuor d’ogni astrazione concettuale?, per poi concludere la propria vita come aveva egli stesso pronosticato, «pagando di persona», in assoluta rigorosa coerenza con il proprio impegno morale e la voce della propria coscienza.
Su Giuseppe Terragni, sulla sua storia spirituale particolarmente travagliata, quasi fosse uscito da una pagina di Do stoewskij, lo sguardo della Veronesi diventa particolarmente pietoso, considerando anche la natura della sua fine, oltre l’architettura, oltre la politica e la storia, nella regione in cui l’umanità giunge talvolta a sublimarsi. E così la parola ricorrente per descrivere il suo animo e la sua opera si traduce in atto lirico, liricamente, liricità pura; e d’altronde «lirico» è il termine usato dallo stesso Pagano per identificare quel qualcosa di «proprio, di arbitrario» che alcuni moderni architetti italiani, partendo «da un presupposto di libertà teoricamente assoluta, ma praticamente vincolata da schemi di armonie architettoniche già realizzate e recentissime», cercavano di aggiungere a tali schemi. Nella lettura della Casa del Fascio, velatamente contrapposta a quella di Zevi, la Veronesi rivela la sua acuta capacità di leggere un’architettura anche in termini pittorici, (o la sua acutezza di critica d’arte). Se infatti secondo Zevi il linguaggio figurativo richiama quello del «Novecento» pittorico, si tratta però del «Novecento» drammatico, del chiaroscuro sironiano, dell’espres sionismo di una visione che riproponeva il problema dei valori plastici in termini romantici pur dentro un’idea classica, dentro ritmi cadenzati da classiche chiusure. Termini non fatui, ritmi non mimetici di ordini romani, ma liberi in una silenziosa fissità, in un mistero che la pittura di quegli anni o di poco precedente conosceva
(e, direbbe Persico, annunciava) nel gesto dei fantasmi di Carrà, nello stupore dei cieli di De Chirico (come ha ben visto Labò), nell’estatica luce, nei piani freddi di Casorati. Altro universo tali pitture non rivelano che quello stesso da Terragni evocato nella pietra, nel marmo, nel cemento. «Vorrei giungere là dove Giol li è giunto: alla certezza»: con queste parole di Edoardo Persico la Veronesi chiude il cerchio dei suoi personaggi e introduce la figura del critico napoletano, al quale appare particolarmente legata, come sottolinea Contessi, per generosità, infatuazione o, forse, innamoramento. L’originalità del pensiero, la rigorosa coerenza delle reazioni, la complessità e purità del vivere gli ostacoli che la situazione storica degli italiani poneva a tutti gli uomini di buona volontà, Giolli o Pagano o Persico le si pongono come prima condizione per ricondurre alla situazione attuale la questione morale dell’architettura, e non solo. Al valore umano e morale, più volte riscontrato anche negli altri tre protagonisti, per Persico si aggiunge anche l’assunto del cristianesimo: lo stesso Contessi rimarca e si interroga sulla singolare coincidenza per cui i maggiori critici militanti italiani di quegli anni (anche Giolli) sono di ispirazione cattolica. Interessante notare perché la lotta per la nuova architettura sia in realtà, come la Veronesi conclude per Persico, oltre l’architettu ra: basta pensare al significato classico dell’opera d’arte, sintesi di valore estetico ed etico, messaggio di portata universale, per
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comprendere come tali architetti erano, a giusta ragione, per la critica Veronesi, di ispirazione velatamente e ancora crociana, artisti a pieno titolo in grado di perseguire il cambiamento del l’umanità: si veda dunque, ancora una volta, come l’intima tragedia in cui questi furono tutti condotti a risolvere la propria vita (altra soluzione non poteva esservi per loro) fosse la tragedia stessa dell’intera vita italiana. Ciò detto, anche Contessi evidenzia e ribadisce i limiti del “personaggio” Persico (peraltro già ben indagati in due acuti e puntuali saggi da Angelo D’Orsi); e viene da chiedersi perché un’esperta e matura professionista ricorra a tali artifici per ricostruire una figura il cui spessore era tutto già nei suoi scritti. Forse per amore dell’iperbole critica o per persistente soggezione verso un, anzi il, maestro; e chissà perché non a caldo (sarebbe stato più comprensibile) ma venticinque anni dopo la Veronesi sembra voler consolidare alcune evidenti inesattezze: ma anche il personaggio Giulia Veronesi, non era per niente facile, come dimostrano, per esempio, le sue disposizioni testamentarie con le quali impose agli eredi la distruzione del proprio archivio. In conclusione, la ristampa di questo libro veronesiano (anche con l’originaria veste grafica) è utile per riportare l’attenzione su vicende disciplinari che forse negli ultimi tempi troppo spesso e rapidamente si vogliono dare per superate o mal interpretate. Per cui va un plauso a chi ha contribuito a rimettere in circolo un volume come questo che, ana
logamente alla recente nuova edizione Jaca Book dell’ormai “classica” antologia degli scritti di Giuseppe Pagano a cura di Cesare de Seta, ha il pregio di riportare, al di là delle idee e delle ipotesi storiografiche, fatti incontrovertibili. R. A. Gillo Dorfles, Arte e comuni cazione (1959), La Triennale di Milano - Electa, Milano 2009. Sono trascorsi quarant’anni da quando, per la prima volta, Gillo Dorfles, pittore, critico d’arte e studioso di estetica, pubblica per i suoi studenti gli scritti recentemente presentati alla Triennale di Milano in collaborazione con Electa. Siamo nelle aule universitarie del Corso di Estetica del l’Università Statale di Milano, anno 1969: «Era quello il periodo della massima “moda” riservata agli studi semiologici». Fra i banchi, circola un volume intitolato Comunicazione e struttura nell’analisi di alcuni linguaggi artistici, una raccolta di scritti attorno al tema della semantica e delle arti che non vuole costitui re, come afferma il suo autore, una trattazione sistematica d’un problema così complesso e, in questo momento, così discusso come quello della linguistica e dello strutturalismo applicato all’estetica. Oggi quelle pagine non sono più inedite, escono dal circolo accademico e diventano un patrimonio culturale che può essere condiviso da tutti. A piena ragione.
Con la consueta leggerezza che caratterizza i suo scritti, pur non evitando di citare Roman Jakobson, Ferdinand De Saussure e Roland Barthes, Dorfles ana lizza i differenti linguaggi artistici e rende accessibili e comprensibili a tutti le sue teorie. La freschezza e l’attualità delle sue intuizioni risiedono nel voler ampliare il campo dell’arte ai diversi linguaggi artistici, inserendo in questo ambito il fenomeno della comunicazione di massa, perché se «uno degli scopi precipui dell’arte è la comunicazione», sarebbe altamente anacronistico e velleitario non considerare arte i film-inchiesta, la pubblicità, la fotografia, la televisione. È un errore continuare a credere che arte sia soltanto quella che si venera nei musei e nelle sale da concerto, mentre oggi l’arte […] è proprio quella che viene diffusa dai mass media e che viene prodotta con sistemi industriali. L’arte, infatti, costituisce l’unico, o almeno uno dei primissimi elementi capaci di informarci sulle situazioni sociali della comunità umana. Si pensi, ad esempio, alla velocità del consumo delle immagini a cui il cinema e la televisione ci hanno abituato. Una rapidità che ha modificato il nostro senso del tempo e a sua volta a condizionato l’obsolescenza e la facile usura delle forme, fattori questi determinanti nell’attuale situazione artistica. Basti riflettere su quanto sia legata, oggi, l’arte contemporanea al concetto di performance o di happening. O, ancora, al potente valore di socialità che possiede un buon film-inchiesta, vero mezzo di co-
municazione di massa in grado di influenzare notevolmente la società coeva e di incidere fortemente sulla mentalità del pubblico. Anche la fotografia, mezzo indagato nel capitolo Appunti per una estetica fotografica, dove Dorfles indaga quel delicatissimo rapporto che si instaura fra realtà e immagine, è da considerarsi prima di tutto una spia del nostro atteggiamento esteticopercettivo in una determinata epoca e può diventare una delle fonti di conoscenza […] del comportamento artistico di una determinata civiltà. Sono dunque i mass media i veri portatori dell’informazione, sono loro a tenerci costantemente informati: «tale comunicazione – si badi bene – è quasi sempre accompagnata e intessuta da un elemento estetico» ma soprattutto, è rivolta a tutti, a ogni livello sociale, e non pone distinzioni d’elite. È un miglioramento decisamente positivo, perché anche «l’uomo della strada ha imparato ad “adottare” con incredibile facilità e prontezza la presenza di nuove immagini e di nuove forme». Il rischio che in realtà permane è che questo miglioramento, derivante dalla globalizzazione estetica, possa portare a un progressivo appiattimento del tenore artistico. Non possiamo esimerci, quando parliamo di pubblicità e di immagini televisive, dal comprendere la loro importanza proprio per la loro peculiarità di venire direttamente a contatto con gli strati più vasti della popolazione […] rappresentano qualcosa di ben più importante e significativo di quanto a prima vista non appaia. In effetti, uno stu-
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dio antropologico rivolto alla nostra epoca non potrà esimersi dal considerare la pubblicità televisiva come la fonte più densa di notizie attorno alla situazione psicologica, estetica e culturale dell’umanità odierna. La pubblicità, dunque, possiede un ruolo educativo ed estetico notevole, in grado di sviluppare «un particolare gusto» nel pubblico. L’estetica e l’educazione, in questo caso, coincidono. Ovviamente non tutta la pubblicità, film, documentari e trasmissioni televisive possono essere considerate arte, rimane sempre da chiarire quali sono quei prodotti che possiedono una buona qualità estetica, una certa piacevolezza (intesa nel senso aristotelico di edoné), oppure una valenza culturale non indifferente: Ecco, dunque, che spetta e spetterà ai «creatori di forme» del nostro tempo di inventare e imporre le buone forme al pubblico, alle masse. L’architettura, l’immagine televisiva, il disegno industriale e la fotografia sono, quindi, degni di essere presi in considerazione in quanto linguaggi comunicativi. Sono tutti settori che andrebbero analizzati per comprendere il quadro completo della comunicazione artistica della nostra società attuale: «Oggi identificare arte e società, arte e comunicazione, arte e tecnologia, è il meno che si possa fare». L’analisi semiotica dei differenti linguaggi ne permette una più approfondita conoscenza delle loro caratteristiche espressive e comunicative, non ha più senso limitare il discorso al solo settore artistico, in particolar modo da quando «l’elemento tecnologico
ha profondamente mutato il volto stesso dell’arte». Quali sono, dunque, quei meccanismi semiotici medianti i quali tutti questi linguaggi assumono significato? Attenzione, però, a non confondere il linguaggio, ovvero quell’insieme di segni istituzionalizzati o istituzionalizzabili che rendono possibile la comunicazione intersoggettiva, con la lin gua, intesa come linguaggio verbale-idioma. Questo è il monito che giunge da Dorfles all’epifania delle sue trattazioni ed è una premessa indispensabile per la comprensione del testo: se, ora, intendiamo considerare l’arte come linguaggio dobbiamo ammettere che esso sottostia alle leggi della linguistica? Ebbene sta proprio qui il più frequente equivoco. Ai differenti linguaggi dell’arte possiamo applicare la semiotica (teo ria o dottrina dei segni) ma non la semiologia linguistica che, invece, è applicabile solo alle opere che si avvalgono della parola. La distinzione in singole unità linguistiche appare meno rilevante per un’estetica strutturalista e sarebbe un faticoso artifizio quello di voler paragonare e identificare a viva forza morfemi, sintagmi, lessemi, […] con gli sgocciolamenti di colori d’un dipinto informale, o con particolari raggruppamenti di mattoni. Ciò vale tanto per l’opera d’arte quanto per il manufatto architettonico ma è ancor più vero nella semiotica filmica o nell’arte pubbli citaria. Nel caso della pellicola cinematografica è impensabile scindere in più parti la sequenza filmica, perché allo stato di fotogramma non è ancora film. Tut-
tavia uno studio della sintassi e della morfologia di musica, poesia, cinema, architettura è senz’altro plausibile e certamente utile per una conoscenza più approfondita delle caratteristiche espressive e comunicative di ogni linguaggio artistico. Ben lontano, quindi, dal voler ricadere in teorie e dottrine precostituite o di moda, Dorfles rea lizza, come osserva Aldo Colonnetti nella prefazione al libro, una geografia dei linguaggi, dei comportamenti, delle esperienza artistiche, alla scoperta, come scrivevano i grandi formalisti russi, all’inizio del Novecento, di tutto ciò che l’e straneamento è capace di rinnovare sul piano estetico e semantico. Questo lavoro, attraverso preziose indicazioni a riguardo della comunicazione mediale, mette fuori gioco tutti i luoghi comuni sull’arte prodotta dai mass media, aprendo nuovi orizzonti sul problema della comunicazione. Una sorta di manuale essenziale per chiunque decida di avvicinarsi al campo dell’arte visiva, uno strumento di apprendimento e di ricerca sull’era contemporanea, che conferma Dorfles come uno dei pensatori più innovativi del nostro secolo, grazie anche alla personale capacità di indirizzare gli studi in uno spettro più ampio, che va oltre i limiti conformati della disciplina. Una preziosa guida che, sebbene scritta e redatta nel 1969, trova proprio la sua ragion d’essere e i suoi possibili approfondimenti nel nostro quotidiano. F. L.
Mostra Serie Fuori Serie, Triennale Design Museum, Milano, dal 21 marzo 2009. Che cos’è il design Italiano? È ancora questa la domanda su cui si interroga il Design Museum della Triennale di Milano nella seconda edizione espositiva dal titolo Serie Fuori Serie. Era il 2007, solamente quindici mesi fa, quando a questo interrogativo il Museo aveva provato a fare luce con la mostra Le Sette Ossessioni del Design Italiano, in cui erano state analizzate le radici antropologiche che legano ancora l’attuale cultura progettuale del design a modalità e categorie anche molto antiche (Andrea Branzi, La Pila di volta del design ita liano, testo introduttivo alla mostra). Dal 21 marzo 2009, invece, confermando la natura narrativa che caratterizza questo nuovo spazio museale, quella che si può visitare è una mostra che, pur rispondendo alla domanda di apertura, cambia pelle al museo e tenta un nuovo modo di raccontare il Design Italiano: Modificare il punto di vista, certo, può produrre l’illusione ottica di avere di fronte un altro paesaggio, ma non è così: il paesaggio è sempre quello, anche se – illuminato con luci diverse e osservato da postazioni differenti – può rivelare parti di sé che prima erano in ombra, e offrire scorci inattesi (Silvana Annichiarico, Per raccontare in un altro modo la stessa storia, testo introduttivo alla mostra). Il titolo Serie Fuori Serie introduce una riflessione sulla serialità, cara alla critica del design italiano, che a partire dal 1940
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venne più volte affrontata nei programmi di alcune edizioni dell’Esposizione Internazionale che ebbero luogo nel Palazzo dell’Arte. Fu il tema trattato nella VII Triennale, curata da Giuseppe Pagano, ripreso successivamente nel 1954, in occasione della X Edizione con la celeberrima Mostra Internazionale del l’Industrial Design (passata alla storia anche grazie al meraviglioso allestimento dei fratelli Castiglioni), che sanciva la definitiva indipendenza disciplinare del design definito come «intervento del concetto di forma nel processo industriale» – ovvero come capacità di dare vita, visibilità e distribuzione alla versione formale della tecnica – «che costituisce il fondamentale momento d’incontro tra arte e industria» (Guida Breve, Decima Triennale di Milano, 1954). E ancora, la XIV Triennale (1968), più sfortunata, perché le venne impedito il regolare svolgimento delle attività culturali di dibattito internazionale a causa dell’occupazione da parte dei giovani studenti di architettura, indagava i rapporti tra industrializzazione e mutamenti suscitati dal nuovo benessere diffuso. Oggi la riflessione condotta dal Museo vuole certo avere uno sguardo diverso, di più ampio respiro, senza giungere a conclusioni epocali né pretendendo esaustività. Tenta, invece, una lettura di ricognizione, fatta sì di oggetti ma soprattutto di storie, di felici sodalizi tra singoli progettisti e specifici imprenditori illuminati (a volte purtroppo sen za meritevole diffusione), di volate solitarie di alcuni designer con le idee così chiare da pro-
muovere il proprio self-branding e, poi, da utenti-progettisti messi nella condizione di poter interagire direttamente con l’azienda che produce e allestisce il prodotto secondo il gusto del cliente. Ciò che si delinea in questa mostra, dunque, è una sorta di circuito dinamico del sistema del design italiano, dove le relazioni virtuose tra progettazione e produzione seguono un percorso non lineare, caratterizzato dalla collaborazione spontanea tra due sistemi apparentemente deboli, che si intrecciano tra di loro creando appunto un anello che si autoalimenta e produce una energia continua di crescita (Andrea Branzi, op.cit.). Il titolo Serie Fuori Serie indica quindi gli estremi trainanti di questo circuito in cui produzione industriale (di serie e non) e sperimentazione più avanzata della ricerca indipendente si autosostengono, dialogano «all’italiana», creando l’occasione di produrre – industrialmente – anche il prototipo fuori serie e il pezzo unico. La mostra, ideata dalla curatrice del museo Silvana Annichiarico e dal curatore scientifico Andrea Branzi, si articola in quattro macroaree tematiche che sono rispettivamente Sperimen tazione, Piccola Serie, Grande Serie e Fuori Serie. Il progetto dell’allestimento, firmato da Antonio Citterio, appare silenzioso, calmo, in opposizione al fermento messo in moto dalla quantità dei pezzi in esposizione e dalla voluta lontananza tipologica all’interno delle sezioni, che chiarifica l’intento
interpretativo di creare relazioni di vicinanza e appartenenza a modalità di progettazione ed esiti di produzione. L’apparente disordine e confusione della collezione in questo concetto museografico aveva bisogno della massima astrazione, chiarisce l’autore. Ed è così che il progetto si risolve attraverso quinte lattee di Corian appese alle travi di Giovanni Muzio, che definiscono le aree concettuali, solo arginando visualmente i tavoli su cui gli oggetti sono posizionati e servendo poi da foglio bianco per disporre testi e didascalie. Le basi espositive, quasi di serie se non fosse per i cambi di quota che permettono la flessibilità indispensabile al trattamento di oggetti tanto diversi, si comportano come tavoli da laboratorio su cui i capolavori sono appoggiati e offerti all’attenzione del visitatore. Un allestimento asciutto, quasi interamente lasciato alla bontà della luce naturale, che accompagna il linguaggio razionalista dello spazio e che si avvicina al percorso conoscitivo della mostra grazie a una evidente semplicità di un presupposto funzionale. La sospensione degli schermi, l’a spetto volutamente precario dell’allestimento rispetto alla presenza del palazzo confermano la sottile, diafana presenza del progetto allestitivo tra oggetti in mostra e architettura (Antonio Citterio, Pro getto di Allestimento, testo introduttivo alla mostra). La prima parte, la più articolata e complessa per la molteplicità dei sottotemi di riferimento, mette in luce l’attività di sperimentazione come caratteristica
fondativa del design italiano che, proprio per la sua natura curiosa e ironica, si è inoltrata in territori poco esplorati così da tessere un nuovo abito al settore produttivo industriale. Ecco allora come i progetti presentati parlano di individui-progettisti che indagano autonomamente nuovi linguaggi e i cui lavori spesso non sono destinati a entrare sul mercato, bensì a circolare nel magma mediatico, influenzando la nascita di nuove idee e quindi la stessa produzione industriale. A raccontare la Sperimentazione è in primo luogo la sezione dei Prototipi Sperimentali, i cui oggetti di appartenenza, sebbene non entrati in produzione, rientrano comunque nella letteratura di settore per la carica fortemente sperimentale e innovativa e narrano l’esistenza dei centri prototipi, laboratori sperimentali direttamente integrati nel ciclo produttivo atti a decidere le sorti dell’oggetto, spesso incastonato in un’icona come nel caso di ALCA Volpe (1947), microvettura scoperta a due posti, prodotta in sei esemplari senza motore. Segue la sezione Ricerca per la sostenibilità, nuova frontiera industriale del XXI secolo, che presenta dalla Solar Bottle per depurare l’acqua sfruttando nel l’energia solare (Alberto Meda e Francisco Gomez Paz, 2006) ai piccoli tavoli in carta riciclata nati dall’amore di Stephen Burks per il pianeta (Love Collection, 2008); la terza nota innovativa è Ricerca Tecnologica che stempera le nuove tecnologie fornendo loro una possibile applicazione pratica, come insegna Marcel Wanders che fa spegnere la luce (artificiale) con un soffio
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(B.L.O, 2001), per passare poi alla Ricerca Espressiva con cui il design italiano ha conquistato il mondo con charme intellettualistico e ironia sottile, spesso guidati da gesti terreni e simboli ultraterreni (Tappeto Volante di Ettore Sottsass, 1974). Il primo fondamentale tema della mostra, che funge da imprinting, si chiude con Arredamento su Misura, sezione nostalgica dedicata al disegno di complementi d’interni che in Italia ebbe grande fortuna e notevole qualità tra gli anni trenta e quaranta e che la direttrice ben definisce come una realtà «tra la bottega e la fabbrica» (Silvana Annichiarico, Fuori Serie. Pezzi unici, prototipi e prodotti su commissione nell’ar cheologia del design italiano, Edizione Charta, Milano 2003), per la capacità di utilizzare tecnologie artigianali organizzate in maniera industriale. Infine, Alto Artigianato, termine apparentemente classico, che invece definisce il futuro del design grazie alla possibilità di applicare l’alta tecnologia alla piccolissima serie, spesso frutto di una simbiosi tra lavorazione meccanica e finitura manuale, come in Maui (2007), seduta di Terry Dwan, unico esemplare in legno di cedro ottenuto grazie a un processo di artigianato industrializ zato. È solo dopo questa densa panoramica che la mostra inizia a ragionare sul concetto di serie, iniziando da Piccola Serie, secondo capitolo del percorso, che affronta la questione da due prospettive diverse: la prima la vede come una precisa strategia con la quale molte aziende cercano di affrontare il frazionamento
dei mercati limitando i rischi dei grandi numeri. Alla Gillo Dorfles (Introduzione al disegno in dustriale. Linguaggio e storia della produzione di serie, Einaudi, Torino 1972) equivarrebbe a dire che «la scarsa seriazione è dovuta a una committenza inevitabilmente esigua e superindividuale», che va pazza per la serie numerata. Soluzione nata per difficoltà produttive ed economiche, altrimenti per entrare come pezzo d’arte nelle sempre più frequentate gallerie di design ma che, come in Le100 Piazze: Vigevano (2008) di Fabio Novembre, diventa oggetto di puro desiderio, di cui la funzione è quasi esclusivamente psicologica. La seconda, invece, vede il progettista-demiurgo impegnato nell’opera di self branding per autoprodurre in esclusiva i propri prodotti, rendendo palese quanto siano vicine, oggi più di sempre, l’attività del designer con quella dell’imprenditore. Lo racconta bene Michele De Lucchi (autore di Produzione Privata) nel video dedicato al l’area tematica, che esorta i progettisti a essere industriosi, ovvero intraprendenti, guidati dalla sana tensione del voler fare, anche da sé. Si arriva così verso la conclusione e dalla Cabina dell’Elba di Aldo Rossi (1980) si entra nel l’atto terzo della mostra dedicato alla Grande Serie, fenomeno probabilmente più rassicurante agli occhi del grande pubblico. Dall’immortale Moka Express (Alfonso Bialetti, 1933), dopo la Bottiglietta Campari Soda (Fortunato Depero, 1932) e i mitici Moon Boot (Adriano e Giancarlo Zanata, 1970), con Valentine
(Ettore Sottsass, 1969) come compagna di viaggi e illuminati tra Parentesi (Achille Castiglioni, Pio Manzù, 1970), si esce dalla serie e con un vezzo «milanesamente» snob si apre l’ultima sezione: Fuori Serie. Chiusura leggera per questa panoramica sul design italiano, di cui l’ultima parte sembra rappresentare un rifiuto della massificazione che si traduce nella richiesta di prodotti personalizzati per portamonete senza rimpianti (Ferrari P6 di Leonardo Fioravanti e Pininfarina, 1968). Il fuori serie ambisce ad essere tale in uno scenario in cui l’unicità e la rarità sono un’eccezione rispetto a pratiche di produzione e consumo oggettuale dominati dalla serialità (Silvana Annichiarico in Per raccontare in un altro modo la stessa storia… cit.). Ed è così che scompare progressivamente la differenza tra progettista, consumatore e produttore, per cui il processo si conforma a seconda del caso: il punto vendita diventa il luogo del progetto e la fabbrica il terminale di un cir cuito creativo che non ha più un centro. Terminata la visita ci si accorge che potremmo rifarla al contrario senza esserne disturbati. Inizio e fine solo legati da un passaggio fluido, rappresentato da grandi oggetti, quasi tutti mezzi di locomozione, in cui, ancora una volta, sperimentazione e fuori serie sembrano coincidere, lasciandoci il beneficio del dubbio nel credere, oppure no, a questa endless story del design italiano. A. R.
Andrea Branzi, Introduzione al design Italiano. Una mo dernità incompleta, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008. Nel 1999 Andrea Branzi pubblicava con l’editore Baldini& Castoldi Introduzione al design italiano, un volume che ripercorreva con sguardo critico la storia del design italiano proponendone un’analisi che ne legava strettamente l’evoluzione alle vicende economiche, sociali, politiche e storiche del nostro paese. Andrea Branzi, progettista e designer di fama internazionale, con quel testo indagava le specificità e le radici di un ambito progettuale che lo aveva visto e lo vede coinvolto in prima persona, come soggetto attivo di una sperimentazione che, nata alla fine degli anni Sessanta, assisteva, negli anni Novanta, a una grande diffusione, trovando al contempo una sistematizzazione teorica. Il volume raccoglieva le considerazioni storiche, teoriche e speculative maturate dall’autore negli intensi anni di ricerca e, in particolare, l’attività svolta dallo stesso Branzi tra il 1964 e il 1974 con gli Archi zoom Associati, primo gruppo italiano di avanguardia noto in campo internazionale. A dieci anni di distanza l’autore si confronta con la riedizione aggiornata del testo in cui converge la lunga esperienza di insegnamento, cui egli si è indirizzato dalla metà degli anni Novanta con tale intensità fino a scegliere di dedicarvisi a tempo pieno presso la Facoltà del Design del Politecnico di Milano. In questi anni Branzi ha dunque intensificato l’attività teorica e
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di critico, con un percorso di ricerca che ha comportato la pubblicazione di numerosi testi e saggi sulla storia e la teoria del design, lo ha portato a ricevere nel maggio del 2008 la Laurea Honoris Causa in Disegno Industriale conferitagli dall’Università La Sapienza di Roma e a curare numerose mostre del settore, tra cui il progetto del Museo del Design della Triennale di Milano nelle sue due prime edizioni Le Sette Ossessioni del De sign Italiano (dicembre 2007) e la nuova Serie e Fuori Serie (attualmente in corso). Di questo percorso ci pare di trovare una chiara traccia nella edizione aggiornata del libro. La riedizione del testo non prevede, come spesso accade, un semplice ampliamento attraverso l’aggiunta di nuovi capitoli di riflessione sul contemporaneo o di schede di analisi, ma è una revisione capillare e puntuale di ogni parte, con nuovi riferimenti ai testi critici contemporanei e la totale revisione dell’introduzione, oltre all’eliminazione di numerosi capitoli e paragrafi e, in alcuni casi, l’inserimento di nuovi. Formalmente la nuova edizione ha un sommario indubbiamente utile per la consultazione, e una selezione di immagini a colori, entrambi assenti nella versione precedente del volume, ma ancora insufficienti in quanto il testo risulta nel complesso ancora carente dal punto di vista iconografico. Nella sostanza il testo non risulta però stravolto. Segue la medesima organizzazione cronologia percorrendo la storia del design italiano a partire dalla domus latina per arriva-
re alle tematiche del contemporaneo come la questione ecologica o la rifunzionalizzazione urbana, mirando a individuare le radici di una pratica progettuale che muove dall’oggetto per arrivare alla città. L’obiettivo di tale indagine è la volontà di ricercare e sottolineare le origini e le peculiarità del design italiano. Finalità chiaramente esplicitata fin dall’introduzione, completamente nuova, che evidenzia fin da subito il principale cambiamento che sembra aver guidato la revisione del testo per l’edizione aggiornata. È qui sparito, come sostanzialmente in tutto il libro, l’accento sull’idea di design militante che caratterizzava la prima edizione, costretto a confrontarsi con la costante mancanza di «istituzioni capaci di dare continuità e sviluppo a questa disciplina», con l’assenza «di una vera storiografia del design italiano» e «di un modello conoscitivo adeguato». Il nuovo saggio introduttivo esplicita, invece, in modo chiaro l’obiettivo dell’indagine condotta, sottolineando in ultima analisi l’autonomia di questa disciplina: Questo libro vuole […] affermare che quella del design è una storia per molti versi autonoma e alternativa a quella dell’arte e del l’architettura; e che proprio per la sua natura particolare, apparentemente legata alla quotidianità domestica, fornisce informazioni culturali e antropologiche importanti sulle radici del nostro Paese. Ciò che l’autore ricerca ed evidenzia è il profondo legame con la storia e la cultura nazionale, elementi che influenzano
l’ideazione e la produzione di oggetti e che, allo stesso tempo, forniscono un metodo per la loro lettura e interpretazione: «sono gli oggetti domestici e il loro modo di essere concepiti a illuminare aspetti profondi della nostra storia nazionale». Un rapporto speciale e particolarmente presente nell’analisi di Branzi risulta essere ancora, come nella prima edizione, quello con la religione che guida la lettura di molti momenti della storia narrata, dal periodo paleocristiano alla crisi di inizio secolo legata alla globalizzazione e alla trasformazione multietnica della società contemporanea. Nel proporre la sua lettura della Storia del Design Italiano, Branzi ne inserisce l’evoluzione in un quadro storico che non prende le mosse dalla rivoluzione industriale, ma che si sviluppa seguendo le discontinuità della storia italiana, caratterizzata da «rivoluzioni mancate» e da «una modernità incompleta», che generano un design «contraddittorio e policentrico, che ha saputo trarre da questa particolare discontinuità la sua unità e la sua energia vitale». Che cosa sia nella sostanza il design − disciplina per la quale Branzi rivendica con forza e convinzione autonomia e autosufficienza − rimane una questione dai contorni sfumati, ma certo più precisi e chiari che nella precedente versione del libro. Manca, quindi, ancora una definizione di «design», che si delinea però come un’attività di progetto che opera sui luoghi e sugli strumenti della quotidianità […] affermando la centralità del sistema degli oggetti e
dei piccoli spazi dentro ai grandi scenari urbani […] una «convenzione estetica» non ben definita, ma condivisa nella quale si ricompongono le domande di innovazione di tutti i sistemi produttivi e della società locali. Il design abbandona il carattere militante e di ricerca speculativa astratta (e notiamo l’eliminazione di alcuni capitoli che più ne sottolineavano questo carattere), che lo caratterizzava nel secolo scorso, per diventare un metodo progettuale diffuso tanto che, osserva lo stesso autore, «tutto sembra essere diventato “design” e il “design” sembra essere in grado di intervenire in ogni settore», coinvolgendo diversi aspetti del progetto, ma anche politica, moda, servizi e, ancora, didattica, scuole di formazione, mostre e fiere e diventando infine una nuova «professione di massa». Questa definizione, osserva Branzi, non comporta un giudizio negativo, ma la constatazione dell’esistenza di un fenomeno storico nuovo, caratterizzato dall’avvento di una domanda dimensionalmente inaspettata e da una numerosa generazione di creativi che opera con modalità originali. Viene delineato, dunque, un nuovo scenario, ancora in evoluzione ma fortemente distante dal design a cui Branzi ci introduceva solo dieci anni fa, portando i maestri del design italiano (tra cui forse in alcuni momenti egli stesso) a sentirsene estranei e a criticarne i comportamenti. Una disciplina che sta rapidamente cambiando, tentando una penetrazione «degli spazi morti della
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vita quotidiana»; un design più diffuso e capillare che segue quella che Branzi stesso definisce in conclusione una nuova strategia, indifferente a questioni di stile e all’uso di tecnologie avanzate, ma che dopo i fallimenti di tutti i megaprogrammi strutturali del XX secolo, prova a cambiare la qualità del mondo a partire dalle piccole cose, con interventi molecolari in grado di dare forma a una nuova modernità «debole e diffusa»; o come dice Zygmunt Bauman a una «modernità che modernizza se stessa». F. L. Roberto Pasini, Warhol e Ro miti. Un confronto assurdo, Pendragon, Bologna 2008.
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Warhol e Romiti. Due cognomi, accoppiati nero su bianco, campeggiano in copertina appena sotto quello dell’autore, il critico e storico dell’arte Roberto Pasini. Il primo non stupisce. A destare interesse semmai è il secondo, per difetto di popolarità, appaiato al guru della Pop art. Cosa c’entra con il romita-Romiti (esempio calzante di nomen omen) Andy Warhol, stella indiscussa del jet-set artistico mondiale? Andando oltre la copertina e addentrandosi tra le pagine del libro, già l’Introduzione viene in aiuto chiarificatrice. Pasini scopre subito le carte, profilando la tesi portante del volume: a prima vista due “opposti e complementari” non hanno niente in comune, se non il fatto di rappresentare “l’unione nella diffe-
renza, l’inconciliabilità nell’unisono” (p. 8). Ed è questo il nucleo dell’intersezione, che altro non simboleggia se non i due principi fondanti, lo yin e yang dell’universo nel Tao cinese, cui il critico è filosoficamente debitore. D’altronde, se il confronto inedito non si profilasse interessante di per sé, Pasini avrebbe optato per due pubblicazioni distinte e consecutive, visto il suo guinness di ex-dottore di ricerca più giovane d’Italia e l’ampia produzione di pubblicazioni come docente. A stringere le maglie intorno all’intreccio pasiniano giocano, quindi, forti componenti sia scientifiche che soggettive, alle quali accondiscende lo studioso, ma soprattutto l’uomo. In particolare la memoria, scaturita dalla frequentazione diretta dell’artista che volle “dipingere l’indipingibile” (p. 81), e la nostalgia dell’affetto paterno, efficace propulsore all’impresa. Ecco, si può affermare che Romiti sia ciò di cui il giovane critico si è imbevuto nella sua Bologna e per questo in parte vi si rispecchia, mentre il genio di Pittsburgh rappresenti la distanza, ciò che finora non ha mai convinto del tutto l’autore: “Warhol non l’ho conosciuto e, devo dire che, fino a non molto tempo fa non l’ho nemmeno stimato eccessivamente” (p. 8). A questo punto è d’obbligo una precisazione, prima di proseguire nell’analisi del saggio critico: indugiare sull’aspetto personale non è uno sterile divagare. Pasini analizza soprattutto due uomini, prima che due artisti, l’uno timido e schivo, l’altro ossessionato dal timore dell’e
marginazione. E da un naso imperfetto. Da qui l’esigenza di un libro, che, a parte il casus degli 80 anni dalla nascita di entrambi nel 1928, presuppone l’ebbrezza del rischio congenito a ogni sfida. “Che cos’hanno in comune Andy Warhol e Sergio Romiti? Apparentemente niente. Questo è il miglior presupposto per avviare un confronto. Un confronto assurdo”, dichiara a pagina 11 Pasini, condottiero di un’impresa impossibile: trovare il punto di contatto tra azzeramento e dominio assoluto dell’immagine. Date per assodate, dallo stesso autore, le motivazioni assurde del saggio, in maniera del tutto speculare Pasini devia il paradosso parallelo verso un sentiero di fatto convergente. Se assurdo è il raffronto per differenze di chi ha incarnato i due principi fondanti della vita, assurda è l’esistenza stessa. Nel continuo testa a testa – snocciolato in tre capitoli ciascuno – tra il “pensie ro pittorico dell’arte italiana più puro e sottile degli ultimi 50 anni” e l’“assenza di pensiero pittorico più straordinaria e geniale degli ultimi 50 anni d’arte americana” (p. 7), Pasini finisce con l’inglobare tra i due estremi, il cielo e la terra, l’essenza tutta dell’esistenza. Arriva a sfiorare l’esistenzialismo di Sartre, il disagio della civiltà di Freud, la drammaturgia dei premi Nobel Camus e Beckett. A differenza del teatro dell’assurdo di que st’ultimo, però, che rifiuta un linguaggio logico-consequenziale, Pasini ha ben chiaro dove condurre la logica del suo ragionamento, pur se tiene ben custodito il suo mistero, rivelando
solo in conclusione il simbolo contemporaneo a cui riportano Warhol e Romiti. Sono due antipodi, parti separate di un Tutto originario, due simboli distinti ridiventati Uno nella sintesi di opposti che contrassegna l’attuale età di frontiera. Apaiono quanto mai appropriati i due cerchi in copertina al libro: l’uno racchiude le due firme nero su bianco, l’altro si riempie dell’horror va cui di Warhol e dell’horror obie cti di Romiti, in dosi perfettamente uguali. Pasini arriva a designare a livello sociologico, più che storico-artistico, questa sintesi post-moderna con il neologismo Shemale, che incarna il terzo sesso, il transgender, il frutto dell’unione impossibile e “assurda” tra i contrari. Non a caso, come il teatro degli anni ’50 sublimava l’annientamento post-bellico, la drammaturgia de gli anni 2000 si occupa di questo congiungimento, dagli esiti ondivaghi che oscillano tra unione pura e terzo polo satellite. Entrambi gli artisti, quindi, uomini del loro tempo – gli anni Cinquanta e Sessanta di Beckett e Camus – diventano consapevoli quasi contemporaneamente dell’assurdità dell’esistenza, voltandosi a vedere l’“inganno consueto” montaliano, (pag. 87). La via del Nulla eterno si presenta sempre più vicina. Da qui in poi, apriti cielo, o chiuditi per sempre. Il Nulla, ormai assodato, inghiotte il mondo, ma i due naufraghi nell’oceano del vuoto cercano disperatamente di contrastare questo azzeramento, riempire il vuoto, facendo prima tabula rasa dell’ipocrisia del creato/res l’uno (Romiti) e della falsità del creare/poiesis l’altro
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(Warhol). Dall’“ultimo quadro possibile” di Reinhard, il quadrato nero infinitamente ripetuto (p. 93), Romiti aggiunge, o meglio sottrae, un’ulteriore tessera: neri incentrati sul “vuoto radicale”. In qualche modo, poi, il vuoto risultante è assoluto, palingenetico e va riempito, seppur con i residui della deflagrazione cosmica, gli scarti luminescenti di Romiti, le riedizioni degli oggetti dell’onnivoro Warhol. Pasini esprime quest’esito estremo raggiunto da una parte all’altra dell’Atlantico, riferendosi a Warhol, tuttavia ormai sappiamo che da due differenze può nascere l’indistinzione: “Il vuoto non è più quello della mente che si lancia verso il nulla nel tentativo di afferrare il senso dell’universo, sprofondando nel crepaccio della solitudine e del dolore, ma quello di un normale aspirapolvere che si riempie” (p. 58) La grande intuizione profetica dei due è aver superato il vuoto, arrivando a vederne l’ultimo (quello del XXI secolo) orizzonte. I due veggenti hanno visto oltre: il
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male di vivere astratto (racchiuso in Come sono neri i pensieri delle notti bianche di Romiti del 1993) si può aspirare, fagocitare e risputare come human-machine (che produce gli oggetti del Big retrospective painting. Re versal series di Warhol). Dopo aver fatto piazza pulita, si può ricominciare a vivere, in un tutt’uno indistinto, il terzo sesso, o nel corpo di semirobot. Il risultato è una ri-creazione, un genere nuovo di mondo, come l’uomo-donna e l’uomo-robot sono oggi faville di un nuovo genere umano, creato grazie alla chirurgia plastica di cui Andy fu un indiscusso pioniere. Così quest’ultimo demiurgo dalla sensibilità materna, e Romiti, numero uno del silenzio virile, unendosi sul giaciglio delle pagine pasiniane generano una rinascita e a loro modo, riverberandosi a vicenda, scrivono l’anno zero del nuovo corso del l’umanità, oltre che della storia dell’arte a venire. B. B.
Sommario dei fascicoli pubblicati
N. 1. Le «Nuove Iconi» e la «civiltà del consumo» - Architettura utopistica - La sociologia dell’arte dei sociologi - Esperienze della Biennale - Tecnologia e poetiche contemporanee - Nouveau roman e arti figurative - Il Gaudi di Pane (fascicolo esaurito) N. 2. Design e mass media - Gestalt prima e dopo - L’estetica neonaturalistica di Romanell - Della Pop Art e di una mostra a Vienna - La poetica urbanistica di Lynch - Semantica dell’arte - Architettura come linguaggio (fascicolo esaurito) N. 3. Architettura e cultura di massa - Alcuni temi dell’Informale - Kunstwollen e intenzionalità in E. Panofsky - Dal pragmatismo alla fenomenologia - Libri, riviste e mostre N. 4. La critica discorde - S.K. Langer, L’influenza sociale del design - T. Munro, Recenti sviluppi dell’estetica in America - G. Veronesi, Sull’architettura del secolo - L. Vinca Masini, Le mostre dell’estate ’65 - Libri, riviste e mostre N. 5. I criteri di valutazione dell’arte contemporanea - Una politica culturale per i socialisti - Il visual design - Pareri sulla IX Quadriennale - Libri, riviste e mostre N. 6. Il disegno di architettura - J.P. Hodin, Esiste un’estetica dell’arte moderna? - Alcune voci dell’urbanistica contemporanea - Breve antologia delle ultime Biennali - Libri, riviste e mostre N. 7. Note per una semiologia figurativa - W. Hofmann, Gli inizi dell’attività formale - E. Garroni, 33a Biennale di Venezia: «jeu» e «sérieux» Libri, riviste e mostre N. 8. Artisticità dei mass media - B. Jessup, Arte e storia - Il design scientifico di Alexander - Incontri di studi urbanistici - Libri, riviste e mostre N. 9. Il pensiero estetico di Adorno - 4 artisti scelti da Barilli - A. Vivas, Filosofia della cultura, estetica e critica: alcuni problemi - Libri, riviste e mostre
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N. 10. Il premio IN/ARCH alla nostra rivista - R. Barthes, Semiologia e urbanistica - Nuove idee per la Gescal - Il metodo scientifico nella pianificazione - G. Veronesi, Su alcune mostre dell’estate italiana - Libri, riviste e mostre N. 11. G. Morpurgo-Tagliabue, L’arte è linguaggio? - Urbanistica e arti visive oggi - Valori ed obiettivi nella pianificazione - Libri, riviste e mostre N. 12. Tre contributi alla semiologia architettonica - E. Garroni, L’eterogeneità dell’oggetto estetico - V. Corbi, Questioni di estetica empirica - A. Perez, Riflessioni di uno scultore sul tema dello spazio - Libri, riviste e mostre N. 13. L’«environmental design» e il suo insegnamento - Per una teoria dell’architettura - L’estetica del «pensiero negativo» in Marcuse - Libri, riviste e mostre N. 14. La prossemica: un nuovo apporto all’architettura? - La poetica dell’arte povera - Note sull’Università e la professione - O. Ferrari, Una Biennale rimasta senza giudizio - Libri, riviste e mostre N. 15. I problemi dell’istruzione artistica - R. Segre, Presenza di Cuba nella cultura architettonica contemporanea - Architettura fra retorica e logica - Libri, riviste e mostre N. 16. Significanti e significati della Rotonda palladiana - G. Dorfles, Valori iconologici e semiotici in architettura - Attualità della retorica - Libri, riviste e mostre N. 17. Il centro della città (definizioni) - M. Tafuri, Ambiguità del Guarini - Lettura storico-semiologica di Palmanova - Libri, riviste e mostre N. 18. L’architettura per l’Università - E. Garroni, Semiologia e architettura. Alcuni problemi teorico-applicativi - Recenti contributi allo studio dell’«environmental design» - Libri, riviste e mostre N. 19. Segni e simboli del tempietto di Bramante - Note sull’immaginario in Filarete - Philip Johnson: la funzione della maschera formale - Biennale/ ricerca - Libri, riviste e mostre N. 20. Utilità storiografica di una dicotomia linguistica - Meaning in Architecture - La cultura di Le Corbusier - New Towns (definizioni) - Libri, riviste e mostre N. 21. Note per una epistemologia della rappresentazione visiva - G. Bonsiepe, Panorama del disegno industriale - Per una poetica del profondo: Blaue Reiter - Libri, riviste e mostre
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N. 22. Nomi, luoghi, immagini di città nella «Recherche» di Proust - U.
Eco, Analisi componenziale di un segno architettonico - Percezione ed esperienza estetica - Libri, riviste e mostre N. 23. La «riduzione» culturale - Libri, riviste e mostre N. 24. «Arquitectura, historia y teoria de los signos» - Note di terminologia semiotica - Il design: processo e fruizione - Il «silenzio» dell’architettura contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 25. Note sull’arte concettuale - L. Benevolo, La recente storiografia della città - Lo storicismo e i confini della semiologia - Città-pubblicità: sul caso Las Vegas - Libri, riviste e mostre N. 26. La «riduzione» culturale nella progettazione architettonica - R. Barilli, Le due anime del concettuale - G. Morpurgo-Tagliabue, Commento alla «riduzione» culturale - L’antidesign - Libri, riviste e mostre N. 27. Altri aspetti della «riduzione» culturale - Interventi: G. Dorfles, Riduzione ad oggetto, riduzione a progetto - P. Fossati, Riduzione o trasformazione? - T. Llorens, Sul concetto di comunicazione estetica - Libri, riviste e mostre N. 28. Elementi semiotico-progettuali d’architettura - M. Krampen, Dalla semiologia della comunicazione alla logica degli strumenti - Libri, riviste e mostre N. 29. Per una lettura semiotica della prospettiva - Elementi di una tendenza dell’architettura italiana - XV Triennale - Libri, riviste e mostre N. 30. Problemi di semiotica dell’arte contemporanea - B. Zevi, Sei postille su «Il linguaggio moderno dell’architettura» - Alcune opinioni sull’iperrealismo - Libri, riviste e mostre N. 31. Elementi della progettazione scientifica - Il segno indefinito della semiologia urbanistica - Note sulla cultura a «mosaico» - Arbitrarietà e motivazione del linguaggio architettonico - Libri, riviste e mostre N. 32. L’eccentrismo, un momento della avanguardia sovietica - U. Eco, Chi ha paura del cannocchiale? - Nota sul segno urbanistico - I segni e le «figure» del Padiglione di Barcellona - Libri, riviste e mostre N. 33. Architettura come istituzione - Il «ritorno» alla pittura - Università: le parole e le cose - Libri, riviste e mostre N. 34. Dall’estetica alla semiologia - La teoria di Hjelmslev e l’architettura: alcuni problemi - Il «realismo» di Giuseppe Samonà - Libri, riviste e mostre N. 35. Attualità dell’iconologia: alcune questioni metodologiche - R. Ba-
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rilli, Difficoltà di un approccio semiotico alla culturologia - L’editoria architettonica - Libri, riviste e mostre N. 36. I centri storici nella prospettiva semiologica - Le idee di teatro, oggi - Una riproposta del «multiplo» - Libri, riviste e mostre N. 37. Dialettica del «piacere» e identità dell’architettura - Assenza-presenza: due modelli per l’architettura - La «storia dell’arte» nelle scuole - Libri, riviste e mostre N. 38. Le ricerche di architettura più attuali ed insolite - Dalla fotografia al videotape - Analisi di un corso di laurea: il Dams - Libri, riviste e mostre N. 39. La sociologia del gusto di Jean Baudrillard - Le posizioni di […] su alcuni temi della critica architettonica in Italia - Libri, riviste e mostre N. 40. «Aforismi» sui centri storici - Note sulla simmetria in architettura Bataille e la “svolta” di «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 41. Dipartimento e «architettura» - La «rappresentazione» tra storia del teatro e semiotica - La critica d’arte in «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 42. L’idea di pittura in Lévi-Strauss - Sul concetto di gusto - Alcuni contributi alla critica dell’inconscio - Libri, riviste e mostre N. 43. La post-avanguardia - Luoghi e luoghi comuni della recente critica d’arte - Narciso e «l’altro»: note sul dibattito architettonico - Libri, riviste e mostre N. 44. Architettura: la «rimozione del nuovo» - Ipotesi per il segno iconico - Storia dell’arte, storia delle cose - Libri, riviste e mostre N. 45. Topologia e architettura - La casa: norma e «deroga» - Artisti e cinema - Libri, riviste e mostre N. 46. I quindici anni della nostra rivista - L’Architettura all’Ecole des Beaux-Arts - La Storia dell’arte Einaudi - Una griglia che non sia una grata N. 47. Architetto e ingegnere - Le scuole di critica d’arte in Italia - L’immaginario nella cultura di massa - Libri, riviste e mostre N. 48. Prima e dopo il Post-Modernism - L’iconizzazione del mobile - Civiltà del ’700 a Napoli - Libri, riviste e mostre N. 49. Il restauro architettonico: ricchi apparati e povere idee - F. Menna, La Biennale di Venezia. Gli anni settanta: questi (mi)sconosciuti - Critica d’arte e processi produttivi - Libri, riviste e mostre
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N. 50. Fortuna critica della «Tendenza» - R. Bonelli, Storiografia e restauro - La fotografia: indice o icona? - Libri, riviste e mostre
N. 51. Classicismo e razionalismo in J.N.L. Durand - Modelli interpretativi delle tendenze artistiche odierne - Architettura come testo - Libri, riviste e mostre N. 52. L’espressione «Movimento Moderno» - Indagine su Carlo - Note sulla Transavanguardia - Libri, riviste e mostre N. 53. Il design tra «radicale» e «commerciale» - Dalla «ruminazione» dei guerrieri greci all’«insonnia» dell’estate romana - Fortuna degli slogans Libri, riviste e mostre N. 54. Disincantamento e restaurazione - Lutyens fra storia e critica - Il Bauhaus e il teatro tedesco - Libri, riviste e mostre N. 55. Continuità e Protorazionalismo - Se questo è un quadro allora non è un quadro - Gli oggetti di domani - Design come motto di spirito - Libri, riviste e mostre N. 56. Dall’America. Warhol e Kosuth - Il design dell’«altra avanguardia» - L’International Style cinquant’anni dopo - Libri, riviste e mostre N. 57. Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58. E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59. Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60. Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61. Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62. Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63. Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64. Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65. Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre
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N. 66. Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre N. 67. Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre N. 68. Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69. Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70. Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71. Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72. Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73. Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74. Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75. Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76. I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre N. 77. Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre N. 78. L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79. Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre
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N. 80. Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre
N. 81. Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82. Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze - Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre N. 83. Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre N. 84. Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85. Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86. Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87. Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design - Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88. L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89. Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90. L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91. «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92. Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93. La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94. Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95. Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica - Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre
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N. 96. Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97. Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98. Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99. Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo - Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre N. 100. Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101. Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102. Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103. Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104. La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105. L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106. Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107. Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108. Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109. Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre
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N. 110. Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre
N. 111. Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112. Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113. Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114. L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115. L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre N. 116. Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117. Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118. Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119. L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120. Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121. La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122. L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123. Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125. Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
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N. 126. L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127. Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 128. Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129. Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 131. Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neoavanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132. Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133. Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134. Abitare la razionalità - Per una nuova classificazione delle arti - Il design aeronautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
Direttore responsabile: Renato De Fusco
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Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998
«Grafica Elettronica» - Via Ferrante Imparato, 190/F4 - 80146 Napoli
Le pagine dell’ADI
Associazione per il disegno industriale
Proseguendo la pubblicazione di alcuni brani del libro I cinquant’anni dell’ADI a cura di Renato De Fusco, in questa puntata ci occuperemo della vicenda dell’Associazione negli anni ’70. La prima manifestazione del decennio fu la «Settimana del design» che si tenne a Milano dal 16 al 24 maggio col fine di rendere più popolare possibile l’intera problematica del design. Essa consisteva: a) in un percorso espositivo di prodotti dal Castello Sforzesco fino a via Manzoni attraverso 44 sedi, principalmente i negozi e i locali di aziende quali l’Arflex, la Brionvega, la Cassina, il Centro Domus, la Fiat, la Kartell, La Rinascente, la Montedison, l’Olivetti, la Pirelli, ecc.; b) nella decima edizione del Compasso d’Oro; c) in una mostra avente per oggetto il Bauhaus (una rassegna già presentata a Stoccolma, Londra e Parigi); d) in un concorso internazionale sull’arredo urbano; e) in proiezioni di film sul design; f) in un convegno internazionale. Quanto al concorso per il Compasso d’Oro, l’ultimo della serie che sarà ripresa, come già detto, solo nove anni dopo, la Giuria era composta da Franco Albini, Jean Baudrillard, Achille Castiglioni, Federico Correa, Vittorio Gregotti, Albe
Manifesti disegnati da Pino Tovaglia.
Steiner. Furono assegnati 10 premi che, forse per tener conto delle contestazioni critiche, furono scelti in modo da coprire il maggior numero di
merceologie, rispondenti alle varie istanze. Così, nell’ambito dei prodotti da ufficio, troviamo la calcolatrice da tavolo Logos 270 di Mario Bellini e Sandro Pasqui per Olivetti, l’elaboratore elettronico G20 di Ettore Sottsass, D.L. Higgins e J. L. Monk per Honeywell, l’addizionatrice elettrica MC19 di Sottsass e von Kleir anch’essa per Olivetti, il sistema per analisi multiple semiautomatiche ad unità operatrici a ciclo programmato, ELVI 390, di Francesco Mazzucca per la Elvi; nel settore dei trasporti fu premiato il pullman da grande turismo Meteor di Alberto Rosselli e Isao Hosoe per la Fiat; nel campo dei mobili un Compasso d’Oro venne assegnato alla poltrona Soraia di Afra e Tobia Scarpa per Cassina; furono altresì premiati oggetti elettrodomestici e casalinghi. Ma i premi che fecero più notizia, quelli culturalmente più «segnati», furono riservati a Gillo Dorfles, all’Editoriale Domus, alle Edizioni di Comunità e fra le industrie alla Brionvega. Un altro significativo impegno dell’ADI fu l’organizzazione del Convegno internazionale di studi patrocinato dall’ICSID e svolto in chiusura della settimana del design. Esso, con al centro il tema dominante della scuola, va posto in relazione con l’altro, organizzato a Roma sulla «Situazione delle scuole di design e di comunicazione visiva in Italia» provocato dalla chiusura delle scuole di Venezia, Firenze, Roma, un provvedimento ministeriale adottato in vista di una proposta di legge
Protesta per la chiusura delle scuole di design.
in preparazione che avrebbe rivisto l’intero quadro sull’istruzione per l’industria artistica. L’ADI reagì prontamente a quest’azione mini-
steriale, prima redigendo un libro bianco sulla scuola, ricco di informazioni e proposte, poi con il citato convegno di Milano. Ad esso parteciparono Castelli, Maldonado, Guiducci, Spadolini, Ciribini, Bellini e Gregotti e fu articolato intorno a cinque relazioni; in quella di Gregotti emerse chiaramente quanto stava più a cuore a tutti: l’inserimento della «disciplina» del design all’interno del quadro, allora come oggi incerto, della riforma universitaria. A tal proposito G. K. Koenig scrive: «il Ministero della Pubblica Istruzione ha comunicato che, a partire dal prossimo anno accademico, le tre scuole superiori italiane di Industrial Design – Venezia, Firenze e Roma – non potranno accettare le iscrizioni al primo corso; il che significa la morte, nel giro di tre anni, di tutte queste scuole. La motivazione è duplice: il progetto di riforma di queste scuole, che si pensa di portare a livello universitario; la mancata collaborazione economica degli enti locali. Con i governi paralizzati che corrono, e le grosse battaglie del divorzio e delle università, mi domando quando e come il nostro Parlamento avrà voglia di occuparsi del futuro dei designers. […] Non ho esperienza diretta delle scuole di Venezia e di Roma, ma su quella di Firenze posso dire molte cose. Anzitutto che vi hanno insegnato, fra gli altri (pagati, per 9 mesi all’anno, meno di un fattorino del tram o quindi per puro piacere), Leonardo Benevolo, Pierluigi Spadolini, Vittorio Franchetti Pardo,
Carlo Bartoli, Pier Luigi Cetica (tutti liberi docenti) e vi hanno tenuto corsi monografici e una serie di conferenze Silvio Ceccato, Gillo Dorfles, Marco Zanuso e tanti altri designers. A parte l’aver rappresentato l’Italia, nel padiglione del design, all’Expo di Montreal, la Scuola superiore di I. D. di Firenze, diretta da Angelo M. Laodi, è forse l’unica scuola in Italia che sta sperimentando il disegno industriale a fini sociali». Qui Koenig passa a ricordare i numerosi lavori fatti dgli studenti e la loro viva partecipazione alle esperienze di fabbrica, specie in occasione della produzione di autobus ed altri mezzi pubblici: «Perché quindi non sostenere quelle scuole in cui gli studenti dirigono tutta la loro enorme forza-lavoro nel creare una progettazione impegnata? Di queste scuole gli enti pubblici ne hanno bisogno, e spesso ne ignorano le capacità produttive. […] Così vanno le cose in Italia.» La spinta dei contestatori verso un design di pubblica utilità unitamente al sucesso della teoria di Kevin Lynch, portarono ad un altro punto nodale del dibattito architettonico, l’«ambiente», l’environment design, e ispirarono un altro importante fatto databile al ’70: il Concorso internazionale la «Città come ambiente significante», con una giuria composta da Alessandro Mendini, Bruno Munari, Jona Friedman, Joseph Ryckwert e appunto il citato Lynch. Organizzata nello stesso anno, fu la mostra «Italy: the new domestic landscape», aperta dal
23 maggio fini all’11 settembre, presso il Museum of Modern Art e consistente in una rassegna sul design italiano degli anni ’60-70. Essa era pertinente al nostro discorso sull’ADI perché rendeva evidente sul piano operativo ciò che all’interno dell’Associazione costituiva materia di dibattito teorico, segnatamente politico-culturale. Ma di maggiore interesse per noi fu il dibattito che in questi primi anni settanta si svolse all’interno dell’Associazione fra le due anime dell’intero mondo del design: quella che, con tutti i riconoscimenti delle nuove istanze socio-politiche, continuava con successo la linea del good design, espressiva, come s’è detto, secondo la sinistra dell’establishment e quella radicalmente contraria a quest’ultimo e con esso al rapporto del designer con l’industria, alla mercificazione, al consumismo fino a minacciare lo sciopero degli operatori estetici, il nihilismo progettuale, mentre Maldonado, per la soluzione dei maggiori problemi, puntava invece su La speranza proget tuale, con il saggio pubblicato da Einaudi nel ’70.Una testimonianza di prima mano su tale dibattito la fornisce Enzo Frateili: «In questa stagione particolarmente intensa e movimentata per le vicende del design, il terreno dove il dibattito diverrà a suo tempo più acceso, radicalizzandosi anche nelle implicazioni politiche, è quello della Associazione. L’ADI, i cui tentativi per ottenere il riconoscimento giuridico alla professione di
designer proseguiranno senza successo, va orientandosi in senso più aperto verso la compartecipazione dei soci, raggiungendo con il Comitato del ’69-’71 il suo episodio culturalmente forse più operoso e significativo, finché la gestione as-
sunta da un gruppo di tendenza nel ’73 dà luogo a una “svolta a sinistra” che, sottolineando la denuncia sulla sclerotizzazione, sulla mancanza di ricambio e sulla struttura elitaria della Associazione, cerca di promuoverne una democratizzazione all’interno sulla base dell’autogestione. La nuova politica rivendicava l’autonomia dell’ADI rispetto al patrocinio delle industrie, assimilava il ruolo del designer al modello della “proletarizzazione dell’intellettuale” – vedi la tentata sindacalizzazione degli associati – cercava il colloquio con le istituzioni democratiche (anche con riferimento al mondo del lavoro e della utenza), e doveva registrare come inevitabile contropartita la defezione di una parte delle aziende. Si riprende, dopo quasi dieci anni, il premio Compasso d’Oro nel 25° anniversario della sua fondazione. La manifestazione è promossa e organizzata dall’ADI e dal Comune di Milano con il patrocinio della Fondazione Angelo Rizzoli. La rassegna si articola in due settori: nel primo, mostra storica del Compasso d’Oro, sono cronologicamente esposti tutti gli oggetti e le indicazioni delle ricerche alle quali, dal 1954 al 1970, fu assegnato il premio; nel secondo figurano i 180 prodotti selezionati dalla Giuria quali esempi più significativi degli ultimi anni del nostro design e fra i quali sono stati scelti i premi Compasso d’Oro. La Giuria internazionale, chiamata a esaminare le opere, le suddivide nelle seguenti tipologie: prodotti di uso
individuale, prodotti di uso collettivo, prodotti di comunicazione visiva, lavori di ricerca saggistica, attività di promozione o divulgazione del design, progetti realizzati da studenti nell’ambito di
corsi specifici. Questa divisione di settori rimane quasi la stessa fino alle attuali pubblicazioni annuali ADI design index. Riportiamo qui di seguito la relazione della Giuria dell’XI Premio Compasso d’Oro. Composta da Angelo Cortesi, Gillo Dorfles, Augusto Morello, Arthur Pulos (U.S.A.) e Yuri Soloviev (U.R.S.S.), la Giuria, dopo l’esame del materiale presentato e limitandosi a questo, esprime su 1167 voci presenti, un giudizio positivo di qualità per un elenco di circa 180 prodotti o gruppi di prodotti; il che testimonia – con il 15% – del buon livello medio della produzione presentata. Sui 180 prodotti, la cui scelta costitui sce già per essi un riconoscimento significativo, la Giuria ha deciso di assegnare 42 compassi d’oro, anche tenuto conto del lungo intervallo (9 anni) trascorso dall’ultima edizione. Di questi premi, tre sono stati assegnati ad aziende o enti che si sono particolarmente distinti per la loro complessiva attività nel campo del design, e precisamente: l’Olivetti, di cui il Compasso d’oro intende in questa occasione valorizzare l’attività promozionale del design operata attraverso le sue realizzazioni riguardanti sia la propria immagine aziendale, sia la generalità dei suoi prodotti; la Kartell, per la sua politica aziendale voluta da Giulio e Anna Castelli, e basata sulla coerenza della progettazione dei suoi prodotti e su una costante ricerca ed immagine evolutiva; l’istituto Superiore per le Industrie Artistiche (Disegno In-
dustriale) di Roma che, sotto la guida del suo direttore e fondatore Aldo Calò, costituisce punto di riferimento per il necessario futuro sviluppo della didattica del design in Italia, avverso a tutti gli ostacoli che tale sviluppo ha incontrato e tutt’ora incontra. Altri 35 Compassi d’Oro sono stati assegnati a prodotti ed elaborati di Graphic Design, l’elenco dei quali pone in evidenza, accanto a nomi di pionieri e operatori ormai noti e affermati, anche nomi di designers e di aziende o enti che emergono ora con realizzazioni di notevole maturità professionale e industriale; ancorché sembri da rilevare una utilizzazione di giovani forze minore dell’auspicabile da parte della committenza, particolarmente di quella costituita dalle aziende maggiori. Inoltre «la Giuria, con rammarico, non può non lamentare in generale, la inconsistente azione promotrice della committenza pubblica, la quale da anni viene sollecitata ad intervenire concretamente nell’area dei beni e dei servizi collettivi. La Giuria, infine, pur assegnando 4 Compassi d’Oro alle più significative ricerche di design primario e di promozione del design, deve constatare la mancata presentazione di qualificati studi o saggi sul design apparsi nell’arco degli anni considerati, i quali pertanto non hanno potuto essere presi in esame». Tra i prodotti premiati quelli che hanno poi avuto successo di critica e di pubblico sono: gli imbottiti Le bambole di Mario Bellini per B&B,
il gruppo di divano e poltrone Maralunga di Vico Magistretti per Cassina, la lampada Parentesi di Achille Castiglioni e Pio Manzù per la Flos, la sedia Delfina di Enzo Mari per Driade, l’Abitaco lo di Bruno Munari per Robots, l’appendiabiti Sciangai di De Pas, D’Urbino e Lomazzi per Zanotta, nonché le riviste «Ottagono» e «Modo». Il successo di questa XI edizione del Compasso d’Oro ebbe tra le contropartite le dimissioni di Enzo Mari che, come sappiamo, aveva prefigurato il premio in tutt’altro modo. Mari infatti, con una lettera del 19 aprile 1979, si dimette, dichiarando di non poter accettare «di essere il cantore dell’utopia alla condizione di essere il celebrante della restaurazione». Enzo Frateili, nel citato Seminario sulla «Storia del design» tenuto presso l’Istituto Europeo del Design a Milano, fornisce utili informazioni sulla vicenda sopra riportata. «L’ADI, organizzatrice della manifestazione [XI Compasso d’Oro], con la sponsorizzazione del Comune aveva avviato col proprio Comitato i lavori realizzativi, senonché ai componenti si fecero strada due proposte in aperto contrasto con i criteri di ordinamento. Alla consueta impostazione promozionale del Premio, sostenuta dalla maggioranza, si opponevano la tesi e il criterio ordinativo della Mostra sostenuti da Enzo Mari (allora Presidente dell’ADI) che, polemizzando con la “logica privatistica” del Premio, propugnava una ideologia progressiva che impegnasse
il design su alcuni problemi sociali. Così messo in minoranza Enzo Mari si dimise e realizzò la propria “contromostra” in una galleria d’arte, mentre il programma predisposto dal Comitato dell’ADI fu proseguito e realizzato con piena efficienza al Palazzo delle Stelline (settembre 1979) presentando una cospicua rassegna di prodotti, selezionata secondo il parametro semplificativo del giudizio di “qualità”, assegnando un numero considerevole di premi. L’avere ignorato da parte della Mostra alcuni eventi essenziali nella cultura del design di quei nove anni intercorsi trovò forse una giustificazione, a titolo di sanatoria, nella tesi di una “coerenza con la realtà produttiva” sostenuta dalla giuria. Leggendo le riviste specializzate di allora il commento al Premio risultò generalmente sfavorevole e dissenziente, mentre la spiegazione dei fatti va vista forse in una operazione di retroguardia culturale, in rapporto ad una politica di “riflusso” mirante a cancellare dalle recenti vicende ogni traccia degli sviluppi seguiti alla contestazione nel design». Nel testo di Enzo Mari che accompagna la «contromostra», si legge una interessante cronistoria interpretativa del Premio Compasso d’Oro: «Prima fase, 1954-57. Il Premio è per ora circoscritto ad oggetti venduti nei grandi magazzini. Dal 1955 è integrato da due “Gran Premi” (internazionale e nazionale), da riservare a ditte e progettisti per l’intero complesso della loro attività nel campo
del design. Seconda fase, 1959-64. Il Premio è gestito congiuntamente da La Rinascente e dall’ADI (Associazione per il Disegno Industriale, fondata nel 1956); si trasforma in “una manifestazione continua e interessante tutti i beni di consumo”. Terza fase, 1967-70. L’ADI assume integralmente la gestione del Premio; soppressi i “Gran Premi”, ne vengono istituiti altri specifici per gli studi e le ricerche sul design. (Viene anche bandito nel 1970 un concorso internazionale sul tema dell’arredo urbano). Quarta fase, 197178 L’ADI programma una vasta azione volta a qualificare i prodotti, incidendo sulle normative e coinvolgendo gli Enti locali. L’indagine si concreta in un “Libro bianco”, di prossima pubblicazione, sulle attrezzature della scuola dell’obbligo. Quinta fase, 1979. Intanto l’ADI bandisce l’XI Premio “Compasso d’Oro”, che verifica l’ultimo decennio di produzione». L’altra importante manifestazione del 1979 è la mostra «Design & Design», allestita al Palazzo delle Stelline dal 21 maggio al 31 luglio. Si tratta di una eccezionale esposizione, a cominciare dal nome rafforzato che stava ad indicare la specificità disciplinare del materiale esposto nonostante la sua notevole eterogeneità. Infatti in essa figurano: a) la mostra storica dei primi Compassi d’Oro; b) il racconto del «Dibattito non compassato» che si era svolto in seno all’Associazione tra il ’71 e il ’78; c) la rassegna della XI edizione del premio; d) una se-
rie di ipotesi a difesa del consumatore, ecc. Enzo Mari non condivide questa impostazione preparata da Carla Venosta, Luigi Bandini Buti, Peppe di Giuli, Alfonso Grassi, Pierluigi Molinari ed Emilio Renzi e progetta, come sappiamo, la contromostra che poi non viene realizzata, mentre trova attuazione l’altra del gruppo citato.
ISSN 0030-3305
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