Op. cit., 136, settembre 2009

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settembre 2009

numero 136

Venustas blog cit. Dialogo su bellez­ za, architettura, mercato, democra­ zia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? ­ Arredamen­ to come arte decorativa ­ Libri, rivi­ ste e mostre ­ Le pagine dell’ADI Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli

Electa Napoli



Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Alessandra de Martini, Emma Labruna, Livio Sacchi Segreteria di redazione: Rosa Losito Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 081/7690783 Amministrazione: 80121 Napoli, Via dei Mille, 16 - Tel. 081/4297440 Un fascicolo separato e 9.00 (compresa IVA) - Estero e 10.00

Abbonamento annuale: Italia e 25.00 - Estero e 28.00 Un fascicolo arretrato e 10.00 - Estero e 11.00 Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione commerciale imprese - Napoli C/C/P n. 24514804

Electa Napoli


E. Carreri, F. Rinaldi, I. Forino,

Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? Arredamento come arte decorativa Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Pasquale Belfiore, Davide Fabio Colaci, Francesca Lanz, Federica Lombardini, Angela Rui.


ERRATA-CORRIGE Nell’ambito dell’articolo Quando i designer erano architetti, pubblicato sul numero 130 di «Op. cit.» del settembre 2007 a firma di Alba Cappellieri, il passaggio che va da “si respirava aria politecnica” a “terribilmente milanese” alle pagine 47 e 48 è comparso privo delle virgolette e della nota di riferimento all’articolo Atelier delle idee, pubblicato sulla rivista «La Repubblica delle Donne» n. 490 del­ ­l’11.3.2006 a firma di Manolo De Giorgi. La redazione se ne scusa con i lettori e con l’interessato.


Venustas blog cit.

Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia EMANUELE CARRERI

Il blog che cito nel titolo è VENUSTAS. architettura / mercato / democrazia, e fa parte di una serie di iniziative che porteranno nel giugno 2010, a Napoli, a EURAU’10: 5° edizione delle Giornate Europee della Ricerca Architettonica e Urbana. Il blog, curato da Roberta Amirante, Carmine Piscopo, Paola Scala, è durato dal 19 marzo al 22 maggio 2009, si è articolato in 7 post (testo introdotto dai curatori, a scandire e a riaprire il dialogo) e ha visto la par­ tecipazione di 55 persone (se si comprendono Aristotele, Pla­tone, Shakespeare, Cristopher Wren, Viollet-le-Duc, Oscar Wilde, Auguste Perret, Robert Park, Richard Neutra, Oscar Niemeyer, Jürgen Habermas, Shadrac Woods, Italo Calvino, Octavio Paz, William J.R. Curtis, Frank O. Gehry, Peter Eisenman, Bernardo Secchi e Gustavo Zagrebelsky, presenti in citazione) per un totale di 73 testi (post compresi). Non sono grandi numeri, ma nemmeno piccoli e, comunque, sufficienti a restituire le questioni che girano intorno al tema della bellezza nella ricerca architettonica contemporanea (ma anche nella doxa). Qui sintetizzo il blog (28.000 battute invece di 110.000) e lo trasformo in un dialogo tra 4 personaggi, tutti personificazioni di concetti ricorrenti nel blog: Architettura, Mercato, Democrazia, con Bellezza a guidare il gioco. Utilizzo 53 testi (su 73) di 40 partecipanti al blog (su 55). Scritto per «Op. cit.», il dialogo assume l’inedita forma

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di un blog cit. Tutto ciò che compare nel dialogo proviene dal blog, dalla doxa, non da me: io sono responsabile solo del suo trattamento. Il dialogo tra Bellezza, Architettura, Mercato e Democra­ zia si svolge a New York, lungo la rampa che lega i sette livelli del Guggenheim (primo e ultimo edificio che ascol­ ti le ragioni di architettura, mercato e democrazia, e sia anche bellissimo). Quel giorno il Guggenheim ospita – guarda caso – una mostra sull’architettura contempora­ nea: tante immagini, pochi e aforismatici commenti. Alla Bellezza non piace la piega che stanno assumendo le cose nel mondo, e medita, arrivata in cima alla rampa, di buttare giù almeno uno dei suoi interlocutori. Ma nean­ che Architettura, Mercato e Democrazia sembrano tanto tranquilli. VENUSTAS. Guggenheim, Ground Level

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Bellezza. Oggi parleremo di me. Architettura, che mi sei molto cara da molto tempo, userò Vitruvio e la Venustas per parlare di me, te e della civiltà contemporanea, che voi, Mercato e Democrazia, rappresentate così bene. Come a tante cose, oggi a te, Architettura, si chiede di essere come me, bella: ma bella come? e per chi? Che rap­ porto c’è tra me e la tua qualità? E chi può dettare o solo suggerire i canoni, certamente plurali, di questa tua qualità/bellezza? Mercato? o Democrazia? o tutti e due? E tu, cara Democrazia, che da tanto tempo cerchi di fare da sfondo alla scena contemporanea, perché con Architettura proprio non ce la fai? per non parlare di Mercato? E tu, Mercato, che sei l’ultimo arrivato e che, si sa, sei pericoloso per Architettura, che infatti ti ronza intorno con circospezione – vorrei, non vorrei, ma se vuoi – resistendo a trasformarsi in merce, se diventassi virtuoso, Mercato, se ti bagnassi nella Venustas, potresti finalmente far andare d’accordo Architettura e Democrazia? E magari, in mezzo


a tanto Junkspace potrebbe ricomparire un po’ di Venuspace, tipo questo splendido Guggenheim. Insomma, la volete smettere di litigare e farvi le moine come tre bambini? E di mancarmi di rispetto, che sono la più anziana e, naturalmente, la più bella1. Mercato. Ormai ho vinto, stravinto: tratto come merce qualunque bene, materiale o immateriale, risponda a un bisogno, a un desiderio. Ho ridotto Architettura a veicolo pubblicitario del marketing urbano. E Democrazia l’ho ridotta a inventare – in nome della libertà – fluidi meccanismi per favorire l’incontrollato dispiegarsi di qualunque iniziativa individuale2. Democrazia. Come ha ragione! Mercato globale dello star system! Decide tutto lui! Per Architettura decidono le sue archistar. Decide persino per me che sono il suo esatto contrario – ma, si sa, gli estremi si toccano. Ormai ci limitiamo a votare un nome per cercare di garantire le nostre scelte. Poi un no comment o troppi commenti inutili, proprio come nelle riviste di Architettura3. Architettura. A me, Venustas e Democrazia sembrano staccate, giacenti in universi di senso diversi, incomunicanti. Bellezza, sei assoluta e assolutizzante. Annichilisci ciò che non si adatta a te. Lo cacci via. Sei irrazionale e crudele. Le mie opere più belle sono state costruite per la gioia dei potenti, contro la fame e la disperata vuotezza esistenziale delle masse4. Allora, io sono contro Mercato, e la Venustas è contro Democrazia. La vera Venustas è negata a una collettività consapevole5. Bellezza. Aristotele diceva: – Ciò che è bello, sia una figura, sia ogni altra cosa costituita di parti, deve avere non soltanto queste parti ordinate al loro posto, ma anche una grandezza che non sia casuale; il bello, infatti, sta nella grandezza (misura) e nell’ordinata disposizione delle parti. Architettura, oggi, è diventata non-bella (impedisce la pos-

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sibilità stessa di una sua analisi in parti commensurabili) ma anche, programmaticamente, sine ulla misura: piacente, accattivante, vendibile, aggressiva e consumabile. La sua presunta democraticità sta in questa riduzione a merce che tutti possono comprare6. Democrazia. Eh no! Bisogna comprendere tutte le iden­tità culturali, e rappresentarle nell’architettura della città. Contro l’appiattimento omologante delle archistar. De-globalizzazione versus globalizzazione, alla ricerca di Venustas7. Però non partirei da Bellezza, cercherei di raggiungerla sapendo che non è possibile – la perfezione è statica, la mediocrità dinamica (aurea mediocritas). Architettura della democrazia è un’utopia ma, se Architettura è in sintonia con il contesto, se armonizza memoria e futuro, se è fatta per chi ne fruisce, se è buona e costa poco: allora Architettura è Bellezza8. Bellezza sarà il risultato delle risposte adeguate alle domande, ai luoghi, ai cittadini9. Bellezza. Ma allora, se me ne sto tutta nell’occhio di chi guarda, sei tu, Democrazia, che hai vinto10? Architettura. No. È troppo facile adottare questa posizione relativistica e pseudodemocratica: a ciascuno la sua Bellezza. La cultura di massa privilegia divertimento, evasione, facilità, ripetizione, passività. La bellezza, invece, è combattimento e conquista: individuale per lo sforzo che richiede a ognuno per riconoscerla e gioirne; collettivo per allargare gli orizzonti dell’umanità. Ho bisogno di specialisti, di architetti che, meglio degli utenti, possano svolgere un ruolo d’avanguardia. Bellezza non è data. Bellezza si conquista11. Mercato. Oggi, un po’ per tutti, una cosa è bella quando è bella. Punto e basta12.

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Democrazia. E va bene! In assenza di canoni condivisi, per dare sostanza alla Venustas la si deve legare, in maniera concreta e non formale, a me, a Democrazia: lasciare


che a scegliere sia la Polis, i cittadini. Io chiedo responsabilità e potere diffuso, tanto più nella costruzione della città: gesto collettivo somma di gesti individuali. E allora, via a concorsi con doppia giuria, esperti e cittadini: le loro scelte daranno corpo, volta per volta, alla Venustas13. Bellezza, con il suo relativismo, porta a visioni elitarie dell’architettura e della forma urbana. È il concetto di Bontà, di buona qualità, che deve segnare una visione democratica14. Mercato. Bellezza è un contenuto soggettivo, di cui non possiamo fare a meno: dà identità forte alle opere che la interpretano in tutti i suoi ambiti. Ma quando la bellezza diventa un valore condiviso? Forse quando passa15. Bellezza. D’accordo. Io sono sempre un contenuto soggettivo di cui nessuno può fare a meno. Ma ciò a cui assistiamo oggi non sempre è il regno del soggettivo. Architettura, per esempio, è come un immenso edificio che crolla dopo aver lusingato se stesso. È la differenza tra travestimento e trasfigurazione. Tra una bellezza negata, perché sostituita da immagini sempre più affascinanti, e una seduzione, cui la bellezza sempre allude. La soggettività, se non è fine a se stessa, gioco di semplice travestimento, è qualcosa che non abbandona mai l’opera, come una seconda natura16. Architettura. Bellezza è combattimento e conquista, è un concetto soggettivo, è un diritto. Giusto! Però per un architetto è di più: è un dovere, il dovere. Non dobbiamo lasciarla in mani sbagliate: a Mercato, ai clienti, a chiunque altro; tutta gente che ha bisogno di esibizionismo per far fruttare l’investimento, che ha bisogno di edifici spettacolari-piuttosto-che-belli, di Bilbao effect. Gehry non ha mai pensato che il suo edificio fosse bello, e ancora meno il governo basco! L’edificio è sensazionale e questo è esattamente quello che voleva essere. Come dice William J. R. Curtis, questa è solo architettura fast track, architettura della corsia preferenziale17.

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Mercato. Architettura, Bellezza, Democrazia. Voi tre, mai tutti assieme per millenni, avete cominciato solo da due secoli a familiarizzare, e solo in una piccola parte del mondo. Democrazia non ha mai prodotto Architettura e Bellezza assieme, almeno fino a quando non sono arrivato io18. BILBAO EFFECT. Guggenheim, First Level Democrazia. Okay. In una società globalizzata, immersa nella cultura dello spettacolo, la Venustas rimanda all’immagine spettacolare. Un’opera spettacolare si vende. Non ti subisce, Mercato, ti crea! Risponde alla domanda di Bellezza e Democrazia che la società pone a Architettura. Allora, perché sempre più spesso opere firmate da archistar, e volute da pubbliche amministrazioni in cerca di Bilbao effect, finiscono al centro di furiose pole­ miche19? Architettura. L’opera spettacolare non è una novità nella mia storia. Gli esempi sono tanti, come l’ampliamento incompiuto del Duomo di Siena, ancor più spettacolare perché incompiuto20. Bellezza. Non riesco a pensare a un’architettura democratica dello spettacolo: credo che lo spettacolare non sia una categoria di Architettura. Non smetteremo mai di chiederci quanto e se sia democratica l’architettura dello spettacolo. Macchina dall’infinita resistenza, alla costruzione delle immagini del nostro tempo oppone il farsi e il disfarsi dei linguaggi, come le immagini di una ragione contro cui tutta l’aspettativa del mondo non può prevalere21.

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Democrazia. Da sempre, l’immagine è esito della strutturazione della forma, espressione di aspetti tecnici, sociali e scelte formali complesse, strumento di approvazione sociale di un’opera. Oggi, invece, l’immagine da sola riesce a riassumere la Venustas: entità autonoma, slegata dalla di-


sciplina, si autodetermina in base ai cliché dell’International (digital) Style22. Viollet-le-Duc ha scritto: Ammiriamo un vascello da cento cannoni, ma per quanto siano belle queste forme, dal giorno in cui interviene la forza del vapore è necessario cambiarle, smettono di essere belle. Basta con i vascelli da cento cannoni! Possibile che la nostra epoca non trasmetterà alla posterità altro che pastiche e opere ibride, classificabili solo come spettacolari o sostenibili23? Mercato. Le spettacolari macchine da festa, che spuntano nei programmi edilizi delle amministrazioni, sono l’eco pubblico dell’atteggiamento privato che cerca in una facile esteriorità il placebo ai disagi della civiltà. Tutti voi mascherate il malessere con prêt-à-porter e cellulari all’ultima moda. I sindaci fanno lo stesso: grandi metropolitane firmate mentre le strade sprofondano e le scuole crollano. La colpa non è delle archistar. Le avete create voi. Siete tutti responsabili. Siete voi a scegliere chi o cosa vi rappresenta. Siete voi il mercato. Non io24. Architettura. Matayotes matayotetos kai panta matayotes. I Romani la tradussero in vanitas vanitatis et omnia vanitas. Oggi Bilbao effect. Questa non è Architettura. È Moda, pura immagine, falsa Architettura. No, io non sono democratica, non posso. Ma non posso tollerare neanche questa enorme quantità di vanitas. Qualcuno ha pensato alla possibilità che la crisi economica potrebbe finalmente aggiustare le cose cambiando le regole? Non può essere che il mercato, esausto com’è, guardi finalmente a me, in cerca di aiuto? La situazione attuale, forse, è l’inizio della fine del Bilbao effect e di tanta, troppa vanitas25. Democrazia. Vorrei per l’architetto un ruolo diverso da quello dell’archistar. Il ruolo di chi non decide cos’è Bellezza ma la interpreta come un valore condiviso, di chi è capace di educare – e educarsi – al gusto di una società in trasformazione26.

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SCUOLA. Guggenheim, Second Level Bellezza. Dovete ripensare la mia figura e la mia idea – ma al riparo dalle ricezioni usa e getta delle masse distratte. Una questione che ha radici antiche e che oggi investe soprattutto il corpus disciplinare di Architettura. Interrogare e validare antiche ipotesi e nuovi scenari nelle sue Scuole: laboratori fisiologici della trasmissione di valori e della costruzione di una cultura che si offra al mondo come campo delle possibilità. Immaginare l’insegnamento come un insieme di laborialità, di ipotesi che attraversano soglie, di confluenze di saperi, per esperire l’immagine della contemporaneità27. Mercato. Aiuto! Sento odore di Architettura come valore civile. La bellezza democratica dovrebbe, ormai, essere abitudine a una realtà che non è politicamente corretta, e formula ogni giorno la sua proposta di qualità: dalla chirurgia plastica all’i-pod28. Architettura. E già! Noi apparteniamo a un mondo dove è la bellezza dell’abietto a prevalere. Mai prima c’è stata una tale propensione per sangue e budella, per l’esplicito, il brutto e il contraffatto29. Mercato. Architettura, oggi puoi essere democratica se rie­ sci a dominare con semplicità le tue forme complesse e trasmetterle alle persone in forma di emozioni – il nostro mondo ha inerzie fortissime alle quali è inutile contrapporre regole astratte. Io ci sono e c’è pure la mia crisi, ma per te la via di uscita non è nel riappropriarti di una scrittura architettonica tristemente permeata di una supposta qualità diffusa. Architettura, gioca la tua partita a scacchi, se sei capace, con le masse edilizie immense della città storica e con i suoi mille degradi da sempre in attesa di qualcosa che non trasformi la collettività in prigionia30.

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Democrazia. Io ho una forma orientata verso il raggiungimento di mete condivise, proiettata verso il futuro. Tu,


Mercato, invece, vuoi solo autosvilupparti: sei un sistema ripiegato su se stesso in cui fini e mezzi coincidono all’interno di un presente dilatato. Quando il consenso è l’unico valore condiviso, io divento Populismo e Architettura si svuota di significato civile, si fa tutta immagine edonistica in cerca di consenso. Architettura, devi guardare oltre il ristretto orizzonte di Mercato, e riscoprire il dibattito in cerca di idee condivise. Dislocarti dal presente al futuro. Un salto in avanti che non può e non deve essere guidato dall’alto, come hanno cercato le avanguardie del ’900, ma da una rete di individualità che riesca a fare sintesi dall’esperienza di tutti per dare forma a nuovi valori comuni. La Scuola, le Scuole di Architettura possono fare tutto questo31. Architettura. Come si può insegnare Bellezza? Che c’entra Bellezza con Mercato e Democrazia? Che c’entra tutto questo con la Scuola. La Scuola è il contrario dell’individualismo, punta all’universalismo: formare gli allievi a partire da un corpus dottrinario. La ricerca di Bellezza deve essere una paziente riflessione sui principi e sulla tecniche a partire da exempla. La Scuola, come costruzione di tecnici in grado di trovare lavoro, ha più a che fare con Mercato che con Democrazia. La Scuola invece deve avere poco a che fare con Mercato – con la mia mercificazione – e molto con Democrazia. Allenare gli allievi alla modificazione consapevole del reale, alla ricerca di forme rea­liste e popolari che appartengano a tutti, che tutti possano condividere: forme che realizzino la Venustas32. Democrazia. Bellezza, consapevolezza, Scuola, o meglio, Scuola, consapevolezza, Bellezza. Le Scuole di Architettura devono insegnare a saper comprendere e fare, a saper leggere e guidare i processi complessi di un mondo globalizzato, al di là da mode e condizionamenti effimeri (le mode hanno il difetto di passare di moda, scriveva Oscar Wilde) che poco c’entrano con Architettura quale arte in grado di trasformare il territorio e dare forma alla società. Nelle Scuole di Architettura, Bellezza non deve essere va-

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lore assoluto, ma punto di arrivo, e costante ripartenza, di un lungo processo di conoscenza33. Architettura. Su due principi si deve fondare la Scuola: formare nel metodo (regola) e coltivare il talento delle specificità (creatività). Più difficile il secondo. Entrambi necessari34. Bellezza. Se le opere sono differenti e i cammini sono separati – scrive Octavio Paz – cosa abbiamo allora in comune? Non un’estetica, ma una ricerca. Non un modello condiviso, ma l’arte di una ricerca paziente che ci avvicini al senso delle cose. Così, credo che insegnare a amare Architettura sia già avvicinarsi a me, a Bellezza. O almeno, spero35. CITTÀ. Guggenheim, Third Level Bellezza. Forse non c’entra molto, ma provo a mettermi in relazione con quello che succede oggi nella lontana Italia. Per dire, servendomi di Shakespeare: C’è Venustas a Gibellina36. Democrazia. Dopo il terremoto, in Italia si parla di ricostruzione, di New Town, di città satelliti nel verde (come se il verde riuscisse di per sé a conferire il marchio di Architettura). Secondo Robert Park, la città è qualcosa di più di una congerie di singoli uomini e di servizi sociali, più di una semplice costellazione di istituzioni e di strumenti amministrativi. La città è uno stato d’animo, un corpo di costumi e tradizioni, di atteggiamenti e sentimenti organizzati entro questi costumi e trasmessi mediante questa tradizione. Una città non nasce dall’oggi al domani. Un terremoto è distruzione. Ma anche ricostruire una città è distruzione. Bellezza è il risultato del rapporto tra presente e passato, pensiero e memoria37.

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Architettura. Auguste Perret diceva che Architettura è quella che produce belle rovine. È paradossale pensare che a pronunciare questa frase sia stato l’alfiere del calcestruzzo armato mentre si guardano le foto de L’Aquila distrutta.


Nella Collegiata scoperchiata io, Architettura, ci sono ancora, e chiedo – quasi urlando – di essere ricoperta per poter di nuovo funzionare. Negli informi ammassi di macerie di cemento e ferri, io non ci sono, e non c’è nemmeno più la dignità dello scheletro corbusiano. È vero che quelle de L’Aquila erano pessime costruzioni in c.a. ma in futuro dobbiamo per forza pensare di continuare a costruire (quasi) tutto, almeno in Italia, con questo sistema38? Mercato. Ho visitato la nuova città di Otay Ranch, nella contea di San Diego, in California, di fondazione privata. Al centro c’è un parco, tipo Garden City. Sono io che metto il parco al centro, al posto della direzionalità e del commercio. Chi compra casa ha già reddito da lavoro, e desidera un luogo centrale dove trovare luxe, calme et volupté. È un esempio di come io, Mercato, riesca a orientare la ricerca di serenità e bellezza39. Democrazia. L’urbanistica – per dirla con Bernardo Secchi – non può essere pratica acquiescente, deve rimanere continuo esercizio di radicale critica sociale40. Architettura. Mah! Comunque, è bella quella città che rea­lizza una cittadinanza. Gibellina, Monterusciello, Teora, Bisaccia fino a Vema – tanto per restare in Italia: insomma, le città fondate o rifondate pongono sempre il problema della loro necessità, ma non è un problema estetico. Il punto è la loro capacità di avere una struttura fisica e di senso, un’identità. Non è possibile costruire città capaci di far abitare una cittadinanza che non c’è più. La città contemporanea si costruisce per casette unifamiliari. La città diffusa elimina il problema della fondazione: atto condiviso in cui lo spazio pubblico ha il ruolo ordinatore e di significato che gli compete41. ARBITRARIO. Guggenheim, Fourth level Bellezza si ferma a leggere un tableau della mostra, con citazioni da Niemeyer e Eisenman.

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Bellezza. Che ne pensate di queste parole di Niemeyer? Un giorno, a Venezia, seduto davanti a Palazzo Ducale, fui sorpreso dalla sua bellezza, e trovai in quell’opera il paradigma che la mia architettura sosteneva. E lì ho scritto questo piccolo dialogo, facendo finta di parlare con un architetto razionalista. – Che ne pensa di questo palazzo? – Magnifico. – E delle sue colonne? – Bellissime. – Un funzionalista non preferirebbe colonne più semplici e funzionali? – Penso di sì. – Ma, se fossero più semplici e funzionali non creerebbero, con le loro curve, lo splendido contrasto che stabiliscono con l’ampia parete liscia che sostengono! – È vero. – Deve riconoscere che quando la forma crea bellezza ha nella bellezza la propria giustificazione42! E di queste di Eisenman? Se provi a muoverti da un punto di partenza privo di valore, significa che hai rinnegato il ritorno, il riferimento al valore, e questa negazione prova che sei entrato nella condizione dell’arbitrario. Se non torni su qualcosa, su cosa basi le tue decisioni? Se non sulla verità, o su ciò che è buono, o sulla bellezza o su qualcosa del genere. Se non consideri la bellezza come un’origine, cosa fai? È qui che entra in gioco l’arbitrario, e il fatto che possiede una sua origine e una sua struttura, e quello che dobbiamo fare è provare a ca­ pirla43. Insomma, tu soprattutto, Architettura, che ne pensi? Architettura rimane in silenzio, con lo sguardo fisso nel vuoto inondato di luce al centro del Guggenheim.

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Democrazia. Pochi sono disposti o capaci di raccontare la loro interpretazione dell’arbitrario. Pochi sono disposti o capaci di spiegare come e perché hanno inventato quel


tracciato, quelle curve. Ma, se Architettura è di tutti, è necessario ragionare, di nuovo e in termini nuovi, sulla vecchia questione del rapporto tra risposta tecnica ai problemi funzionali e costruttivi, relazione con il gusto dei fruitori e interpretazione dell’architetto44. Vogliamo che qualcuno condivida le sue riflessioni su questa delicata questione, che ci aspettiamo ogni architetto si ponga – si spera in modo consapevole – quando si assume la responsabilità di fare Architettura45. Ma, forse, ci sono dei trucchi del mestiere da tenere segreti, dei prestigiatori (loro) e degli spettatori (noi). È comprensibile che un architetto abbia timore a esporsi, la sua idea di bellezza potrebbe non essere accettata, capita. E c’è la difficoltà di rendere scrittura la propria opinione su una questione inafferrabile come quella della Bellezza. Comunque, Architettura è arte e tecnica, non spettacolo. Tutti devono conoscere il pensiero di chi la fa46. Un edificio non è un’espressione del proprio ego da regalare al mondo. Ho incontrato molti Architetti e pochi Professori di Architettura. I primi mostrano le loro opere, i secondi provano a insegnare l’Architettura spiegandola attraverso le architetture – le loro e quelle dei Maestri47. Architettura, imbarazzata, continua a tacere, mentre Mer­cato, sornione, gongola, e Bellezza comincia a spa­ zientirsi. VARIETAS. Guggenheim, Fifth Level Bellezza. Forse la democrazia è il regime migliore. Come una veste multicolore, anch’esso, intessuto di tutti i caratteri, può sembrare il più bello. E forse può apparire tale a molti, per esempio alle donne e ai ragazzi, che guardano alla varietà. Insomma, un regime piacevole, disordinato e vario, dispensatore di uguaglianza a ciò che è uguale e a ciò che non lo è48. Sono parole di Platone, che odiava Democrazia, e pensava che il suo carattere dominante fosse l’assenza di un

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carattere dominante. Fondava Democrazia sulla varietà, sulla compresenza di molti, troppi caratteri. Noi, che amiamo Democrazia, la pensiamo allo stesso modo? pensiamo anche noi che il carattere dominante di un’Architettura della Democrazia sia l’assenza di un carattere dominante? che la Varietas sia la sua Venustas? o no? E se la risposta è no, quale potrebbe essere questo carattere dominante49? Democrazia. Io non posso essere solo Varietas – sarei Anarchia e non Democrazia. Un carattere dominante non mette in crisi la democraticità dell’architettura, è invece l’esasperazione, l’eccessivo formalismo a sconfinare nell’architettura come merce, spesso, troppo spesso, antidemocratica50. Mercato. È bella la città inattesa e costruita per pezzi varii. Era bellissima la Berlino dei vuoti, prima che fosse irregimentata in un piano troppo rigido. È bella Milano con le sue pause e stratificazioni, con i grattacieli e l’attuale voglia di globalità. È bella Napoli con la sua barriera corallina di case speculative che vanno verso il mare. Bruttina Monterusciello con tutti quegli enigmi dell’ora venduti a tanto al chilo, secondo la tragica vulgata dell’analogia e le critiche al funzionalismo ingenuo che Aldo Rossi ha teso come trappole ai suoi allievi. Attenti agli scherzi dei maestri, perché poi scappano e vi lasciano col cerino in mano51. Bellezza, Architettura, Democrazia e Mercato si fermano a leggere con attenzione un altro tableau della mostra, stavolta anonimo. principi di bellezza nell’architettura contemporanea

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Ambiente, paesaggio, stratificazioni della memoria: ogni intervento è un frammento del contesto; niente edifici che si autocompiacciono; superindividualità. Forma aperta: forme finite ma disponibili allo sviluppo; crescita discontinua, non organica; flessibilità che non ri-


fiuta ma si fonda su forti caratteri formali; sistema, non edificio. Web (Shadrach Woods, 1962): con stem e cluster, la trinità del Team X; rete delle percorrenze umane, a scala di edificio; superindividualità, a scala urbana e territoriale. Sostenibilità: nella scia di Survival through design (Richard Neutra, 1954), rifiuto di risultati puntuali al prezzo di danni globali. Interazioni: sinonimo di in-disciplina, del vagare lontano dall’architettura; cultura dell’integrazione; eteronomia del­ l’architettura; progetto come sistema di errori sapienti; serendipità. Apofenia: collegamenti fra cose non correlate; connessioni estratte da caso e caos; logica (iper) relazionale; le relazioni fra oggetti prevalgono sugli oggetti fino a annullarli52. Democrazia. Bah! Che casino! Per Gustavo Zagrebelsky (che riprende la questione dal­ l’agire comunicativo di Jürgen Habermas), le parole, per ogni spirito democratico, richiedono una cura particolare: non devono essere ingannatrici, ma precise, specifiche, dirette; basso tenore emotivo, poche metafore. Ogni parola deve essere intesa nello stesso significato da chi la pronuncia e da chi l’ascolta. Una architettura democratica non può fare altro che essere varia, ma deve essere onesta. Il suo linguaggio deve essere chiaro. E allora: sì alla democratica Varietas, no alla retorica del linguaggio con cui troppo spesso si persegue quella Varietas53. Ancora un tableau attira l’attenzione dei nostri eroi. culture e non cultura architetture e non architettura bellezze e non bellezza

Democrazia è questo cambiamento di numero, questo singolare che diventa plurale. Democrazia è tolleranza, rispetto delle minoranze, capacità di ascolto, accettazione delle differenze, dialogo. In Ar-

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chitettura, significa disegnare organismi/oggetti complessi, contraddittori, ibridi, meticci, vitali. Integrare idee diverse (razionali e non). Superare le separazioni tra i modi di fare architettura creati nel ’900. Comporre le potenzialità della mente che pensa spazi da abitare. Lavorare in questa direzione, senza perdere la capacità di interpretare i luoghi, le tracce, la storia, mette un progettista in condizione di disegnare architetture del nostro tempo: non sottomesse al passato né condizionate dalla voglia di stupire il presente54. EPILOGO. Guggenheim, Sixth Level La salita, e i tableau, si fanno sentire, sono tutti stanchi e nervosi. Mercato. Alla fine del ’900 ho fatto crollare un principio della modernità: il progetto, la certezza e la forza del cambiamento. Ha perso quei contenuti eroici che lo caricavano di valore tecnico e scientifico, e lo responsabilizzavano sul piano sociale e politico. La sequenza dal cucchiaio alla città, caratteristica del progetto forte, l’ho fatta diventare una barzelletta55. Architettura. Proprio così! Hanno messo una maschera da carnevale sulla mia sostanza strutturale e tettonica. Ho perso la mia ontologia. Ho azzerato il mio significato civile per trasformarmi in immagine – e navigare più facilmente nei canali della comunicazione e dell’informazione. Ho smarrito la mia materialità56. Sto diventando mera espressione artistica, spogliata delle sue ragioni scientifiche. Dalla piattaforma del progetto sono cascata nel mare della creatività. Sono cadute le categorie vitruviane: la funzionalità ha ceduto al superfluo, la bellezza all’originalità, la solidità allo spettaco­ lare57.

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Bellezza. Già. Su tutto domina la tecnologia digitale, che però rende l’edificio non solo rappresentato, ma visibile


nella sua concretezza quando ancora non esiste: misterioso, enigmatico, poliformico e atopico58. Democrazia. E poi, se la tecnologia come strumento artistico aumenta la distanza tra opera di architettura e fruitori, la rende però più popolare e affascinante59. Architettura. Oddio! Quel mio vecchio e artificioso dualismo, progettazione/composizione, è diventato distinzione reale – e la seconda oscura la prima. Si teorizza la fine della regola, sia tecnica che formale, la non descrivibilità dell’opera, la libertà dell’arbitrio, che trova un limite solo nella ricerca del consenso. È la fine della scrittura e della narrazione, il successo della gestualità e della visibilità: più estetica che etica60… A questo punto, Bellezza, Mercato e Democrazia non ne possono più, si avventano su Architettura e la scaraven­ tano nel vuoto spiralato da Frank Lloyd Wright. Intorno al cadavere di Architettura, una squisita mac­ chia rossa, perfettamente circolare, si allarga sul pavi­ mento bianco. È un bel colpo d’occhio. Sembra Cattelan. Dopo una lunga corsa attraverso Central Park, i tre as­ sassini siedono, sconvolti, su una panchina. Democrazia tira fuori il giornale e lo sfoglia. Le sue mani tremano. Democrazia. Sentite cosa dice Peter Eisenman in un’intervista: – Non realizzo le mie opere preoccupandomi di cosa ne dirà il pubblico, così come James Joyce non scriveva Finnegan’s Wake preoccupandosi delle reazioni dei lettori61. Bellezza, Mercato e Democrazia si guardano e finalmen­ te, sorridono. Le note riportano gli autori degli interventi e delle citazioni apparsi nel blog e utilizzati nel dialogo. Per tutte le informazioni su Eurau’10 e sul blog vedi www.eurau10.it.   Roberta Amirante.   Alessandro Dal Piaz.

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Colomba Sapio. Giacomo Ricci. Renato Capozzi. Idem, a Capozzi si deve la citazione da Aristotele. Massimo Clemente. Enrico Martinelli. Maurizio Conte. 10   Colomba Sapio. 11   Claude Prelorenzo. 12   Pietro Pagliardini. 13   Idem. 14   Maria Federica Palestino. 15   Luca Molinari. 16   Carmine Piscopo. 17   CO10PI (è un nick name, il vero nome dell’autore è sconosciuto). 18   Marc Crunelle. 19   Paola Scala. 20   Massimo Clemente. 21   Carmine Piscopo. 22   Marco Bovati. 23   Fabrizio Spirito, cui si deve la citazione da Viollet-le-Duc. 24   A07 (è un nick name, il vero nome dell’autore è scono­ sciuto). 25   CO10PI. 26   Paola Scala. 27   Carmine Piscopo. 28   Cherubino Gambardella. 29   CO10PI. 30   Cherubino Gambardella. 31   Emanuele Tanzi. 32   Renato Capozzi. 33   Marco Maretto, cui si deve la citazione da Oscar Wilde. 34   Chiara Visentin. 35   Carmine Piscopo, cui si deve la citazione da Octavio Paz. 36   Daniela Lepore, cui si deve il riferimento a Shakespeare. 37   Andrea Esposito, cui si deve la citazione da Robert Park. 38   Roberta Amirante, cui si deve la citazione da Perret. 39   Francesco Forte. 40   Paola Marotta, cui si deve la citazione da Bernardo Secchi. 41   Renato Capozzi. 42   Oscar Niemeyer, Meu Sosia e Eu, Revan, Rio de Janeiro 1992, p. 36. 43   Peter Eisenman, cit. in F. Ghersi, Eisenman 1960-1990. Dal­ l’ar­chitettura concettuale all’architettura testuale, Biblioteca del Cenide, Reggio Calabria 2006, p. 75. 44   Roberta Amirante. 45   Anna Sirica. 46   Andrea Esposito. 3 4

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Paola Scala.   Platone, La repubblica, VIII, 11. 49   Emanuele Carreri. 50   Andrea Esposito. 51   Cherubino Gambardella. 52   Massimo Pica Ciamarra. 53   Orfina Fatigato, cui si deve la citazione da Gustavo Zagre­ belsky. 54   Raffaele Marone. 55   Umberto Cao. 56   Idem. 57   Idem. 58   Idem. 59   Idem. 60   Idem. 61   P. Eisenman, in P. Odifreddi, Se l’architetto odia la geometria, intervista a Eisenman ne «La Repubblica», 6 Agosto 2009, p. 33. 47 48

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Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? FRANCESCA RINALDI

Il tema è sfuggente e finisce con l’imbattersi, inevitabilmente, in quello ampio e irrisolvibile della natura del­ l’ar­te genericamente intesa. L’atteggiamento diffuso della cosiddetta adiaforizzazione dell’arte, ovvero della sua estensione illimitata ad ogni forma d’espressione, tende infatti a includere nelle fila dell’arte qualsiasi azione creativa del nuovo o modificatrice dell’esistente. Con inevitabili implicazioni critiche e operative, ovviamente. Nel caso di fenomeni ibridi come questi, in più, la ricerca viene contaminata dalle forti aderenze con il carattere effimero del fenomeno di costume che trasferisce velocemente certe ricorrenze imitative da un ambito dell’immagine al­l’altro senza interporvi alcun filtro discriminante. Lo stesso accomunare nel discorso pratiche decorative tecnicamente disomogenee come piercing, tatuaggio e graffito ur­bano compromette la chiarezza dell’analisi che rischia di trascurare una necessaria cornice euristica unitaria. Evitando allora l’inutile sforzo di formulare qui una definizione onnicomprensiva dell’arte o una sua classificazione di rigore ci limiteremo a sondarne le declinazioni nei casi particolari di cui ci stiamo occupando, procedendo per individuazione e scomposizione delle dinamiche e degli elementi connotativi, esibiti o latenti. Affrontando in apertura la galassia del decoro corporale, una prima osservazione riguarda l’accidentalità del fe-

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nomeno ovvero la sua ri-apparizione improvvisa dai tempi della Marina storica e delle galere: rimasti come animali in letargo ai margini dell’Occidente, da poco più di vent’anni il piercing e il tatuaggio hanno conosciuto un successo macroscopico1 che verosimilmente può attribuirsi a un’esigenza di differenza rispetto alla omologazione estetica della massa. Di fatto, da marcatore di una differenza, essi sono rapidamente slittati in una moda deprivata di referenti culturali che finisce con l’innescare altre forme di appiattimento, quando non di esplicita acriticità. È fin troppo nota (e spesso malintesa) la posizione di Loos che, a inizio secolo, annota come il Papua copre di tatuaggi la propria pelle, la sua barca, il suo remo, in breve ogni cosa che trovi a portata di mano. Non è un delinquente. Ma l’uomo moderno che si tatua è un delinquente o un degenerato2. E se anche fosse vero che l’impulso a decorare il proprio volto e tutto quanto è a portata di mano è la prima origine dell’arte figurativa, […] il balbettio della pittura3, prioritario resta il fatto che l’evoluzione della civiltà è sinonimo dell’eliminazione dell’ornamento dall’oggetto d’uso4. Semplicisticamente liquidata come funzionalista, la sentenza loosiana subordina qualsiasi azione di modifica estetica dell’esistente al suo potenziale di ottimizzazione nella fruizione della realtà stessa (l’ornamento è forza di lavoro sprecata e perciò è spreco di salute5) in modo che questa equivalenza tra comodità d’uso e valore qualificante dell’oggetto, maturata in un clima di esaltazione dello sviluppo industriale, escluda in via definitiva dall’apprezzamento estetico ogni esternazione superflua di horror vacui. Ma prima di assumere il teorema loosiano come scardinatore attendibile di arte falsa, per un’indagine sull’eventuale status artistico della decorazione corporale vanno anzitutto riconosciuti alcuni criteri d’analisi: motivazionale, storico-antropologico, semiolo­ gico. Nello specifico, in relazione all’aspetto motivazionale del fenomeno di massa, mentre alcuni si appellano semplicisticamente all’intenzione (cosciente e conformista) di


confezionarsi un look o memorizzare un evento significativo della propria vita, va rilevata, in tutti, una certa irrazionale pulsione all’abbellimento arcaicizzante che virtualmente restituisce una identità mancante all’individuo in formazione. Che si tratti di post-hippy, grunge o no-global, i ragazzi che oggi si fanno dipingere o forare il corpo […] non sono semplicemente il prodotto di una subcultura; non sono neppure vittime di una violenta regressione psichica, di un tribalismo di ritorno che ne cancellerebbe la soggettività. Sono piuttosto individui che attraverso la decorazione cercano di esibire una differenza6. Per ciò che riguarda invece il quadro antropologico della questione, la differenza di valore tra il piercing/tatuaggio nelle culture primitive e in quelle cosiddette civilizzate sta nel loro grado di necessità. E qui si ritorna al tema del superfluo stigmatizzato da Loos. Presso popoli privi di scrittura e linguaggio verbale codificato, il decoro del corpo assume il ruolo essenziale, non surrogabile e pertanto autentico, della comunicazione, esprimendo appartenenza totemico-sociale e garantendo, quindi, la sopravvivenza all’interno del gruppo. Ecco perché il Papua non è un delinquente: egli rende la nudità originariamente neutra del suo corpo un supporto idoneo all’integrazione socio-culturale con i suoi simili. L’atto decorativo che comporti dolore sul corpo diventato superficie di prova e di sfida dimostra altresì la forza d’animo di questo individuo al cospetto della comunità, potenziandone, oltre a una presunta bellezza, anche un carisma magico: la tecnica di forare il corpo in determinate parti per modificarne l’aspetto in modo permanente (e spesso irreversibile) è legata ad una concezione magica del corpo e più in generale della natura, in cui la paura e l’attrazione verso il dolore hanno un significato rituale e non vengono affatto dominate razionalmente; […] la sofferenza fa parte del processo di identificazione dell’individuo perché produce in un colpo solo identità e differenza; se sopportare il dolore senza lamentarsi è segno di forza,

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il piercing, come il tatuaggio o la circoncisione, fa parte dei riti di appartenenza alla tribù7. Non è irrilevante il tempo di ri-emersione di questa ritualizzazione perché appare lampante come il modello, ora, non sia più quello della produzione-accrescimento razionale del sé e della collettività, ma quello postmoderno della deformazione-intensificazione dell’esperienza8, dove si compie l’ibridazione dell’Occidente con culture una volta considerate inferiori. In altri termini, il postmoderno, arcaicizzando il corpo nudo, lo sacralizza, lo riveste, ma assolutamente non in senso cattolico: tende a produrne una visione primitiva, rituale appunto, cioè sacrificale e metamorfica, che rende sempre più inservibile quella ‘individualistica’, soggettiva, cartesiana, del corpo come oggetto di dominio, ma anche quella cristiana della santità-peccaminosità della carne: stiamo attraversando la metamorfosi estetica della forma-soggetto, la sua contaminazione con ciò che Baudrillard chiamava la «circolazione simbolica delle cose»9. Infine, rispetto all’approccio, più squisitamente artistico, della semiologia, il dato basilare del fenomeno è rappresentato dal fatto che si è di fronte a un segno ambiguo perché in grado di mentire sul suo proprio significato: tribali, floreali, ideogrammatici che siano, i tatuaggi (così come le forature da piercing) raccontano del corpo che li ospita una storia inautentica, sostanzialmente convenzionale perché scelta entro un repertorio di matrici figurative consolidate altrove, spesso del tutto estranea all’originale (individuo come realtà-sorgente). Un segno ancora isomorfo – cioè somigliante al referente di cui dice il nome – ma polivalente perché devitalizzato della sua aura originaria. Incoscienza del significato che si aggiunge a una incoscienza della contraddizione quando si consideri il carattere di irreversibilità di piercing e tatuaggi che volontariamente ignorano qualsiasi potenziale evoluzione critica dell’individuo, della sua facoltà di ripensare il reale e se stesso nel tempo futuro. Nata dal rabbioso nichilismo degli anni Settanta, la decorazione corporale permanente può es-


sere intesa come ancoraggio visuale a una pseudo-convinzione, proiezione del momento presente nel persempre futuro. Non solo: il carattere di irreversibilità consegna pure la contestazione-ribellione a una forma pura di astanza nella quale, dopo epoche di parole e simulazioni concettuali, arte e vita (finalmente!) si identificano nella materia corporea senza mediazioni interpretative e/o strumentali. Al di là di una ricognizione sociologica vanno tuttavia ipotizzati possibili punti di confluenza del gesto tattoo con il circuito dell’arte propriamente intesa (ammesso se ne possa davvero dire in questi termini): dall’insistenza sul­ l’aspetto di polemica sociale, sul concetto di differenza, sul­l’autoreferenzialità del gesto, sull’agito corporeo e sul­ l’etica della sofferenza come verità arcaica si profila una indubbia affinità modale, se non motivazionale, con la Body Art la quale, mentre agisce il corpo come un supporto qualsiasi, ne rivela al contempo la vita densa di espressione latente. In entrambi i casi si tratterebbe di quel senso di lutto e mutilazione che per alcuni è identità specifica del­ l’arte moderna, esprimendo il cordoglio per quanto vi è di mutilato, umiliato ed offeso nella vita di tutti10. In questo senso l’aspetto di sofferenza corporale che sottende necessariamente la pratica di tatuaggi e piercing trasferisce in visibilità il tabù sensoriale del godimento, il divieto, cioè, di gioire, per decenza, di fronte al dolore del mondo. […] Esso colpisce nel Novecento tanto gli artisti che il pubblico, obbligati a sottostare alle esigenze di que­ st’arte triste, che persegue un’ardua e sempre incompiuta catarsi attraverso la via crucis del brutto crudamente esibito11. Così inteso, il dolore (dell’ago) produce un piccolo buco nero: sorta di microscopico nihil nega­ tivum, che resiste ad ogni sforzo di comprensione12. E d’altra parte, ancora come la Body Art, l’ostentazione del gesto autolesivo (la trafittura, la scarnificazione, etc…) vogliono darsi come coraggio della rappresentazione non ad­domesticata e non asservita alle ideologie dominanti13, atteggiamento estetico che coinciderebbe con la capacità di rabbrividire in un qualche modo14. Questo vale

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almeno in teoria; nell’ottica, cioè, di una «indifferentizzazione» dell’oggetto artistico che renda tutto «degno di attenzione estetica»15. In merito, può chiamarsi in causa la posizione del filosofo Stephen Davies (poi ripresa dall’americano George Dickie) che, postulando una teoria procedurale dell’arte in opposizione a quelle strettamente funzionali o estetico-morali, rintraccia la discriminante tra arte e non-arte di un oggetto (o di un’azione) facendo riferimento a pratiche sociali che modificano il suo status, piuttosto che a caratteristiche intrinseche dell’opera in questione16: una simile angolazione interpretativa trasferisce in via diretta tatuaggi, piercing e graffitismo su un piano di artisticità per la loro stessa qualità di esposizione visiva all’apprezzamento di un pubblico. Poco importa il giudizio di merito di questa qualità, che è di fatto rinviato a un momento successivo; ciò che realmente fa la differenza è che chiunque pensi a se stesso come a un artista appartiene per questo stesso fatto al mondo dell’arte17 e, diremmo, a maggior ragione se a costituirne il supporto e la materia prima è il corpo stesso dell’artefice. Antipolare a queste affermazioni, e dunque scettica sulla valenza artistica del tattoo, è la teoria intenzionale di Levinson18 che richiede invece all’opera d’arte una intenzione dichiarata: un decoro individuale realizzato, come già visto, per moventi autobiografici, modaioli o addirittura psico-patologici si sottrae radicalmente a questi requisiti perché non possiede nulla dell’arte intesa come occasione di conoscenza, né di quella che è piacere sensoriale allo stato puro e immediato. Ulteriore spunto d’analisi sta poi in due binomi caratteristici che si delineano all’interno del fenomeno tattoo: il primo è costituito dal rapporto tra committente ed esecutore che, se in un’opera d’arte tradizionalmente intesa è sbilanciato in favore dell’abilità del secondo (spesso anonimo), nella pratica del tatuaggio sposta invece l’attenzione sul ruolo del committente che è, in questo caso, promotore di una certa «volontà d’arte» e supporto stesso dell’opera; il secondo binomio è dato dal rimando reciproco tra il li-


vello esclusivamente formale dell’opera (tratto del disegno, soggetto scelto, efficacia cromatica, etc…) e la tecnica con cui è stata prodotta, la modalità singolare scelta per veicolarla. Questi binomi introducono altri gradi di complessità nella questione: per un tatuaggio, infatti, assumendo che il supporto epidermico sia equiparabile a un qualunque altro supporto, si potrebbe isolare il valore artistico dell’esecuzione rispetto alla (discutibile) volontà d’arte del committente. Ma in genere, per quanto eccezionale sotto il profilo formale, cioè eseguito «a regola d’arte», si può concludere che il tatuaggio non rientri propriamente nella sfera dell’arte se non altro per il suo esaurirsi completamente nell’individualità generatrice: in altri termini, esso non viene messo al mondo dell’arte e di tutti, ma alla sola vita del singolo che se ne adorna; solo attraverso di lui si giustifica e muore. Non c’è, insomma, storia di questa opera che si evolva disgiunta dal suo committente; non c’è autonomia del prodotto artistico rispetto alle contingenze che l’hanno maturata. Siamo al di fuori dello stimolo conoscitivo della cosiddetta «opera aperta». Ciononostante, se anche concordiamo sull’inconsistenza artistica della pratica tatuativa, interessante resta invece la lettura del fenomeno in termini di ricaduta culturale: col piercing – concepito, insieme al tatuaggio, e più in generale alla body art, come esperienza profondamente relazionale, estetica della fisicità e della nudità – stanno cadendo almeno tre categorie “forti” della cultura occidentale in relazione al modo di concepire il corpo […]: 1) il corpo non è più un’unità chiusa, compatta e intoccabile (statuaria o velata) […]; e, proprio perché non è una macchina inerte (la cartesiana res extensa), viene sottoposto […] a perforazioni, lacerazioni e penetrazioni simboliche che, invece di minacciarne la vita, finiscono coll’esaltarla; 2) il corpo forato dal piercing o decorato dal tatuaggio […], è il teatro di una sfida al dolore che in Occidente non trovava adepti da molto tempo; 3) infine, il corpo non viene più considerato “bello” se non quando è dotato di ornamenti sia interni che ester-

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ni; il corpo nudo, in altre parole, dev’essere completato con l’orecchino (o con il tatuaggio), e così modificato, il che vuol dire che non vi è alcuna bellezza naturale, in sé, del corpo, ma che essa è frutto dell’artificio, o meglio dell’arte con cui l’uomo lo adorna: non vi è bellezza semplice, naturalmente perfetta quanto piuttosto la tendenza verso una nuova idea barocca di bellezza come deformazione grottesca, sovraccarico, scrittura cifrata o riproduzione dell’arcaico19. Sospesa tra sfida, costume e un rigenerato senso del sublime, qui la bellezza coincide con l’eccezionalità aggressiva […] della metamorfosi, che è anche un «intervento» sul nudo20. Altra frontiera pseudo-artistica ubbidiente però a una logica diversa, il graffitismo si configura come un fenomeno tentacolare che rivendica creatività libera e originale tramite interventi (obiettivamente invasivi) sul tessuto urbano sconfinando spesso nella tipografia, nel design, nell’abbigliamento: la sua trasversalità si manifesta con una fitta rete di scambi, collaborazioni e contaminazioni a livello internazionale con un pubblico eterogeneo. […] I muri di New York sono decorati con un linguaggio grafico fatto di immagini e parole, che conquistano i turisti europei tanto da importarlo nel vecchio continente. In molte capitali europee, prime delle quali Parigi e Berlino, i graffiti arrivano grazie alla musica rap e hip-hop e diventano sinonimo di libertà espressiva e trasgressione. Questa è l’evoluzione che ha portato il moto di rivolta del sottoproletariato nero delle grandi metropoli, nato per contestare i finti valori dell’opulenta società dei consumi, a diventare uno tra i più grandi movimenti mondiali degli ultimi decenni21. Resta da chiarire se sia legittimo considerare la pratica del graffitismo e del writing come corrente artistica a pieno titolo dal momento che i sedicenti «artisti di strada» sono per loro stessa natura refrattari alle convenzioni e alle etichette. La difesa d’ufficio ricorrente, almeno quanto banale, è che l’arte c’entra ma non quella delle gallerie o dei musei. È saper portare il mondo che vedi dentro di te e ren-


derlo visibile a tutti. Ora, se pure volessimo appellarci alla teoria post-crociana di Collingwood secondo cui il valore dell’arte risiede nella sua capacità di chiarire ed esprimere emozioni personali in modo immaginativo22, quella dell’iconografia murale, in quanto volta a suscitare emozioni nel pubblico piuttosto che a chiarirne di proprie, andrebbe comunque ad afferire alla categoria della cosiddetta “arte di intrattenimento” che Collingwood stesso stigmatizza come legittima ma non autentica, sintomo di decadenza morale23 di una società. D’altra parte, quella del­ l’espressione personale esternata in strada non tiene neppure conto di alcuni aspetti convenzionali cui persino l’arte è soggetta, primo tra tutti la facoltà di NON fruirne: l’inchiostro sul muro pubblico si presenta come imposizione unilaterale, non più opzione del fruitore ma arroganza narcisista d’un aspirante autore che utilizza la dimensione del pubblico ad uso privatissimo. Considerato quanto detto finora, infatti, rispetto alla pratica della decorazione corporale l’elemento connotativo primario dei fenomeni di graffitismo e writing sembra risiedere nella sfera del pubblico cui essi si relazionano per vocazione: ogni artista che pratica Street Art ha le proprie motivazioni personali, che possono essere molto varie. Alcuni la praticano come forma di sovversione, di critica o come tentativo di abolire la proprietà privata, rivendicando le strade e le piazze; altri più semplicemente vedono le città come un posto in cui poter esporre le proprie creazioni e in cui esprimere la propria arte24. La Street Art offre infatti la possibilità di un pubblico certo più ampio di quello di una tradizionale galleria d’arte per mettere in circolo una originale idea di plasticità e decoro: l’arte del graffito risponde ad un’autentica esigenza espressiva, alla rivendicazione di un proprio diritto alla parola. Il graffito contrappone all’impersonalità e all’oggettività dello stile adottato dai ‘bianchi’ una modalità espressiva cromaticamente aggressiva. A una valenza di tipo decorativo viene qui anteposto un intento polemico che si nutre dell’illegalità come suo fattore costitutivo e prima ragion d’essere:

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come a dire che in assenza di un acclarato divieto di imbrattare muri nessun cosiddetto “artista di strada” avvertirebbe la pulsione estetizzante (ma non estetica) di imporsi in presenza nello spazio della collettività. C’è in questa violazione, così come nell’arbitrarietà spesso in-significante dei segni tracciati, una memoria di animale da territorio nell’atto di marcare i confini della sua pertinenza; in questo scrivere lettere armate25 sulle proprietà comuni della città egli compie due operazioni simultanee: rivendica la propria estraneità al sistema di norme che regolano la comunicazione sociale e veicola un sottotesto non accessibile ai gruppi dai quali è stato escluso (o si è auto-escluso). Nel graffitismo è tangibile cioè una componente di arroganza sociale che manca nel tatuaggio o nella body art; è il frutto di una diversa psicologia, aggressiva verso l’esterno piuttosto che verso la dimensione dell’io perché è il contestoguscio che viene percepito come nemico da demolire. Quando nell’America della tarda Pop Art un ragazzo di New York in meno di un anno gira tutto lo Stato lasciando, con il nome d’arte “Taki 183”, circa 300 mila firme sui muri, nessuno intuisce ancora che Keith Haring ha già inventato qualcosa di inclassificabile. Per la prima volta in via ufficiale qualcuno ha infatti concentrato tutta la pulsione creativa del writing nella rappresentazione dell’alfabeto e da questo esordio in avanti l’atto dello scrivere il proprio nome d’arte (tag) diffondendolo come un logo sottenderà sempre una partecipazione narcisista alle vicende urbane secondo una modalità semi-autistica che, pur nella pretesa di elaborare un codice comunicativo inedito e articolato, si limiterà in fondo a trasfigurare l’elementarietà della scrittura in una protesta tanto visibile quanto superficiale e priva di un progetto organico. E neppure la pretesa conclamata di una assoluta libertà nella espressione d’arte sta in piedi fino in fondo se solo si pensa a come lo strumento di questa tecnica condizioni pesantemente la forma della scrittura dove prevale uno stile arrotondante che meglio si adatta all’uso del getto vaporizzato di vernice.


In merito poi alla portata innovativa di queste esperienze, la forza dei cosiddetti “guerriglieri della parola” si regge su di un’istintualità disordinata che raramente riesce ad elaborare una teoria generativo-trasformazionale delle lettere che ci costringa a rivedere i nostri rapporti visivi, percettivi e di comodo26. Per qualche critico27 il risultato sarebbe piuttosto associabile al «balbettamento infantile» del primo Dadaismo di Hugo Ball o ai gorgoglii infrasillabici degli Ultraletteristi francesi. Nonostante sussista un richiamo alla tradizione storica della pittura murale, il fenomeno congiunto della Street Art28, del graffitismo e del writing resta associato ad un wishful thinking che sconfina nel vandalismo e ignora deliberatamente la responsabilità e la consapevolezza di un muralista come Orozco, persuaso che la pittura murale è la forma più alta, logica, pura e forte di pittura./ Anche la piú disinteressata perché non può essere convertita in oggetto / di lucro personale né nascosta a beneficio di alcuni privilegiati./ Essa è per il popolo, è per tutti. Altra radice possibile va pure vista nelle Avanguardie di primo Novecento e negli happenings degli anni Settanta, tuttavia movimenti del genere non avevano mai raggiunto una scala globale. Il confine fra Arte e Vandalismo e tra Fascino e Illegalità contiene quindi una vasta gamma di sfumature, e ad illuminare il pubblico, spesso capace di interpretare correttamente gli stilemi ed i concetti proposti, ci hanno pensato artisti e designer ormai di fama internazionale come il tedesco Mirko Daim Reissler, l’inglese Banksy, i francesi 123 Klan, lo spagnolo La Mano, l’olandese Neck, l’italiano Eron, volutamente evi­tando la scena americana, totalmente diversa da quel­la europea. Eccezion fatta per episodi alla Haring che presto passano lo schermo dello spontaneismo alfabetico per strutturare un sistema più organico di relazioni significante-significato, in linea di massima dal punto di vista semantico il writing lascia completamente decantare il livello testuale della scrittura, svuotandolo di qualsiasi consistenza refe-

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renziale, per amplificarne l’aspetto puramente formale, in un’astrazione solo lontanamente simile a quella propria della cultura islamica che, per note ragioni dottrinali, ricorre alla grafia ornamentale in sostituzione della rappresentazione figurativa. Il fenomeno dell’altra arte merita tuttavia attenzione critica se non altro per la globalità di cui è saturo e la straordinaria rapidità con cui colonizza da anni ogni tipo di tessuto urbano, ritagliandosi iniziative dedicate, eventi transfrontalieri, festival e convegni di studio impegnati nel traghettarlo dallo status vago di aspirazione artistica (forma di Kunstwollen su scala metropolitana) a quello di corrente d’avanguardia contemporanea. In sintesi, al di là di qualsiasi riconosciuto virtuosismo tecnico, di un impatto cromatico violento che possa riscattare in alcuni casi il grigiore squallido dei sobborghi metropolitani o di una indiscutibile vena immaginativa degli street artists, ciò che può realmente considerarsi costruttivo in queste nuove modalità creative è l’aver sottratto la comunicazione alla tirannide mistificatoria del mercato da galleria: il carattere spiccatamente popolare dell’arte di strada, infatti, così come quello spiccatamente privato e inalienabile del tatuaggio, solleva entusiasmo perché si illude di democratizzare finalmente il binomio espressione/ fruizione. Ma ogni avanguardia, vera o presunta che sia, ha il destino di collassare al contatto con quello stesso sistema di cui ai suoi inizi intende farsi antagonista: così, quando Basquiat, Haring, Rammelzee o Clark varcano la soglia della prima tela venduta in galleria ogni promessa di arte di frontiera è già rientrata nei ranghi.

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1   Cfr. E. de Conciliis, La decorazione del nudo: note sociologiche su piercing e tattoo, saggio che sviluppa, con alcune sostanziali modifiche e integrazioni, il testo di una relazione tenuta il 24 marzo 2006 nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici per il convegno su L’esperienza del dolore nella storia del pensiero, svoltosi nell’ambito della seconda edizione de L’arte della felicità. Incontri e conversazioni, Napoli, 23-26 marzo 2006.


2   A. Loos, Parole nel vuoto, Adelphi Edizioni, Milano 1972, p. 217 e sgg. 3   Ibidem. 4   Ibidem. 5   Ibidem. 6   Cfr. E. de Conciliis, op. cit. 7   Ibidem. 8   Ibidem. 9   Ibidem. Si rimanda pure a J. Baudrillard, Parole chiave, Armando 2000, pp. 23-24. 10   R. Bodei, Le forme del bello, Il Mulino edizioni, Urbino 2000, p. 115. 11   Ibidem. 12   Cfr. E. de Conciliis, op. cit. 13   R. Bodei, op. cit., p. 115. 14   Ibidem. 15   R. Bodei, op. cit., p. 105. 16   N. Warburton, La questione dell’arte, Einaudi, Torino 2004, p. 78. 17   Ivi, p. 87. 18   J. Levinson, Music, Art and Metaphysics, Cornell University Press, Ithaca (NY), 1990. Citato in N. Warburton, op. cit. 19   Cfr. E. de Conciliis, op. cit. 20   Ibidem. 21   Da un blog disponibile in Internet. 22   Cfr. N. Warburton, op. cit., p. 38 e sgg. 23   Ibidem. 24   Da un blog disponibile in Internet. 25   Cfr. L.V. Masini, L’arte del Novecento, Giunti Editore, Firenze 2003, vol. 7, p. 1131. 26   Ivi, p. 1133. 27   Si veda lo studio di F. Alinovi pubblicato su «Flash Art» n. 114 nel giugno del 1983. 28   La sostanziale differenza tra la Street Art e i graffiti si riscontra nella tecnica non per forza vincolata all’uso di vernice spray e al soggetto non obbligatoriamente legato allo studio della lettera, mentre il punto di incontro che spesso fa omologare le due discipline rimane il luogo e alle volte alcune modalità di esecuzione, oltre all’origine mass-mediatica della terminologia (originariamente semplicemente Writing).

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Arredamento come arte decorativa Imma Forino

Nel 1930 Roberto Papini, storico e critico d’arte (Pistoia 1883-Modena 1957), pubblica il ponderoso volume Le arti d’oggi. Architettura e arti decorative in Europa1, recentemente proposto in ristampa anastatica, epurato della dedica iniziale a «Benito Mussolini, cittadino onorario di Universa»2. Il volume, diviso in sei sezioni precedute da una lunga introduzione, riserva solo la prima all’architettura per poi addentrarsi nel mondo complesso dell’arredamento, frammentandolo in parti quali: Interni e mobili (II), Metalli (III), Ceramiche (IV), Vetri (V), Merletti, ricami, tessuti, carte stampate e cuoi (VI). La composizione generale del libro, soprattutto per la selezione iconografica, deve molto agli articoli del medesimo autore sulla Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes di Parigi del 1925, pubblicati sulla rivista Architettura e arti decorative3, ma anche a quelli curati da altre firme sul medesimo periodico. Il primo articolo dedicato agli Artistes Décorateurs francesi (Emile Ruhlmann, Francis Jourdain, Maurice Dufrène) compare sulla rivista fra il 1923 e il 19244, nel fascicolo successivo ne appare uno dedicato a Pierre Chareau, Süe et Mare, Rapin e l’Atelier Primavera5; entrambi sono a firma di Michel Roux-Spitz. La pubblicazione Architettura e arti decorative, fondata nel 1921 e diretta da Gustavo Giovannoni e Marcello

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Piacentini (Papini, membro della redazione, ne rivendica altresì la paternità6), era soprattutto un organo di diffusione della scuola romana7. In essa si alternavano lo studio dei monumenti antichi a indagini sul contemporaneo, veri e propri reportage su quanto si realizzava in quegli anni in Italia e in Europa (piani regolatori, nuove architetture, giardini). Fra questi, un grande spazio era destinato a interni, arredi e suppellettili. Nella scelta degli esempi si propugnava, come del resto in molti scritti dello studioso toscano, l’idea di un «binomio inscindibile»8 fra l’architettura e l’arredamento, identificando quest’ultimo fra le così dette «arti decorative»; una convinzione, d’altra parte, presente anche fra i critici più all’avanguardia del tempo9, che riconoscevano l’identità nazionale nella capacità dei suoi architetti di coniugare fra loro le diverse arti, riconducendole al più ampio tema del gusto e dello stile. Tali considerazioni si formalizzano però solo a partire dal 1928 con la Casa degli architetti, presentata nell’ambito della Mostra del Decennale della Vittoria a Torino, e con la nascita delle riviste La casa bella, diretta da Guido Marangoni, e Domus, fondata e diretta da Gio Ponti. Nell’abitazionemodello dedicata agli architetti, gli interni sono curati dai componenti del GANT (Gruppo Architetti Novatori Torinesi), coordinati da Pietro Betta. Essi progettano gli arredi e le attrezzature tecniche ma è l’organizzazione spaziale degli ambienti di derivazione modernista a imporsi sull’involucro architettonico di Paolo Perona10. Una rinnovata concezione dell’abitare viene alla luce, pur se rimarcata con accenti differenti, anche dai periodici italiani. Se Marangoni inizialmente si concentra soprattutto sulla produzione, Ponti riflette invece su un’idea globale dell’abitare. Rispetto alla utilitaristica machine europea, egli rivendica una casa umana, intima, confortevole, coniugato il termine inglese comfort nell’italiano «conforto»11. A partire dagli anni trenta l’ideale abitativo trova nel progetto d’interni le migliori prove esercitative, orientate anche verso la produzione. Il decennio precedente aveva testimoniato il forte legame con la tradizione artigianale,


sovente retriva, o nei casi più sperimentali il felice connubio fra artisti e architetti. In Italia le arti decorative erano frutto di una solida esperienza artigiana che, a partire dal diciannovesimo secolo, declinava «in stile» arredi e suppellettili. Il desiderio di superare la produzione manuale tout-court, unendo arte e tecnica mediante la produzione seriale, si era manifestato nella esposizione torinese del 1902 e, l’anno successivo, nella Biennale di Venezia, dove – almeno teoricamente, meno in realtà nelle occasioni espositive12 – le arti applicate sono poste sullo stesso piano delle altre espressioni artistiche. Benché gli esponenti del Secondo Futurismo con il Manifesto per la ricostruzione futurista dell’universo (11 marzo 1915) avessero focalizzato l’attenzione dell’artista su l’oggetto e i processi produttivi, di fatto agli inizi del novecento la produzione industriale nostrana era concentrata sulla piccola serie e la maggior parte degli interni erano abitati da arredi scenografici quanto a-funzionali. Nel primo dopoguerra era stata soprattutto la Lombardia ad auspicare una fruttuosa relazione fra arte e tecnica per il rilancio italiano, tesa a valorizzare le qualità artigianali rispetto alla serializzazione anonima, tipicamente europea. La Società Umanitaria di Milano, che organizzava corsi professionali e mostre (Esposizione Regionale Lombarda, 1919), e l’istituzione dell’Università delle Arti Decorative a Monza (1921) miravano a formare e diffondere la figura di un nuovo tipo di artefice, non più artista ma capace di rinnovare la tradizione artigiana. L’I.S.I.A. (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche), erede della Società Umanitaria e dell’Università monzese, orienta infine sempre più la formazione verso un’idea di produzione seriale distante dal precedente artigianato artistico. Gli esiti non sono sempre incoraggianti, lontani come appaiono dalle coeve prove europee. Il panorama delle arti decorative della I Biennale di Monza del 1923 è, infatti, eterogeneo quanto ambiguo. Papini, sempre attento ai cambiamenti del settore, ne coglie con condiscendenza le insufficienze rispetto all’intenzione innovativa di rappresentare in un’unica ma-

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nifestazione le tendenze nazionali e internazionali. Si augura, però, un’evoluzione che integri il lavoro di artisti e di «artieri» con quello degli architetti, nel rispetto di una tradizione cui attingere con coraggio13. È, del resto, solo a partire dagli anni trenta che alcune aziende di tipo ancora semiartigianale (Richard-Ginori, Ceramica di Laveno, Fontana Arte) coinvolgono architetti e artisti (rispettivamente Gio Ponti, Guido Andlovitz, Pietro Chiesa) nel progetto della propria produzione14. Papini, sulle pagine di Emporium oltre che su Architettura e arti decorative, ne coglie con interesse l’apporto. Pur rimanendo saldamente ancorato a un’idea di italianità, da giocare come tradizione rinnovata con cui dialogare continuamente – idea, dopotutto, rimarcata da tutti i redattori della rivista di Giovannoni e Piacentini –, il critico non può fare a meno di considerare l’esperienza del suo paese come parte della più generale vicenda architettonica europea (e, aggiungeremmo, extra-europea, per le due sole immagini presenti ne Le arti d’oggi di grattacieli americani). L’incarico di selezionare gli italiani per la partecipazione all’esposizione Die Wohnung del 1927, collegata al­ l’apertura del quartiere del Weissenhof di Stoccarda, gli riconferma la necessità del confronto, pur nella riconosciuta diversità15. La selezione offerta in quest’occasione è prudente ma non esula dal presentare, accanto ad affermati professionisti di un’architettura ambientista e storicista, anche le ricerche sperimentali del Gruppo 716. Il resoconto di Papini sulla manifestazione è attento ma non scevro di accenti polemici sugli esempi costruiti, non solo dal punto di vista strutturale (la fragile ossatura in ferro, le sottili pareti poco coibentate) quanto, soprattutto, sul tipo di vita cui quegli spazi condurranno: E poi s’ha un bel dire: tutto pratico, tutto economico, tutto meccanico, tutto razionale. E il resto? Il resto che è la vita, l’umanità, fatte non solo di cervello ma di cuore e di sensi? Non c’è pericolo che l’arte, cacciata dalla logica, o almeno imprigionata dai vincoli del troppo ragionare, s’impermalisca e si vendichi? E continua, poco più avanti: Ohimé,


questi architetti modernissimi […] stanno fondando, come sempre avviene quando l’arte è costretta d’obbedire al programma preconcetto, l’accademia del modernismo. E tali case son troppo pensate da uomini. Per fortuna v’entrerà la donna che ragiona meno e sente di più17. Per le arti applicate, poi, l’autore guarda ai movimenti europei come a una moda del «gusto d’oggi», raffinata ma passeggera, apprezzabile ma di fatto lontana da quel solido «nostro gusto italico, ostile agli eccessi anche nella raffinatezza»18. Di fronte all’iconoclastia dei giovani razionalisti anche Margherita Sarfatti, in occasione dell’Esposizione parigina del 1925, rivendicherà un analogo desiderio, ovvero il «dono di un po’ di bellezza, per addolcire, per arricchire, per nobilitare l’aspra vita quotidiana con il sorriso del divino, del solo indispensabile superfluo»19. Dall’inizio del secolo ai primi anni trenta Papini rappresenta in Italia una voce critica, sensibile ma cauta del cambiamento che nel settore degli interni inizia ad affermarsi contemporaneamente al tema della «casa moderna», che i padiglioni nel parco di Monza per la IV Triennale del 1930 comunicano, invece, secondo un differente esordio radicale: la Casa elettrica di Gino Figini e Luigi Pollini, la Casa per le vacanze di Gio Ponti e Emilio Lancia e la Casa del dopolavorista di Luisa Lovarini. Con Le arti d’oggi egli fotografa il significativo punto di passaggio – in seguito definito, per l’Italia, come «protodesign»20 –fra le arti applicate e l’industrial design, caratterizzato negli ambienti interni e nel loro arredo dagli ultimi fermenti liberty e il gusto déco, nella versione europeista, o dai revival stilistici, in quella nazionalista. L’introduzione al volume: Universa, metropoli verosimile è metaforicamente giocata sull’improbabile esistenza di una città dove tutto è possibile all’«arte meravigliosa degli uomini d’ingegno». La città rappresenta un mondo dove regnano rigidamente disciplina e dedizione alla produzione, e chi viene meno a esse è espulso. Emerge dal testo il desiderio di una società efficiente, ordinata, dinamica, dove il futuro è già presente:

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«Universa, patria degli uomini d’oggi lanciati a tutta velocità verso l’avvenire». A circa vent’anni di distanza, risuonano attutiti i primi echi futuristi. A Universa tutti lavorano, usano esclusivamente i trasporti pubblici e gli utili prodotti sono anonimamente ripartiti «secondo le capacità e i meriti di ciascuno». Anche l’architettura e il disegno urbano organizzano con logica le attività degli abitanti. Coloro che propugnano idee differenti vengono messi al bando, come nella palese parodia di Le Corbusier. Papini immagina, infatti, giungere nella città un architetto svizzero, loquace e turbolento, che si qualificò banditore dello spirito nuovo, apostolo delle idee architettoniche di Universa presso tutto il resto del decrepito mondo. Parlò tonitruando, ingombrò per più di una settimana le stazioni radiotelefoniche con la concitazione delle sue parole, lanciò sugli ascoltatori frasi pirotecniche, si dette un tono sentenzioso e profetico. Da principio divertì come un fenomeno, poi annoiò come un monomaniaco. Sosteneva che i piani regolatori delle città debbono essere di tracciato uniforme a scacchiera o a raggiera; gli rispondevano che erano sistemi unilaterali, adoperati fin dalla più remota antichità e dimostrati ormai inefficienti. Affermava che qualunque architettura nasce dalla pianta; gli osservavano che tutti, salvo gli stupidi, avevano sempre capito questo assioma indiscutibile e che non valeva la pena di perder tempo a catechizzare gli stupidi. Proclamava la necessità di costruire le case e le cose in serie; e gli obiettavano che occorreva prima persuadere la natura a fabbricare gli uomini in serie. Dichiarava che l’architettura degli edifici deve ispirarsi a quella delle automobili, dei velivoli e dei piroscafi; lo pregavano di non fare confusione fra le cose che hanno finalità differenti e quindi forme necessariamente diverse. Insisteva sul bisogno di semplificare, sfrondare, eliminare gli ornamenti; gli ricordavano che tali erano i principii proclamati e posti in pratica in Europa almeno da trent’anni. Predicava che


la casa è una macchina per abitare; gli replicavano che «abitare» è una funzione troppo complessa per essere soddisfatta da idee meccaniche. Sentenziava che l’architettura è pura creazione dello spirito; sbadigliavano. Malediceva chi non la pensava come lui; ridevano. S’erano accorti insomma, i giovani edili di Universa, che quel predicatore pseudoevangelico e pseudorazionalista, di temperamento analogo al suo compatriota Calvino, stava fondando un’accademia del modernismo. Peggio ancora: che le sue idee nuove non erano tutte giuste e che le sue idee giuste non erano tutte nuove. Fu espulso da Universa come teorizzatore set­ tario21. Un attacco giocato con aspra ironia e, dopotutto, non privo di talune oggettività. Le considerazioni sull’architettura di Universa sono, del resto, l’occasione anche per una critica alla civiltà di tipo barbarico dell’odierna America settentrionale dove lo spreco è elevato a sistema, nella effimera infatuazione d’una ricchezza provvisoria. Gli abitanti di Universa si scandalizzano del fatto che possano esistere negli Stati Uniti d’America quei parchi di rifiuti in cui si gettano a morire le automobili smesse, le macchine guaste, le robe lacere22. Papini considera l’architettura «principessa delle arti»23 (concetto cui dedicherà negli anni cinquanta uno scritto meno enfatico, Essenza della Architettura24): «l’architettura domina tutta la vita estetica di Universa, che è vita moderna»25. Qui gli scultori – cui sono negate, come ai pittori, le esposizioni temporanee – per primi si persuasero della necessità di obbedire ai dettami dell’architettura; per primi abbandonarono il disastroso concetto che l’arte sia libertà, capriccio, ispirazione astratta, ed accettarono in maggioranza una dura disciplina, meglio preparati com’erano a concepire i valori plastici in dipendenza dei valori architettonici di statica, di composizione, di proporzione, di ritmo26. L’allineamento ad alcune idee del regime politico vigente in Italia – in particolare la difesa nazionalistica – è

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palese in più punti dell’Introduzione. Resiste, per esempio, il mito della donna mater della casa, pur se «aggiornato»: La donna di Universa si compiace d’identificarsi con la casa. Non lo fa certo al modo delle classiche massaie del vecchio tempo, casalinghe, ristrette e intransigenti come Penelope o tiranniche e turbolente come Santippe. Dispregia l’egoismo bruto della donna americana, l’artificio della francese, l’isterismo della scandinava, il languore della spagnola, la fatuità dell’italiana, la perversità della russa, la grossolanità della tedesca, la candida puerilità dell’inglese. Sa che la casa è il porto della faticosa vita quotidiana; e, fiera di sentirsi e di voler essere normale, su quel porto domina come un faro27. Nel progetto della casa, nel «felice connubio fra tecnologia e arte», nel trionfo della «bellezza della materia», nel­ l’ornamento come limitata punteggiatura della costruzione della forma, Papini rivela invece un punto di vista più originale – parzialmente anticipato in un articolo del 1928, soprattutto per il rapporto fra antico e nuovo28 –, quasi a demandare all’arredamento e al mobilio «razionale» l’adesione più viva alla realtà contemporanea. Rispetto all’ampia introduzione, le singole sezioni in cui è suddiviso Le arti d’oggi sono commentate unicamente dalle didascalie alle fotografie. Per completezza si dovrebbe far riferimento agli articoli già citati di Architettura e arti decorative di Papini, che sono ampi e documentati, mentre qui l’autore lascia che siano le immagini a parlare, limitandosi a incisive sottolineature. L’excursus architettonico prende le mosse dai primi anni del novecento e spazia dalle fabbriche (per l’Italia la FIAT di Giacomo Matté Trucco) ai grattacieli (negli Stati Uniti, con un raro esempio europeo); dalle stazioni ferroviarie agli edifici pubblici (la Casa Madre dei Mutilati a Roma di Marcello Piacentini) e residenziali (ancora Piacentini a Roma ed Emilio Lancia e Gio Ponti a Milano); dai mercati (l’ottagono per il pesce a Rodi di Florestano di Fausto) alle chiese (diversi progetti di Brenno del Giudice); dai cinematografi (Ottavio Cabiati a Milano e Piacentini a Firenze) ai teatri; dalle


sale per concerti al planetarium di Düsseldorf; dalle scuole ai giardini con strutture ornamentali; dai villini ai padiglioni espositivi (il padiglione Arti Grafiche alla Fiera di Milano di Ponti e Lancia). Non manca, infine, fra i lavori di architettura, un cenno agli allestimenti temporanei, per esempio con l’ingresso alla mostra delle macchine di Ponti e Lancia all’esposizione di Basilea del 1926. Le didascalie che accompagnano le immagini sono intenzionali giudizi di valore. Rimarchevoli per le molte strutture produttive presentate, «diversissime da qualunque modello dell’antichità»29, quali gli stabilimenti industriali e gli hangar, appaiono miopi in altri casi: per esempio, Il Le Corbusier – già beffeggiato nell’Introduzione –, rumoroso araldo del modernismo ad oltranza, mescola razionalismo con capriccio, è ossessionato dall’architettura dei piroscafi, trova motivi geniali di nuove proporzioni, ma li spinge alle ultime ed assurde conseguenze30. Specie se, nella pagina successiva dedicata al maestro svizzero, si guarda al modesto caso italiano proposto, rappresentato da Brenno Del Giudice, visto come un chiaro e graziosissimo esempio dell’equilibrio italiano nell’accettare la linda semplicità moderna innestandovi quei caratteri tradizionali che collegano con l’ambiente31. Grande spazio è riservato ai padiglioni dell’esposizione del 1925. Il gusto déco, apprezzato dalle elite, aveva trovato nella mostra parigina la miglior forma di comunicazione al grande pubblico: paesi, artefici, produzioni vi erano rappresentati con edifici temporanei, arredi, oggetti, presentati dai rispettivi cataloghi delle singole esposizioni, tutti tesi a dare visibilità e senso al settore delle arti applicate. Papini non solo ne tiene conto nella presentazione dei padiglioni ma ne rimarca l’importanza nella selezione degli interni. Qui, aveva scritto nel 1926, si presenta il fenomeno per cui quando si tratta … di piccoli ambienti, di stanzette da casa d’abitazione, da villino, da casa di campagna gli architetti riescono spessissimo a trovare, nella semplicità, nella distribuzione dei vani e dei pieni, nel taglio delle stanze, felicissime armonie: ma quando

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si tratta di ambienti solenni, là dove si richiede monumentalità di proporzioni e di decorazione le cose vanno malissimo. Nella mostra parigina non uno dei grandi ambienti era sopportabile32. Grazie all’occasione dell’E­ spo­sizione parigina, comunque, egli sembra guardare con più interesse all’Europa, benché nel suo giudizio permanga un certo sarcasmo: è naturale che si verificassero a Parigi i maggiori progressi nell’arte ed i migliori saggi del gusto nelle sezioni di quei popoli che hanno raggiunto un più elevato grado di organizzazione delle loro scuole d’arte. Di quelle scuole, cioè, nelle quali l’artista e l’artiere sono direttamente e continuamente tenuti a contatto con la materia, con la sordità di lei all’intenzione all’arte33. Rispetto alla prima sezione del libro dedicata all’architettura, le successive, sugli interni, i mobili e le arti applicate, sono generosamente documentate34. Le ambientazioni d’interni, pubblici e privati, offrono un panorama talora inedito, suddiviso tipologicamente (scale, vestiboli, salotti, studi, sale da pranzo, camere da letto), cui seguono gli arredi, divisi anch’essi per categorie nell’ordine di presentazione delle immagini: letti, vetrinette, armadi, scrittoi, tavoli, persino pianoforti, poltrone, divani, sedie e magnifiche psiche. Accanto ai nomi noti d’oltralpe e agli italiani, fra cui diversi architetti minori, emergono i rappresentanti meno conosciuti di altre realtà europee, la Polonia, la Cecoslovacchia, la Russia, la Svizzera, la Spagna, spesso esclusi dalla storiografia sugli interni. Anche qui le didascalie sono tanto parzialmente elogiative quanto sinteticamente critiche. Affiora, ancora una volta, l’idea che la conformazione dello spazio debba essere legata al tema della decorazione, prima che alla sua funzionalità. A un salotto di Jac­ques-Emile Ruhlmann, per esempio, manca l’essenziale: cioè l’organismo decorativo al quale tutti i motivi debbono essere subordinati35, mentre di quello di Josef Hoffmann, pur guardato con interesse, al critico preme sottolineare l’«accento di stramberia»36. Un certo snobismo è riservato ad alcuni esempi polacchi, come quelli di


Adalbert Jastrzebownsky o di Mieczyslaw Kotarbinski, laddove egli ravvisa l’uso di motivi rustici con l’inutile tentativo di insignorirli; l’origine contadina si rivela sempre e condanna il tentativo al fallimento37; mentre sulle pagine di Architettura e Arti decorative aveva notato che per gli interni del padiglione del 1925 la Polonia dava l’esempio migliore della seconda tendenza dell’arte decorativa moderna, se la prima è quella classicista: si ispirava ai motivi rustici, li raffinava, ne attenuava la ruvidezza in saggi di nuova armonia38. Particolarmente elogiati sono gli ambienti di Giovanni Muzio, Melchiorre Bega e Giuseppe De Finetti, pur con alcuni paradossi: l’incongruo paragone fra la stereometria di una camera da letto di Giuseppe Cadorin e quella dell’olandese Sybold van Ravenstyn, di stampo De Stijl, dove la prima ha «maggior garbo e misura»39. Alle espressioni déco, pur presenti con molti interni dei padiglioni della mostra parigina, Papini preferisce le variazioni neoclassiciste (il tedesco Emil Fahrenkamp, elogiato in più tavole, o lo svedese Ragnar Östberg, dalle valenze «bizantine» per l’uso dei mosaici). In particolare, apprezza negli interni la dialettica fra nuovo e antico, quest’ultimo rappresentato dall’antiquariato. Pochissimi gli esempi razionalisti dove risalta maggiormente la relazione degli arredi con l’architettura. Nell’angolo di un salotto di Ernst May, la grande vetrata angolare è la vera animatrice del­l’ambiente i cui mobili sono ispirati alla pura razionalità40. Un razionalismo, comunque, non accettato fino in fondo: nell’«ambiente modernissimo per eccellenza», la cabina di un aeroplano, il rivestimento in stoffa a colori molto vivaci [serve] per togliere crudezza alla razionalità costruttiva41. Oppure declinato in modo particolare, come dal collega di redazione Roux-Spitz, già valorizzato da Papini sulle pagine di Architettura e Arti decorative: A me sembra che i migliori risultati fra tutti gli ambienti francesi che dovevano avere carattere di lusso, siano stati ottenuti dall’Arch. Michel Roux-Spitz in due locali contigui all’Ambasciata [di Francia]. E mi pare anche

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che ciò si debba alla bontà del metodo. Il Roux-Spitz, infatti, ha prima di tutto creato l’armonia delle proporzioni dei vani; poi ha trovato, sulle mura, semplici e puri ritmi scanditi da pilastri, da nicchie, da porte, da pannelli, subordinati tutti alla più rigorosa linearità, alla più spregiudicata assenza di ornamenti; ha reso infine preziosi questi rigidi schemi impiegando marmi e musaici come unici elementi di raffinatezza e colore42. Nel 1926, ancora sulle pagine della rivista, Papini aveva spiegato l’importanza delle arti applicate: Vige prima di tutto da infiniti secoli nella storia delle arti chiamate minori una legge generalissima che impone agli artisti creatori e agli artieri esecutori di non perdere mai di vista il «senso» del materiale che adoperano. È quella che io ho chiamato legge dell’aderenza alla materia impiegata. Non si può senza pena sicura di insuccesso confondere l’una con l’altra le caratteristiche d’ogni materia […]. L’artista deve creare vedendo già l’opera sua eseguita nella determinata materia per cui la pensa43. Ciò giustifica l’ampia selezione di esempi presentati nelle sezioni del libro: III. Metalli, IV. Ceramiche e V. Vetri. Fra i cancelli, le urne, le torciere, i lumi, i lampadari e i candelabri, gli specchi e le cornici, gli astucci preziosi e i gioielli, Papini loda particolarmente i lavori dell’«ottimo fabbro» Alessandro Mazzucotelli44, o la preziosità dei servizi da tavola delle Wiener Werkstätte. Se molto rappresentata è l’opera di Gio Ponti per le ceramiche della Richard-Ginori, nella parte dedicata ai vetri vengono sottolineate le manifatture e le scuole più che gli artefici, come i «Vetri soffiati Muranesi» della ditta Venini e C. o la Scuola delle Arti Decorative di Praga, mentre di un maestro come René Lalique egli condanna «il vizio d’origine, cioè l’essersi formato il gusto… nell’epoca del “Liberty”»45. Infine, fra le arti applicate non mancano, nell’ultima e più eclettica sezione del volume, i merletti cèchi, le bambole di lenci (?!), gli «scialli coloratissimi» di Fortunato Depero, i pannelli decorativi in stoffa e ricami, gli arazzi e i tappeti, le legature dei libri e le carte da parati (fra cui ci


sono le uniche tavole a colori del libro) a dimostrare, nelle intenzioni dell’autore, quanto possano essere vaste e articolate l’opera e l’ingegno dell’uomo, che non aveva rappresentato sulla rivista romana. Il testo può oggi essere letto come l’emblema della fine di un gusto di successo, l’Art Déco, sviluppatosi dal 1909 agli anni trenta, che aveva caratterizzato gran parte degli interni europei, poi inevitabilmente rivolto al manierismo con la ridondante, talora ossessiva, ripetizione dei suoi stilemi formali, in particolare nell’esportazione extraeuropea. Fra i meriti da ascrivere a Le arti d’oggi vi è soprattutto l’attenzione del suo autore a realtà progettuali e autori poco noti, nel campo dell’arredamento più che nell’architettura – cui Papini, del resto, dà uno spazio davvero limitato nell’ambito complessivo del volume. Il maggiore valore del libro è, d’altra parte, l’aver sollevato il punto di vista sull’arredamento come binomio di arte e architettura. Non a caso Papini aveva segnalato, a proposito dei due concorsi banditi dal Barone Giacomo Paulucci de’ Calcoli e da Manlio Morgagni per la Rivista illustrata del Popolo d’Italia, il cui primo premio è vinto da Giovanni Ponti e Tomaso Buzzi con un arredamento per un’Ambasciata italiana, che: È straordinariamente significativo … che si sia sentito il bisogno di accoppiare un concorso d’architettura con uno d’arredamento, verificandosi una volta di più l’inscindibilità di quel binomio «Architettura e arti decorative», scritto a capo di queste pagine come si scrive sulle insegne un’impresa di battaglia e di fede46. Egli intuisce e preannuncia, cioè, la felice stagione italiana di organica integrazione fra le due arti, di cui Ponti è certamente l’alfiere e a cui ben presto seguiranno i più giovani Franco Albini, Carlo Mollino e molti altri. 1   R. Papini, Le arti d’oggi. Architettura e arti decorative in Europa, Casa editrice d’arte Bestetti e Tuminelli, Milano-Roma 1930. 2   Verbavolant, London 2005. 3   R. Papini, Le arti a Parigi nel 1925. Primo: l’architettura, in «Architettura e arti decorative», anno V, 1925-1926, vol. I; id., Le

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arti a Parigi nel 1925. Secondo: gli interni e i loro mobili, in «Architettura e arti decorative», anno V, 1925-1926, vol. I; id., Le arti a Parigi nel 1925. Terzo: i metalli, in «Architettura e arti decorative», anno VI, 1926-1927, vol. I. 4   M. Roux-Spitz, L’arte decorativa in Francia. I., in «Architettura e arti decorative. Rivista d’arte e di storia», Associazione artistica fra i cultori d’architettura, Casa Editrice d’Arte Bestetti e Tuminelli, Milano-Roma, anno III, 1923-1924. 5   Id., L’arte decorativa in Francia. II., in «Architettura e arti decorative. Rivista d’arte e di storia», Associazione artistica fra i cultori d’architettura, Casa Editrice d’Arte Bestetti e Tuminelli, MilanoRoma, anno III, 1923-1924. 6   Cfr. P. Nicoloso, La formazione dell’architetto, in G. Ciucci e G. Muratore, a cura di, Storia dell’architettura italiana. Il primo Novecento, Electa, Milano 2004, p. 60 e 98, n. 6. 7   La rivista era pubblicata dal medesimo editore del libro Le arti d’oggi, la Casa editrice d’arte Bestetti e Tuminelli, Milano-Roma. A partire dall’anno VII di pubblicazione (1927-1928), compare sul frontespizio di copertina del vol. I la dicitura: Organo del Sindacato Nazionale Architetti, spiegata a p. 3 da una breve nota di Alberto Calza Bini. 8   R. Papini, Le arti a Monza nel 1927. I. Gli italiani, «Emporium», n. 391, luglio 1927, p. 14. 9   Cfr. E. Persico, L’arredamento è architettura, in «La Casa Bella», settembre 1932, ora in G. Veronesi, a cura di, Edoardo Persico. Tutte le opere (1923-1935), Di Comunità, Milano 1964, vol. II. 10   Cfr. M. Mulazzani, Il dibattito delle arti applicate e l’architettura, in G. Ciucci e G. Muratore, a cura di, Storia dell’architettura italiana. Il primo Novecento, Electa, Milano 2004, pp. 105-106. 11   G. Ponti, La casa all’italiana, in «Domus», n. 1, gennaio 1928, p. 7. 12   Cfr. V. Terraioli, Appunti sul dibattito del ruolo delle arti decorative negli anni Venti in Italia: da Ometti a Papini, da Conti a D’Annunzio, da Sarfatti a Ponti, in V. Terraioli, F. Varallo, L. De Fanti, a cura di, L’arte nella storia. Contributi di critica e storia dell’arte per Gianni Carlo Sciolla, Skira, Milano 2000, p. 134. Si veda anche M. De Giorgi, Il dibattito sulle arti decorative, e Le Esposizioni, in V. Gregotti, a cura di, Il disegno del prodotto industriale. Italia 1860-1980, Electa, Milano 1986. 13   Cfr. R. Papini, Le arti decorative a Monza, in «Rassegna italiana politica letteraria e artistica», anno V, serie II, fasc. LIV, novembre 1922; id., Mostra bella e utile, in «Il Mondo», 23.5.1923, entrambi ora in Cronache di architettura 1914-1957. Antologia degli scritti di Roberto Papini, a cura di R. De Simone, Edifir, Firenze 1998. Cfr. inoltre R. Papini, Le arti a Monza nel MCMXXIII, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, Bergamo 1923. 14   Cfr. A. Grassi, A. Pansera, L’Italia del design. Trent’anni di dibattito, MariettiEditore, Casale Monferrato 1986, p. 13. 15   Cfr. R. Papini, Un’esposizione a Stoccarda d’architettura mo-


derna, in «Il Corriere della Sera», 26.7.1927, ora in Cronache di architettura… cit. 16   Cfr. A. Avon, La casa all’italiana, in G. Ciucci e G. Muratore, a cura di, op. cit., pp. 162 e 164. 17   R. Papini, Le case del troppo ragionare, in «Il Corriere della Sera», 9.8.1927, ora in Cronache di architettura… cit., pp. 136-137. 18   Id., Le arti a Parigi nel 1925. Terzo: i metalli…, cit., p. 24. 19   M. Sarfatti, Le arti decorative italiane a Parigi, in L’Italie à l’Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes, Commissariat Géneral de l’Italie, Paris 1925 (cat.), p. 60. 20   A. Pansera, Protodesign, in N. Bortolotti, a cura di, Gli anni Trenta, arte e cultura in Italia, Mazzotta, Milano 1982 (cat.). 21   R. Papini, Le arti d’oggi… cit. [2005], pp. 10-11. 22   Ivi, p. 11. 23   R. Papini, Le arti a Parigi nel 1925. Primo: l’architettura…, cit., p. 201. 24   Id., Essenza della Architettura, Alberto Tallone Editore, Alpignano 1989. 25   Id., Le arti d’oggi… cit. [2005], p. 17. 26   Ivi, pp. 12-13. 27   Ivi, p. 14. 28   R. Papini, Come s’arreda un palazzo antico, in «Architettura e arti decorative. Rivista d’arte e di storia», Organo del Sindacato Nazionale Architetti, Casa Editrice d’Arte Bestetti e Tuminelli, Milano-Roma, anno VII, 1927-1928, vol. I. 29   Id., Le arti d’oggi… cit. [1930], Tav. I, figg. 1 e 2, Ing. H. Freyssinet (Francia): Rimesse per dirigibili a Villeneuve-Orly (1916). 30   Ivi, tav. XXXV, fig. 53, Arch. Le Corbusier et Jeanneret (Svizzera): Villino in Boulogne-Seigne; e fig. 54, Arch. Le Corbusier et Jeanneret (Svizzera): Casette in Stoccarda. 31   Ivi, tav. XXXVI, fig. 55, Arch. Brenno del Giudice (Venezia): La casa del farmacista al Lido di Venezia. 32   R. Papini, Le arti a Parigi nel 1925. Secondo: gli interni…, cit., p. 345. 33   Id., Le arti a Parigi. Terzo: i metalli…, cit., p. 18. 34   Nel libro Le arti d’oggi, l’autore include le immagini dei tre articoli dedicati all’Esposizione di Parigi del 1925 aggiungendone molte altre e offrendo così un reportage più ampio su ciò che accade in Europa in quel momento. 35   Id., Le arti d’oggi… cit. [1930], tav. CV, fig. 155, Arch. Ruhlmann (Francia): Salotto. 36   Ivi, tav. CVIII, fig. 167, Arch. Josef Hoffmann (Austria): Salottino. 37   Ivi, tav. CXXII, fig. 188, Arch. A. Jastrzebowsky (Polonia): Stanza da pranzo. La didascalia paragona l’esempio a quello di M. Kotarbinski, presentato nelle pagine precedenti. 38   R. Papini, Le arti a Parigi nel 1925. Secondo: gli interni…, cit., p. 347. 39   Id., Le arti d’oggi… cit. [1930], tav. CXXIX, fig. 197 e 198.

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40   Ivi, tav. CVI, fig. 174, Arch. Ernst May (Germania): Angolo di un salotto. 41   Ivi, tav. CVII, fig. 176, Arch. Joubert e Petit (Francia): Cabina d’aeroplano edita da DI.M. 42   R. Papini, Le arti a Parigi nel 1925. Secondo: gli interni…, cit., p. 346. 43   Id., Le arti a Parigi. Terzo: i metalli…, cit., p. 18. 44   Id., Le arti d’oggi… cit. [1930], tav. CLXXVIII, fig. 293, Alessandro Mazzucotelli (Milano): Banderuola in ferro battuto e sbalzato. 45   Ivi, tav. CCCXXXVII, fig. 625-626, René Lalique (Francia): Vasi in paste vitree. 46   Id., Due concorsi accademici, in «Architettura e arti decorative. Rivista d’arte e di storia», Associazione artistica fra i cultori d’architettura, Casa Editrice d’Arte Bestetti e Tuminelli, Milano-Roma, anno VI, 1926-1927, vol. I, p. 161. L’articolo illustra ampiamente il progetto Ponti-Buzzi con ben sedici illustrazioni; vi è inoltre riportato uno stralcio della Relazione della Commissione pubblicata sulla Rivista illustrata del Popolo d’Italia: «gli architetti Buzzi e Ponti si sono posti dinanzi al tema con una serietà di intendimenti pari alla raffinatezza del loro gusto. I mobili che essi hanno ideato con arte delicata e con sicuro intuito di ciò che deve essere la sede d’una ambasciata, immaginandoli con felice rispondenza al carattere delle decorazioni murali, si ricollegano alla tradizione italiana fra la fine del Settecento e il principio dell’Ottocento pur senza essere di quell’epoca una pedissequa derivazione. I due architetti hanno evitato cioè il duplice pericolo d’una eccessiva aderenza alle forme degli stili antichi e d’un facile orientamento verso forme indubbiamente nobili e moderne, ma non italiane, che hanno trionfato nella recente esposizione di Parigi [del 1925]. Inoltre si sono attenuti strettamente a quei criteri di solennità e nello stesso tempo di praticità che erano richiesti nel bando. Hanno infine immaginato di risuscitare sulle mura quella decorazione pittorica che è vanto dei più bei periodi dell’arte italiana quando l’uso esotico di coprire le pareti con legni o con stoffe non aveva ancora inquinato la millenaria tradizione latina. / Nuoce un poco al loro progetto alcunché di eccessivamente prezioso che volge al frivolo là dove si vorrebbe vedere una minore ricerca d’eleganza ed una più schietta semplicità di sagome e d’ornamenti». Ivi, pp. 189-190.

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Libri, riviste e mostre

C. Melograni, Architettura italiana sotto il fascismo. L’orgoglio della modestia contro la retorica monumentale 19261945, Bollati Boringhieri, Torino 2008. Compendio esemplare di un capitolo tra i più frequentati del Novecento architettonico italiano. Compendio, perché riassume in 330 pagine un periodo del secolo scorso molto affollato di per­ sonaggi, eventi, idee e opere meritevoli di menzione. Esemplare, perché la sintesi di questo periodo di rilevante complessità interpretativa è operata con il ricorso al metodo della riduzione culturale. Melograni non cita esplicitamente questo concetto – proposto, peraltro, 37 anni or sono sulle pagine di questa rivista dal suo direttore – ma in concreto lo applica a tutta questa ricerca pro­ prio nel suo significato eti­mo­lo­ gico: reducere, cioè ridurre (ricondurre) un argomento ai suoi termini e significati primari e prioritari, quelli strutturali, sen­za i quali viene meno il nerbo concettuale dell’argomento stesso.

Quali siano per l’A. i caposaldi storici di questo “periodo eroico” è presto detto: Persico e Pagano, Terragni, Michelucci e la Stazione di Firenze, il Gruppo 7 con il seguito di mostre, esposizioni e riviste, le gran­di intraprese urbanistiche del regime, a Roma come nel resto d’Italia, il tema del Razionalismo. Materia certa e scelte ampiamente condivise, dunque. Nes­sun argomento ‘minore’ promosso al rango di evento storico di fondamentale rilievo, nessuna scoperta intrigante quanto criticamente bizzarra e scientificamente insostenibile. Quali siano i caposaldi storiografici del saggio è altrettanto presto a dirsi, per la conferma di consolidati giudizi – “complicato e ambiguo” fu il rapporto tra nuova architettura e fascismo – ma con una novità (quasi) assoluta che rende questo saggio (anche per questo) mol­to interessante: nessuna traccia di revisionismo critico e dunque nessuna indulgenza per il gruppo degli accademici, Piacentini compreso e prima di tutti, e per quello stile littorio che

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ha sedotto più d’uno storico propenso a concedere crediti progettuali del tutto impensabili fino a qualche decennio or sono. Una linea di demarcazione etica, ancor prima che estetica, attraversa il racconto del ventennio, esaltata e non sminuita dal sottotitolo del saggio che oppone il venturiano “orgoglio della modestia”, ripreso più volte da Pagano, all’architettura fascista, re­ torica perché monumentale. Due o tre i passaggi fondamentali del testo nei quali questa tesi è espressa con linguaggio pacato ma con intransigente assertività concettuale che più volte ritorna sul tema da sempre caro al Melograni che conosciamo, il primato cioè di un’architettura civile e sociale. Intanto, una premessa di carattere politico-culturale. L’avversione per l’architettura delle maggiori opere del regime fascista non ha avuto origine da pregiudizi ideologici dovuti a un’egemonia culturale esercitata dalla sinistra politica nel­ l’Italia del dopoguerra. Poi, un elemento di distinzione rispetto ad altre realtà progettuali. A differenza di altri paesi, da noi la più forte spinta iniziale a rinnovare l’architettura non è venuta dalla ricerca di soluzioni per esigenze pratiche, come il fabbisogno di abitazioni a basso costo e la necessità di migliorare gli ambienti di lavoro e di sviluppare le attrezzature di servizi sociali… Ne è conseguita l’importanza attribuita a singole opere appariscenti, men­ tre ci si è interessati molto meno di elevare la qualità media dell’edilizia. Infine, riproponendo il rapporto tra fascismo e

nuova architettura, l’A. scrive che quella cultura e quella politica trovarono un’indubitabile connessione nel monumentalismo di edifici rappresentativi del regime; mentre quando si costruirono case eco­nomiche, stabilimenti industriali, servizi che riducevano disuguaglianze tra i cittadini furono riconoscibili divaricazioni che si sarebbero allargate fino a divenire segni di rottura. Veniamo ora alla struttura del libro. Tre densi capitoli con note a piè di pagina e indice dei nomi finale. Documentazione fotografica in b/n adeguata al testo; di classica eleganza la copertina di Pierluigi Cervi. Per la bibliografia, si rimanda a quella contenuta nella Storia dell’architettura italiana / Il primo Novecento, di Ciucci e Muratore. Questa scelta di omettere la bibliografia non deve sorprendere. Per ben due volte nella Premessa, Melograni scrive che questo libro è un “resoconto” dell’architettura italiana durante vent’anni e più volte rileva in vario modo che “il mestiere dello storico non è il mio”, per giustificare il particolare taglio dato alla ricerca. È probabile che in quest’atteggiamento ci sia anche una giusta dose di understatement storiografico e tuttavia si avverte un piglio diverso nell’ordinamento dei materiali, nei giudizi, nella scrittura. A partire dalla titolazione dei tre capitoli – Architettura nuova, Architettura del potere, Architettura come servizio sociale – che sembrerebbe rimandare a una divisione quasi manichea dei materiali storici che invece nel loro ordinamento l’A. seleziona e ricompone con l’evidente finalità


di ribadire ancora una volta il rapporto “complicato e ambiguo” che il fascismo ha avuto con la nuova architettura. A fronte, infatti, della Stazione di Firenze – che resta l’opera più rappresentativa dell’architettura moderna nell’Italia tra le due guerre – vi era la Mostra della rivoluzione fascista a Roma del 1932 che doveva rappresentare la nuova architettura per antonomasia e nella quale invece persino Terragni, ripete Melograni con Persico, si era lasciato andare ad una “terremotata fantasia”. E ancora Terragni a Como, nella Casa del fascio del 1936, progetta un’opera sotto molti aspetti volutamente segnata dall’ambivalenza. Analoga situazione per uno dei capitoli più celebrati della politica urbanistica del regime e sul quale il citato revisionismo critico sem­ bra essere stato ancor più indulgente, cioè le città di fondazione. Giudizio negativo e senza appello per Littoria e altre esperienze similari; giudizio positivo, ma con molta cautela, per Sabaudia perché gli edifici hanno poco di “razionalista” e non riescono a sostenere la razionalità del disegno generale, manca cioè una connessione forte e coerente tra piano e pro­getti architettonici. Una storia – la storia movimentata di una minoranza che aveva un forte peso specifico – svolta nel segno costante delle contraddizioni che furono presenti nelle situazioni, negli uomini, negli architetti, dentro le stesse opere di quel periodo e che Melograni racconta con dovizia di riferimenti, mai tentando di dissimularle, mai astenendosi

dal prendere posizione. Ora e­spressa con elegante perifrasi, anche laddove è trasparente il suo reale e più crudo pensiero nel merito – il Palazzo del Littorio nel Foro Mussolini di Del Debbio, Foschini e Morpurgo è forse tra gli edifici costruiti in Italia il meno dissimile dall’architettura nazista di Albert Speer. Ora descritta con più lirica prosa nel caso di Villa Malaparte a Capri: Relitto d’un vascello sbattuto dalle ondate, nel quale possiamo riconoscere il simbolo del naufragio dell’ambizione manifestata dai «razionalisti», quando s’illudevano che sarebbe toccato a loro innalzare monumenti per tramandare la memoria del fascismo. Conclusione. Dei motivi critici che rendono questo libro originale in alcuni suoi aspetti e comunque sempre interessante, s’è ampiamente detto. Va aggiunto che la sua lettura è anche piacevole – espressione alquanto infrequente in recensioni di testi scientifici – sia per lo stile di scrittura che per una ben selezionata serie di citazioni. La più sulfurea non poteva essere che di Longanesi: I mendicanti di razza non chiedono mai l’elemosina davanti alle chiese di Piacentini. P. B. V. Gregotti, L’ultimo hutong. Lavorare in architettura nella nuova Cina, Skira, Milano 2009. Il tessuto storico di Pechino, di cui oggi sopravvive una mini-

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ma parte, è formato da case a corte, le siheyuan, e stretti vicoli, gli hutong, su cui le abitazioni si attestano. Il termine hutong è un vocabolo di origine mongola, fu adottato nella lingua cinese durante l’epoca dell’ultima dinastia imperiale, la dinastia Qing (1644-1911) proveniente dalle regioni più settentrionali dell’impero, e indica precisamente ed esclusivamente queste strette vie di Pechino. Se all’interno delle mura perimetrali delle abitazioni, la cui struttura stessa rispecchia l’organizzazione gerarchica della famiglia tradizionale cinese, si svolge la vita privata – della cui intimità i cinesi sono gelosi protettori –, è lungo gli hutong che i pechinesi si abbandonano a quelle abitudini ataviche che nei grandi spazi di concezione imperiale, maoista o postmoderna, non hanno mai trovato un ambiente adatto. Questi vicoli sono luoghi di socializzazione e di vita collettiva dove incontrarsi, parlare ma, anche, stendere i panni, cucinare o godere del­ l’ombra durante le calde estati. Chi però, leggendo il titolo dell’ultimo testo di Vittorio Gregotti, si aspettasse di trovarvi considerazioni su questi brani di città storica sopravvissuti alle demolizioni, o una riflessione intorno al rapporto pubblico-privato in una civiltà tanto distante, in rapida mutazione e poco conosciuta come quella cinese, sarà tratto in inganno da un titolo che troppo concede alla suggestione da best seller e poco riflette ­l’effettivo contenuto come l’intento del libro. Anche la prefazione di Federico Rampini, scorrevole e piacevole grazie allo stile giornali-

stico e lineare, sottolinea questioni di indubbio interesse – forse in alcuni casi quasi ovvie – che, pur emergendo nel testo di Gregotti, non hanno in realtà la centralità che parrebbero avere leggendo la presentazione. Non sembra, infatti, essere tanto l’ansia di rispondere a quesiti come la ricerca «dei valori del secolo cinese», o la «riscoperta di linguaggi e valori, forme e luoghi adatti per ospitare l’anima antica della Cina», a guidare le riflessioni dell’autore quanto piut­tosto, come afferma egli stes­ ­so, un interesse autentico di re­ lazione e dialogo con condizioni e tradizioni storiche e sociali molto diverse e in via di rapida trasformazione, che possono mettere in discussione le nostre stesse convinzioni progettuali e il loro stato di crisi. L’esperienza progettuale in Cina maturata dallo studio Gregotti Associati negli ultimi dieci anni fornisce all’architetto lo spunto per alcune riflessioni eterogenee che egli raccoglie in questo breve saggio e che sviluppa come un’interessante digressione intorno a temi che ben presto si distaccano dalla contingenza della situazione cinese per coinvolgere questioni più generali, interenti la teoria e la disciplina architettonica. Il libro si apre con alcune considerazioni e ragionamenti sulla storia e sulla cultura cinese: dalla filosofia, alla religione, ai rituali di fondazione della città, l’architetto segue e ricerca nelle vicende della Cina una con­ tinuità tra passato e presente, con l’intento dichiarato di sfuggire a deviazioni e mistificazioni che tendono a rendere irrin-


tracciabile (o solo folcloristico) l’immenso, prezioso, anche se forse oggi parzialmente ripudiato, patrimonio di una civiltà altra e profonda [tentando di] pensare la Cina ancora come civiltà anziché come nazione. La prima parte del testo è una lunga riflessione sulla cultura cinese, ricca di interessanti spunti e informazioni, ma che non sembra proporre in realtà né un’interpretazione della tradizione architettonica di quella nazione né un’analisi del fare architettura in quel paese oggi e che richiederebbe da parte del lettore una preliminare conoscenza delle questioni trattate per essere realmente efficace. In Italia, purtroppo, ad eccezione dei corsi di formazione specifici, la cultura e la storia cinese sono molto poco studiate e insegnate e questa situazione è ancor più marcata quando si ricerca documentazione specifica relativa alla disciplina architettonica e ci si scontra con un’evidente carenza bibliografica e una notevole scarsezza di traduzioni in lingua italiana di testi cinesi. Ciò è dovuto probabilmente al fatto che l’attuale attenzione che viene dedicata alla Cina nasce oggi più da interessi di tipo economico e come conseguenza dell’interesse che la Cina stessa per prima sta dimostrando nei confronti dei paesi occidentali, che da una curiosità di tipo culturale. Il progressivo aumentare di scambi e di collaborazioni ha reso particolarmente evidenti le difficoltà che caratterizzano questi stessi rapporti. Si tratta di difficoltà do­ vute a differenze linguistiche e culturali ma anche, crediamo, a una mancanza di una adeguata

conoscenza della cultura e delle tradizioni della Cina. Queste lacune diventano ancora più evidenti quando si tenta di interpretare le grandi trasformazioni in atto soprattutto nelle grandi metropoli cinesi e che appaiono al­ l’osservatore come veri e propri stravolgimenti Gregotti cerca, soprattutto nel­ la prima parte del testo, di ricomporre questa frattura nella storia urbana delle grandi città con una lettura del presente fatta attraverso l’analisi della storia e della cultura cinese. Tentativo arduo e ricco di interessanti riflessioni e informazioni ma che avrebbe potuto meritare una trattazione più ampia e approfondita. L’interpretazione dell’autore, in sostanza, si discosta da quella fatta da Rampini nella sua introduzione, dove i cambiamenti in atto vengono descritti come tragedie che hanno segnato in profondità l’esistenza quotidiana di questa città [Pechino] e hanno lasciato cicatrici nel­ l’animo dei suoi abitanti […] traumi successivi che hanno amputato la memoria storica del paese. Gregotti, invece, cerca di leggere queste stesse trasformazioni in continuità con la storia e la cultura cinese e ciò che vi è di traumatico, di rottura, lo imputa piuttosto a un atteggiamento che non trova tanto le sue radici nelle vicende della Cina quanto in quelle occidentali, nella globalizzazione e nella cultura mondiale contemporanea. Trattare il tema del fare architettura in Cina oggi diviene, quindi, per l’autore la base e il punto di partenza per riflessioni molto più ampie su temi quali la fatalità strutturale della bigness co­

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me unico valore che connette spazio e potere, la finanza globalizzata e la «crescita infinita» come prospettiva senza alternative o, ancora, il ruolo sociale dell’urbanistica come opposizione al junkspace e le differenze tra «globalismo e internazionalismo critico»; tutti temi che emer­gono nella prima parte del testo per poi trovare spazio nella sua sezione centrale, un «intermezzo architettonico» che, per quanto breve, pare costituire il vero scopo di questa tratta­ zione. Gregotti più volte sottolinea come la questione cinese sia per lui oggetto di interesse soprattutto nel momento in cui diviene occasione di verifica dell’architettura contemporanea nel suo in­sieme. Partendo da tali riflessioni la sua critica si rivolge a quegli atteggiamenti progettuali diffusi oggi che trovano nel testo di Rem Koolhaas (Junkspace, 2006), con cui egli si pone in chiara opposizione, la loro teorizzazione, o più propriamente il loro manifesto. Proprio questo modo di fare architettura, provocato in qualche modo dal mondo occidentale, caratterizza oggi in modo preponderante lo sviluppo delle grandi città cinesi e potrebbe avere importanti ricadute e influenze anche sul resto del mon­do. Un rischio questo di cui Gregotti individua già preoccupanti segnali, in Cina come in Europa: il dilagare degli «spazi spazzatura», la perdita di forza e fiducia nella pianificazione urbanistica, la costruzione di «monumenti che non hanno più nulla a che vedere con la storia dei cittadini» e il diffondersi di tante cose capricciosamente diverse

[che] producono il rumore indistinto dell’uniforme. La sua preoccupazione nasce dal constatare il diffondersi di un’architettura che diventa «design», un design letto da Gregotti in un’accezione profondamente negativa, un design che non è più progettazione di oggetti di produzione ma che vede come preminente la sua funzione simbolico-comunicativa, un design che trionfa sul disegno e sul progetto trasformando la forma della città e le architetture in oggetti, che rendono le città, di cui Shanghai con la sua Nanjing Road è un emblematico esempio, copie del­ la sce­nografia urbana di Blade Runner, dove ogni architettura è ridotta a sostegno pubblici­ tario. Intense, critiche e appassionate queste dieci pagine centrali de L’ultimo hutong sono davvero il cuore del testo, il suo significato e il suo scopo e questa densa riflessione lascia forse un po’ senza fiato il lettore quando si accinge poi ad affrontare la terza e ultima parte del volume. In que­ st’ultimo interessante e scorrevole paragrafo conclusivo Gregotti racconta, più che illustrare, la sua esperienza progettuale in Cina: dai progetti rimasti sulla carta, come quello per il nuovo complesso teatrale di Pechino o per il Palazzo Italia, a quelli in corso di realizzazione per la nuova città di Pujiang a sud del centro di Shanghai, a quelli futuri, tra cui il progetto di sistemazione per l’area del Bund nel centro di Shanghai. Un’esperienza «nello stesso tempo esaltante e deludente», spiega Gregotti, pro­prio in un importante momento di riflessione sull’archi-


tettura in generale, al di là dei risultati ottenuti. Sono tutti progetti che si sono sviluppati seguendo percorsi tortuosi, affrontando difficoltà legate non solo alle normali problematiche che seguono interventi di tali entità, ma anche a ostacoli linguistici, politici e culturali, dovuti a differenze che meriterebbero sicuramente oggi di essere oggetto di un maggiore interesse e di studi più approfonditi da parte dell’Occidente in quanto possono essere, come sottolinea Gregotti, un fondamentale momento di riflessione sul presente e, come suggerisce anche Renata Pisu (Il Drago Rampante, 2006) un punto di partenza per l’Occidente e l’Oriente per «reinventarsi, perché entrambi sono in preda all’incertezza del futuro». F. L. P. Tamborrini, Design sostenibile oggetti, sistemi e compor­ tamenti, Electa, Milano 2009. Viviamo nella cosiddetta società del benessere, dove lo shop­ ping è un passatempo nazionale, un’attività ricreativa che dà significato alle nostre vite. Ma anche un’attività assassina e nociva per l’ambiente. La comunità si è resa conto del surplus di oggetti e rifiuti che produce quotidianamente, nonostante sia informata sui pericoli ambientali in cui incorre la società consumistica, causa primaria dei danni provocati all’ambiente. In effetti non possiamo ancora ritenere sod­­disfacenti i termini di chiarezza, informazione e soprattutto legislazione attuati nel campo

della tutela ambientale. Il dibattito scientifico su tali tematiche è in auge dagli anni settanta ma, a distanza di quasi quarant’anni, i risultati sono timidi e impacciati, sebbene oggi i termini riuso, riciclo, energie rinnovabili rientrino nel vocabolario comune. Che ruolo hanno il design e i designer in questo panorama così complesso? Essi possono assumere un ruolo chiave per comprendere i mutamenti in atto e modificare i comportamenti di una società, così come sostiene Paolo Tamborrini. Il ruolo del design in campo ambientale viene finalmente affrontato, chiedendo alla disciplina di porsi come modello in grado di modificare l’indifferenza generale ver­ so le condizioni ecologiche, ispirando comportamenti eticamente corretti, verso un’educazione più responsabile del consumatore finale. Per renderlo possibile è necessario mettere in discussione alcuni fondamenti del design con­temporaneo, rivedendo la classificazione che per lungo tempo ha differenziato il design dall’ecodesign […] il progetto deve andare nella direzione unica della sostenibilità del processo produttivo, del prodotto e dei comportamenti che quest’ultimo saprà innescare. Il dibattito intorno al ruolo della disciplina nello sviluppo di oggetti compatibili viene indagato attraverso la consapevolezza che design e, quindi, designer, imprenditori, comunicatori, distributori e utenti finali possono avere un ruolo davvero importante per lo sviluppo sostenibile. La figura del designer assume così un ruolo fondamentale in questo panorama complesso,

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perché è chiamato «oltre a concepire oggetti sostenibili, a indurre comportamenti sostenibili all’interno di rinnovati scenari di vita». Il progettista deve sicuramente porre la questione ambientale a monte di un buon progetto, fin dalle prime fasi ideative, non a valle, andando al di là delle mode correnti. È essenziale perciò ripensare ad alcuni principi dell’innovazione e del «buon design», come la funzionalità, la cultura, la tecnica produttiva, il simbolismo e indirizzare il progetto verso un’e­ tica attenta alla qualità della vita e degli artefatti umani, al­ l’interno di un ecosistema com­ plesso e sensibile. Leggendo que­ste parole, la nostra mente non può non indugiare sulle figure di Enzo Mari e Bruno Munari, designer di fama internazionale ed esempi magistrali per studenti e progettisti. Hanno modificato il concetto stesso di design, trasportandolo verso l’ecodesign: rispondere alle esigenze reali, ottimizzare il processo pro­ duttivo, ridurre i materiali costitutivi del prodotto utilizzando quelli riciclabili. Il tutto puntando alla riduzione dei costi e alla democratizzazione dell’oggetto. Il design degli oggetti può rivedere l’intero sistema culturale odierno, orientandolo verso il bene dell’ambiente, passando da ciò che è meramente attraente ver­so ciò che è giusto. Le esigenze ambientali sono quindi diventate prerequisiti del design contemporaneo e i progetti futuri dovranno scaturire sempre più dallo studio delle richieste funzionali, semantiche ed ambientali che possono nascere dal rapporto tra l’uomo e la terra su cui

vive. Possiamo affermare che il design (e i designer) di seconda generazione possono sin­ tetizzare creatività e rigore esigenziale agendo responsabilmente sul prodotto, in relazione al rapporto tra produzione, consumo e ambiente. Questa trasformazione è dovuta anche all’evoluzione del mondo dei consumatori. Anche il consumatore finale infatti si è dimostrato più attento e consapevole dei suoi acquisti e comportamenti. Numerose ricerche dimostrano un aumento dei consumatori che preferiscono acquistare prodotti certificati Ecolabel piuttosto che oggetti derivanti da imprese non corrette in termini ambientali. La percentuale è ancora molto bassa (attorno al venti per cento) ma è destinata ad aumentare. Non si tratta solo di ridurre gli acquisti o di operare delle scelte critiche ma si tratta anche di semplici atteggiamenti, che vanno dall’esimersi dal buttare un pezzo di carta per terra, al rispetto e alla cura degli oggetti propri o da condividere. Se i consumatori, oltre ai progettisti, sentono la necessità di rivedere i propri atteggiamenti e comportamenti nel rapporto con la terra, le aziende sono chiamate a rivedere il loro ruolo e tutte le teorie e i modelli di sviluppo consumistico sulle quali si basano. Si apre un nuovo scenario: di primo acchito si è indotti a pensare che l’aspetto consumistico neghi di fatto l’aspetto ecologico. Eppure, seguendo una filosofia ecologicamente corretta, si possono aprire nuove opportunità imprenditoriali. Bisogna comprendere che l’interesse per la


tutela ambientale, l’essere sostenibili, non è per forza in conflitto con i volumi di vendita. Proteggere l’ambiente è una sfida che vale la pena di raccogliere: può portare ad un miglioramento d’immagine, ad una riduzione dei volumi e ad un maggior profitto. Le stesse aziende si rendono conto di quanto la sostenibilità sia per loro in realtà un’opportunità da sfruttare: basti pensare alla possibilità di minimizzare i costi delle risorse oppure alle occasioni di innovazione che la sostenibilità stessa promuove. Nella condizione contemporanea è consolidato il fat­to che una progettazione che segua le logiche o le linee guida della sostenibilità ambientale comporti quasi sempre anche risparmi e vantaggi in termini economici per le aziende produttrici. Quando poi la collaborazione fra designer ed aziende avviene ed è innovativa e rivolta alla sostenibilità, assistiamo alla creazione di un buon progetto, in grado di porsi come modello per il futuro, prefigurando nuovi scenari. Lo dimostrano la serie di oggetti presentati nel libro: si comprende, attraverso la lettura delle schede che accompagnano ciascun oggetto, che il progettare sostenibile non è affatto una chimera ma è davvero possibile. Fin dall’inizio, la carrellata di oggetti di design ecosostenibili ci sorprende: l’excursus non inizia con un prodotto super tecnologico e all’avanguardia, bensì con una semplicissima graffetta metallica progettata nella prima metà del ventesimo secolo. Esem­ pio massimo di semplicità, flessibilità e buon design. Successi-

vamente compare il famoso I Pod di cui tutti abbiamo almeno una copia, al quale va il merito di aver ridotto il numero di supporti digitali su cui imprimere i files. Oppure, il ghiacciolo Liuk che effettivamente riduce al minimo i rifiuti, con lo stecco in liquirizia commestibile. O ancora, il vasetto in vetro della Nutella nazionale, riutilizzabile come bicchiere una volta consumata la deliziosa crema. Ovviamente sono presenti anche prodotti del calibro della lampada Falkland di Bruno Munari, progettata per Danese nel 1964, manifesto della semplicità come sinonimo di sostenibile. Fino ad arrivare al noto Ecofrigo progettato da Dominique Perrault e Gael­le Lauriot-Prèvost (200001), il quale sfrutta il calore dell’elettrodome­stico per imbastire una serra casalinga. Questi sono solo alcuni dei prodotti presentati nel libro: alcuni appartengono ad un’era solo apparentemente lontana, altri compaiono nel nostro quotidiano senza che ne siano consapevoli, altri ancora invece sono proiettati nel­l’immediato futuro. Come consumatori, Tamborrini non ci invita a comprare di meno per essere ecosostenibili. Ci induce a ragionare maggiormente sulle scelte che compiamo, adottando un comportamento responsabile: in questo senso è importante conoscere le proprie abitudini di consumo ma soprattutto informarsi ed essere critici nei confronti delle scelte che operiamo. Come progettisti, dobbiamo invece ricordarci che un buon progetto non può esimersi dalle que­ stioni ambientali. La tutela del­ l’ambiente non deve essere solo

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un trend o una moda da seguire, piuttosto un elemento imprescindibile del design, un pre-requisito, un modo di pensare alle cose e le cose in grado di modificare la percezione di un’intera comunità. Nella speranza, ovviamente, che l’ambientalismo non diventi un fenomeno di massa o una moda passeggera ma un vero e proprio cambio di coscienza della società intera. F. L. Anthony McCall. Breath. Milano, Hangar Bicocca, 20 marzo-21 giugno 2009.

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È buio l’Hangar Bicocca. Sem­ bra fermo, spento. Nell’enorme struttura industriale, in precedenza appartenente al Gruppo Ansaldo come sede produttiva delle bobine per i motori dei treni elettrici, è rimasto ben poco di antichi rumori macchinici e di lavoratori instancabili. Ciò che perdura sono 15000 metri quadrati sgomberati, e un grande silenzio panico. Qui dal 2004 si fa l’arte contemporanea, quella che a Basilea definiscono Unlimited, ovvero su larga scala. Lo spazio immenso, praticamente unico in Europa per il suo volume, richiama l’attenzione di quegli artisti a cui piace lavorare site-specific. Entrando nell’hangar ecco venirci incontro, da lontano, l’apparizione dei sette palazzi celesti di Anselm Kiefer, potenti e decadenti allo stesso tempo, pensati per Hangar Bicocca e così ben riusciti da entrare poi nell’immaginario comune come simbolo dello spazio espositivo stesso, che ha deciso di custodirli per

sempre. È da questo strano limbo sognante che si accede alla personale di Anthony McCall, cu­rata dalla giovanissima Serena Cat­taneo Adorno e pensata per oc­cupare quasi completamente una delle navate laterali dello spazio espositivo. Artista statunitense conosciuto già dagli anni settanta per le sue prime performance di luce, da lui definite Solid Light Films (film di luce solida), McCall fa parte di quella classe di artisti che ha scelto di articolare tutto il suo pensiero attraverso un’unica costante, che in lui è la Luce. Po­trebbe sembrare un tema obsoleto ma nelle sue opere l’elemento scelto si fa pura materia gravitazionale, a cui siamo chiamati a partecipare. Nato in Inghilterra nel 1946 e residente a New York dal 1973, l’artista e­sordisce con una serie di performance al­l’a­perto dove il fuoco è usato come materiale scultoreo (Landscape for Fire, 1972). Sarà questo elemento naturale a diventare poco dopo l’incipit per la riflessione sulla luce proiet­ tata. All’Hangar Bicocca l’allestimento non si manifesta, o meglio, le opere ordinano e allestiscono lo spazio stesso. L’ingresso è nel buio più totale, la camminata è incerta, le mani avanti proteggono da un possibile urto. Poi, lentamente, qualcosa appare, ma è necessario che l’occhio si abitui alla scura opacità perché questo succeda. Il primo a comparire è il ronzio dei proiettori digitali, che da poco hanno sostituito, nelle opere dell’artista, quelli a 16 mm. Poi ecco il primo cono argenteo: la calma scende lenta nella gente che en-


tra, che sente a voce alta, poi piano resta in ascolto. Sa di sogno. In un attimo tutto è svelato e sette coni di luce, come Tipi indiani posizionati in sequenza, occupano in senso longitudinale la navata laterale dell’hangar, mostrandosi come una successione di porte celesti. Sette le proiezioni, sei i lavori. Nel centro si colloca l’unica opera binaria, intitolata Between You and I (2006), quasi a segnalare il rapporto inscindibile che sottende opera e spettatore. Dopo aver messo a fuoco l’insieme, un paesaggio abissale, ci si accorge che c’è qualcosa di instabile, di mobile, drammaticamente vivo in queste tende di luce. Si capisce guardando l’unica superficie per­ ce­pibile, il pavimento. Le impronte, così McCall definisce le proiezioni stagliate sulla superficie calpestabile, si muovono. So­ no forme che respirano, come suggerisce il titolo della mostra, che si espandono e si ritraggono con tempi diversi, così da evocare una dimensione profondamente umana. È questo uso della metafora che rende il lavoro indimenticabile, una perfetta esecuzione tra Dio ed elettronica: Ovviamente non cerco di realizzare immagini o modelli che rappresentano figure, ma se si lavora con un certo tipo di movimento, o si compone a coppie, o si scandisce il tempo in cicli, si sta già facendo qualcosa di vagamente fisico. Fondamentalmente quello che succede con le forme ellittiche in movimento in tutti i miei film più recenti è l’idea del respiro, cioè la dilatazione e la contrazione di un volume (dall’intervista all’artista di Tyler Coburn,

in «KultureFlash», n. 230, gennaio 2008). In realtà il respiro si registra anche nella «membrana» (termine utilizzato da McCall per indicare la proiezione di luce). Una volta entrati nella cortina luminosa, lattea, la cui consistenza è il vapore nebulizzato dalle macchine per foschia artificiale sapientemente posizionate, il corpo tende a piegarsi alla conformazione della stanza o della «ca­ mera» (altro termine caro all’artista), che costantemente ne ridisegna pareti e passaggi. La luce qui esprime il solido, l’idea di parete, di non attraversabile. E allo stesso tempo percepisce la metamorfosi dello spazio, sentendosi solo, schiacciato, avvolto, innalzato, chiamato, mosso, inglobato, registrando sensibilmente la lenta e fluida variazione di forma. Quando le impronte sono sagome aperte, la membrana lascia intravedere un accesso, a cui siamo chiamati. Dentro, poi fuori, come accompagnati nel buio da attraversare nuovamente per raggiungere l’opera successiva. Ogni cono è alto quasi 10 metri, e la sua base è contenuta in una larghezza massima di 4,6 metri. Anche l’oscurità è parte del progetto, ovvero nelle indicazioni tra i disegni a matita di McCall si leggono, oltre alle dimensioni delle proiezioni, le distanze ideali e necessarie tra una e l’altra. Ciò che interessa all’artista è controllare la dimensione umana, a lui tanto cara anche in tutti i lavori che precedono quelli esposti. A riguardo, è piuttosto nuova nella poetica dell’autore la dimensione verticale, visto che fin dalle prime installazioni la proiezione

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prediletta è stata quella orizzontale. Come intuisce Hal Foster, si registra un importante cambiamento in questi lavori verticali: se i lavori orizzontali duplicano l’orientamento comune sia della proiezione cinematografica, sia del nostro punto di vista, qui il riferimento a cinema e visione è praticamente inesistente, e il ruolo del corpo è tanto più profondo come risultato (Hal Foster, LightPlay, testo critico contenuto nel catalogo della mostra Anthony McCall. Breath, Corraini, Mantova 2009). È con questo cambio di orientamento che il lavoro di McCall passa dall’essere cinematografico ad architettonico: il film diventa stanza, la rappresentazione diventa messa in scena, tanto da permetterci di indagare un preciso stato poetico dello spazio in sé. In questo modo è consono far rientrare l’origine del lavoro dell’artista nel dibattito che ormai quarant’anni fa aprì Rosalind Krauss, introducendo il concetto di campo espan­ so della scultura, cruciale per la cultura architettonica, dato che sanciva il passaggio dalla materia allo spazio. È all’inizio degli anni Settanta a New York, dove lui si trasferisce nel ’73, che si sperimenta il campo allargato da parte di quegli artisti che oggi chiamiamo post-minimalisti (Rachel Whiteread, Gordon MattaClark, Anish Kapoor, Wolfang Leib, Felix Gonzales Torres e mol­ti altri), che vengono amati per la capacità di rappresentare il sublime utilizzando la realtà come paradigma, intrisa di case, di cose, di corpi. Ma allo stesso tem­po, per sostenere definitivamente il lavoro di McCall, è ne-

cessario raccontare che negli stessi anni si faceva spazio il cinema strutturalista e che diversi autori, come Robert Morris, Richard Serra e Robert Smithson, cominciarono a sperimentare la dimensione scultorea della proiezione in pellicola, vedendo nei primi lavori di McCall una rivelazione assoluta che spinse sia Matta-Clark che Serra a condurre un intero pensiero sull’idea dell’esperienza dell’opera come spazio esistenziale. Line Describing a Cone (1973) è il primo della serie dei Solid Light Films, concepito nel momento in cui l’artista, studiando la meccanica di proiezione della pellicola, osserva che il fascio di luce presenta un volume tridimensionale che può essere indagato come nuovo strumento di relazione spa­­ziale. L’e­sperienza dei suoi film di luce solida, sia i primi, sia i più recenti, sebbene intensa e coinvolgente, non è sublime o schizoide: essa è, per quanto intima e contemplativa, un’e­spe­rienza sociale e interattiva in modo autenticamente «relazionale». Queste qualità hanno da­to al suo lavoro una rinnovata importanza e raddoppiato la criticità della pratica contemporanea del fac­ cia a faccia. Le opere esposte sono in gran parte inedite e prodotte tra il 2004 e il 2009: Breath I e Breath II (2004), Breath III (2005), Bet­ ween You and I (2006), Coupling (2009) e, concepita e prodotta e­spressamente per Hangar Bicoc­ ca, Meeting you Halfway (2009). Un rinnovato interesse negli ultimi cinque anni per il lavoro di Anthony McCall è evidente nella presenza di sue opere in


una moltitudine crescente di mostre in musei e gallerie a livello internazionale: il Whitney Museum e il Museum of Modern Art di New York, la Tate Britain e la Serpentine Gallery di Londra, e poi il MACBA di Barcellona, l’Hamburger Bahnhof di Berlino e ora l’ingresso in Italia grazie all’Hangar Bicocca di Milano. E pensare che per più di vent’anni ha vissuto nel buio, lontano dai riflettori del mondo dell’arte. Poco capito, troppo po­ co altezzoso, un «umanista materialista», come lo definisce Hal Foster. Di certo genio, che per veder realizzati i suoi sogni ha dovuto aspettare che la tecnologia avanzasse. La mostra è accompagnata da un catalogo illustrato con testo critico di Hal Foster e la curatela di Serena Cattaneo Adorno, pubblicato da Edizioni Corraini (2009). A. R. Magnificenze e Progetto. Cinque­ cento anni di grandi mobili italiani a confronto. Milano, Palazzo Reale, 22 aprile-21 giugno 2009. Un singolare confronto all’a­ me­ricana tra universi paralleli. Con la mostra Magnificenza e progetto si è tentato di indagare la cultura materiale dell’arredo domestico attraverso una rilettura libera, e non strettamente cronologica, tra il mondo classico e quello del design italiano della seconda metà del XX secolo. La mostra, tenutasi a Palazzo Reale in occasione del Salone del Mobile 2009 e promossa dalla fon-

dazione Cosmit in collaborazione con il comune di Milano, ha proposto una serie di arredi italiani compresi in un intervallo di tempo di circa cinquecento anni attraverso una virtuale posizione d’osservazione L’ordinamento della mostra, messo a punto da Enrico Colle per la parte classica e da Manolo De Giorgi per la parte contemporanea, ha fluidificato la sequenza espositiva in nove gruppi tematici cronologici, ognuno dei quali allestito in una o più stanze del palazzo. L’esposizione introduce l’origine e lo sviluppo degli stili moderni partendo dal cinquecento, prosegue alternando le magnificenze barocche e i maestri dell’intarsio, lambisce i piaceri della sorpresa Rococò e si conclude con la grande solennità dello stile impero. Parallelamente a questa carrellata discontinua di archeologia d’arredo (manca tutto l’ottocento), prendono corpo una serie di forme e di arredi appartenenti all’universo del progetto contemporaneo. Il complicato intreccio di questi due mondi posiziona i propri significati in gruppi o famiglie tipologiche che spesso ne svuotano il valore espressivo o progettuale, indagandone prevalentemente aspetti pseudo-formali più che tipologici. Questa posizione di confronto, feconda nella quantità e nella qualità degli oggetti presentati, incide troppo su uno scomodo vantaggio che tralascia la modalità storico culturale del cambiamento come chia­ ve interpretativa degli intervalli presi in considerazione. Fare riferimento a specificità tematiche, a determinati lassi temporali o a modalità tecniche di lavorazio-

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ne, attinge invece ad una volontà di ricostruire, anche sinteticamente, le tematiche socioculturali di rapporto tra le sequenze considerate. Questa astrazione, cro­nologica e poco storica, è ambiziosa nell’intento, ma non si compie nel risultato. Non riesce infatti ad attraversare con piacevole leggerezza il panorama di una serie così ricca di cambiamenti e variabili. Anche l’allestimento, nella sua dimensione comunicativa, fatica a sostenere una chiave di lettura libera e virtualmente trasversale, nonostante riesca a definire dei dispositivi scenici di buona capacità espressiva. Gli arredi classici sono messi in scena su una sequenza di trentuno piattaforme in ferro ossidato poste su ruote, mentre i mobili del novecento vengono racchiusi da una serie di velari che ne svelano e ne nascondono la natura in funzione di una sorgente di luce a intensità variabile. La messa in scena, curata da Mario Bellini, risente di una metafora teatrale troppo spinta sul piano formale e visivo. Se convince la scelta di appoggiare liberamente i mobili dell’antichità su di un piano tecnico con fondale, per sdrammatizzare il legame con le antiche stanze del Palazzo, poco funziona la voglia di fasciare drammaticamente il mobile del novecento all’interno di una serie di pianerottoli circolari occultati da uno schermo di garza. Questa necessità di allontanare le serie di oggetti, ancora troppo vicini al nostro tempo, con un «effetto teatrale», non rie­ sce a restituire una visione diretta e decifrabile. Gli stessi prodotti, posti all’interno di questo

spessore effimero, non sempre riescono a costruire una relazione simbiotica e corretta con lo spazio in cui vengono inseriti. Le luci variabili, la ricerca di neutralizzazione della stanza contenitore, la libera disposizione dei pesanti piani metallici, la complessità formale dei velari, appartengono al mondo del teatro ma non riescono a trasformare lo spazio in una scena compiuta. I cinquantasei capolavori d’arredo classico si percepiscono come dei preziosi oggetti in cui riconoscere, come in un gioco enigmistico, le affinità con una serie di oggetti contemporanei raccolti e riuniti in una massa compatta, a volte accattivante, ma non sempre utile alla lettura completa degli oggetti. La problematica del confronto si trasforma in un campo difficile da praticare e soprattutto da raccontare. Come connettere una dimensione magnifica e preziosa dell’antico, con la natura seriale e solitaria di un oggetto non più comandato o richiesto da un principe a da un nobile cultore? Come risolvere la presenza di una serie di oggetti che nella loro natura di elementi sperimentali hanno costituito uno scenario trainante per la dimensione progettuale, pur non appartenendo ad una larga base d’utenza o a un cambiamento del comportamento domestico? Citando il curatore Manolo De Giorgi: che cosa sta in mezzo a questo confronto di estremi così lontani? … Rispetto a quel mondo concettualmente omogeneo si sarebbe potuto parlare più facilmente di evoluzione, mentre le portata della rottura epistemologica che


si è creata tra il modo di produrre manuale del XVI secolo e l’età industriale è tale da stimolare altri tipi di raffronto. Se questo raffronto è così palese e nitido nella storia del design, sfugge la scelta di combinare per affinità, assonanza, citazione o frattura, i mobili ideati a partire dalla produzione delle corti italiane del cinquecento, con gli ultimi cinquant’anni del mondo del progetto, innescando una violenta lettura troppo metaforizzata e priva di un proprio carattere espressivo. La presa di distanza da una interpretazione evoluzionistica dovrebbe aprire una riflessione più ampia ed energica sul ruolo dell’identità dell’oggetto d’arredo, e presentarlo in relazione ai grandi sistemi della cultura materiale e ai modelli di riferimento che ne hanno alimentato la dimensione progettuale. Trovare le differenze formali, più o meno evidenti, più o meno divertenti, non risponde ad una lettura interpretativa capace di evidenziare le condizioni oggettivamente difficili di un mondo del progetto contemporaneo sviluppatosi tra crisi e discontinuità. L’oggetto d’arredo italiano, se considerato alla base di una propria cultura materiale, nella sua continua tensione progettuale tecnica ed estetica, ha conservato il senso di una pulsione straordinaria. Questa spinta è capace di riferirsi e rimandare incessantemente ad una serie di scenari come veri e propri modelli di riferimento, ognuno portatore di una tipica testimonianza espressiva. Questo processo, spesso come uno specifico sconvolgimento ambientale, ha ino-

culato nell’oggetto d’arredo l’e­ tica e il comportamento anche prima della tanto elaborata rivoluzione industriale, esaltandone lo splendore tecnico, critico e soprattutto estetico. Questo faccia a faccia aiuta però a prendere atto di come il tempo abbia una struttura più logica che non cronologica, come asserisce giustamente lo stesso Manolo De Giorgi nel catalogo della mostra edito da Skira. Infatti è chiaro come la portata dei cambiamenti degli ultimi sessant’anni si confronti in maniera impari con una fetta temporale composta da altri tre secoli, lasso di tempo segnato da una serie di invarianti comportamentali e costanti morfologiche che dichiarano una relativa velocità del mondo dell’arredo. Lentezza che non può essere sottovalutata se paragonata alla velocità rigeneratrice del moderno. La solida magnificenza dichiarata nel titolo, mantiene incisività attraverso i ricercatissimi pezzi presentati, ma perde consistenza se confrontata con il mondo del progetto contemporaneo, in cui si legge chiaramente una voglia di riforma estetica del mon­do costruito e progettato, ma dove non viene indagata la problematicità del contesto socio politico dell’Italia del XX secolo. Problematicità che ha dato vita ad una sperimentazione tecnica, artigianale e al contempo industriale, capace di porsi come una vera e propria rifondazione estetica democratica lontana dalla bellezza e dalla meraviglia di senso classico. La vera cifra che accomuna i due universi rimane comunque la natura tipologica dell’oggetto,

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spesso confusa con la valenza formale, ma riconoscibile e individuabile agli occhi dei più. Con i suoi procedimenti litografici, il cassettone di Piero Fornasetti, che avvicina la propria natura de­corativa ad un testo letterario, si approssima per tipologia ai cassettoni intarsiati con ebano e pietra del periodo rococò. Un robusto tavolo con traversi del 1731 di Pierre Daneu si confronta con una tipologia similare creata da Andrea Branzi negli anni ottanta, dove un moderno tavolo con zampe di gazzella, reso solidalmente strutturale da un gran­de cilindro centrale, è controventato come le basse traverse dei tavoli settecenteschi. All’interno della dinamica e­spositiva alcuni progettisti più di altri dialogano con le tipologie storiche presenti, il caso di Ettore Sottsass è l’esempio più significativo. Alcuni suoi arredi, come inattese presenze mistiche, spingono al di là di ogni riferimento temporale il valore arcaico e misterico della propria natura, scavalcando ogni retaggio della nostra cultura razionalista novecentesca. Il riferimento scul­ toreo e simbolico ricostituisce la sintesi di una ricerca sull’habitat, fatta di riferimenti materici e strutture attrattive che ben confrontano la contemporaneità con le tipologie storiche superandone il «fatto formale». La stessa consolle Tartar, dispositivo bifrontale dall’estetica decostrutti-

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vista, porta il mobile a spingersi in mille direzioni, costruendo piani, altezze, propaggini e gambe di natura diversa, coniugando colori e materie differenti proprio come nell’intenzione barocca, dove lo stupore e il dinamismo ricostruivano una serie di relazioni inattese con l’intorno. I suoi oggetti aprono infatti quel contraddittorio culturale, linguistico e operativo, che nella ricerca di una identità si distanziò dal funzionalismo cercando una libertà più simile a quella della magnificenza classica. Di grande forza poetica si pre­ senta la sala conclusiva dell’intero percorso, dove un grande schermo lascia spazio alla presenza virtuale di due grandi attori: Gerard Depardieu e Sergio Rubini. Attraverso una personale e leggera conversazione tra differenze che caratterizzano Italia e Francia, introducono il tema della bellezza, della civiltà, della politica e dell’abitare, restituendo un’idea di territorio culturale in cui la produzione contemporanea ha la capacità di muoversi. Il sorprendente confronto rilancia in maniera incisiva il tema del rapporto tra l’uomo e l’oggetto d’arredo attraverso una serie di poesie, brevi saggi e stralci di celebri romanzi recitati dai due attori, inserendo quella componente umana e vitale assente negli oggetti muti delle sale precedenti. D.F. C.


Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 1.  Le «Nuove Iconi» e la «civiltà del consumo» - Architettura utopistica - La sociologia dell’arte dei sociologi - Esperienze della Biennale - Tecnologia e poetiche contemporanee - Nouveau roman e arti figurative - Il Gaudi di Pane (fascicolo esaurito) N. 2.  Design e mass media - Gestalt prima e dopo - L’estetica neonaturalistica di Romanell - Della Pop Art e di una mostra a Vienna - La poetica urbanistica di Lynch - Semantica dell’arte - Architettura come linguaggio (fascicolo esaurito) N. 3.  Architettura e cultura di massa - Alcuni temi dell’Informale - Kunstwollen e intenzionalità in E. Panofsky - Dal pragmatismo alla fenomenologia - Libri, riviste e mostre N. 4.  La critica discorde - S.K. Langer, L’influenza sociale del design - T. Munro, Recenti sviluppi dell’estetica in America - G. Veronesi, Sull’architettura del secolo - L. Vinca Masini, Le mostre dell’estate ’65 - Libri, riviste e mostre N. 5.  I criteri di valutazione dell’arte contemporanea - Una politica culturale per i socialisti - Il visual design - Pareri sulla IX Quadriennale - Libri, riviste e mostre N. 6.  Il disegno di architettura - J.P. Hodin, Esiste un’estetica dell’arte moderna? - Alcune voci dell’urbanistica contemporanea - Breve antologia delle ultime Biennali - Libri, riviste e mostre N. 7.  Note per una semiologia figurativa - W. Hofmann, Gli inizi dell’attività formale - E. Garroni, 33a Biennale di Venezia: «jeu» e «sérieux» Libri, riviste e mostre N. 8.  Artisticità dei mass media - B. Jessup, Arte e storia - Il design scientifico di Alexander - Incontri di studi urbanistici - Libri, riviste e mostre N. 9.  Il pensiero estetico di Adorno - 4 artisti scelti da Barilli - A. Vivas, Filosofia della cultura, estetica e critica: alcuni problemi - Libri, riviste e mostre

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N. 10.  Il premio IN/ARCH alla nostra rivista - R. Barthes, Semiologia e urbanistica - Nuove idee per la Gescal - Il metodo scientifico nella pianificazione - G. Veronesi, Su alcune mostre dell’estate italiana - Libri, riviste e mostre N. 11.  G. Morpurgo-Tagliabue, L’arte è linguaggio? - Urbanistica e arti visive oggi - Valori ed obiettivi nella pianificazione - Libri, riviste e mostre N. 12.  Tre contributi alla semiologia architettonica - E. Garroni, L’eterogeneità dell’oggetto estetico - V. Corbi, Questioni di estetica empirica - A. Perez, Riflessioni di uno scultore sul tema dello spazio - Libri, riviste e mostre N. 13.  L’«environmental design» e il suo insegnamento - Per una teoria dell’architettura - L’estetica del «pensiero negativo» in Marcuse - Libri, riviste e mostre N. 14.  La prossemica: un nuovo apporto all’architettura? - La poetica dell’arte povera - Note sull’Università e la professione - O. Ferrari, Una Biennale rimasta senza giudizio - Libri, riviste e mostre N. 15.  I problemi dell’istruzione artistica - R. Segre, Presenza di Cuba nella cultura architettonica contemporanea - Architettura fra retorica e logica - Libri, riviste e mostre N. 16.  Significanti e significati della Rotonda palladiana - G. Dorfles, Valori iconologici e semiotici in architettura - Attualità della retorica - Libri, riviste e mostre N. 17.  Il centro della città (definizioni) - M. Tafuri, Ambiguità del Guarini - Lettura storico-semiologica di Palmanova - Libri, riviste e mostre N. 18.  L’architettura per l’Università - E. Garroni, Semiologia e architettura. Alcuni problemi teorico-applicativi - Recenti contributi allo studio dell’«environmental design» - Libri, riviste e mostre N. 19.  Segni e simboli del tempietto di Bramante - Note sull’immaginario in Filarete - Philip Johnson: la funzione della maschera formale - Biennale/ ricerca - Libri, riviste e mostre N. 20.  Utilità storiografica di una dicotomia linguistica - Meaning in Architecture - La cultura di Le Corbusier - New Towns (definizioni) - Libri, riviste e mostre N. 21.  Note per una epistemologia della rappresentazione visiva - G. Bonsiepe, Panorama del disegno industriale - Per una poetica del profondo: Blaue Reiter - Libri, riviste e mostre

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N. 22.  Nomi, luoghi, immagini di città nella «Recherche» di Proust - U.


Eco, Analisi componenziale di un segno architettonico - Percezione ed esperienza estetica - Libri, riviste e mostre N. 23.  La «riduzione» culturale - Libri, riviste e mostre N. 24.  «Arquitectura, historia y teoria de los signos» - Note di terminologia semiotica - Il design: processo e fruizione - Il «silenzio» dell’architettura contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 25.  Note sull’arte concettuale - L. Benevolo, La recente storiografia della città - Lo storicismo e i confini della semiologia - Città-pubblicità: sul caso Las Vegas - Libri, riviste e mostre N. 26.  La «riduzione» culturale nella progettazione architettonica - R. Barilli, Le due anime del concettuale - G. Morpurgo-Tagliabue, Commento alla «riduzione» culturale - L’antidesign - Libri, riviste e mostre N. 27.  Altri aspetti della «riduzione» culturale - Interventi: G. Dorfles, Riduzione ad oggetto, riduzione a progetto - P. Fossati, Riduzione o trasformazione? - T. Llorens, Sul concetto di comunicazione estetica - Libri, riviste e mostre N. 28.  Elementi semiotico-progettuali d’architettura - M. Krampen, Dalla semiologia della comunicazione alla logica degli strumenti - Libri, riviste e mostre N. 29.  Per una lettura semiotica della prospettiva - Elementi di una tendenza dell’architettura italiana - XV Triennale - Libri, riviste e mostre N. 30.  Problemi di semiotica dell’arte contemporanea - B. Zevi, Sei postille su «Il linguaggio moderno dell’architettura» - Alcune opinioni sull’iperrealismo - Libri, riviste e mostre N. 31.  Elementi della progettazione scientifica - Il segno indefinito della semiologia urbanistica - Note sulla cultura a «mosaico» - Arbitrarietà e motivazione del linguaggio architettonico - Libri, riviste e mostre N. 32.  L’eccentrismo, un momento della avanguardia sovietica - U. Eco, Chi ha paura del cannocchiale? - Nota sul segno urbanistico - I segni e le «figure» del Padiglione di Barcellona - Libri, riviste e mostre N. 33.  Architettura come istituzione - Il «ritorno» alla pittura - Università: le parole e le cose - Libri, riviste e mostre N. 34.  Dall’estetica alla semiologia - La teoria di Hjelmslev e l’architettura: alcuni problemi - Il «realismo» di Giuseppe Samonà - Libri, riviste e mostre N. 35.  Attualità dell’iconologia: alcune questioni metodologiche - R. Ba-

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rilli, Difficoltà di un approccio semiotico alla culturologia - L’editoria architettonica - Libri, riviste e mostre N. 36.  I centri storici nella prospettiva semiologica - Le idee di teatro, oggi - Una riproposta del «multiplo» - Libri, riviste e mostre N. 37.  Dialettica del «piacere» e identità dell’architettura - Assenza-presenza: due modelli per l’architettura - La «storia dell’arte» nelle scuole - Libri, riviste e mostre N. 38.  Le ricerche di architettura più attuali ed insolite - Dalla fotografia al videotape - Analisi di un corso di laurea: il Dams - Libri, riviste e mostre N. 39.  La sociologia del gusto di Jean Baudrillard - Le posizioni di […] su alcuni temi della critica architettonica in Italia - Libri, riviste e mostre N. 40.  «Aforismi» sui centri storici - Note sulla simmetria in architettura Bataille e la “svolta” di «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 41.  Dipartimento e «architettura» - La «rappresentazione» tra storia del teatro e semiotica - La critica d’arte in «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 42.  L’idea di pittura in Lévi-Strauss - Sul concetto di gusto - Alcuni contributi alla critica dell’inconscio - Libri, riviste e mostre N. 43.  La post-avanguardia - Luoghi e luoghi comuni della recente critica d’arte - Narciso e «l’altro»: note sul dibattito architettonico - Libri, riviste e mostre N. 44.  Architettura: la «rimozione del nuovo» - Ipotesi per il segno iconico - Storia dell’arte, storia delle cose - Libri, riviste e mostre N. 45.  Topologia e architettura - La casa: norma e «deroga» - Artisti e cinema - Libri, riviste e mostre N. 46.  I quindici anni della nostra rivista - L’Architettura all’Ecole des Beaux-Arts - La Storia dell’arte Einaudi - Una griglia che non sia una grata N. 47.  Architetto e ingegnere - Le scuole di critica d’arte in Italia - L’immaginario nella cultura di massa - Libri, riviste e mostre N. 48.  Prima e dopo il Post-Modernism - L’iconizzazione del mobile - Civiltà del ’700 a Napoli - Libri, riviste e mostre N. 49.  Il restauro architettonico: ricchi apparati e povere idee - F. Menna, La Biennale di Venezia. Gli anni settanta: questi (mi)sconosciuti - Critica d’arte e processi produttivi - Libri, riviste e mostre

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N. 50.  Fortuna critica della «Tendenza» - R. Bonelli, Storiografia e restauro - La fotografia: indice o icona? - Libri, riviste e mostre


N. 51.  Classicismo e razionalismo in J.N.L. Durand - Modelli interpretativi delle tendenze artistiche odierne - Architettura come testo - Libri, riviste e mostre N. 52.  L’espressione «Movimento Moderno» - Indagine su Carlo - Note sulla Transavanguardia - Libri, riviste e mostre N. 53.  Il design tra «radicale» e «commerciale» - Dalla «ruminazione» dei guerrieri greci all’«insonnia» dell’estate romana - Fortuna degli slogans Libri, riviste e mostre N. 54.  Disincantamento e restaurazione - Lutyens fra storia e critica - Il Bauhaus e il teatro tedesco - Libri, riviste e mostre N. 55.  Continuità e Protorazionalismo - Se questo è un quadro allora non è un quadro - Gli oggetti di domani - Design come motto di spirito - Libri, riviste e mostre N. 56.  Dall’America. Warhol e Kosuth - Il design dell’«altra avanguardia» - L’International Style cinquant’anni dopo - Libri, riviste e mostre N. 57.  Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58.  E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59.  Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60.  Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61.  Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62.  Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63.  Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64.  Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65.  Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre

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N. 66.  Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre N. 67.  Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre N. 68.  Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69.  Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70.  Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71.  Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72.  Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73.  Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74.  Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75.  Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76.  I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre N. 77.  Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre N. 78.  L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79.  Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre

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N. 80.  Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre


N. 81.  Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82.  Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze - Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre N. 83.  Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre N. 84.  Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85.  Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86.  Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87.  Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design - Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88.  L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89.  Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90.  L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91.  «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92.  Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93.  La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94.  Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95.  Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica - Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre

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N. 96.  Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97.  Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98.  Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99.  Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo - Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre N. 100.  Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101.  Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102.  Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103.  Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104.  La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105.  L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106.  Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107.  Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108.  Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109.  Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre

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N. 110.  Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre


N. 111.  Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112.  Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113.  Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114.  L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115.  L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre N. 116.  Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117.  Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118.  Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119.  L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120.  Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121.  La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122.  L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123.  Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 124.  Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125.  Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 126.  L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127.  Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 128.  Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129.  Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130.  Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 131.  Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neoavanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132.  Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133.  Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134.  Abitare la razionalità - Per una nuova clas­si­ficazione delle arti - Il design ae­ro­nautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135.  Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

Direttore responsabile: Renato De Fusco

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Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998

«Grafica Elettronica» - Via Ferrante Imparato, 198/F4 - 80146 Napoli


Le pagine dell’ADI

Associazione per il disegno industriale

L’ADI Design Index è un libro, in quanto raccoglie saggi critici – nella presente edizione datata 2008 ne sono autori Luisa Bocchietto, Massimo Arlechino, Ludovico Acerbis, Enrico Morteo e Marco Zito; è un catalogo che illustra i prodotti selezionati per il Compasso d’oro previsto per il 2011; è una storia di quanto sta avvenendo nella struttura dell’Associazione; e un manifesto delle intenzioni e programmi di quest’ultima. «Dopo più di cinquanta anni di attività, svolta in totale autonomia, per la promozione del design italiano, è lecito pretendere l’attenzione e l’interesse delle istituzioni». Iniziamo dall’aspetto più operativo dell’Index. Un Osservatorio permanente, composto da centocinquanta esperti, con tre livelli di selezione, sceglie gli oggetti di design, prodotti nell’ultimo triennio, da presentare al concorso per il premio. Il libro-catalogo svolge pertanto la funzione di preannunziare, come avviene per le grandi manifestazioni spettacolari, queste scelte; si determina in tal modo non solo una normale attività di critica, né solo un’altra di «critica operativa», vale a dire non quella che si effettua a cose fatte, ma l’altra che si esprime in corso d’opera, bensì addirittura una sorta di pre-critica. Tra gli altri meriti, questa segna una continuità fra un concorso e l’altro, dando modo di individuare linee e orientamenti, assai utili sia alla progettazione che alla produzione. Dato il carattere di «Op. Cit.», il discorso critico assume l’interesse prevalente. Quello di Luisa Bocchietto, attivo neo-presidente dell’Associazione, s’intitola Lavorare per il design e inizia con la coraggiosa domanda: «Che cosa è il design oggi e che ruolo svolge l’ADI?». Dopo il citato richiamo all’Istituzione, ella prosegue:


«L’attenzione a livello nazionale è improvvisamente cresciuta come mai in passato, complice forse la crisi e il violento cambiamento degli scenari. Finalmente, si capisce che il design è una delle leve dell’economia più in sintonia con le propensioni, le capacità e le attese del paese.

Fabrizio Giugiaro, Moon, lavabiancheria, Indesit.

È successo come se, facendo pulizia dei rumori di sottofondo, si sia portato in evidenza un materiale prezioso, che brilla di luce propria e illumina di riflesso le zone circostanti. Era lì da tempo, ma nessuno ci faceva caso.


Emerge il valore strategico del “fare design”. Si comincia a capire che fare design significa usare la creatività per innovare non solo prodotti, ma anche processi e relazioni. Quanto fatto da ADI negli anni – il Premio Compasso d’Oro, la Collezione Storica, l’ADI Design Index, l’Osservatorio Permanente per il Design, la rete delle Delegazioni – diventa a poco a poco visibile e si comprende meglio che cosa significhi per noi “fare sistema”. Ecco che il lavoro paziente di accumulo rappresentato dalla Collezione Storica del Premio Compasso d’Oro assume un significato di rilievo, al punto da venire riconosciuto “Bene di interesse nazionale”, in grado quindi di rappresentare al più alto livello l’identità e la cultura del paese. Ecco che accanto a questo valore di prestigio, la Collezione ne assume uno propriamente economico, in quanto unica collezione al mondo, stratificatasi nel tempo, espressione diretta del­l’evoluzione del giudizio critico nel corso degli anni. Ecco che il design passa da attività meramente produttiva di oggetti d’uso, a “prior art”, arte squisitamente contemporanea, capace di trasmettere ora qualità estetica a un pubblico sempre più esteso. Ecco che, con le modifiche introdotte nel campo della tutela del disegno industriale, il design viene identificato non più solo come supporto tecnico dell’immagine del prodotto, ma come componente fondamentale per la sua identità e riconoscibilità. Questi elementi, faticosamente acquisiti nel tempo attraverso il lavoro di molti, come tasselli di un mosaico vanno oggi a comporre un quadro più delineato, che, per alcuni, era già chiaro parecchi anni fa: il design è una delle più alte espressioni della contemporaneità. Nelle sue modalità espressive il design accomuna, necessariamente, tecnica, materia, strategia, economia, comunicazione e poesia. Nel fare parte del mondo porta con sé i valori attuali della democrazia, dell’utopia, della sostenibilità, almeno


tra coloro che pensano che il design non lo si faccia soltanto per il mercato, ma anche e soprattutto per scommettere su di un mondo migliore. Questo approccio etico, in verità, è appannaggio peculiare del design italiano, che non ha mai dimenticato la lezione delle avanguardie e la carica eversiva dell’ironia. Il design italiano, che alcuni vorrebbero descrivere come debole, ha una forte identità e un’ancora più forte propensione creativa, che continuamente si alimenta nell’affrontare le sfide dell’innovazione. Questa identità si è costituita negli anni, anche all’interno dell’ADI, con un costante lavoro di autocritica e di elaborazione continua dei propri criteri di giudizio Oggi questo patrimonio si scopre collettivo; questo modo di fare, pensare e produrre risulta strategico per il paese. L’esperienza accumulata permette di agire sul sapere artigiano, sull’innovare imprenditoriale e sulla promozione della cultura del territorio. Si tratta di una scommessa produttiva, che investe le risorse esistenti, per meglio valorizzarle. La capacità trasversale di mettere in sintonia idee e mezzi di produzione e la padronanza di una cultura diffusa, che si traduce in un modo di vivere tutto italiano, costituisce un brand a livello globale. Oltre al “made in Italy” c’è un “design in Italy”, che è diventato una bandiera. Per decenni la moda e da sempre il cibo sono stati trainanti per comunicare la nostra identità ed importanti per l’economia; oggi anche il design viene riconosciuto, sempre più diffusamente, come veicolo di comunicazione dell’eccellenza. Il design, in aggiunta, si propone per durare nel tempo; molti oggetti del nostro panorama domestico appartengono alla Collezione Storica eppure continuano a essere in produzione per la soddisfazione, culturale ma anche economica, dei loro progettisti e imprenditori. Il ruolo dell’ADI è dunque, oggi, essere presente in ambito Istituzionale per diffondere la cultura del progetto


e pretendere che sia valorizzata a livello internazionale. È un interesse intellettuale, con un’importante ricaduta economica. La competizione globale è tale che non possiamo più permetterci di farlo con le sole nostre forze. Abbiamo bisogno del sostegno nostro paese. Ne abbiamo bisogno per essere utili, per raccontare questa bellissima storia, che parla di domani. Noi, intanto, si continua a lavorare per il design!». Al saggio di Luisa Bocchietto seguono quelli degli altri componenti il Comitato di Selezione finale. Nel primo, che è di Massimo Arlechino e s’intitola Partire dalla crea­ tività, si legge: «Il 2008 sarà ricordato in tutto il mondo come l’anno della crisi. Nel commentare il crollo di colossi bancari e finanziari che si ritenevano ormai invulnerabili, analisti di tutto il pianeta hanno gareggiato nel riproporre gli schemi della precedente grande crisi mondiale, quella del 1929. A differenza di allora, l’odierna globalizzazione ha certamente acuito le conseguenze del fenomeno, provocando una caduta simultanea delle principali piazze finanziarie, da Tokyo a New York, passando per Londra e Shanghai. C’è chi prevede un 2009 solo destinato a leccarsi le ferite, c’è chi invece lo immagina ancora scosso da convulsioni finanziarie. Sul piano politico, i potenti di tutto il mondo – riuniti nelle varie configurazioni che spaziano dal G8 al G20 – sono stati costretti ad adottare piani straordinari di salvataggio, che hanno fatto registrare il rientro in grande stile del controllo statale dell’economia, a tutte le latitudini ed anche in quei Paesi tradizionalmente legati alle formule di liberismo più puro. In questa situazione confusa si è diffusa una comune considerazione: è ora di tornare a valorizzare l’economia reale, troppo oscurata dall’economia finanziaria. L’Italia che ha sofferto meno di altri paesi industrializzati gli effetti della crisi, ha ora molto da dire. Al nostro Paese, accusato finora di essere rimasto, fra i grandi, troppo ancorato alla produzione manifatturiera e poco av-


vezzo all’utilizzo dei nuovi, sofisticati e (presunti tali) redditizi strumenti finanziari, va ora invece riconosciuto il merito di aver trascurato questi settori, potendo così far leva su un vantaggio competitivo di cui gode da secoli: la

Lineaguida, Zypad, Computer indossabile, Eurotech.

creatività, unita ad una straordinaria capacità di “plasmare la materia” per consentire all’idea creativa di diventare realtà.


Forse è questa la migliore definizione di “Made in Italy”: la capacità di mettere la produzione seriale al servizio della creatività, e viceversa. Il Legislatore italiano già da qualche anno ha individuato questa nostra ca­ ratteristica come degna di tutela, istituendo la Esposizione Permanente del “Made in Italy” e del design italiano ed affidandone la realizzazione alla Fondazione Valore Italia. È grazie al design che la creatività si esprime all’interno dell’ambito generalmente inteso come economia reale; è con il design che il processo produttivo introduce elementi di qualità all’interno di una catena di valore puramente quantitativa e ripetitiva. La forza dell’Italia consiste nell’essere contemporaneamente un bacino di raccolta di designer e di imprese che sono in grado di valorizzarli, ed ogni anno l’Adi Design Index – grazie all’impegno ed al contributo di tutte le commissioni che vi lavorano – rie­ sce ad individuare le migliori proposte provenienti sia dai designer italiani sia dalle imprese italiane. Per noi che siamo semplici fruitori di questo prezioso lavoro, la pubblicazione dell’Index rappresenta quasi una festa, anche perché uno dei maggiori meriti da riconoscere a questa opera di selezione consiste nel non essere rivolta ad un lontano passato, come se fossimo ormai in grado di celebrare solo le vecchie glorie del “Made in Italy”, ma nel dimostrare come la nostra creatività e la nostra capacità di innovare siano dei processi continui nel tempo, che guardano sempre avanti. Festeggiamo perché comprendiamo che non siamo fermi, ma continuiamo a camminare lungo il percorso della valorizzazione del genio umano. Con l’Index 2008 ha inizio il nuovo triennio di selezione che porterà alla XXII edizione del Premio Compasso d’Oro, che si terrà nel 2011: in quell’anno l’Italia celebrerà i 150 anni dal compimento del suo processo di unificazione, e spesso ci chiediamo che Italia troveremo allora e che genere di sfide saremo chiamati ad affrontare


per mantenere quei connotati di unicità che tutto il mondo ci invidia. Per certi versi il centocinquantenario vuole essere l’occasione per “ripensare” l’Italia e per trovare un nuovo slancio all’interno della nostra convivenza civile e del nostro sistema economico e produttivo. Nutriamo tutti grandi aspettative e grandi speranze nel lavoro che il mondo del design italiano dovrà portare avanti in questo triennio, consapevoli che esso sarà uno dei pilastri della competitività del nostro sistema-paese. La raccolta dei progetti che verranno selezionati nel presente Index e nelle successive due edizioni assume perciò una valenza speciale, che ci piacerebbe poter celebrare insieme nel migliore dei modi nel 2011, con l’augurio, chissà, che possa essere ricordato nel futuro come il “triennio della creatività”. Nel testo Designer e imprese, connubio fertile, Ludovico Acerbis sostiene: «Senza aver ancora preso visione dei risultati della selezione dei progetti inseriti in questo meritevole volume, si può già intuire cosa vi troveremo. Le edizioni di questa collana che opera già da xx anni, hanno mostrato il Design Italiano – che è connubio tra impresa e designer tout court – segnare alti e bassi, espandersi e ritirarsi da alcuni settori, privilegiarne alcuni. Ma la forte tensione che vi si ritrova verso l’innovazione, la ricerca della qualità culturale e materica, il porsi al servizio di un potenziale utilizzatore, sia esso utente finale o intermedio, non cessa di meravigliare ogni volta. Anche quando non s’inserisce nelle profonde rivoluzioni tecnologiche che si avvicendano a periodi alterni per definizione – il designer immette nuova e antica cultura in oggetti sempre esistiti, lascia segni del suo passaggio, rinnova codici e segni, coagula bisogni, stimola nuovi modi di vivere, rende insomma più bella la nostra vita. Si è sempre positivamente sottolineato il forte legame esistente in Italia tra imprese e designer, poiché nessuno si può sentire completamente autonomo, avulso l’uno dall’altro. Al di là dei lampi d’intuizione, squarci lumino-


si in un cielo grigio, nessuno dei due ha certezze, tanto più oggi in un mondo problematico ove ognuno sembra stia sempre attendendo qualcosa da altri. E nessuno può averne, se non alla fine di un lungo processo, diuturno, impegnativo, responsabile, di ricerca e di selezione. Le certezze? Il vero design è assiomaticamente un’esplorazione nel futuro. Imprese e designer progettano oggi quello di cui gli utilizzatori avranno bisogno domani ma che non riescono ad indicare con chiarezza. Imprese e designer applicano innovazioni nelle tecnologie, nei materiali, nei processi produttivi, nei concetti, nelle forme, per dare risposte a domande non ancora espresse. Sono esploratori di esigenze possibili, di risultati sperati, di nuovi percorsi. Si sa, ogni esplorazione è di per sé un rischio e, perciò, per affrontarlo, i designer e le imprese design oriented devono possedere una vocazione forte, una fede viva nella quale generalmente vengono coinvolti più operatori, in un lavoro di gruppo e di simbiosi. Un impegno serio, appassionato, appassionante. Come ogni esploratore, questi designer e queste imprese sono spinti, più che dalla prospettiva di risultati immediati – non sempre indiscutibilmente soddisfacenti – dalla passione per la ricerca e dai traguardi raggiunti, che spesso, ma non sempre, vengono riconosciuti in termini di fama e di successo. Sono sostenuti dalla consapevolezza di comunicare a chi li circonda, attraverso i loro progetti-prodotti, la cultura materiale e la filosofia del periodo in cui vivono, sostenuti dalla coscienza di creare qualcosa che “prima non c’era”, testimonianza delle loro esplorazioni, della costante tensione innovativa, di nuove proposte per accrescere la qualità della vita di tutti. I designer e le imprese – di cui alcuni prodotti sono stati riuniti in questo volume – hanno in comune questo percorso, l’impegno continuo verso il Design, che è la loro vita e la loro ragion d’essere. Hanno creato progetti-prodotti che hanno stupito il mondo e fatto dell’Italia il centro mondiale del design.


Rogers Stirk Harbour, Ambar, Faretto proiettore, Reggiani Illuminazione.

Impegnate seriamente nella ricerca, nel perseguimento della qualità e nella progettazione, sono divenuti, o lo diventeranno. dei punti di riferimento. Sono designer, sono imprese consapevoli del fatto che gli “appassionati” si riconoscono, si frequentano, si scambiano esperienze, si aiutano e si integrano reciprocamente per sostenere e diffondere – tutti insieme – quel risultato fenomenico che è il Design Italiano.


Il Design. Questo fiore nano e prezioso che è dovere di tutti far nascere, e coltivare, e proteggere, e diffondere in ogni sede, al di là delle singole espressioni». Assai più problematico è il saggio di Enrico Morteo dal titolo Per un design allargato. In esso si legge: «Memoria da elefante. Conoscenza enciclopedica dei materiali e delle tecnologie. Nervi saldi e buon senso. Queste mi sembrano oggi essere le doti necessarie per chi si trovi a dover selezionare i migliori progetti del design italiano e non voglia semplicemente lavorare con la propria agenda di conoscenze e relazioni. Memoria da elefante per ricordarsi tutte le forme e i protagonisti del passato – dagli irrequieti anni ’60 ai floreali pionieri del liberty; dagli allegri anni ’50 ai maestri americani e scandinavi, dagli appena trascorsi anni ’80 ai mai dimenticati razionalisti – così da riconoscere al volo una riscrittura da una variazione sul tema, una copia da una citazione. Conoscenza dei materiali e delle tecniche per distinguere anche dietro ad una forma conosciuta un’autentica innovazione tecnologica, una lavorazione originale, una soluzione di brillante e sincera innovazione. Nervi saldi e buon senso per non lasciarsi ammaliare da una oramai troppo facile ironia o dal gusto per la miniatura pirotecnica, dall’ultima sorpresina in cui ludico fa rima con scontato, dove il banale non è più una scelta ma un destino. Non vorrei aggiungermi al coro di chi oramai guarda al design italiano come ad un fenomeno appannato e stanco. Solo pochi mesi fa, commentando una mostra dedicata al nuovo design allestita alla Triennale da Andrea Branzi e Silvana Annicchiarico, ne avevo difeso lo spirito e apprezzato il frammentato paesaggio che ne emergeva. Ma, dovendo segnalare progetti in vista del prossimo Compasso d’Oro, riconosco che è difficile fare delle scelte che rappresentino degnamente l’insieme di un movimento tanto interstiziale e disorganico. In quell’occasione segnalavo però anche il mutamento in atto nella natura stessa della disciplina – non più esclu-


sivamente risolta dal disegno delle cose ma orientata ad esprimere un metodo di lavoro e non solo una forma – avviata ad assumere una dimensione di processo e non soltanto di prodotto. Sempre che le mie impressioni siano vere, si tratta in ogni caso di una transizione profonda e sostanziale, che non può attuarsi nell’arco di pochi mesi e forse neppure di pochi anni. Come comportarsi in questo momento di passaggio, cosa cercare, cosa mettere in risalto? Non credo esistano formule predefinite così come non hanno senso le preclusioni verso nessuna delle oramai numerose identità che il design ha assunto nel corso del tempo. Ben vengano gli oggetti intelligenti, che sappiano con semplicità risolvere un problema pratico. Ma dopo 250 anni di lavorio progettuale intorno alle tipologie funzionali, mi pare che i margini di innovazione siano alquanto ridotti. Solo rivoluzioni tecnologiche o radicali innovazioni di materiali possono riaprire spazi di manovra. Negli ultimi decenni però, le innovazioni si sono prevalentemente dedicate a trasferire nella dimensione virtuale molte delle prerogative un tempo affidate alla dimensione tangibile delle cose, rendendo il campo sensibilmente più piccolo. Nessuna riserva neppure di fronte alla semplice bellezza di un oggetto. Ma, in un’epoca di transizione, i canoni della bellezza non paiono così solidi. In assenza di grandi accelerazioni verso il futuro, troppo spesso misuriamo il bello con il metro del già visto, mentre di un nuovo ancora in fieri ci sfuggono evidentemente le potenziali qualità. Benvenute l’ironia e la provocazione (ma, per cortesia, che siano realmente graffianti, critiche e propositive e non ridotte al rango di futili giochi da salotto) così come i rovesciamenti di linguaggio, che però non siano semplicemente delle superficiali riscritture quanto delle autentiche riflessioni sulla decorazione contemporanea. In fondo però, questi sono tutti atteggiamenti autoreferenziali, designer che fanno design (un po’ come nei film di Trouf­ faut, cinema che racconta il cinema in un circolo vizioso


tanto amato dai cinéphiles). Credo invece sia molto più importante guardare lontano: non pensare agli oggetti o alle forme, ma provare a mettere a fuoco i problemi. Design come punto di arrivo e non come punto di partenza. Progetti che non si occupino solo di mercato, di trend o di mode, quanto proposte che aiutino le persone a vivere e non a spendere. Progetti per i deboli, gli anziani o i bambini, progetti che affrontino il tema dei rifiuti e dell’energia, che propongano e interpretino nuove modalità di comportamento e non solo nuove nicchie di consumo. Non generoso assistenzialismo, ma aperture verso nuove dimensioni d’uso. Non l’abolizione del mercato, al contrario un mercato allargato, che includa anche persone ed esigenze oggi marginali e trascurate. Un design sociale, trasversale e plurale che pensi e agisca in funzione dei bisogni e non delle opportunità. Questa credo essere una prospettiva aperta verso un design capace di farsi interprete degli oggetti e dei processi, delle forme e dei metodi operativi». Aragall, Presidente del Design for All Foundation scrive un testo a tesi: Le cinque dimensioni del design per il successo delle imprese e così la svolge: «Un’impresa raggiunge il successo quando i suoi prodotti attirano e soddisfanno gli utenti in modo durevole con il passare degli anni. Questa semplice constatazione, che sembra basarsi nell’esperienza e nel suo senso comune, è l’essenza del Design for All, eppure raramente si mette in pratica. Mi spiego. Quando si concepisce un nuovo prodotto, a quale fattore si dà maggior importanza: a quanto stanno facendo le aziende concorrenti, le forme e i colori attraenti oppure a quanto gli utenti desiderano veramente e a quanto gli serve?». Quante imprese e designer “perdono il tempo” a osservare le persone vere e come interagiscono con prodotti e servizi? Quanti studi di marketing stabiliscono invece un profilo di cliente medio o un target di clienti, dimenticandosi


Vincenzo De Cotiis, Golden Cage, libreria, Ceccotti Collezioni.

totalmente dell’enorme varietà di desideri e interessi che hanno le diverse persone che vanno a configurare questo cliente prototipo? Quante imprese lanciano un prodotto sul mercato un po’ come se tirassero una lenza nel mare, sperando che abbocchi qualche pesce di passaggio? Fino a che punto la gente per strada assomiglia a questi modelli? E fino a che punto le case reali assomigliano alle case che si vedono nelle riviste di arredamento? Perché offriamo fantasie, quando potremmo più semplicemente fare in modo che la vita della gente fosse migliore? In tutta la storia del design, compreso prima del suo avvento in quanto professione, possiamo constatare che i casi di successo sono sempre andati mano in mano a prodotti che, sia intenzionalmente che per caso, hanno offerto ad un gran numero di utenti la possibilità di intraprendere più attività in modo più comodo e sicura. L’Italia ha dato innumerevoli


esempi al mondo: dalla pasta alla Vespa, passando per la macchina da scrivere, per citare tre stereotipi. Ma come si fa a innescare questa formula magica? Semplicemente pensando in cinque dimensioni invece di tre. I designer sono ossessionati dalla forma e dalle sue tre dimensioni: altezza, larghezza e profondità. Il Design for All, così come lo intendo e metto in pratica io, aggiunge due ulteriori dimensioni fondamentali: quella sociale e quella temporale. La dimensione sociale consiste nel riconoscere e conoscere profondamente la diversità umana; in altre parole, siamo tutti uguali perché siamo tutti diversi: destri o mancini, uomini o donne, nativi o forestieri, magri o obesi, con diversi sentimenti spirituali o diversi orientamenti sessuali. È precisamente questa diversità che rende 1’umanità tremendamente creativa. Di conseguenza, nel processo progettuale, occorre assicurare che le dimensioni o la forma d’uso siano adeguate a tutti gli utenti potenziali: coloro che vedono perfettamente e coloro che non vedono per niente, chi ha studiato e sfoggia tre lauree e chi non sa leggere nella nostra lingua; coloro che arrivano facilmente all’ultima mensola in alto e coloro che non ci arrivano perché sono bambini, perché non sono cresciuti o perché usano una carrozzina. Escludere potenziali clienti e utenti è segno di irresponsabilità non soltanto sociale, ma anche imprenditoriale, perché significa che molti non potranno utilizzare i prodotti in questione e, in molti casi, nemmeno i loro parenti e amici vorranno farlo. Ne consegue che chi non vuole perdere opportunità di fare affari deve migliorare il proprio processo progettuale, adottando sistemi agili per garantire che non si escludano a priori potenziali consumatori e utenti dei suoi prodotti. Se la carta usata per impacchettare una caramella per bambini non permette al nonno di aprirla, che probabilità c’e che il nonno acquisti proprio quella caramella? Parlare di bambini e nonni mi porta diritto all’ultima dimensione, quella temporale. È un fatto della vita che tutti stiamo vi-


vendo più a lungo e che la società sta invecchiando. Le nostre capacità si riducono, ma aumenta l’esperienza. Sia che i prodotti che lanciamo nel mercato durino a lungo, sia che siano molto deperibili, dobbiamo considerare che potranno essere utilizzati da persone di ogni età. È un paradosso insopportabile che quando uno ha finalmente i soldi per comprarsi la macchina sportiva che ha sempre sognato, non è più capace di contorcersi abbastanza per entrarci! Non è meno insopportabile che l’esclusività di una collana non risiede nelle sue forme o materie, ma nella destrezza manuale e l’acutezza di vista che servono per poter maneggiarne la chiusura. Per questi motivi e tenendo in conto che i numeri delle persone anziane aumentano sempre di più nelle società avanzate, dobbiamo assicurarci che i nostri prodotti si adattino sia alla necessaria sicurezza che richiedono i più piccoli, sia alle capacità fisiche dei grandi. Per concludere, propongo un caso pratico per una riflessione. Il telecomando del televisore si è sviluppato in origine perché le persone tetraplegiche che non si muovono dal letto potessero cambiare il canale. Se concepissimo i prodotti per coloro che incontrano più difficoltà nell’uso, sarebbero più comodi per tutti».



ISSN 0030-3305

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