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numero 137

Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli

Electa Napoli



Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Alessandra de Martini, Emma Labruna, Livio Sacchi Segreteria di redazione: Rosa Losito Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 081/7690783 Amministrazione: 80121 Napoli, Via dei Mille, 16 - Tel. 081/4297440 Un fascicolo separato e 9.00 (compresa IVA) - Estero e 10.00

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Electa Napoli


F.R. Moretti, Le oscillazioni del digitale in architettura 5 A. Castagnaro, Ricordo di Rogers 17 P.P. Peruccio, Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico 29 R. Borgi, Stile concettuale 42 D. Baroni, AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico 52 Libri, riviste e mostre 62 Le pagine dell’ADI Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Antonio Desiderio, Livia Falco, Valeria Pagnini, Umberto Rovelli, Laura Santi.



Le oscillazioni del digitale in architettura FRANCESCA ROMANA MORETTI

L’architettura fa, e ha sempre fatto, uso di forme. In tem­ pi recenti, grazie all’uso degli strumenti informatici, queste ultime hanno raggiunto livelli di tale complessità da renderne difficile persino la comprensione e trasmissione secondo le tradizionali tecniche di rappresentazione. Anche se in maniera talvolta ambigua e spesso a livello solo metaforico, le leggi matematiche e geometriche che le governano, con tutto il loro indubitabile fascino, sono oggi consapevolmente utilizzate da molti maestri della contemporaneità – da Norman Foster a Frank O. Gehry, da Daniel Libeskind a Zaha Hadid, da Peter Eisenman a Toyo Ito ecc. – per le loro grandi capacità di suggestione. La facilità con cui è poi possibile manipolare tali forme, le espone all’attenzione e, soprattutto, all’imitazione di una estesa generazione di architetti più o meno nati nell’era digitale. Importante rassegna dei fondamentali cambiamenti del­ l’architettura contemporanea in campo teorico, nella pratica progettuale e nell’uso delle nuove tecnologie costruttive fu la Biennale di Venezia del 2004: il significativo titolo della mostra – Metamorph – sottolineava proprio l’interesse del­ l’architettura nei confronti di una geometria “in trasformazione”. I cinque temi portanti (trasformazioni, topografia, superfici, atmosfera, iper-progetti), tutti accompagnati da esempi realizzati e non, costituirono l’emblema di una tensione ri-creativa che sfidava la contemporaneità alla ricerca

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di termini che ci avrebbero dovuto permettere di valutare il presente e di individuare le linee guida per ciò che sarebbe avvenuto nell’immediato futuro. Ma, com’è stato osservato, per l’architettura dell’età contemporanea, contrariamente a quanto avvenuto per il romanico, il gotico, il rinascimento, il manierismo, il barocco e via dicendo, non si sono ancora dati dei termini a quo e ad quem. Né sembra che si voglia assegnare a essa un limite. Probabilmente è la stessa mancanza di tale “limite” ad aver tenuto acceso, a tutt’oggi, il dibattito sull’apporto del digitale in campo architettonico: di qui le continue oscillazioni di pensiero sull’argomento, da tempo ormai all’ordine del giorno, da parte della critica. La questione digitale, in maniera non dissimile dalla celebre querelle des anciens et des modernes, ha perciò suscitato un ampio dibattito nel mondo architettonico. Come è stato osservato e ampiamente condiviso da molti, la nuova tecnologia non è mai uno strumento neutrale: al pari di molti altri fenomeni, essa comporta tutti gli aspetti sia negativi sia positivi, indipendentemente da quelli gestionali. Nonostante le numerose contropartite, la nuova tecnoscienza rimane parte integrante della nostra storicità, costituendo una delle poche vie per risolvere i problemi che essa stessa ha contribuito a porre. L’attenzione dell’architettura nei confronti della geometria, concretizzatasi in sperimentazioni spaziali estremamente complesse, è resa possibile proprio – e forse solo – dall’utilizzo delle nuove tecnologie grafiche, oltre che da un’attenta ricerca nel settore dei nuovi materiali. Se a ciò si aggiunge l’interesse della cultura progettuale per le geometrie dei sistemi complessi, per i frattali, per la teoria del caos e per tutti gli algoritmi scoperti, o riscoperti, negli ultimi trent’anni utilizzando la grafica computerizzata, si comprende facilmente come tali ricerche abbiano contribuito in modo essenziale a modificare e rinnovare lo stesso concetto di spazio architettonico: numerosi progetti ed edi­fici recenti non sono più basati sulla dialettica di supporti e pesi, ma su superfici continue, ripiegate o curve o stratificate che siano. Comunque sia, l’architettura di vitru-


viana memoria sta cedendo il passo ad uno degli scivolamenti preconizzati da Frederick Kiesler quando, tra le due guerre, chiedeva che “la separazione di pavimenti, mura, pilastri e copertura fosse abbandonata. Invece” immaginava, “un flusso (dovrebbe) legarli”1. Da ardite sperimentazioni progettuali e approcci supportati dalla modellazione computerizzata è così nata una nuova stagione nella storia dell’idea di spazio: uno spazio “in movimento”, in cui a dominare sono proprio le forme elaborate per successive trasformazioni geometriche definite da sistemi di variabili dinamiche di tipo fisico e percettivo. Dal rapporto fra l’architettura, lo spazio geometrico/ matematico e le tecnologie digitali, esce poi rafforzato il gusto per la complessità: le superfici curve e continue, legate all’idea di flusso e modulazione, così come la tensione creata dalla ripetuta rotazione di prismi, hanno ormai invaso la produzione progettuale più recente. I calcoli diventano rapidi e pre-programmati, le trasformazioni delle superfici dalle due alle tre dimensioni semplificate dai software. La loro complessità geometrica segue le orme della fisica del XX secolo, che inaugurò il secolo con l’idea della curvatura dello spazio e della flessione gravitazionale della luce (da Hermann Minkowski ad Albert Einstein al pensiero corrente). È solo la seconda volta nella storia che tali geometrie complesse sono arrivate ad informare l’architettura, dopo che le orbite ellittiche dei pianeti e i profili iperbolici di Borromini avevano dato forma tangibile alla cosmografia del Barocco – con analoga mancanza, potremmo aggiungere, di necessità oggettiva o di equivalenza teorica2. I dubbi sul digitale La cultura digitale applicata all’architettura, sebbene per molti teorizzatori – da Nicholas Negroponte a Derrick de Kerkchove fino al citato Kurt Forster – abbia, come s’è visto, reso possibile l’esplorazione formale di geometrie complesse altrimenti difficili da gestire a livello ideativo e

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progettuale prima, esecutivo e costruttivo poi, agli occhi di molti osservatori non ha però prodotto, di fatto, altro che forme grafiche solo raramente espressione di reali possibilità costruttive. La linea che divide l’architettura digitale da quella esclusivamente virtuale è infatti molto sottile. Teorico di trans-architetture, spazi virtuali e ipersuperfici, Stephen Perrella scrive: Negli ultimi anni, si è sviluppata una sensibilità progettuale grazie alla quale le superfici architettoniche e gli elementi topologizzanti della forma vengono esplorati in maniera sistematica e inclusi in diversi programmi architettonici. Influenzato dalla intrinseca temporalità dei software di animazione, dalla augmented reality, della produzione industriale computerizzata, e, in generale, dell’informatica, lo ‘spazio’ topologico differisce da quello cartesiano perché in esso gli eventi temporali diventano parte integrante della forma. Lo spazio, dunque, non è più un vuoto al cui interno sono contenuti soggetti e oggetti; lo spazio, invece, si trasforma in una fitta ed interconnessa rete di particolarità e singolarità che si potrebbe definire ‘materia’ o ‘spazio pieno’. Questo legame comporta anche, in maniera più specifica, un pervasivo dispiegarsi di teletecnologia nella pratica progettuale, fatto che porta a un’indebita appropriazione del reale e a un’involontaria dipendenza dalla simulazione3. Interessati probabilmente più alla metafisica che alla stessa geometria, con strategie di progettazione che partono dalla modellazione creativa di strutture genetiche, vi è ancora un’intera generazione alla ricerca di forme architettoniche caratteristiche dell’“età dell’informatica”. Ma, a giudizio di molti critici, pochi tuttavia sono stati i risultati di tali ricerche nel campo della concreta realizzazione di un nuovo spazio architettonico. Ciò vale per il lavoro di tutti gli enfants terribles affacciatisi sulla scena alla fine del secolo scorso, da Marcos Novak a Stephen Perrella, da Karl Chu a Bernard Cache ecc., coraggiosi e fortunati esploratori della grafica computerizzata più avanzata, fra i primi a delineare spazi complessi, ipersuperfici,


nuovi universi geometrici, inquietanti forme neo-organiche d’ispirazione fitomorfa o zoomorfa. La maggior parte di essi non è stata in fondo in grado di uscire dagli schermi dei computer, di passare dall’elaborazione virtuale alla conformazione del reale: o è uscita di scena e si occupa d’altro, o si è dedicata ad ambiti, quali il Visual Design o il Web Design, sostanzialmente estranei al­l’architettura, o continua a proporre più o meno le stesse cose di dieci anni fa senza accorgersi del trascorrere del tempo. In misura minore, la delusione coinvolge anche quelli che, sin dall’inizio, si sono posti come veri e propri architetti, da Kas Oosterhuis a Lars Spuybroek, da Hani Rashid a Greg Lynn. Le loro prime, vere prove costruttive hanno lasciato emergere un quadro in cui l’innovazione è spesso, nei migliori dei casi, limitata alla pelle esterna dell’edificio, mentre tutto il resto rimane abbastanza tradizionale4. Si potrebbe dire che, per lo più, il cambiamento non si sia tanto concentrato sui mezzi, le forme, la composizione architettonica quanto piuttosto sulla propensione di queste architetture “informatiche” a rappresentare, comunicare e raccontarsi, diventando metafore di se stesse, prendendo in prestito capacità culturali da altre discipline più o meno affini. Alicia Imperiale, nel capitolo Digital technologies and New Surfaces del suo libro New Bidimensionalities, scrive: Gli architetti si appropriano liberamente di metodologie specifiche di altre discipline. Ciò può essere attribuito al fatto che ampi cambiamenti culturali si verificano più velocemente in altri contesti che in architettura. E aggiunge che l’architettura riflette i cambiamenti che avvengono nella cultura, e secondo molti, con un ritmo dolorosamente lento. (…) Gli architetti, cercando costantemente di occupare un ruolo di avanguardia, pensano che le informazioni prese a prestito da altre discipline possano essere rapidamente assimilate all’interno della progettazione architettonica. Tuttavia, la traducibilità, il trasferimento di un linguaggio in un altro, rimane un problema. (…) Gli architetti guardano sempre

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più spesso ad altre discipline e ad altri processi industriali per ispirarsi, e fanno un uso sempre maggiore della progettazione al computer e di software per la produzione industriale originariamente sviluppati per altri settori5. Nel campo della teoria come della pratica si è immaginato quindi che la rivoluzione informatica fosse artefice di un’autentica rivoluzione architettonica e che il computer avrebbe risolto tutti i problemi. Ma la realtà più evidente è stata invece la trasformazione del progetto in articolate elaborazioni grafiche dove linee spezzate, oblique, angoli acuti, curve e sinuosità, forme dinamiche, spazi dilatati, mutevoli, dinamici diventano testimonianza della fluidità come metafora dell’identità contemporanea fatta di velocità, mobilità, mescolanza. Più in generale, va poi osservato che, negli ultimi anni, la libertà progettuale consentita dalla diffusione della tecno-cultura digitale è, a ben guardare, effettiva nella misura in cui essa resta tale, nello spazio ibrido della virtualità rappresentativa, rinunciando a trasformarsi in architettura, Quando è invece costretta a passare dall’ambito ideativo e comunicativo a quello reale, perde gran parte della sua carica sperimentale e, lungi dal mantenere le promesse sperate, ricade spesso nell’ambito della produzione ordinaria. Oggi, più che mai, l’architettura andrebbe giudicata dopo essere stata realizzata, dopo aver subito il banco di prova della costruzione: un positivo giudizio estetico andrebbe addirittura formulato solo dopo qualche anno, qualora l’edificio sia passato indenne al vaglio della rispondenza funzionale, della efficienza gestionale e, soprattutto, della tenuta nel tempo della sua immagine6. Fino a che punto il digitale è allora veramente riuscito a produrre nuove forme, ad assumere quel ruolo propriamente ideativo prima e conformativo poi di cui s’è tanto parlato? La rivoluzione informatica è veramente stata artefice di una rivoluzione architettonica o si è per lo più e per i più limitata a una rinnovata funzione presentativa e rappresentativa del fare progettuale?


Le nuove prospettive È su tali quesiti che si articola il vivace dibattito – e l’oscillante opinione critica – sull’architettura digitale. Se da una parte è infatti evidente la dissociazione che il digitale sembra aver prodotto tra progetto e fisicità della costruzione, dall’altra non si può certo negare che, grazie all’uso del digitale, ma anche forti di una solida e tradizionale cultura del progetto, alcuni architetti sono stati effettivamente in grado di trasformare lo spazio dell’ideazione e della rappresentazione in un complesso spazio costruito. Questo vale soprattutto per i protagonisti dello Star System, ma anche per non pochi altri interessanti progettisti in via di affermazione internazionale. Tra questi ultimi non si può non ricordare Preston ScottCohen, il cui lavoro, basato sulla ricerca di trasformazioni geometriche funzionali alla definizione di uno spazio dinamico, combina nozioni tradizionali di geometria descrittiva con l’uso delle più avanzate tecnologie digitali di modellazione. Per il nuovo edificio del TAMA, Tel Aviv Museum of Art, per esempio, Scott-Cohen si è ispirato ad alcune ricerche condotte sulla seicentesca sacrestia di San Carlo ai Catinari a Roma, dove lo spazio interno appare incastonato in una facciata con la quale è in aperto conflitto. È la sorgente di luce a fare da protagonista nella soluzione del rapporto tra interno ed esterno, così spiega Scott-Cohen nell’analizzare lo schema geometrico sotteso alle bucature della sa­ crestia. Sulla stessa scia, per il progetto del TAMA dichiara: ho utilizzato la luce per risolvere una simile tensione nella soluzione per il nuovo museo. E ancora: la mia vita professionale è un’esplorazione di architetture che si accordano con condizioni difficili attraverso nuove forme virtuose7. La tensione che si viene a creare tra il sito, triangolare, e le opposte necessità espositive che rendevano auspicabili larghe gallerie rettangolari, viene risolta attraverso sottili torsioni delle superfici geometriche (paraboloidi iperbolici) che connettono i diversi, disassati angoli delle singole gallerie all’insieme. L’edificio è modulato su assi multipli

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che deviano significativamente da piano a piano, creando una serie di piante indipendenti l’una dall’altra ma connesse da uno spazio di circolazione continuo che, a spirale, si sviluppa lungo l’atrio centrale. Tale spazio, definito dal direttore e curatore del museo Mordechai Omer come una lightfall, una cascata luminosa8, funge da canalizzatore per la luce e, accentuando la progressione del movimento, rende formalmente coese le strutture tra loro, “diluendo” gli spazi fluidi interstiziali che si vengono a creare al suo intorno con la rotazione delle piante delle gallerie. Anche il volume esterno è caratterizzato da forme cinetiche tese a smus­sare la moltitudine di angoli creatisi con il succedersi dei diversi assi di rotazione. Scott-Cohen punta insomma a combinare la necessità di neutri contenitori espositivi con l’ambizione di un museo inteso come spettacolo architettonico: una inusuale sintesi di due paradigmi contrapposti che, come scrive lo stesso progettista, in qualche misura rispecchia il linguaggio architettonico, internazionale e progressista, di Mendelsohn e del modernismo Bauhaus della Città Bianca di Tel Aviv9. Analoghe considerazioni è possibile sviluppare per le ormai celebri composizioni di Zaha Ha­did: si pensi al subito famoso MAXXI, il Museo per le Ar­ti contemporanee del XXI secolo appena inaugurato a Roma. Tutto ciò non è che l’indiretta dimostrazione di un importante aspetto della questione: le prove migliori sono venute da architetti certamente non “nati con il computer”, che, forti di una solida cultura progettuale, tipologica, tecnologica e costruttiva, sono stati in grado di sfruttare al meglio il valore aggiunto offerto dalle strumentazioni digitali, sia sul piano conformativo che su quello comunicativo10. La rivoluzione digitale ha inciso quindi nel loro lavoro non tanto all’interno di una dimensione virtuale del fare, quanto piuttosto per il profondo legame che essa ha instaurato tra nuove forme edilizie, sistemi costruttivi, materiali, modalità di rappresentazione, innovazioni esecutive, cambiamenti nell’organizzazione della professione. Sono questi gli aspetti che, nella complessa rela-


zione che si stabilisce tra progetto e pratica architettonica, contribuiscono a definire una dimensione dell’architettura tesa alla ricerca di una nuova estetica, impegnata a mimare le dinamiche superfici prodotte dai software, adottando le tecnologie informatiche come strumenti di calcolo, i modelli digitali come interfaccia tra illusione e realtà, la tecnica come strumento di narrazione della costruzione, la flessibilità come espressione di un progetto aperto e la sostenibilità come sfida. Un progressivo allontanamento dal contesto e dalla storia e la possibilità di accedere a una massa di informazioni provenienti dalle discipline più eterogenee ha inoltre rivoluzionato la pratica in maniera definitiva e comportato il superamento delle esperienze costruttive del passato. Passare dallo spazio astratto della rappresentazione a quello della realtà significa, infatti, restituire alle superfici uno “spessore”, e questo ha imposto riflessioni in termini di materiali (da quelli più tradizionali al vetro, al plexiglas, al policarbonato, ai laminati, sino ai tessuti e alle più diverse fibre ad alta tecnologia) in risposta al rapporto che essi instaurano tra interno ed esterno (in termini climatici, acustici ed energetici) nonché sull’aspetto costruttivo relativo ai tipi strutturali prescelti (strutture geodetiche, pneumatiche, tensoinflesse ecc.) e, non da ultimo, sul fatto che tali superfici siano effettivamente cantierabili. Questo significa che, nel lungo arco di tempo che va dall’ideazione all’esecuzione, sempre più numerose sono le professionalità costrette a interfacciarsi (architetti, ingegneri, strutturisti, impiantisti, informatici, pianificatori, paesaggisti, consulenti finanziari ecc.): quanto basta a giustificare la nascita di veri e propri studi globali, i soli in grado di offrire una vasta gamma di servizi professionali per la soluzione di qualsiasi aspetto del progetto. Un esempio di tale nuova dimensione progettuale è costituito da Arup, società di consulting prevalentemente strutturale e impiantistico che, con i suoi oltre 9.000 impiegati in oltre 90 uffici in 35 diversi Paesi, e con la straordinaria, autodichiarata capacità di lavorare simultaneamente su

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decine di migliaia di progetti11, collabora stabilmente con le maggiori firme dell’architettura contemporanea. Ma talvolta sono gli stessi studi d’architettura ad aver assunto dimensioni impensabili fino a non troppo tempo fa. Ciò vale, per esempio, per Foster and Partners, fra i maggiori studi europei, con sede a Londra e filiali in tutto il mondo, che ha lavorato in 48 Paesi e, attualmente, gestisce progetti in 22 Paesi diversi; o per la citata Zaha Hadid che, nella sola sede di Londra, conta più di 250 dipendenti. Basta scorrere le home page di questi o di altri studi simili per rendersi conto di come sia cambiata l’effettiva dimensione fisica della progettualità contemporanea e, di come, solo grazie all’introduzione di nuove tecnologie, sia diventato possibile gestire tali vere e proprie imprese. Ma, prima ancora che in ambito architettonico, Internet ha anche certamente contribuito a creare nuovi prodotti, strumenti e servizi che poi, di rimando, hanno influenzato l’evoluzione del pensiero progettuale. Farshid Moussavi parla di “novel forms” come espressione di una nuova fase di capitalismo caratterizzata dalla decentralizzazione e trans-nazionalizzazione della produzione. Un nuovo modo di produrre, noto come “Flexible Specialization”, che crea forti connessioni tra come i prodotti sono realizzati e il modo con cui vengono percepiti, pur mantenendo singolari fun­ zionalità. Alcuni esempi significativi ci vengono dal mon­ do della produzione e del design: Starbucks offre 70.000 differenti modi di sorseggiare un caffè; Denim ha differenziato i blue-jeans in un’infinità di modelli e ancora, nel settore automobilistico, la nuova Fiat 500 può essere “customizzata” in 500.000 differenti variabili: a cambiare non è la funzione tecnica della macchina, ma la percezione e la sensazione di guida. Una tendenza alla diversificazione che gioca un ruolo fondamentale anche nella progettazione e nella ingegnerizzazione delle nuove forme architettoniche12. La funzione di ciascuna di esse consiste allora in un processo trasversale in cui, in maniera assolutamente singolare, si combinano tra loro elementi fisici del costruire con una precisa modalità di assemblaggio; la singolarità è data


dal modo con cui gli elementi si connettono tra loro aprendosi sempre, con le geometrie avanzate controllate dai software, a scelte multiple. Un significativo esempio in tal senso è costituito dal­ l’opera di Cecil Balmond. Protagonista della scena contemporanea che ha operato creativamente all’interno della citata Arup come direttore della AGU - Advanced Geometry Unit (da lui fondata nel 2000), Balmond ripercorre, in chiave geometrica (grids, generative lines, numbers), il modo con cui, nella più recente produzione architettonica, si assemblano forme e algoritmi; il predominio della rappresentazione digitale lascia nel suo caso il campo all’architettura realizzata che manifesta, in primis, il potenziale espressivo della tecnica costruttiva cui essa è sottesa13. Superfici e volumi sullo schermo del computer acquistano una dimensione calcolabile, che lega in maniera univoca il linguaggio formale di una struttura alla sua sintassi tettonica. Il sapere tecnico (discipline della statica come della geometria) e il sapere figurativo della composizione architettonica (discipline della progettazione come della rappresentazione), fino a un passato relativamente recente segnati da un progressivo disgiungersi caratterizzato dalle coppie associative “ideazione-architetti/costruzione-ingegneri”, appaiono oggi for­se ricomposti proprio grazie all’uso del digitale. Seppur con gli evidenti debiti culturali verso personaggi storici (da Violletle-Duc a Paxton, da Eiffel a Prouvé, da Fuller a Nervi), la più significativa influenza dell’informatica sull’architettura contemporanea è forse identificabile proprio nell’aver spinto la cultura del progetto – sempre più affascinata dalle geometrie generatrici di forme complesse – ad acquisire e controllare un sapere prima di tutto strutturale e costruttivo.

KW. Forster, Metamorph. Trajectories, 9. Mostra Internazionale di Architettura, Marsilio, Venezia 2004, p. 225. 2   Ivi, p. 141. 3   Cit. in M. Emmer, Mathland, Dalla topologia all’architettura virtuale, Springer, Milano 2005. Cfr.http://www.emis.de/journals/ NNJ/Emmer-it.html. 1

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4  L. Sacchi, Libertà virtuali e difficoltà reali, in M. Unali (a cura di), Abitare virtuale significa rappresentare, Kappa, Roma 2008, p. 362. 5  A. Imperiale, New Bidimensionalities, Birkhauser, Boston 2001, p. 117. 6  L. Sacchi, op. cit., p. 367. 7   Cfr. E. Harrison Kubany, Preston Scott Cohen wins competition for addition to Tel Aviv Art Museum, in «Architectural Record», gennaio 2004. Cfr. http://archrecord.construction.com/news/daily/ar­ chi­ves/040105TelAviv.asp. 8  Cfr. http://www.gsd.harvard.edu/people/faculty/cohen/pdf/TA­ MA%20May%20Ground%20Breaking_release.pdf. 9   Cfr. http://pscohen.com/tama.html. 10  L. Sacchi, op. cit., p. 363. 11   Cfr. www.greenpix.org/press/PDF/Greenpix_press-release_IT. pdf. 12  F. Moussavi, The Function of Form, Actar - Harvard University Graduate School of Design, New York 2009, pp. 13-25. 13  Cfr. Cecil Balmond, a cura di N. Tsukui, «A+U, Architecture and Urbanism», Special Issue, November 2006.

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Ricordo di Rogers ALESSANDRO CASTAGNARO

In occasione del centenario della nascita di Ernesto N. Rogers (1909-’69)1 numerosi sono stati i convegni, gli scritti, le manifestazioni organizzate in Italia2 e all’estero che hanno ulteriormente rivalutato sul piano storiografico la figura del grande maestro. A partire dal 1934 si collocano i suoi primi significativi scritti sulla rivista Quadrante; nel 1939 Rogers si rifugiò in Svizzera a causa delle leggi razziali fasciste. Intanto lo studio BBPR, proprio con l’emanazione di tali leggi nel 1938, e ancor più durante il periodo di occupazione nazifascista, divenne uno dei punti di riferimento per la Resistenza milanese e il movimento Giustizia e Libertà. Sono di questo periodo, tra novembre 1938 e marzo 1939, le lettere che Rogers scrive e che rappresentano il senso di un accorato smarrimento: Credevamo di essere i primitivi di una nuova era, catecumeni usciti dalla Terra. E forse dovremo invece aggiungere i nostri petali appassiti al mucchio delle cose finite. L’epoca passa su di noi come un rullo compressore: siamo tutti schiacciati dagli eventi. Dovrà la nostra generazione non servire ad altro che quale sottostrato per edificare le venture? Così come fosse solo una di quelle che ci hanno preceduto. Questo compito può servire alla collettività, ma pesa ancor più terribilmente sulla coscienza di quegli spiriti che presumevano di essere già pronti per la vendemmia3.

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A causa del loro impegno politico-sociale Banfi e Belgiojoso furono deportati durante gli ultimi anni della seconda guerra mondiale nel campo di concentramento di Mauthausen-Gusen, dove Banfi perse la vita. Dopo la guerra Rogers si distingue per la collaborazione alla rivista Domus, che diresse nel breve periodo ’46-’47: per il rapporto con il CIAM e, soprattutto, per l’importanza dei suoi editoriali redatti quale direttore di «Casabella» (1954-1964). Mantenendo sempre una stretta coerenza tra i suoi scritti e la pratica militante di architetto, fondamentale fu il suo contributo innovativo, negli anni ’50-’60, al problema della storia sia dal punto di vista teorico, sia come elemento basilare per la progettazione. Trattano tale tema, in maniera embrionale, già i suoi primi articoli pubblicati sulla rivista «Quadrante» nel 1934 dal titolo Significato della decorazione nell’architettura i quali – anche se «ufficialmente» meno importanti di quelli del «gruppo 7» – risultano ben più essenziali, incisivi e coerenti nell’uso operativo e disciplinare della storia4. Nello stesso anno sulla medesima rivista pubblica La formazione dell’architetto dove, com’è stato osservato, emergono non dogmi da impartire, ma vie da mostrare e da proporre alla coscienza dei giovani. Non maestri di cui farsi epigoni, ma opere da cui attingere col filtro della propria intelligenza. Non manuali da proporre, ma testi che siano occasioni di un confronto sui diversi modi di rispondere a questa basilare esigenza dell’uomo che è l’architettura5. La formazione, la didattica, la sua pedagogia filtrata dalla lezione di Dewey, rappresentano quegli assunti perché la scuola è innanzitutto vita e la vita che lui ha prescelto è quella della convivenza democratica: dove si convince e non si vince, dove l’interlocutore può avere ragione anche se pensa il contrario di quel che pensiamo noi. Al centro della sua didattica è sempre presente la figura di Walter Gropius, dal quale, talvolta, non teme di prendere le distanze, come in relazione al ruolo della conoscenza della storia nella formazione dell’architetto e nella sua attività successiva. Il fatto che la critica suggerita da Gropius sia


limitata al pensiero presente condiziona i dati dell’esperienza che dovrebbe solcare tutta la sezione della storia nella nostra civiltà occidentale (e, in senso più completo, anche delle civiltà di diverso carattere – come l’orientale – seppure la cultura occidentale non ne dia sempre consapevole informazione). Secondo Gropius, l’esclusione della conoscenza della storia, all’inizio della formazione dell’architetto, lo pone su basi più larghe e lo struttura più solidamente. Nel programma teorico-pratico per gli studenti d’architettura, egli afferma che «gli studi storici dovrebbero essere iniziati al terzo anno piuttosto che al primo per evitare intimidazioni e imitazioni». È evidente qui il segno di un complesso verso la storia […] il vero malinteso di questa impostazione è che è data da persone come Gropius (e gli altri maestri), i quali conoscono la storia da cui non hanno avuto certo intimidazioni né suggerimenti all’imitazione, ma bensì un beneficio tonificante per le loro idee progressiste. Perché togliere ai giovani un elemento necessario alla loro formazione?6 Dal punto di vista della formazione e della didattica Rogers si appella a Gropius con forti riferimenti. Le Corbusier in primis e Wright sono le vie maestre delle nuove forme, les vies des formes del nostro tempo: ma accanto ad essi – per evitare equivoci stilistici – aggiunge per con­trappunto Palladio7. Il tema della storia è uno dei capisaldi del contributo critico di Rogers, come già detto, indubbiamente ispirato dal pensiero filosofico di Dewey sulla legge di «continuità in quanto postulato fondamentale di una teoria naturalistica della logica». Infatti, secondo il filosofo americano, ogni valutazione è possibile in base alla continuità delle attività umane personali ed associate, la portata delle valutazioni presenti non può essere validamente stabilita fino a che esse non sono inserite e viste nella prospettiva dei passati eventi di valutazione con i quali sono continue. Senza di ciò, la prospettiva futura, cioè le conseguenze delle presenti e nuove valutazioni, è indefinita8. Il fondamentale apporto di Rogers si ha proprio negli

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anni della direzione di «Casabella-continuità», quando – con il numero 199 del dicembre 1953 - gennaio1954, il primo della nuova serie – viene aggiunto al titolo la parola continuità. Questo termine ha assunto chiaramente molteplici significati, primo fra tutti quello del legame con due figure essenziali della rivista e della cultura architettonica più avanzata, Giuseppe Pagano e Edoardo Persico, ai quali i riferimenti sono continui. Ebbene, gli architetti italiani moderni, pur avendo tra loro reciproca dimestichezza per anni e anni, non diventarono veramente amici che quando l’uno poté svelare all’altro l’acquistata conoscenza del proprio antifascismo; così fu anche fra Pagano e me. Mi sia dunque concesso di rievocare l’amico con sincerità spregiudicata come piaceva a lui e di tracciarne il profilo forse incompleto (perché ignoro molti dati), ma, spero, non troppo lontano dal reale9. Altro significato del termine è continuità come coscienza storica; la vera essenza della tradizione, questa è la coscienza storica, nella precisa accettazione di una Tendenza che è nella eterna varietà dello spirito, avversa ad ogni formalismo passato o presente. Il riferimento è esplicito a Pagano. Il valore che il nostro conferisce alla tradizione è dimostrato chiaramente dai contenuti della rivista, oltre che dai suoi editoriali. Proprio nel primo suo numero viene trattato, difatti, un esempio di architettura equatoriale: il Ca­merun. L’architettura della capanna, l’architettura primigenia, primordiale: Le capanne del Camerun. E ci sono architetti europei, che sono lì a lavorare in questo luogo e a capire come sono costruite queste capanne. Ancora nello stesso numero vi è un articolo su Jean Prouvé, Un’officina per la prefabbricazione, cioè il massimo della più avanzata tecnologia che ci potesse essere al tempo. «Casabella-continuità» viene inaugurata, dunque, in maniera anticonformista e rivoluzionaria con questo numero che, a parte i primi due articoli citati e l’editoriale di Ro­ gers – intitolato La Casabella del passato e Gropius – ha da un lato come sostegno le capanne del Camerun e dall’altro la tecnologia di Jean Prouvé. Tra i due estremi, tra storia e


utopia, ci sono la figura di Le Corbusier, dell’uomo col braccio alzato, del Modulor – ripreso dall’Unité d’Habitation di Marsiglia –, un articolo sulla ricostruzione in Francia e due architetture italiane: la Casa per Impiegati della Borsalino ad Alessandria di Ignazio Gardella e le Case a Torre a Viale Etiopia a Roma di Mario Ridolfi – ossia opere di due autori che di lì a poco saranno riconosciuti dalla critica tra i migliori architetti italiani di quella generazione10. Ma questa impostazione rimane costante durante tutta la direzione di Rogers della rivista. Se analizziamo il numero 200, del febbraio-marzo 1954, vi troviamo i trulli di Alberobello e, alla fine, il Pan System, che è un sistema di avanzata prefabbricazione inglese per le scuole. In mezzo c’è il villaggio La Martella di Matera, altro significativo esempio di architettura neorealista realizzato da Ludovico Quaroni. Ulteriore significato del termine continuità che si associa a un «modo di sentire» è la consapevolezza di avere accettato modestamente un’eredità, assumendo la responsabilità di amministrarla con prudenza e serenità. Continuità significa, nel nostro contesto, tanto la necessità di assimilare il passato – che a quell’epoca già includeva le opere esemplari degli anni ’20 – come l’impegno ad agire da protagonisti nel presente superando ogni dogmatismo ereditato. Si tratta, in realtà, di un’attitudine simile a quella della rivista diretta da Pagano (dal 1933 alla sua chiusura forzata del 1943) e alla posizione di Edoardo Persico, redattore e condirettore dal 1935 al­la sua morte, l’anno seguente. Già da allora era viva un’idea di continuità associata all’intolleranza per il conformismo della passività che si identificava con un’idea di libertà creativa mai sentita come arbitraria e garanzia di questo, per Rogers era l’utilizzo del «metodo moderno»11. Prendendo a caso un altro numero, il 202, basta leggere il titolo dell’editoriale, La responsabilità verso la tradizione, per calarci nella realtà e nell’attualità del nostro autore. Nel 204, Le preesistenze ambientali e temi pratici contemporanei è un testo che tratta in modo inedito il binomio che lo intitola alla luce dell’architettura contemporanea. Rogers

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affronta il problema urbano dal punto di vista delle tradizioni autoctone, rielaborando temi e idee già affrontate da Pagano prima e durante la guerra. Chi si appella, oggi, alla cultura nazionale – quando non sia un nazionalista reazionario o un demagogo, sollecitato dai richiami del folklore o, comunque, dagli stili scolastici – intende che l’architettura debba radicarsi negli strati profondi della tradizione per succhiare l’alimento e qualificarsi; è una necessaria integrazione della realtà contemporanea, complessa e varia, con l’immenso patrimonio dell’esperienza ereditata12. Ma soprattutto, nel numero 206, c’è un dibattito sulla tradizione in architettura scaturito da un episodio accaduto nella Facoltà di Architettura di Milano al­ l’inizio del ’55. A una seduta di laurea alcuni giovani presentano architetture con le colonne. Tale progetto provoca nel numero 204 la reazione di Giancarlo De Carlo sui Problemi concreti per i giovani delle colonne. Fuori dalla rivista e all’interno della Facoltà nasce un dibattito – riportato poi nella rivista – per cui si decide di organizzare una giornata di discussione presieduta da Franco Albini. Che cosa aveva scritto De Carlo? Aveva detto che in realtà questi giovani fanno le colonne per assumere una posizione di violenta polemica, “una rivolta contro un razionalismo orecchiato e dogmatico”, un razionalismo che addirittura “nasconde un nascente nuovo eclettismo”. Quindi De Carlo non difende i giovani, ma cerca di tirar fuori da essi il senso delle loro posizioni e dà origine a un conflitto all’interno di «Casabella». Va tenuto conto che una delle persone vicine ai «giovani delle colonne» è Guido Canella, che poi entrerà nella redazione e porterà avanti, insieme ad altri, una diversa linea di pensiero. Un altro tema molto importante, che viene trattato nei primi numeri della nuova direzione fino al 215, è il tema dei musei, con conseguente rapporto fra architettura e museo. Già nel 202 ci sono articoli di Argan, Architettura del museo, sul PAC di Gardella e sui Problemi di museografia. Samonà scrive un contributo sulla museografia presentando il Museo al Castello Sforzesco dei BBPR. Albini presenta il Museo del Tesoro di San Lorenzo.


Gardella, Michelucci e Scarpa insieme collaborano per alcune sale della Galleria degli Uffizi. Questo tema rientra perfettamente nel filone culturale di Rogers e in quello che possiamo definire il «laboratorio Casabella», nel quale si tratta ancora di Carlo Scarpa a Palazzo Abatellis e al Museo di Castelvecchio, del Castello Sforzesco dei BBPR, del Tesoro di San Lorenzo a Palazzo Bianco di Albini. Per comprendere la poetica di Rogers espressa sulla rivista durante la sua direzione non si può trascurare l’editoriale del numero 215, nel marzo-aprile 1957: Continuità o crisi? Il termine crisi non è una novità per il nostro, essendo infatti già utilizzato nel primo editoriale Continuità e spesso ricorrente. Va rilevato che all’atto della pubblicazione del numero 215, De Carlo aveva abbandonato da pochi mesi la co-redazione della rivista, svolta con Gregotti e Zanuso, e questo «strappo» provoca conseguenze rilevanti. Gregotti con l’uscita di De Carlo diventerà il redattore capo – ruolo molto importante nella costruzione della rivista – mentre nella redazione entrano a far parte personaggi di grande rilievo come Argan, Ricucci, Nervi, Paci, Quaroni, Samonà, Sacchi e Zanuso. La vecchia struttura è completamente rivoluzionata. Continuità o crisi? Continuità indica mu­tazione nel­ l’ordine di una tradizione. Crisi invece è rottura, rivoluzione. Momento di discontinuità dovuta a fattori nuovi. Il Movimento Moderno ormai è uno stile che non ha più metodo, si affacciano il Liberty e il Neoliberty che entrano all’interno del dibattito. Tra le riflessioni più significative sul binomio continuità-crisi è proprio quella di Rogers espressa nell’articolo citato. Egli infatti scrive: «Considerando la storia come processo, si potrebbe dire che è sempre continuità o sempre crisi a seconda che si vogliano accentuare le permanenze piuttosto che le emergenze […]. Il concetto di continuità implica quello di mutazione nell’ordine di una tradizione. Crisi è la rottura-rivoluzione, cioè il momento di discontinuità dovuto all’influenza di fattori nuovi non reperibili nei momenti precedenti se non come contrari a quelli che

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scaturiscono, per opposizione, dall’impellente esigenza di novità sostanziali»13. Indubbiamente lo scritto con questo titolo è tra i più problematici concepiti da Rogers. Infatti, quando egli parla spe­cificatamente della crisi, si esprime in questi termini: a mio parere questa crisi non c’è, perché se si considerano le opere migliori degli artisti più sensibili e si pone attenzione alle loro critiche, le più valide e le più profonde dipendono, più o meno consapevolmente, dalle istanze del Movimento Moderno stesso e pretendono, per essere giudicate, che si usi un criterio simile a quello che è stato adoperato finora14. Relativamente a questo editoriale rimandiamo alla seguente osservazione: Se resta vero che all’insegna della continuità Rogers fu tra i primi a teorizzare la necessità per la giovane architettura di guardare alla storia, dando inizio al dibattito sull’uso della stessa ai fini progettuali è altresì vero che quell’interrogativo contenuto nel titolo del saggio esaminato, non ebbe una convincente risposta. Per cui, paradossalmente, l’alternativa si risolse in una coesistenza dei due termini che conteneva lasciando la questione sostanzialmente aperta15. Nell’ottobre del 1959 Rogers intitola I CIAM al museo il suo editoriale, scaturito dalla chiusura del CIAM e da una discussione polemica che vede coinvolti gli italiani. Nell’ultima edizione del congresso gli italiani presenti, con i propri progetti, sono quattro: lo stesso Rogers, che presenta la Torre Velasca, polemicamente contro gli attacchi da parte degli inglesi; Giancarlo De Carlo, che porta le Residenze a Matera, da poco terminate, un complesso architettonico particolarmente difficile; Ignazio Gardella con la Mensa Olivetti e, infine, Vico Magistretti con la Casa Arosio ad Arenano. Nonostante le quattro opere siano presentate – come dice e sottolinea chiaramente Rogers nel suo editoriale – a titolo personale, i quattro italiani vengono accomunati, con il loro consenso, e «ritenuti dei traditori veri e propri», per la loro volontà di «uccidere» il Movimento Moderno. Quel dibattito così ferreo, così interessante, in Italia viene negato, tanto


da portare anche alla chiusura dei CIAM. Quindi finisce quel lungo periodo, quel noioso periodo dei CIAM che Rogers ricorda in questo suo editoriale. I CIAM oramai vanno al museo, i CIAM non servono più a niente, i CIAM non ci sono più […]. Anche se dichiara che i CIAM hanno rappresentato il momento di maggiore impegno e solidarietà all’architettura moderna16. Un altro periodo significativo è segnato dalla polemica scaturita a seguito dell’articolo di Reyner Banham del 1959 Neo­liberty: the italian retreat from modern architecture, pubblicato sulla rivista «Architectural Review» da lui diretta, nel quale critica aspramente certe manifestazioni dell’architettura italiana di quegli anni e inoltre arriva a sostenere che la rivoluzione nella casa cominciò con le cucine elettriche, gli aspirapolvere, il telefono, il grammofono e tutti quegli altri ausili meccanici che favoriscono il vivere bene e che tuttora invadono le pareti domestiche ed hanno definitivamente mutato la natura stessa della vita della casa e il significato dell’architettura delle abitazioni17. Rogers risponde con un un suo scritto dal significativo titolo L’evoluzione dell’architettura. Risposta al custode dei frigidaire pubblicato sulla sua rivista18. Dalla polemica tra i due emergono posizioni radicalmente diverse. Per Banham, la degenerazione stilistica subita dall’architettura moderna intorno al 1930 non giustificava la ricerca nel passato di soluzioni a problemi già risolti. Banham si oppone esplicitamente al recupero dell’Art Nouveau fatto da certi architetti italiani sostenuti da Rogers sulla sua rivista. È convinto che il recupero del passato nel­l’ambito delle arti può essere giustificato solo se si ripete una situazione analoga a quella del tempo che si pretende di far rivivere: ma, a suo giudizio, questo non accade mai. Nuovi fattori culturali deformano le condizioni alla base del fenomeno originale: era successo così nel Rinascimento, con la forte influenza del cristianesimo; e nel Neoclassicismo, dove la referenza al mondo classico conviveva perfettamente con l’industrializzazione19. Rogers invece sosteneva l’importanza della conoscenza del passato e fu tra i primi a

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teorizzare la necessità per la giovane architettura di guardare alla storia dando inizio al dibattito sul­l’uso della stessa ai fini progettuali. Con il suo articolo, oltre a dare una vera e propria lezione di storia dell’architettura. egli tendeva a sostenere i suoi allievi impegnati a mettere in pratica quanto la rivista teorizzava. Concordiamo con un giudizio recentemente espresso: Come che fosse la polemica, personalmente ritengo che […] il fenomeno del Neoliberty costituì – insieme con Casabella-continuità, che resta la maggiore rivista d’architettura dal dopoguerra ad oggi – dalla seconda metà del secolo scorso il fatto più importante, almeno sul piano dell’evoluzione del gusto, sia nel campo dell’architettura che in quello del design20. Sono gli anni, fino al numero 294-295 del dicembre-gennaio 1965, che è l’ultimo della «Casabella» di Rogers, in cui è in atto una mutazione molto importante. L’uscita è dedicata all’architettura americana e l’editoriale presenta ancora una volta un titolo interrogativo: Discontinuità o con­tinuità? Il direttore pone degli interrogativi sul futuro della rivista e, con essa, anche su un momento di intenso e proficuo dibattito teorico e architettonico che ha almeno in piccola parte influito sullo sviluppo del paese. Egli si chiede: Il gruppo che succederà, che è stato chiamato, avrà un programma simile? E risponde: Se sarà un programma simile ci sarà continuità, se no ci sarà una discontinuità. Per poi tendere a rimarcare la fine di un’era. Come è stato notato da Ciucci: è come un nuovo inizio in cui Casabella non giocherà più quel ruolo che aveva giocato negli anni precedenti, non sarà più un centro così forte del dibattito, non avrà più quest’apertura conflittuale ma molto positiva. Però i germi sono lanciati, il rinnovamento è lanciato, una nuova discussione è aperta, i temi nuovi sono quelli di una nuova maniera di vedere il rapporto con le preesistenze ambientali ma anche un nuovo rapporto con ciò che esiste o si sta trasformando sotto gli occhi nel territorio delle città. Molti […] che hanno collaborato alla rivista e tra questi Tafuri, che è l’ultimo arrivato ma collabora anche lui inizialmente con Casabella, si ritroveranno qui a Ve-


nezia, anzi l’articolo di Tafuri, Per una critica dell’ideologia architettonica, nasce proprio nell’ambito veneziano, nei rapporti veneziani nuovi che si sono instaurati. Quindi in qualche maniera si ha conto di questa complessità, anche qui, nasce proprio a partire da quella Casabella, da quei dibattiti, fino alla conclusione del ’65 che però è anche una apertura, perché le persone che hanno lavorato dentro la rivista «Casabella-continuità» hanno continuato poi la loro azione21. Rogers ha rappresentato con i suoi interrogativi, con la sua critica militante, con le sue stesse architetture una parte critica e operativa intermedia fra il Movimento Moderno e la presente condizione post-moderna, fornendo un contributo «atemporale» un pensiero di grande attualità ed essenzialità sia per la critica, sia per la storia, sia per la progettazione. Egli rappresenta in sostanza una presenza ancora viva, che può essere ricordata con le stesse parole che Rogers ha usato per ricordare van de Velde: Credo che nessuna commemorazione sarebbe stata più gradita a Henry van de Velde quanto quella di farlo sentire come una presenza: non come qualcosa che si è chiuso, ma come qualcosa che continua e si perpetua trasformandosi in noi. Come ciò che accettiamo e rifiutiamo per favorire le mutazioni della nostra vita e produrre, con le energie acquisite, nuovo lavoro22.

1   Nato a Trieste da padre inglese e madre italiana di religione ebraica, si laureò in architettura presso il Politecnico di Milano nel 1932. Nello stesso anno fondò con Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti e Gian Luigi Banfi lo studio di architettura BBPR. 2   Tra i convegni vanno annoverati: «L’esporre e il ricordare del­ l’architettura dei BBPR», convegno organizzato in occasione del centenario dalla nascita degli architetti Lodovico B. Belgiojoso (19092004) e Ernesto N. Rogers (1909-1969) dal gruppo di ricerca Architettura Musei Reti della Facoltà di Architettura dell’Università di Parma, coordinato dal prof. Aldo De Poli, tenuto a Carpi (Modena) il 16 maggio 2009; il convegno internazionale di studi in onore di E.N. Rogers a cura del Dottorato di Ricerca in Composizione Architettonica 16 ottobre 2009, Venezia, Palazzo Badoer; Esperienza dell’Architettura: Ernesto Nathan Rogers (1909-69), seminario internazionale di studi

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promosso dalla Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano con la collaborazione della rivista «Casabella-Continuità», 2-4 dicembre 2009. Tra le più recenti ed aggiornate pubblicazioni va citata E. Lòpez Reus, Ernesto Nathan Rogers continuità e contemporaneità, Christian Marinotti Editore, Milano 2009. 3  E.N. Rogers, Lettere di Ernesto a Ernesto e viceversa, a cura di Luca Molinari, Archinto, Milano 2000 (prefazione di D. Vitale) e E. Lòpez Reus, op. cit. 4   Cfr. E. Mantero (a cura di) Il razionalismo italiano, Zanichelli, Bologna 1984. 5  C. de Seta, Architetti Italiani del Novecento, Laterza, RomaBari 1987, p. 343. 6  E.N. Rogers, Gli elementi del fenomeno architettonico, Cristian Marinotti Edizioni, Milano 2003, p. 101; poi in E. Lòpez Reus, op. cit., p. 169. 7  C. de Seta, op. cit., p. 347. 8  J. Dewey, Teoria della valutazione (1939), La nuova Italia, Firenze 1963, p. 90; poi in R. De Fusco, C. Lenza, Le nuove idee di architettura. Storia della critica da Rogers a Jencks, Etas Libri, Milano 1991, p. 32. 9  E. Mantero, op. cit., p. 19. 10   Una attenta disamina dei contenuti critici della rivista «Casabella-continuità» durante la direzione di E.N. Rogers è stata tenuta da Giorgio Ciucci nel suo intervento al Convegno di Venezia del 16 Ottobre 2009. 11  E. Lòpez Reus, op. cit., p. 33. 12  E.N. Rogers, Le preesistenze ambientali e i temi pratici contemporanei, «Casabella-continuità», n. 204, febraio-marzo 1955. 13  R. De Fusco, C. Lenza, op. cit., p. 33; cfr. E.N., Rogers, Continuità o crisi? in «Casabella-continuità», n. 215, aprile-maggio 1957; E.N. Rogers, in Esperienza dell’architettura, Einaudi, Torino 1958 pp. 203-204. 14  E.N. Rogers, Continuità o crisi?, cit., p. 205. 15  R. De Fusco, C. Lenza, op. cit., p. 36. 16   I Ciam al Museo, in «Casabella-Continuità» n. 232, ottobre 1959, pp. 2-3. 17  R. Banham, Neoliberty: the italian retreat from modern architecture, in «Architectural Review», n. 747, aprile 1959, pp. 231-235. 18  E.N. Rogers, L’Evoluzione dell’architettura. Risposta al custode dei frigidaire, in «Casabella - continuità» n. 228 giugno 1959, pp. 2-4. 19  E. Lòpez Reus, op. cit., pp. 84-85. 20  R. De Fusco, Made in Italy. Storia del design italiano, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 150. 21   G. Ciucci, intervento al Convegno di Venezia, cit. 22   Henry van de Velde o dell’evoluzione in «Casabella-continuità» n. 237, marzo 1960, p. 3.

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Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico PIER PAOLO PERUCCIO

Le vicende del “design politecnico” contenute in questo breve scritto riguardano un arco temporale molto limitato rispetto alla storia dell’ateneo torinese, un periodo segnato fondamentalmente da due precedenti eventi: il primo, nel 1859, con l’istituzione della “Scuola di applicazione per gl’ingegneri” e il secondo, nel 1906, con la fusione della sopraccitata scuola con il “Regio museo industriale”1. La storia indagata è infatti quella dei protagonisti, delle forme di indagine scientifica e dei prodotti di design di matrice politecnica – prendendo a prestito una definizione dello storico piemontese Giulio Carlo Argan, relativa ai modelli formali che possono essere riprodotti in migliaia di esemplari senza perdere nulla della propria qualità2 – progettati a partire dal 1969, da quando il primo corso di Disegno industriale (allora Progettazione artistica per l’industria) viene affidato all’architetto milanese Achille Castiglioni. Una storia che, in anni recenti, pren­de in considerazione numerose forme di Design (dal de­sign sistemico al design per componenti) sulla base del diverso significato che questa parola assume nel tempo, come ricorda Flaviano Celaschi in un suo recente scritto riferendosi alla cultura politecnica: Design è una parola-problema attraverso la quale comunemente si intendono due differenti significati: nel sentire comune design è sinonimo “pop” di avanguardia formale e di stile moderno. (…) Design è

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però anche sinonimo di progetto, una delle parole che meglio caratterizzano e identificano il fare industriale come cultura e come capacità di modificare la realtà a partire da un agire programmato di risorse disponibili, in tempi pianificati e con un risultato definito a priori, mediando tra gli interessi del sistema di produzione e quello di consumo. E questa è l’accezione del termine che utilizziamo nell’università del progetto per eccellenza: il Politecnico3. Questa precisazione di intenti è necessaria per fugare ogni dubbio sulla pericolosa assenza di figure torinesi di primo piano come Carlo Mollino, la cui produzione straordinaria di mobili e oggetti mancava volutamente della caratteristica, fondamentale per il disegno industriale, della ripetibilità, o di due protagonisti della cultura architettonica italiana, quali Roberto Gabetti e Aimaro Isola, autori, tra gli altri, di alcuni formidabili pezzi unici per la Bottega d’Erasmo e di arredi in serie limitate per il Residenziale Ovest di Ivrea. Così nel 1991 Gabetti scrive in Atti e Rassegna Tecnica: Non eravamo iscritti a nessun ADI (Associazione per il Disegno Industriale, nda), non ci sentivamo protagonisti nel campo del design; ma ci dedicavamo al progetto di arredi con una certa regolarità e costanza, anche per accontentare quegli amici e conoscenti che mettevano su casa in città o in montagna, quei clienti che volevano rinnovare il negozio, il magazzino, lo studio. (…) Così, senza computer e senza laboratori, con poche punte scriventi in bianco e nero, a colori, abbiamo tracciato alcuni segni, che portavano a realizzare alcuni mobili. Ci è stato di grande sostegno, in questa modesta attività, il motto di Rogers «dal cucchiaio alla città»: un motto di grande suggestione, almeno anche per noi, che appartenevamo a quel «circuito generazionale» del 1925-304. L’imprenditorialità piemontese, non a torto vanto dell’economia italiana, ha conosciuto solo recentemente il ruolo di avanguardia svolto dal Politecnico di Torino nella ricerca e didattica nel campo del disegno industriale e que-


sto nonostante un interesse diffuso per le discipline del disegno industriale manifestato a partire dalla metà degli anni cinquanta: dopo il primo corso attivato a Torino nel 1969 si dovrà così attendere quasi trent’anni per l’istituzione, nel 1996, di un diploma universitario di studi, secondo in Italia, dedicato specificamente alla formazione del designer. L’inclusività è stata, fin dalle origini, una delle caratteristiche principali del disegno industriale e del mondo che ad esso ruota intorno. L’atipicità di questa professione ha rappresentato per anni una risorsa fondamentale delle università italiane: la capacità di aggregare saperi diversi, il porsi nel mezzo di una ideale convergenza delle discipline, la capacità di intrecciare conoscenze tecnico-scientifiche insieme a quelle umanistiche secondo un procedere politecnico, sembra ancora oggi, infatti, la principale caratteristica e fortuna dei corsi di disegno industriale (e lo confermano l’alto numero degli studenti che ogni anno scelgono questi corsi di laurea). Quasi un distillato dello spirito che anima la scuola politecnica, torinese e non solo, e che ha raccolto intorno al vocabolo design anime culturalmente diverse dell’ateneo: da Giuseppe Ciribini ad Achille Castiglioni, da Enzo Frateili a Giorgio De Ferrari, da Luigi Bistagnino a Claudio Germak e Flaviano Celaschi. Personalità e culture eterogenee che hanno contribuito tutte a dare forma a una metodologia progettuale rigorosa che guarda all’intero sistema-prodotto e alle sue relazioni con l’ambiente più che all’oggetto come simbolo e valore in sé. Già al I Congresso Internazionale dell’Industrial Design, tenutosi a Milano alla fine di ottobre del 1954, si era dibattutto sulla possibilità di annoverare il disegno industriale tra le discipline universitarie e Argan aveva terminato la sua relazione auspicando la creazione di una «grande scuola di design» come strumento di progresso sociale in chiave riformista5. Dopo quell’esperienza, come ricorda Pierluigi Spadolini, domandammo al Ministero della pubblica istruzione di aderire ad accogliere la nuova disciplina nei program-

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mi della Facoltà di architettura. Il Ministero dopo due anni decise di approvare ufficialmente l’insegnamento, ma impose quell’infelice definizione di Progettazione artistica per l’industria per un eccesso di autarchia linguistica, dato che la dizione industrial design appariva troppo anglosassone ed esterofila per essere accettata così com’era6. Negli stessi anni del congresso milanese prende forma a Ulm la Hochschule für Gestaltung (HfU), la seconda più importante scuola di progettazione del secolo scorso dopo il Bauhaus, al cui progetto didattico aderiscono Giuseppe Ciribini, gastdozent alla HfG tra il 1958 e il 1959, e successivamente, per un breve periodo, Enzo Frateili. Sono questi gli anni in cui si cerca di dare un assetto istituzionalizzato alla formazione del designer e la HfU costituisce più di un modello per la fondazione di scuole del progetto tanto a Rio de Janeiro quanto a Parigi o in paesi come il Cile e l’India7. Anche Ciribini, al rientro da Ulm, partecipa nel 1961 a Venezia alla II Assemblea Generale dell’International Council of Societies of Industrial Design (ICSID) e in quell’occasione presenta alla comunità internazionale il programma di una scuola sperimentale in design certamente vicino al modello ulmiano8. Qualche anno dopo, nel 1963, Ciribini entra al Politecnico di Torino su proposta dell’architetto e urbanista Cesare Bairati. Qui viene chiamato dalla Facoltà di Architettura a ricoprire la cattedra di «Elementi Costruttivi» e più tardi di «Tecnologia dell’architettura»; a Torino dirige l’Istituto di Elementi Costruttivi, divenuto in seguito Istituto di Tecnologia dell’Ambiente Costruito, e dal 1981 fino al 1988 il Di­partimento di Progettazione Architettonica9. Il periodo torinese si caratterizza per un raffinamento della ricerca negli ambiti della metodologia, della standardizzazione edilizia, della coordinazione modulare e della tecnologia dell’architettura e verso nuovi percorsi di ricerca, insieme teorici e progettuali, nella direzione di un sapere realmente interdisciplinare che guarda ad autori come Christopher Alexander ma anche Norbert Wiener, Abraham Moles e Ludwig


Von Bertalanffy. Infatti, l’interesse per l’organizzazione del lavoro e del sapere, che pur rimangono costanti delle riflessioni del tecnologo milanese, sono arricchite, in un percorso condiviso con altri architetti della sua generazione, dal­ l’apertura alla filosofia come alla semiotica, alla cibernetica, alla sistemica e alla teoria dell’informazione nel tentativo di superare gli steccati tra discipline diverse e garantire scientificità all’attività progettuale in un’ottica di progressiva complessità. Sarà ancora Ciribini a introdurre nei corsi progettuali della Facoltà di Architettura un approccio metodologico rigoroso fondato sulla precisa corrispondenza di esigenze, requisiti e prestazioni, per offrire sulla scorta delle lezioni di Alexander, una impalcatura metologica e scientifica per qualsiasi azione progettuale10. Su queste basi culturali, nell’area disciplinare della Tecnologia, prende forma al Politecnico un modo colto di disegnare prodotti al di fuori di logiche estetico-formali: la definizione della “forma” – scrive Giorgio De Ferrari – è intesa quale risposta ai bisogni funzionali, espressivi, di mercato, ambientali e di costume: bisogni che dovranno essere individuati, approfonditi e quanto più possibile esplicitati in “requisiti”. L’insieme di questi formerà quel “sistema delle esigenze dell’utenza” la cui definizione è ritenuta fase fondamentale del progettare, quella che richiede la maggior dose di creatività: porre al progetto domande intelligenti11. Apparentemente su altre premesse sembra poggiare invece il modo di progettare di Castiglioni quando nel 1969, già vincitore di cinque Compassi d’Oro, è chiamato al Politecnico di Torino, alla sua prima esperienza didattica, a insegnare Progettazione Artistica per l’Industria. Rimane nel capoluogo piemontese fino al 1981, un decennio di intensa attività sia nel campo professionale, in collaborazione anche con Gianfranco Cavaglià, sia nell’insegnamento, attraverso memorabili lezioni centrate sulla critica agli oggetti esistenti e ai modi di produzione. L’architetto milanese, infatti, durante le lezioni era soli-

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to estrarre dalla borsa, quasi come in uno spettacolo di magia, oggetti collezionati negli anni come forbici, martelli, molle, sovrascarpe, occhiali e altri prodotti interessanti per il rapporto forma/funzione, e sollecitare gli studenti a scoprire la sapienza progettuale presente in questi manufatti12. Tra quelli a lui cari, e su cui più si soffermava nelle discussioni in aula, un bicchiere portatile, di autore sconosciuto, formato da due lamiere che piegandosi una sull’altra creano un contenitore di liquidi a evocare la forma naturale a cono dei palmi delle mani uniti nell’atto del bere. Tra i suoi progetti invece l’interruttore rompitratta realizzato nel 1968 da VLM in milioni di esemplari, interessante perché scelto dal fruitore indipendentemente dalla firma del progettista per la sua validità progettuale e costruttiva13. Fin dai primi anni settanta il corso di Castiglioni, pur facoltativo nella Facoltà di Architettura, è tra i più frequentati dai giovani studenti. Pertanto nel 1978 l’allora preside Mario Federico Roggero decide di ampliare l’offerta attivandone un secondo. Da una parte il corso progettuale ma di impostazione teorico-critica di Castiglioni, con assistenti Chiara Comuzio, Eugenio Bettinelli e Luciano Salio14; dal­ l’altra quello di De Ferrari, con Bistagnino assistente, un taglio metodologico-progettuale fondato su un approccio scientifico, sulle «tabelle esigenziali», e sul tentativo di stabilire relazioni virtuose tra mondo dell’università e quello imprenditoriale piemontese. «Il settore automobilistico è certamente quello trainante, ma non il solo significativo – afferma De Ferrari –: il suo corrispondente design, peraltro, per non restare ad un livello velleitario, richiede specializzazione e peculiarità di competenze, che non possono essere seriamente offerte nei contenuti tempi attuali. Abbiamo pertanto individuato altri settori che, compatibilmente con i tempi, potessero utilizzare la preparazione di base dei piani di studio e consentissero di praticare “il progetto di design”. Un settore individuato è relativo all’oggetto a consistente contenuto tecnologico; un altro è relativo alle attrezzature seriali di arredo urbano. Quest’ultimo, seppur piuttosto inflazionato, re-


sta un buon punto di incontro tra il prodotto seriale del design e il controllo ambientale dell’architetto15. È proprio il sistema dell’arredo urbano a informare, almeno inizialmente, i corsi progettuali di design e a far germogliare nelle aule del Politecnico una cultura del prodotto per lo spazio pubblico come ambito di ricerca strategico, ma allargando il campo d’intervento, fin da subito, anche alla progettazione, per esempio, di percorsi ciclabili e pedonali o di rotatorie e incroci stradali. Dai sistemi di arredo urbano, la collaborazione con le imprese piemontesi si estende, in anni più recenti, a numerosi altri settori merceologici, in particolare attraverso work­ shop, stage in azienda e ricerca applicata: per rendersi conto delle infinite occasioni di scambio che possono instaurarsi tra l’università e il territorio è sufficiente una scorsa al catalogo di Piemonte Torino Design16, mostra, con itineranza internazionale, che individua e fa conoscere a un largo pubblico la presenza nell’area torinese di un caleidoscopio di progettualità diffusa associata a una – mediamente – alta qualità di manufatti. La mostra colloca gli oggetti uno vicino all’altro, idealmente e fisicamente, raggruppandoli in una ventina di sezioni corrispondenti per lo più ai distretti e cluster produttivi (automotive, tessile, metalli preziosi, food ecc.). Assente, per scelta curatoriale, l’analisi dei processi progettuali che aveva caratterizzato la prima edizione del 199517, a favore di una maggior ampiezza della collezione degli oggetti (oggi di proprietà del Politecnico di Torino): tra questi, i prodotti in poliuretano schiumati a freddo di inizio anni settanta realizzati dalla Gufram e presenti nei principali seminal books relativi alla storia del disegno industriale italiano. A documentare il periodo pop, il Cactus di Guido Drocco e Franco Mello, l’oggetto icona del cosiddetto radical design di matrice piemontese, forse il più rappresentativo della collezione i Multipli insieme al Pratone di Giorgio Ceretti, Piero Derossi e Riccardo Rosso. A Torino, infatti, come avviene in altre città, architetti-designer riuniti in associazioni (Anomima Design, Strum, Studio 65) trovano

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nelle Facoltà di Architettura in agitazione di fine anni sessanta il luogo privilegiato per saldare alcune loro istanze sociali con quelle degli intellettuali torinesi, dei gruppi sindacali o delle redazioni di riviste più politicamente impegnate come, ad esempio, “Classe Operaia”. Il più delle volte il lavoro di questi designer si traduce in un antidesign, un’opera concettuale, un discorso polemico e radicale, che mina le fondamenta della socità consumistica e dell’oggetto di design come risultato soltanto della dialettica tra forma e funzione. Tra i risultati più interessanti certamente i tre pam­phlet politici, detti «fotoromanzi», realizzati nel 1972 dal gruppo Strum18 in occasione della mostra Italy: The New Domestic Landscape aperta lo stesso anno al Museum of Modern Art di New York19: la scelta fatta da questo gruppo – scrive Umberto Eco in una recensione della mostra – è senz’altro la più coerente fra tutte. A chi potrebbe obiettare che non ha nulla a che fare col design si potrebbe rispondere che essa ha a che fare con una decisione politica presa da un gruppo di designers20. Un decennio dopo, nel 1983, Castiglioni è chiamato a insegnare al Politecnico di Milano. Al suo posto Ciribini propone il nome di Enzo Frateili, storico e critico del design laureato presso la facoltà di architettura di Roma, già docente a Milano negli anni cinquanta, a Ulm nel 1963 poi a Trieste, a Venezia, a Roma e ancora a Milano. Frateili accetta l’incarico e subentra così al designer milanese nell’anno accademico 1982-83 conservando la cattedra di disegno industriale, con particolare attenzione alla storia e alla teoria del design, fino alla cessazione dell’attività didattica nel 1988. Nello stesso periodo esce il suo volume Il Disegno Industriale italiano 1928-1981. Quasi una storia ideologica21, una delle prime ricognizioni storiche sul design italiano e quasi coevo degli altri più celebri volumi di Vittorio Gregotti e di Renato De Fusco22. Negli anni novanta, nella facoltà di architettura, a Torino come a Milano e in altre città, si riprende e intensifica il dibattito intorno alla possibile autonomia disciplinare oltre che culturale e professionale del designer. La vicinanza del­


l’indirizzo del disegno industriale al mondo dell’architettura, caratteristica che rende assolutamente originale questo percorso formativo rispetto agli altri paesi, è considerata risorsa e al tempo stesso debolezza: per alcuni il design è «valvola di sicurezza»23, per altri «ruota di scorta»24 necessaria a integrare una formazione dell’architetto che si sta diversificando; viene riconosciuta la «capacità di rinnovarsi linguisticamente, di sperimentare nuove strade e linguaggi», si avverte tuttavia la necessità di saldare la frattura tra mondo della formazione e dell’industria per non radicalizzare «l’identità di un Design più intellettuale che realmente operativo»25. In questo contesto, nel 1994 a Milano nasce il primo corso di Laurea in Disegno Industriale che nel 2000 diventerà Facoltà del Design; parallelamente, nel capoluogo piemontese viene attivato nel 1996 il Diploma in Disegno Industriale trasformato tre anni dopo in Corso di Laurea26. Nei primi anni del nuovo secolo si verifica uno straordinario interesse verso queste discipline accompagnato dalla proliferazione di corsi di laurea in design in numerose facoltà italiane; per intercettare questa domanda anche il Politecnico di Torino attiva nel 2001 un secondo Corso di Laurea in Progetto Grafico & Virtuale e, l’anno seguente, una Laurea magistrale in Ecodesign27. Quest’ultima rappresenta per i giovani progettisti uno dei percorsi formativi più innovativi in Europa per affrontare la questione ambientale attraverso gli strumenti del Design sistemico28. Sulla scorta delle riflessioni avviate in campo progettuale da Alexander29 fino a Ciribini30, attraverso la lente della cultura sistemica del secondo dopoguerra (Norbert Wiener, Ludwig Von Bertalanffy, Henri Lefebvre e Pierre Bourdieu) si progettano sistemi industriali aperti in cui non esistono scarti di produzione. In una recente pubblicazione per i tipi di Allemandi dedicata all’attività di ricerca del design politecnico emerge infatti la necessità di ri-orientare oggi la professione del designer verso un «nuovo umanesimo» del progetto in cui scompare, non solo metaforicamente, l’oggetto fisico e si

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rafforza, invece, il peso del processo metodologico e del metaprogetto31. A una domanda di design che muta nel tempo deve corrispondere un’altrettanto diversa impostazione metodologica e didattica: la grande stagione della cultura politecnica e della linearità dei processi di trasferimento tecnologico è entrata in crisi. La disciplina stessa si è trasformata, il messaggio si è divaricato, entrano in gioco altri valori come la sostenibilità ambientale e il procedere per sistemi32: il «come fare» basato su una lettura conservativa dei problemi (e della loro risoluzione) appare oggi quasi anacronistico; oggi, rileva Germak, al designer viene richiesto «che cosa fare», cioè la progettazione «strategica» di uno scenario in grado di andare oltre l’innovazione di prodotto fine a se stessa sviluppando temi ad ampio raggio su cui devono necessariamente convergere gli altri saperi33. Così Luigi Bistagnino scrive recentemente: Quando si parla di attività produttive non si intendono unicamente quelle industriali ma, sullo stesso livello e con pari dignità, anche quelle agricole. (…) La compresenza armonica di agricoltura, industria e collettività con il Sistema Naturale, all’interno dello stesso contesto territoriale, è la chiave fondamentale di un modello produttivo di sviluppo sostenibile34. La proposta è affascinante, non produrre di più ma produrre meglio, dove gli scarti di una fase della produzione (output) costituiscono risorsa (input) per un altro processo produttivo. Questa appare come una delle sfide più interessanti per attivare processi virtuosi di crescita di un territorio: lo evidenzia la recente applicazione del design sistemico a una manifestazione fieristica, eventi normalmente ad elevato impatto ambientale, in cui si è intervenuti progettando nuovi scenari sostenibili di consumo degli scarti della fiera e, ove possibile, a monte del processo, un corretto uso delle risorse35. Si tratta quindi di una metodologia progettuale che guarda non soltanto allo sviluppo di un singolo prodotto, ma dell’intero «sistema-prodotto» collocato in un preciso contesto sociale, politico, economico e culturale. Dagli


stessi presupposti prende avvio anche l’approccio di Design per componenti per progettare, insieme agli altri attori fondamentali del processo (designer, industriali, legislatori, utenti…), un oggetto complesso (per esempio un elettrodomestico) inteso come concretizzazione di idee, pensieri e strategie diversificate ma comunque tutte interrelate le une alle altre e relazionate con le fasi del ciclo di vita del prodotto progettato36. Un “guscio esterno visto dall’interno” in cui l’ottimizzazione produttiva dei componenti interni dà anche vita a nuove ed espressive, ad oggi, conformazioni esterne.

1   Cfr. V. Marchis (a cura di), Disegnare progettare costruire. 150 anni di arte e scienza nelle collezioni del Politecnico di Torino, Editris Duemila, Torino 2009. 2  G.C. Argan, Industrial design e cultura, relazione tenuta il 28 ottobre 1954 al I Congresso Internazionale dell’industrial design, Teatro dell’Arte, Milano. Gli atti del Congresso sono raccolti nel volume La memoria e il futuro, I Congresso Internazionale dell’Industrial Design. Triennale di Milano 1954, Skira, Milano 2001 (citazione a p. 20). 3   Cfr. F. Celaschi, Il design come mediatore tra i saperi, in C. Germak, (a cura di), Uomo al centro del progetto. Design per un nuovo umanesimo, Allemandi & C., Torino 2008, p. 19. 4  R. Gabetti, Arredi e Architettura: continuità della professione di architetto, in «Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino», Anno XLIII, n. 11-12, novembre-dicembre 1991, p. 541. 5  Cfr. La memoria e il futuro, I Congresso Internazionale dell’Industrial Design. Triennale di Milano 1954, Skira, Milano 2001, pp. 22-23. 6  P. Spadolini, La crescita di una ricerca, in N. Sinopoli (a cura di), «Design italiano: quale scuola?», Franco Angeli, Milano 1990, p. 80. 7  B.E. Bürdek, Storia, teoria e prassi del disegno industriale, Mondadori, Milano 1992, p. 47. 8  G. Ciribini, A. Pupi, G. Romano, Delineazione e impostazione sperimentale di una scuola di design industriale, Venezia, 16 settembre 1961, dattiloscritto, Archivio Giuseppe Ciribini. 9   Poi Dipartimento di Progettazione Architettonica e di Disegno Industriale (DIPRADI). 10  C. Alexander, Notes on the synthesis of form, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1966; ed. it.: Note sulla sintesi della forma, Il Saggiatore, Milano 1967.

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11   Giorgio De Ferrari, bozza di articolo inviato a Silvana Annichiarico, redazione della rivista «Modo», 31 dicembre 1998, Archivio Giorgio De Ferrari. 12   «Il progetto è, o deve essere, sempre negazione o contestazione dell’esistente» scrive Castiglioni, in A. Castiglioni, Argomenti sul Disegno Industriale, in E. Bettinelli, Oggetto e progetto. Dal disegno industriale al comportamento utopico, Franco Angeli, Milano 1987, p. 7. 13  P. Ferrari, Achille Castiglioni, Electa, Milano 1984, p. 132. 14   Con contributi specifici offerti, tra gli altri, da Giuseppe Ciribini, Anna Maria Talanti, Dario Corno e Gianfranco Cavaglià. Cfr. A. Catiglioni, Programma del corso «Progettazione Artistica per l’Industria», corso 1, a.a. 1979-80 (Museo Achille Castiglioni, Milano). 15  G. De Ferrari, Una giusta strada difficile, in «Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino», Anno XLIII, n. 11-12, novembre-dicembre 1991, p. 558. 16  C. Germak (a cura di), Piemonte Torino Design, Electa, Milano 2006; la mostra è diretta da Giorgio De Ferrari e curata da Claudio Germak e Claudia De Giorgi. Si veda www.piemontetorinodesign.it. 17   La mostra «Torino Design - dall’automobile al cucchiaio» si tiene a Torino presso il Museo dell’Automobile dal 6 aprile al 30 giugno 1995. Cfr. «Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino», XLIX-2, dicembre 1995; Torino Design, Allemandi & C, Torino 1995. 18   Il gruppo è formato da Giorgio Ceretti, Piero Derossi, Riccardo Rosso, Carlo Giammarco e Maurizio Vogliazzo. 19   Cfr. P.P. Peruccio, La mostra «Italy. The new domestic Landscape» al Moma di New York, in F.B. Filippi, L. Gibello, M. di Robilant (a cura di), 1970-2000. Episodi e temi di storia dell’architettura, Celid, Torino 2006, pp. 45-50. 20  U. Eco, Dal cucchiaio alla città in «L’Espresso Colore», giugno 1972. 21  E. Frateili, Il Disegno Industriale italiano 1928-1981. Quasi una storia ideologica, Celid, Torino 1983. 22  V. Gregotti, Il Disegno del prodotto industriale, Electa, Milano 1986; R. De Fusco, Storia del Design, Laterza, Bari 1985. 23  G. Bonsiepe, Teoria e pratica del disegno industriale. Elementi per una manualistica critica, Feltrinelli, Milano 1975, p. 107. 24  T. Maldonado, Come insegnare quale design, in N. Sinopoli (a cura di), Design italiano: quale scuola?, Franco Angeli, Milano 1990, p. 42. 25  F. Trabucco, Il corso di laurea in D.I, di Milano, in «Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino», XLIX-2, dicembre 1995, p. 20. 26   Il Diploma viene attivato su iniziativa di Giorgio De Ferrari quando Vera Comoli Mandracci è preside della Facoltà di Architettura; è successivamente trasformato in Corso di laurea con coordinamento affidato a Luigi Bistagnino. 27   Per un approfondimento sul tema «Ecodesign» si veda C. Lan-


zavecchia, Il Fare Ecologico. Il prodotto industriale e i suoi requisiti ambientali, Paravia, Torino 2001. Cfr. anche P. Tamborrini, Design sostenibile. Oggetti, sistemi e comportamenti, Electa, Milano 2009. 28   Sono due i moduli semestrali obbigatori nella Laurea in Ecodesign: «Design Sistemico» e «Design per componenti», si veda: www. polito.it/design. 29   Cfr. C. Alexander, Sistemi che generano sistemi, a cura del Corso di Progettazione Artistica per l’Industria, Facoltà di Architettura, Università di Napoli (s.d.). 30   Cfr. G. Ciribini, Tecnologia e Progetto, Celid, Torino 1984; si veda anche G. Gouthier, I concetti di sistema e di struttura nelle scienze biologiche, sociologiche, linguistiche e antropologiche, Edizioni Quaderni di Studio, Istituto di Elementi di Architettura e Rilievo dei Monumenti della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, Torino 1968. 31  C. Germak, La direzione del cambiamento, in C. Germak (a cura di), Uomo al centro del progetto. Design per un nuovo umanesimo, cit., p. 5. 32  C. Olmo, Design, una mostra e una scommessa, in C. Germak, Piemonte Torino Design, cit., p. 44. 33  C. Germak, La direzione del cambiamento, cit.; cfr. C. De Giorgi, C. Germak, Design dell’esplorazione, in Claudio Germak (a cura di), Uomo al centro del progetto. Design per un nuovo umanesimo cit., pp. 53-70. 34  L. Bistagnino, Design Sistemico, Slow Food Editore, Torino, 2009, p. 20. 35  Cfr. ivi, pp. 130-140; F. Fassio, Un nuovo modello di evento a ridotto impatto ambientale. La visione sistemica applicata al Salone Internazionale del Gusto e Terra Madre 2008, Tesi di Dottorato di Ricerca in Storia dell’Architettura e dell’Urbanistica/Cultura del Design, ciclo XXI, Tutor: Luigi Bistagnino, I Facoltà di Architettura, Politecnico di Torino, 2009. 36  L. Bistagnino, Il guscio esterno visto dall’interno, Casa Editrice Ambrosiana, Milano 2008, p. 6.

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Stile concettuale ROBERTO BORGHI

L’arte tiepida

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Le polemiche scatenate da Collaudi, la mostra tuttora in corso nel Padiglione Italia della Biennale di Venezia, hanno messo in luce lo stato penoso in cui versa il dibattito critico nel nostro paese. Nessuno o quasi dei polemisti è stato in grado di esprimere pareri che andassero oltre il giudizio di gusto o l’inadeguatezza “in termini di sistema” degli artisti prescelti. A fronte di commenti epidermici e tediosi, i sostenitori delle scelte effettuate dai due commissari artistici, Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli, hanno usato toni da guerra di liberazione. Si è infatti parlato di “una breccia nel sistema”, della “fine del pensiero unico in campo artistico”, della creazione di “uno spazio finalmente liberato dallo stra­potere del clan dei curatori”, in un crescendo di dichiarazioni enfatiche che rivelano anzitutto l’ingenuità di chi le ha sottoscritte. Senza dubbio gli artisti scelti da Beatrice e Buscaroli sono lontani anni luce da quelli che, negli ultimi due decenni, hanno riempito con le loro opere il Padiglione Italia. Sul fatto che siano anche artisti migliori, invece, qualche dubbio è lecito averlo. Il cosiddetto “richiamo alla tradizione”, il ritorno ai generi codificati di pittura e scultura, la scelta di realizzare opere “gradevoli e comprensibili” li rendono diversi da quello “stile internazionale”, privo di memoria e


saturo di approssimazione e cerebralismo, che va per la maggiore in mostre come la Biennale – e Documenta e Manifesta e … . Però è anche possibile avere cattiva memoria, si può ricordare poco e male l’arte del passato o la si può citare a sproposito, si può scegliere di confezionare opere gradevoli e confortanti soltanto per accattivarsi le fasce basse del mercato: come accade nel caso di molti artisti italiani presenti in Biennale. Quanto alla “guerra di liberazione”, credere nella “fine di un’era” – quella del predominio dell’arte concettuale – non è che una pia illusione. Una mostra anomala in Biennale non modifica una situazione che, di fatto, è esattamente quella descritta dai nemici del concettuale. Non c’è istituzione museale autorevole – cioè capace di influenzare l’opinione della critica ma soprattutto del mercato – in Italia così come in Europa che non ospiti mostre di artisti riconducibili a questa tendenza. La vera novità degli ultimi anni sta proprio qui: nel venir meno di quella oscillazione tra “poli” a cui si è assistito durante il secondo Novecento. Una legge non scritta ha voluto che arte di ricerca e arte canonica – polarità “fredda” e polarità “calda”, per usare un binomio caro a Renato Barilli – si siano imposte alternatamente, con cadenza decennale, dalla nascita delle seconde avanguardie sino agli anni Ottanta. Quanto abbia pesato su questo moto pendolare la situazione economica, ancor più di quella politica, e le sue ricadute sul mercato dell’arte, è abbastanza facile da dimostrare. Periodi di espansione economica, come gli anni Sessanta e gli Ottanta, hanno visto trionfare un’arte di massa, sensuale, tendenzialmente pittorica e “calda”; periodi di contrazione economica, come gli anni Settanta e Novanta, hanno visto imporsi un’arte elitaria, cerebrale, concettuale e “fredda”. Poi è venuto il decennio che sta per concludersi – un decennio anonimo, anche sul piano della definizione meramente numerica, un decennio che mi sento di chiamare soltanto il “postNovanta” – nel quale, invece di assistere a un ritorno alla pittura, abbiamo visto consolidarsi una tendenza elitaria, vagamente cerebrale, venata qua e là di episodi solo

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apparentemente pittorici, ma in realtà antipittorici – cos’altro è stata la bad painting con tutti i suoi derivati se non una negazione della pittura con gli strumenti stessi della pittura? – che hanno comunque riscaldato la sua temperatura rendendola, se non proprio calda, perlomeno tiepida. Quest’arte dalla temperatura intermedia, praticata da un numero sempre crescente di giovani artisti, viene solitamente definita “concettuale” senza troppi problemi. Anche se qualche problema, perlomeno sul piano del lessico storico-artistico, sarebbe più che legittimo porlo. Un confronto (non solo) terminologico

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Nel linguaggio corrente del mondo dell’arte, dicevamo, l’aggettivo “concettuale” viene generalmente utilizzato per indicare i giovani artisti che, servendosi essenzialmente della fotografia e del video, realizzano installazioni o performance. Si tratta di un evidente abuso terminologico: la storia infatti ha conferito a questa parola un preciso significato, che raramente coincide con quello che le viene attribuito oggi. Se ci atteniamo alla definizione fornita da Sol Le Witt, a cui appartiene il copyright del termine, “concettuale” è l’arte che ritiene “l’idea o concetto l’aspetto più importante del lavoro”1. Non è in questa accezione che oggi viene impiegato l’aggettivo: in questo momento i suoi ambiti di riferimento sono soprattutto il linguaggio espressivo e il clima emotivo di cui è pervasa un’opera. Ma procediamo con ordine: proviamo a istituire un sintetico confronto tra l’arte concettuale storicamente intesa e quella che oggi viene definita tale. L’idea. Per Le Witt e per gli artisti della sua generazione è “una macchina che crea l’arte”, poiché “tutte le programmazioni e decisioni sono stabilite in anticipo e l’esecuzione è una faccenda meccanica”2. Per gli artisti della mia generazione è un prodotto dell’intuito – più che di un intelletto rigorosamente strutturato – che in qualche modo orienta il percorso di realizzazione dell’opera. Da allora, da quando Le Witt ha scritto quelle parole, sono trascorsi molti anni e


si sono succeduti numerosi critici e artisti che le hanno ampiamente discusse. Un mutamento così radicale non è però giustificato dalla semplice distanza cronologica. Un diverso, per molti versi opposto atteggiamento umano, totalmente possibilista e refrattario a qualsiasi apriorismo, caratterizza oggi i cosiddetti “giovani artisti concettuali”. Lo spazio. Insieme al tempo è da sempre al centro di ogni ricerca artistica che si rispetti. L’arte concettuale ha reso evidente questa centralità indagandone in modo spasmodico i fondamenti percettivi e i presupposti filosofici. Apparentemente i giovani artisti non sono da meno: sondano la dimensione spaziale con molteplici strumenti espressivi e proprio su questa indagine multilinguistica basano il loro concetto di installazione. Ma l’analisi non apre più, come avveniva quattro decenni fa, a delle considerazioni meta-artistiche, a una definizione non semplicemente formale del tema. Lo spazio oggi è la scena della rappresentazione artistica, una delle sue condizioni preliminari, non una categoria dell’esistenza che l’arte ha il compito di ridefinire. I materiali. Esiste una “via italiana al concettuale” che coinvolge anche l’Arte Povera. Da questa tendenza, svariate generazioni di artisti che si sono succedute dagli anni Settanta in poi hanno attinto, fra l’altro, una particolare sensibilità per i materiali, per i loro risvolti simbolici, oltre che per le loro qualità espressive. Negli ultimi anni questo interesse si è eclissato. Se è ancora presente negli artisti più o meno “concettuali” che hanno esordito negli anni Ottanta – per esempio nei membri del gruppo di Via Lazzaro Palazzi – tra quelli che si sono affacciati sulla scena artistica nel decennio successivo è quasi del tutto assente. Forse, anche in questo caso, a causa di una refrattarietà generazionale a tutto ciò che è simbolico, a ciò che dal linguaggio assimila anche dei precisi significati, e non solo delle forme significanti. Oggi è il gesto stesso di plasmare la materia che, per la maggior parte dei giovani artisti, risulta anomalo, poiché gli strumenti digitali consentono di intendere in termini plastici l’immagine e di (de)formarla liberamente. Anche questo passaggio, come quelli precedenti, non deve essere inte-

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so come una modificazione esclusivamente tecnica, ma come un mutamento culturale. Il linguaggio. L’ho detto all’inizio di questo testo: per i giovani artisti è tutto, probabilmente anche troppo. Il linguaggio a cui fanno riferimento è depauperato del suo aspetto letteralmente linguistico – su cui hanno disquisito Wittgenstein e in seguito gli epistemologi, figure care ai concettuali storici – per assestarsi su di un piano meramente formale. Il linguaggio, in questo caso, è un insieme di significanti che sembrano aver smarrito una relazione profonda con il significato. Per linguaggio concettuale si intende oggi la fotografia e l’installazione, non il dispiegarsi nitido dell’idea, come sosteneva Le Witt. A conclusione di un breve elenco fitto soprattutto di divergenze, sottolineo una perfetta corrispondenza con un aspetto apparentemente secondario delle elaborazioni concettuali storicamente intese. Si tratta di quella che Gillo Dorfles, in un memorabile articolo del 19693, definisce “la componente situazionale”, che consiste nel tentativo di evocare attraverso le opere “stati d’animo, stati di tensione, situazioni di disagio, di peso, di contrasto”4. A partire da questa ricerca di atmosfere rarefatte, stranianti, vagamente cerebrali, venate di ironia e soprattutto di leggerezza – vera e propria parola-chiave di un’intera generazione artistica – di quelli che insomma lo stesso Dorfles chiamava i “fattori microemotivi”, il paragone tra le “arti concettuali” può condurre a delle osservazioni feconde. ACT e ACS

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Prima di verificare questa ipotesi di raffronto, credo sia interessante aggiungere che Joseph Kosuth aveva già constatato una deriva formalista del linguaggio concettuale in un articolo del 19755. In un testo eloquentemente intitolato Arte concettuale: un fallimento?, l’artista che è stato forse il maggior esponente di questa tendenza nel continente americano formula una distinzione tra “arte concettuale teo­ rica”, abbreviata in “ACT”, e “arte concettuale stilistica” o


“ACS”. Alla prima corrispondono le ricerche condotte dallo stesso Kosuth, da Art & Language e da (pochi) altri artisti degli anni Sessanta sulla struttura teorica dei linguaggi, nel tentativo di “smantellare la struttura mitica dell’arte”, demolire un “blocco costituito dalla mancanza di significati” e individuare un modello culturale nuovo rispetto a quelli imposti dalla cultura egemone. L’ACS invece, nelle parole dottamente stizzite dell’artista statunitense, coincide con “le attività di una massa di addetti ai lavori” da cui scaturisce una “ipostatizzazione di un sonnambulismo culturale”, ovvero “un fenomeno dipendente dalle (e rappresentativo delle) istituzioni dell’ideologia dominante in campo culturale, politico ed economico, almeno quanto lo sono le pratiche correnti nell’ambito dei modi tradizionali di produzione artistica (pittura e scultura)”6. Quest’analisi dell’esperienza concettuale ridotta a pratica stilistica asservita al potere di turno, benché si riferisca al contesto artistico statunitense della prima metà degli anni Settanta, può essere facilmente estesa al piccolo sistema del­l’arte “neo-concettuale” italiana. A questo proposito, mi sembrano particolarmente illuminanti alcune frasi: il deterioramento del movimento concettuale, scaduto a livello di una popolare ACS, fornisce un’indicazione, per lo meno a livello superficiale, della vittoria finale dell’istituzione (…). A livello personale, quanto avviene in questi artisti è che il senso di esistenza autentica viene sostituito da un ruolo di impersonale partecipazione alla mediazione messa in atto dal potere culturale e di conseguente difesa del generalizzato status quo istituzionale (…). Le implicazioni politiche di tale generalizzazione consistono nell’identificazione di quanto si intende o ‘si vuol dire’ con quelle istituzioni sociali da cui il proprio lavoro ormai dipende7. Due idee di sospensione In un testo fitto di riferimenti alla dimensione sociale e politica, Kosuth parla a sorpresa di un “senso di esistenza

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autentica” che verrebbe a mancare nei “professionisti del­ l’ar­ te concettuale”: a quanto pare, anche il più analitico esponente delle neoavanguardie, quando si accosta a un’o­ pera, avverte il bisogno di percepire un’emozione intensa che trasmetta un’esperienza significativa. Parafrasando l’articolo di Dorfles, e riprendendo il filo del discorso sull’unica e plausibile analogia tra le “arti” definite “concettuali”, si potrebbe obbiettare che l’“arte concettuale stilistica” – e persino l’ACS piuttosto striminzita proposta da alcuni giovani artisti – ha in sé una dinamica esistenziale, rappresentata da quella “componente situazionale” in cui si amalgamano “gli stati di tensione, le situazioni di disagio, di peso, di contrasto”. La vera questione è se – oltre al coinvolgimento “esistenziale” – questa “componente” prevede anche, come richiede Kosuth, la ricerca del­ l’“autenticità”. Quella dimensione che, più di trent’anni fa, Dorfles chiamava “componente situazionale”, oggi viene generalmente designata con il termine sospensione. Ma ciò a cui si richiama questa parola è un ambito semantico con molteplici sfaccettature, forse accomunate da un’accezione di fondo depositata nel suo significato primario. Il verbo sospendere corrisponde innanzitutto all’azione di far pendere dall’alto, e di conseguenza a quella di elevare da terra, di staccare. La sospensione, anche nel lessico del giovane critico o del giovane artista, è in primo luogo un atteggiamento di distacco dalla realtà. Da qui in poi, a partire da questa considerazione lessicale, le varianti di senso diventano numerose, anche se tendono a raggrupparsi in due versioni di riferimento. La prima consiste nell’intendere la sospensione come forma di estraneità, come manifestazione non solo di distacco, ma anche di assoluto non coinvolgimento con la real­tà. È la versione predominante – o perlomeno sottintesa – nella giovane arte italiana. Osservata in questa prospettiva, la sospensione è il riverbero estetico di una dinamica generazionale, forse anche epocale, chissà … In genere questa prima versione si esprime attraverso opere un po’


claustrofobiche, opere stranianti, come recita la terminologia ufficiale, da cui trapela uno stato d’animo vagamente angoscioso, una condizione emotiva non ben esplicitata: sospesa, appunto. Uno stato d’animo sostanzialmente alienato, ma di cui l’artista non sembra lagnarsi particolarmente, anzi, di cui sottolinea spesso il lato umoristico e paradossale, e talvolta anche quello poetico. Uno stato d’animo autocontemplativo che si esprime attraverso opere-testimonianza, attraverso descrizioni più o meno particolareggiate della propria condizione esistenziale. Sull’“autenticità” – per restare nell’ambito della terminologia di Kosuth – delle opere che esprimono questa forma di sospensione, sul loro essere permeate di fecondità espressiva e di indipendenza dalle mode culturali, non credo sia il caso di farsi illusioni. La seconda versione del termine – ampiamente minoritaria fra i giovani artisti – si riferisce a un atteggiamento di pausa, di distacco temporaneo nei confronti della realtà, finalizzato a un contatto più gratificante con essa. A stabilire una cesura nei confronti del reale, nelle opere caratterizzate da questo senso di sospensione, è il disorientamento, l’impossibilità di percepire le immagini secondo le categorie abituali. L’opera sembra identificarsi con l’anomalia che la caratterizza, con la sua diversità riguardo alle aspettative, con il fine, celato al suo interno, di sovvertire la normalità. Ma lo scopo del rovesciamento consiste nel posare uno sguardo ampliato su questa stessa dimensione, tentando così di valorizzarla, di riscoprirla, di renderla nuovamente vivibile: quella di disorientare è quindi un’azione funzionale a un riorientamento secondo nuove e più vaste coordinate. Alle opere pervase da questo senso di disorientamento costruttivo, da questo tentativo di riappropriarsi del reale, spetta perlomeno il merito di aver inteso l’Arte Concettuale come qualcosa di più di uno stile. Il marketing del concettuale Una sospensione virtuosa è pur sempre una sospensione: il dato di partenza è comunque che l’arte visiva “ufficia-

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le” – quella che appunto si può vedere in ambiti istituzionali come le Biennali o i musei – è caratterizzata da una distanza profonda dalla realtà. Questa situazione è paradossalmente ribadita dai tentativi di “politicizzare l’arte”, di rendere l’arte uno “strumento di denuncia”, a cui abbiamo assistito negli scorsi anni. Le decine di video a sfondo sociale, ecologico, razziale che affollano le grandi mostre, fatte le debite eccezioni8, non possono non lasciare inerte anche il più sensibile degli spettatori a causa di quell’atteggiamento constatativo – qui spacciato in modo equivoco per “documentaristico” – a cui abbiamo già accennato. Il problema di fondo resta quello del pubblico a cui l’artista si rivolge. L’arte di derivazione concettuale è inevitabilmente un’arte da addetti ai lavori, un’arte che chiede una sorta di consenso preventivo a chi la guarda. Credo sia superfluo aggiungere che questa iperspecializzazione genera sterilità, riduce l’attività creativa a una pratica tecnicistica che non può che aumentare lo iato tra artista e pubblico. Negli ultimi venti anni abbiamo assistito a un fenomeno che parrebbe contraddire questa valutazione. Artisti “ufficiali”, artisti sostenuti dalle gallerie e dai musei del “sistema del concettuale”, hanno raggiunto un’ampia notorietà grazie a operazioni provocatorie che prendono di mira fenomeni politici e sociali. Ciò è potuto avvenire solo grazie alla complicità dei media: lo “straniamento”, la tecnica concettuale finalizzata ad allertare la percezione dello spettatore, è stata trasformata in un espediente pubblicitario, in uno stratagemma per attirare l’attenzione della stampa sull’opera e sul suo autore. Più che a un esercizio di ACS, in questo caso ci troviamo di fronte a una campagna di marketing e comunicazione rivestita con finalità artistiche, in cui l’aggettivo “concettuale” è stato ridotto a termine designativo di una categoria merceologica, nell’ambito di una complessiva e letterale “caduta di stile”.

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1 Sol Le Witt, Paragraphes on Conceptual Art, «Artforum», giugno 1967 (trad. it. Paragrafi sull’arte concettuale in Arte in Italia


1960-1985, a cura di F. Alfano Miglietti, Giancarlo Politi Editore, Milano 1988, p. 95). 2 Ibidem 3 G. Dorfles, Arte Concettuale o Arte Povera?, «Art International», N° 3, 1969 e poi incluso in G. Dorfles, Il divenire della critica, Einaudi, Torino 1976, pp. 186-191. 4 Ivi, p. 187. 5 J. Kosuth, 1975, «The Fox», N° 2, 1975, poi incluso con il titolo Arte concettuale: un fallimento? in J. Kosuth, L’arte dopo la filosofia. Il significato dell’arte concettuale, Genova, 1987, pp. 90-111. 6 Ivi, p. 91. 7 Ivi, pp. 92-93. 8 Come William Kentridge, per citare un classico esempio di “eccezione che conferma la regola”.

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AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico* DANIELE BARONI

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Nel passaggio dagli anni Cinquanta ai Sessanta del secolo scorso la situazione della grafica italiana è sul crinale di una rinnovata stagione. L’ambito territoriale in cui si sviluppano tutte le nuove esperienze è, anche in questo caso, Milano, la città italiana a quel tempo più vicina culturalmente all’area centrale dell’Europa. Fra gli operatori già noti e attivi fin dalla seconda metà degli anni Trenta si contano coloro che oramai hanno ricevuto l’ampio riconoscimento di maestro, come Max Huber, Albe Steiner, Bruno Munari, Franco Grignani, Michele Provinciali, Erberto Carboni. Accanto a loro alcuni giovani emergenti, tutti appartenenti alla generazione nata intorno alla metà degli anni Venti, spesso, anche in questo caso, di formazione eclettica; alcuni di provenienza dalle facoltà di architettura, altri dai corsi di Belle Arti, per qualcuno un tirocinio in tipografia. Fra costoro, AG-Fronzoni (1923-2002), autodidatta, che fin dai primi progetti grafici, mostra una convinta appartenenza alle tendenze astratte e al rigore geometrico nella ricerca formale. Formatosi professionalmente su un’esperienza pra­tica completa, in cui passa dalla tipografia al giornalismo – è stato, tra l’altro, fondatore di un periodico letterario, «Punta», pubblicato a Brescia nel 1947 –, città in cui realizza in quel periodo anche un interessante allestimento espositivo1.


Fin dalle prime esperienze egli sarà molto determinato nell’affrontare i progetti senza compromessi per eventuali richieste della committenza, operando secondo una sua Wel­tanschauung con cui metterà in evidenza una spiccata personalità. In tutta l’attività progettuale, infatti, si riscontrano in Fronzoni alcuni fattori che sembrano porsi in contrapposizione fra loro come, ad esempio, la dicotomia fra semplicità e complessità. Dietro a ogni forma essenziale, semplificata, si può individuare una lettura complessa, che rimanda al contenuto linguistico, o a quello gestaltico, strutturale o geometrico. «La qualità dei segni in Fronzoni – ha sottolineato Argan – è nella loro intrinseca spazialità, nel nitido rapporto qualitatitivo col “campo”, la strutturalità interna»2. Altri punti caratterizzanti sono la totale abolizione del colore e l’uso esclusivo del bianco e nero. Una sorta di contrapposizione fra positivo e negativo; pieno e vuoto; presenza e assenza; parola e silenzio. Inoltre, l’adozione di precise forme tipografiche e l’impiego rigoroso delle geometrie elementari; testi interpretati come immagini; astrazione e concretismo. La forte capacità di sintesi è uno dei grandi pregi di Fronzoni. Come in un’equazione lineare Fronzoni fa corrispondere l’etica del progettare a un completo, unico formulario: la grammatica della comunicazione negli attributi estetici più evidenti: il monocromatismo e la composizione geometrica. Ancora una volta, il bianco e nero, che rinvia da un lato alla luce, dall’altro all’oscurità; il nero dell’inchiostro e il bianco della carta su cui si imprimono i segni in un rapporto che talvolta si fa provocatorio. La poetica di Fronzoni è implicita nella sua opera e nel comportamento etico della sua persona; il suo pensare e agire si esplica tra razionalità e utopia. Nella progettazione di Fronzoni c’è un’azione sottrattiva secondo la locuzione miesiana, Less is more, a cui si sovrappone il senso della sintesi. Per dirla con Crispolti, è l’essenzializzazione che definisce il simbolo3. Egli considera ideale poter comunicare con componenti atomistici: un punto, un segmento di

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retta, un segno geometrico elementare, proprio per questo, di carattere universale. Al macrocosmo del mondo reale Fronzoni fa corrispondere il microcosmo del singolo individuo, rendendo quest’ultimo alternativamente centro assoluto e attore necessario nella grande rappresentazione del suo progetto totale. Pur nella differenziazione della quantità delle sue realizzazioni, la sua opera risulta un unico grande progetto in un’unità di immagine sorprendente, dettata dalla coerenza della sua persona, che in ogni occasione esprime contenuti etico-estetici. La coerenza dei valori etici coinvolge completamente anche la persona fisica. Nella sua ricerca dell’essenzialità si forma inevitabilmente un disegno ideologicopolitico, pertanto fortemente critico nei confronti di una società che favorisce gli sprechi. Egli ritiene necessario influire e lavorare sui processi produttivi, correggere i comportamenti dei consumatori, tendere a una semplificazione anche della vita quotidiana, applicandovi la filosofia delle «piccole cose». La predicazione di un’austerità rigorosissima nel rapporto con gli oggetti, la loro riduzione ai minimi bisogni individuali, l’austerità esclusiva del bianco e del nero anche nell’abbigliamento, la negazione di qualsiasi spreco, in una forma di ascetismo che rasenta l’esoterismo. Io conduco silenziosamente, nella mia piccola torre d’avorio, questa battaglia contro lo spreco – ha sostenuto Fronzoni – tentando di costruire oggetti comunicativi senza queste ridondanze, cercando di mettere le mani sull’essenza deegli oggetti e di comunicarla in lealtà agli altri. Un messaggio, qualsiasi esso sia, deve essere leale, corretto, essenziale, deve comunicare ciò che conta ed è nell’oggetto stesso. In ogni caso, io considero la forma di grande importanza, ma ritengo che essa sia sottesa da un pensiero e che sia la geometria a organizzarne la struttura4. Quello di Fronzoni è dunque un disegno a tutto campo che coincide con la programmazione della propria vita. Dobbiamo considerare il suo un vero e proprio «progetto esistenziale». Non a caso, parlando della sua scuola-botte-


ga, egli raccomanda ai giovani che il progettare la propria esistenza è un impegno che deve costituire la loro principale preoccupazione5. Parlare del design di Fronzoni – ha scritto Germano Celant – significa parlare di Fronzoni come uomo, come politico, come progettista, come insegnante, come “attore” che svolge una parte fonica e fattuale, come designer che convoglia in sé molte visioni e molti aspetti6. Una particolare sensibilità ai fenomeni percettivi Già con i primi anni Sessanta anche in Italia avviene una sempre maggiore diffusione e interesse presso nuovi strati della popolazione giovanile per una cultura allargata, con una tendenza alla multidisciplinarità e per una più ampia conoscenza generale. Non solo arte e letteratura, musica, tea­tro e cinema, ma soprattutto nuove discipline, dalla linguistica e semiologia all’antropologia strutturale e alla teoria dell’informazione. Il tutto coadiuvato da una quantità notevole di studi pubblicati, da Opera aperta di Umberto Eco ai testi di Claude Lévi Strauss o a quelli di Roland Barthes. Nel campo della comunicazione visiva, e in modo più specifico per quanto riguarda il design grafico, è dominante la tendenza della scuola elvetica, che si impone come substrato ideologico-disciplinare. Ma in termini di sperimentazione e ricerca sarà l’ambiente della Hochschule für Gestaltung di Ulm a suscitare il maggior interesse fra i progettisti e le numerose scuole del mondo occidentale, in particolare sotto la direzione di Tomas Maldonado e per i corsi tenuti da Otl Aicher (1922-1991), secondo un approccio sistematico alla disciplina. L’aspetto forse più rilevante nei corsi di grafica e di Basic design è individuabile nelle ricerche sulla teoria della forma, sugli approfondimenti strutturali e sintetici della progettazione. Fra i diversi segni che connotano l’opera di Fronzoni, come avviene anche a Ulm, vi è una progressiva negazione, fin dagli anni Sessanta, dell’elemento «figurativo» inteso in

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senso tradizionale. Un’assoluta e totale rinuncia al ricorso del patrimonio iconografico che la cultura occidentale ha costantemente prodotto nel tempo. In Fronzoni c’è un severo percorso verso il segno aniconico, geometrico-astratto, di cui fanno parte, ovviamente, i codici convenzionali dell’alfabeto e della tipografia. Alla radicalità del progetto, dalla comunicazione grafica agli allestimenti tridimensionali, si deve ricondurre inoltre la scelta del non utilizzo del colore, nemmeno dei primari che, sia pure occasionalmente, nei primi anni della sua attività Fronzoni aveva introdotto nelle composizioni. Secondo valori fondamentali che coinvolgono la sfera percettiva dei nostri occhio e cervello, come è noto, i colori si possono rappresentare per tonalità, luminosità, saturazione; ma la scala dei grigi, dal bianco al nero, contiene in parallelo gli stessi valori di luminosità dei colori puri quanto il grado di chiarezza delle relative gradazioni. Nella rappresentazione bidimensionale di un progetto grafico, il contrasto del bianco e nero sviluppa un’efficacia percettiva e psicologica che difficilmente l’accostamento cromatico, sia pure nel contrasto, riesce a ottenere; Soprattutto nell’effetto di «controscambio» negativo-positivo, della possibile reversibilità nel rapporto figura-sfondo. Essendo potenzialmente composto dalla somma dei colori primari, il nero rappresenta l’assoluto; mentre il bianco costituisce il grado più elevato di luminosità. Sul tema della percezione, in Opera aperta, Umberto Eco ha fornito una sua definizione, precisando che la percezione di un tutto non è immediata e passiva: è un fatto di organizzazione che si “apprende”, e lo si apprende in un contesto socio-culturale7. Tra le varie componenti che contribuiscono a formulare il nuovo linguaggio visivo in Fronzoni, vi è la disposizione spaziale del testo e i suoi significati verbali. Richiamandosi alle esperienze oramai storicizzate, dagli anni delle prime avanguardie storiche e anche a monte di esse, dal «caso» di Stéphane Mallarmé di Un coup de dés… a Parole in libertà di Marinetti, Fronzoni filtra questo genere di cultura linguistica, in parte approprian-


dosene, creando una ritmica spaziale nell’area poetico-visuale. Tutto questo è evidenziato in alcuni dei suoi più significativi progetti, come una serie di variazioni compositive del 1976: si tratta dei manifesti (sia in verticale sia in orizzontale) a favore della «mobilitazione della cultura per i lavoratori in lotta». Composizioni che, se osservate nel loro impatto generale, al di là del loro elevato contenuto sociale, evidenziano una concezione di armonia musicale, mentre le singole lettere del carattere lineare adottato, pur senza un particolare appeal, sembrano simulare uno sciame di api in volo. Va rilevato che l’opera in assoluto più rappresentativa di Fronzoni si identifica nel manifesto per la mostra di Lucio Fontana alla Galleria La Polena di Genova, del 1966. L’invenzione grafica sta nell’aver rifatto il verso ai «tagli» di Fontana, collocando la riga di testo informativo in verticale, al centro, simulando il taglio nella scritta stessa; questo gli permette di compiere un gesto metalinguistico, sovrapponendosi alla maniera artistica. All’arte concettuale di Fontana, che interviene sulla tela deflorandola, Fronzoni sovrappone il gesto linguistico in forma di metonimia, ponendosi così in sintonia con l’autore dei dipinti. Tra i manifesti di maggiore suggestione, va menzionato quello sul tema «Tool-ricerche interlinguistiche» del 1971. Qui Fronzoni sposta la composizione tipografica parzialmente fuori dal margine destro e sinistro del foglio, creando, ai fini della leggibilità, una vera e propria rottura percettiva. A modo suo il designer si pone in relazione con i contenuti del convegno; egli partecipa in senso provocatorio, con un messaggio di ricerca linguistica di tipo non convenzionale e trasgressivo. In questa e in altre composizioni, avviene il ribaltamento di una logica consuetudine all’interno della pagina: viene dato più respiro e spazio al «vuoto», più fondo che massa di testo, esaltando in questo modo l’essenzialità della scrittura. Il nostro ama intervenire, all’interno di un quadro di massima correttezza funzionale, con uno scatto spiazzante, spingendo la composizione tipografica verso un equilibrio

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al limite dell’instabile. In due manifesti, l’uno del 1967 per l’esposizione «Situation Mailand», tenutasi a Stoccarda, l’altra per Genova, «Arte e scienza» del 1979, Fronzoni sperimenta la scansione delle lettere che compongono il testo nel senso di rarefazione, annullando le pause fra le parole. Nel manifesto di Stoccarda, nero su bianco, con la regolarità di una griglia a scacchiera, mentre in quello di Genova con il testo in negativo a spaziatura variamente regolata, a creare visivamente nell’insieme l’effetto di una composizione convessa. Per entrambi i manifesti, oltre la formulazione di un’immagine «scritturale» che impone una speciale leggibilità, ci si richiama ad alcune leggi spiegate dalla psicologia della Gestalt, come legge di somiglianza nel primo caso, o di chiusura nel secondo. In ogni suo progetto i casi di sperimentazione risultano indubbiamente geniali, tendenti a mettere in discussione il rapporto linguaggio-percezione visiva, suggerendo formule rinnovate di lettura del messaggio stesso. È anche però l’interruzione di un ordine tradizionale e codificato nel tempo. Questo è reso evidente nei manifesti per alcune sue mostre personali, come a Lione nel 1986 e quella di Milano, nella sede Aiap nel 1992, dove in entrambi i casi, il manifesto è fustellato o si compone di più fogli. «La leggebilità – sostiene Fronzoni – è una questione relativa, così come è soggettiva la scelta ultima: entra in gioco l’atteggiamento concettuale, la poetica, la radice culturale»8. Sulla mostra del 1992 un commento interessante è quello di Pierluigi Cerri, che dice: Contro la pollution dell’occhio, Fronzoni non propone, come voleva la “Neue Graphik”, un ordine nuovo, ma esprime in pagine bianconere di acuta provocazione la tensione delle linee tipografiche, l’invisibile griglia che regola la disposizione delle parole, […] le frasi come uno sfregio in un foglio senza i limiti di squadratura, i segni enormi, mutilati o appena visibili9. In taluni casi la frammentazione di un testo, in cui le lettere che compongono la scritta sono solo parzialmente visibili perché interrotte (come nel manifesto «Modena antiquaria», del 1991), ed anche composizioni destrutturate,


con le lettere libere e fluttuanti al centro della pagina (si veda il manifesto per la mostra dello scultore Orskov a Stoccolma, 1989). Il marchio, un segno simbolico Al concetto di forma intesa come Gestalt, è strettamente connessa l’educazione alla percezione visiva il più importante strumento di cui disponiamo per impadronirci delle forme – ha scritto Attilio Marcolli – per vedere in profondità nelle cose, per capire i rapporti, le intime relazioni, le situazioni, fino alla possibilità di conoscere la loro essenza e il loro significato10. Pertanto, il campo del nostro interesse è il «campo geometrico-intuitivo», che trova riscontro sia nella teoria gestaltica sia in quella fenomenologica. Dalla struttura del campo, come insieme di strutture profondamente connesse, secondo Marcolli, si possono così ottenere: a) la struttura portante formata dai punti e dalle linee di massima caratterizzazione formale, e dalla relativa articolazione; b) la struttura modulare, basata su sottomultipli costituenti un reticolo orientato secondo i lati del perimetro del campo; c) la struttura proiettiva interna di massima tensione spaziale, e la relativa articolazione11. L’operazione di collocare segni, elementi vari, oppure oggetti in campo, comporta una visione spaziotensionale necessaria per imprimergli un significato. Sotto il profilo progettuale, nel disegno del marchio, Fronzoni si esprime secondo i princìpi di quegli orientamenti disciplinari e secondo una oramai consolidata «riduzione strutturale». Vi è indubbiamente una parte rilevante di pragmatismo nel metodo riduzionista adottato nel tradurre concetti in segni simbolici; proprio perché un’idea diventi tale, la sintesi è in assoluto la via più breve per raggiungere un determinato risultato. Per citare soltanto un paio di esempi, fra i tanti marchi disegnati da Fronzoni, bastino quelli ideati sia per il noto studio di architettura Nizzoli Associati del 1965, sia quello per la ditta Valextra.

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Nel primo caso egli accosta due quadrati e un triangolo a formare una «N» maiuscola di forte impatto e immediata riconoscibilità, in una composizione che rimanda alle tessere del tangram cinese. Nel secondo caso, egli tende a rappresentare nel marchio il prodotto più significativo del­ l’azienda committente: la valigia, nella sua rappresentazione geometrica della silhouette nera vista dal rettangolo frontale e da quello laterale. In un altro caso, un acronimo che si fa marchio, dinamico e asimmetrico, costituito dalle iniziali dello stesso Fronzoni è stato ideato per il biglietto d’invito e per il manifesto della sua mostra personale tenutasi a New York nel 1994, alla Reinhold Brown Gallery. Una progressione decrescente dei corpi tipografici in carattere Futura. Mentre un segno simbolico che si presenta in un’ideale sequenza cinetica, Fronzoni lo ha realizzato per la Biennale cinema di Venezia del 1969, – che appartiene a una serie di tre manifesti che comprende anche quelli per il teatro di prosa e per la musica contemporanea – basato, come gli altri, sul cerchio. In questo caso scandito in senso ripetitivo come in uno spezzone di pellicola, che si trasforma in un occhio dallo sguardo severo, e che provoca una percezione dinamica. Uno dei motivi più interessanti dell’opera di Fronzoni, difficilmente riscontrabile in altri designer della sua generazione, è dunque l’eccezionale coerenza progettuale della sua opera, in cui non si determinano differenze formali e concettuali, che si tratti di realizzazioni degli anni Sessanta oppure dei Novanta.

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*  Si è qui inteso affrontare una lettura sufficientemente lineare del­l’opera progettuale di Fronzoni, prendendo in esame solo gli interventi bidimensionali della progettazione, che risulta la parte di design più rilevante della sua opera. Pur avendo egli agito in modo altrettanto valido e brillante anche negli allestimenti espositivi, nel design di oggetti (basti il riferimento ai mobili della serie ’64), nei vari interventi di restauro architettonico come Palazzo Balbi a Genova, oltre ad abitazioni private. Il presente saggio risulta una rielaborazione di un testo ben più ampio che analizza l’intera opera di Fronzoni, la cui stesura di chi scrive, è in attesa di pubblicazione.


1  L’attività professionale di AG Fronzoni ha inizio a Brescia nell’immediato secondo dopoguerra. Nei primi anni Cinquanta egli avrà l’opportunità di progettare gli spazi di una galleria d’arte moderna e di ordinare in essa la collezione privata di Guglielmo Achille Cavellini. Dell’allestimento parlerà con favore Giulio Carlo Argan con un articolo sul «Giornale di Brescia», il 16 maggio 1954. 2  G.C. Argan, postfazione al catalogo Galleria La Polena, Genova, 1965. 3  E. Crispolti, AG-Fronzoni, in «Graphicus» n. 11, novembre 1960. 4   AG-Fronzoni, in V. Pasca, L’etica e l’estetica, in «Interni» n. 464, ottobre 1996. 5  AG-Fronzoni, Sul progetto, in «Domus» n. 769, marzo 1995. 6  G. Celant, Design ideologico, una mostra di Fronzoni al Politecnico di Torino, in «Casabella» n. 335, aprile 1969. 7  U. Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee; IV ed. aggiornata, Bompiani, Milano 1962. 8   AG-Fronzoni, uno dei concetti spesso ribaditi in conversazioni o durante le lezioni. Sulle tematiche come «tipo-visibilità» e «tipo-lettura», si veda anche G. Blanchard, L’eredità Gutenberg, per una semiologia della tipografia, Gianfranco Altieri editore, 1989. 9  P. Cerri, Trentanove poster di AG-Fronzoni, Galleria Aiap, Milano, dicembre 1992; in «Abitare» n. 317, aprile 1993. 10  A. Marcolli, Teoria del campo, Vallecchi, Firenze 1971. 11   Ibidem.

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Libri, riviste e mostre

A. Trimarco, Ornamento. Il sistema dell’arte nell’epoca del­ la megalopoli, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2009.

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Il libro sviluppa una linea di ricerca già avviata dall’autore con Post-storia. Il sistema del­l’arte (Editori Riuniti, Roma 2004) e Galassia. Avanguardia e postmodernità (Editori Riuniti, Roma 2006): in questi saggi lo studioso si era proposto di rispondere alla necessità di analizzare le ragioni, teoriche e critiche, della crisi del sistema dell’arte e della modernità. In tale prospettiva, Ornamento. Il sistema dell’arte nell’epoca della megalopoli costituisce un’ul­ teriore analisi del nuovo profilo dell’arte e della pratica critica del nostro tempo, articolata attorno alla riflessione sull’ornamento, inteso come il fenomeno cultu­ rale che, dagli ultimi decenni del­ ­l’800 fino ai nostri giorni, ha segnato con intensità i percorsi dell’arte, della teoria dell’arte e dell’estetica. Dal momento che, come osserva l’autore, il Post-moderno non traduce lo Zeitgeist, non è

cioè costituito da una serie di esperienze simili che, testimoniando lo spirito del tempo, si relazionano tra loro, per non perderci all’interno di questa galassia tanto disomogenea e caotica, è necessario preparare una mappa, una cartografia della modernità e della sua crisi, che, ponendo in stretta relazione il sistema dell’arte e il sistema della città, ci aiuti a comprendere come si è passati dall’arte nuova e dalla metropoli del ’900 allo spazio deterritorializzato della megalopoli e all’arte postmoderna. La megalopoli è innanzitutto definita nella sua ambivalenza di non-luogo globalizzato, che segue il modello del “libero scambio, libera economia, libero consumo”, e soprattutto di nuovo spazio che è “campo di battaglia” e “laboratorio” di amicizia, ospitalità e apertura al diverso: questa tesi si lega, come sottolinea lo stesso Trimarco, all’idea di Jameson, il quale mette in evidenza quanto globalizzazione e postmodernità siano in effetti due nomi che sottendono a uno stesso fenomeno, l’uno descrivendone


la dimensione economica, l’altro le sue strutture e forme culturali. Prima di arrivare a definire la strettissima relazione che intercorre tra la nuova realtà urbana e l’arte postmoderna, l’autore chiarisce il momento in cui ha inizio il complesso procedimento di rin­ novamento del sistema delle arti: questo, a suo avviso, nasce dal­ l’esperienza del movimento europeo dell’Art Nouveau, che per la prima volta si impegna a elaborare uno stile che sia moderno e in linea con una diversa pratica della città, divenuta metropoli. Il dibattito sul “nuovo stile” non poteva che essere problematico e complesso, e infatti, nello stesso periodo, alle tesi di van de Velde e Horta si contrappone quella di Loos, il quale nega la possibilità che l’ornamento sia il mezzo espressivo della modernità, e alla bellezza come qualità autonoma, antepone la necessità dell’“adattamento delle forme allo scopo”. In questa prospettiva, l’ornamento allontana dalla “via della civiltà”, e, come Loos chiarisce nel saggio Ornamento e delitto, risulta un inutile spreco di risorse economiche e di forza lavoro. Un ulteriore passo fondamentale lungo il cammino dell’arte moderna lo compie ancora l’architetto viennese, quando sancisce la definitiva separazione dell’arte dall’“arte applicata” (o “della funzione dall’esteticamente autonomo”), separazione che l’arte moderna recepisce e radicalizza. Nuovi spunti di riflessione sono, secondo Trimarco, suggeriti dal­ l’avvento dell’industria cinematografica e dall’Esposizione Universale del 1855: in particolare, Parigi nel XIX secolo è luogo cruciale della riflessione di

Baudelaire e successivamente di Benjamin. Questi ha l’occasione di ragionare sul destino dell’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, e partendo dalla convinzione che “le esposizioni mon­ diali edificano l’universo delle merci”, rilegge la “fatuità moderna” condannata da Baudelaire e legge nella distinzione tra “riproduzione” e “riproducibilità tecnica” l’indizio del primo vero cambiamento dei soggetti all’interno del sistema dell’arte, e del rapporto delle masse con l’arte. La “perdita dell’aura” sottrae il riprodotto dall’ambito della tradizione e, nel passaggio dalla “riproduzione” alla “riproducibilità tecnica”, si corrode il valore culturale dell’opera d’arte […] (in favore del) suo “valore espositivo”. “Attraverso il peso assoluto assunto dal suo valore di esponibilità, l’opera d’arte […] (acquisisce) funzioni completamente nuove, delle quali quella di cui siamo consapevoli, cioè quella artistica, si profila come quella che in futuro potrà venir riconosciuta marginale”. In questo quadro, un elemento di forte interesse è costituito dalla linea argomentativa di Benjamin: la “perdita dell’aura” ha portato una nuova qualità all’opera d’arte che è incaricata dall’artista del compito tutto moderno di scandalizzare il pubblico che la osserva. Riflettendo sulla nuova “arte in quanto cinema” e “arte in quanto fotografia”, Benjamin pone in evidenza l’importanza per l’opera artistica di garantire un effetto di shock nello spettatore, cui è così per la prima volta assegnato un ruolo di partecipazione del processo creativo. Lungo questa linea di rifles-

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sione, l’autore avvicina il pensiero di Benjamin alle teorie artistiche di Warhol: con l’artista, infatti, si è consumato anche l’effetto di shock, […] e, al tempo stesso, si è compiuta l’esperienza stessa dell’avanguardia, intesa come culmine e accelerazione del destino della modernità. Nella terza parte del libro, l’autore intende superare la sequenza lineare avanguardia-postmodernità-fine dell’arte, e chiarisce piuttosto che l’arte nell’epoca della megalopoli si pone in bilico tra l’apocalisse della sparizione […] e l’enfasi di un modello decostruttivo e costruttivo di altri linguaggi. In altri termini, se l’arte non sparisce insieme al mondo, assume un ruolo fondativo come mostra […] la complessa e fitta trama dei percorsi che disegnano lo spazio globale. In questa prospettiva, prosegue il mutamento dei rapporti all’interno del sistema dell’arte: nella dinamica di uno scambio continuo tra autore e fruitore, viene annullata ogni distinzione tra i soggetti del mondo dell’arte, e si portano alle e­streme conseguenze alcune questioni poste dalle esperienze artistiche del Novecento. L’autore esprime un giudizio, che forse non è del tutto condivisibile: se non è l’arte a sparire con l’avvento del Post-modern, il filo interrotto del discorso artistico è quello della critica. Riprendendo il pensiero di Gehlen, l’autore indica nella diffusione della pittura concettuale, e nello stretto rapporto tra opera e commento da questa inaugurato, la fine del­ l’autonomia della critica. Il suo ruolo è spodestato dalla presenza

più influente e “aggressiva” dei collezionisti e dei curatori delle mostre: la fine del curatore/autore, segnata da Trimarco nel 2003 con la Biennale di Venezia, è legata alla sua nuova funzione di “organizzatore di mostre d’arte contemporanea”; la distinzione tra teoria e pratica critica ha fatto sì che l’esposizione ha perso il suo carattere progettuale, e chi espone affida l’ultima parola alla gestione dell’effetto-mostra, privilegiando il valore espositivo delle opere, in virtù della loro “vetrinizzazione”. La nostra cartografia della modernità prosegue, scandita da alcune riflessioni sul virtuale, sul corpo post-organico e sull’idea dell’arte pubblica quale figura dell’abitare. Mi sembra interessante porre l’accento su quest’ultimo concetto, che ci consente di ricollegarci al tema della megalopoli: citando Lyotard, che definisce la megalopoli una “zona”, spazio omogeneo senza né centro né periferia, ma aperta alla “coabitazione” e all’ospitalità che “si offre come dono”, lo studioso ribadisce l’importanza della stretta connessione tra sistema dell’arte e sistema della città. Egli infatti chiarisce: l’arte pubblica, nella sua radicalità, si pone quale strumento di riconfigurazione dello spazio urbano, stabilendo relazioni, feconde e mobili, con chi vi abita e, abitandovi, ne vive e ne patisce le lacerazioni e, al tempo stesso, dialogando con la committenza istituzionale, questa volta, pubblica in senso proprio. Trimarco conclude la sua analisi aprendo “su molte irrisolte questioni” del vivere contempo-


raneo: la dimensione etica del­ l’arte pubblica, la città non più “preclusa” ai suoi abitanti, “l’eredità difficile” della modernità. V. P. L. Cocchiarella, Fra disegno e design - temi, forme, codici esperienze, Città Studi Edizione, Torino 2009. Disegno e Design: il più antico linguaggio espressivo e la più moderna disciplina del fare. Tale è l’incipit della premessa al testo che emblematicamente racchiude in sé la natura di un rapporto denso di analogie, rimandi e nessi tra due mondi apparentemente disgiunti nel tempo e nel fare. Lo strumento rappresentativo per eccellenza, il disegno, la cui esistenza accompagna l’uomo sin dalla preistoria, rappresenta infatti la linfa vitale e l’anima di una delle manifestazioni produttive della società più attuali e proiettate al futuro. Ad accomunare in primis queste discipline è il concetto d’immagine, non intesa nel senso clas­ sico, bensì come sintesi di forma e funzione; cosicché essa diventa ora imago naturalis nel mondo degli oggetti, ora imago artificialis in quello del disegno, celando in sé una duplice e reversibile potenzialità. Infatti così come l’immagine dell’oggetto realizzato può essere riprodotta, sotto par­ ticolari condizioni, nell’immagine disegnata (documentazione), altrettanto l’immagine disegnata può tradursi, sotto par­ ticolari condizioni, nell’immagine dell’oggetto da realizzare

(progettazione) e infine nell’oggetto stesso (produzione). È que­ sto il punto di partenza di una narrazione strutturata dall’autore in tre parti, che antepone sin dall’inizio del testo una pregnante analisi del quadro ricco di relazioni che fa da cornice al rapporto disegno/design. Sistema percettivo e cognitivo, semiotica, se­ mantica, ermeneutica, estetica sot­ tendono e giustificano l’approccio metodologico alle argomentazioni e si pongono come strumenti necessari alla comprensione delle dinamiche in gioco. Ciò inevitabilmente porta al superamento dell’immagine stessa, sia essa naturale o artificiale, che non è quasi mai acquisita e memorizzata come semplice figura, ma si carica invece degli ulteriori significati tattili, olfattivi, acustici che le sono propri, suscita l’aspettativa di un determinato sapore, oltre a richia­ mare ulteriori significati culturali e simbolici. In sintesi emerge il suo carattere sincretico. Nella prima parte del testo traspare l’intenzione dell’autore di tracciare una parabola della storia disegno/design che si dipana in un arco temporale ben più esteso dal Rinascimento ai nostri tempi. E la dissertazione, che non segue una rigida sequenza temporale ma si concentra sul rapporto biunivoco tra forma costrui­ ta e forma figurata con continui rimandi ed analogie, non può non tener conto di un bagaglio multidisciplinare che nel corso dei secoli alimenta e trasforma tale rapporto. Nell’excursus sulla forma costruita, ad esempio, non si può non citare l’apporto della geo­metria con le teorie euclidee e non-euclidee, la topologia, lo

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stu­dio dei frattali. Così come per la forma figurata, le teorie filosofiche introducono concetti quali l’«immagine percettiva», l’«immagine mnesica», l’«immagine anticipatrice», che ancora oggi rappresentano il fondamento del­ l’attività progettuale nel design, e non solo in questo campo. Infatti il designer profonde i propri desideri, si dirige avanti nel tempo, attivando quel processo immaginativo fondato in prevalenza sulla riorganizzazione del sapere consolidato, tramite sintesi originali che conducono a prefigurare il nuovo. Un’azione che, dal punto di vista della esecuzione dell’immagine, realizza un duplice processo simultaneo. Per un verso […] le trame grafiche costituiscono dei ponti logico-percettivi orientati verso il futuro, ivi protesi alla ricerca e alla cattura di frammenti morfologici funzionali al desiderio anticipatorio che muove il progettista. D’altra parte […] nel recinto operativo della rappresentazione, essi approdano fatalmente dal futuro al presente […]. Nelle fasi più avanzate del lavoro […], allorché la forma è definita, […] quelle stesse immagini anticipatorie divengono materiale di base per la confezione «percettiva» della forma prefigurata e la relativa conservazione «mnesica», forma che sarà di nuovo letta […] come immagine anticipatrice di un oggetto da costruire. Questo passo è di notevole importanza. Vi si racchiude infatti il senso del fare progettuale e si esplica tutta la capacità immaginativa del designer: la memoria e il ricordo da cui attingere per rielaborare e proiettare

nel futuro l’immagine in fieri, perché appunto anticipatrice, di un oggetto da realizzare. E l’imago artificialis divenuta poi in absentia si fa mnesica, ovvero il percepito diventa ricordo. Ma se in passato questo processo si avvaleva dei classici e canonici strumenti di rappresentazione, la produzione attuale ha introdotto il disegno digitale, mettendo in discussione la natura stessa del disegno, donde si aprono i più attuali scenari della modellazione virtuale, fino alla totale coincidenza tra disegno e progetto nell’ambito del digital design: wireframe, rendering, soft­ ware, mesh, diventano i termini più utilizzati nel nuovo rapporto disegno/design. E le stesse maquettes, da strumenti di verifica nell’iter progettuale, a cavallo tra il disegno e l’oggetto stesso, abbandonano il reale per diventare modelli digitali. Se è possibile rintracciare una analogia tra il disegno industriale e l’elaborazione al computer, così come giustamente evidenziata dall’autore nel rapporto tra riproduzione seriale di tipo meccanico e riproducibilità immediata digitale, tuttavia, riferendosi alle ope­ razioni compiute dal calcolatore, non è del tutto vero affermare che l’enorme velocità di elaborazione cambia davvero tutto, costituendo un ulteriore caso, esemplare, di come la «quantità» possa fare «la qualità». A mio avviso, la spropositata produzione di immagini digitali, cui siamo assuefatti, spesso non è accompagnata da una qualità diffusa di oggetti reali. Ovvero, alla crescente perfezione tecnologica degli strumenti messi a servizio della progettazione non corri-


sponde sempre lo stesso processo nella fase della realizzazione. Ciò rimanda inoltre a un ulteriore passo del testo in cui, nel delineare il rapporto tra industrial design, artificio e natura, l’A. afferma che si è progressivamente passati dal soddisfacimento dei bisogni alla creazione dei desideri. La seconda parte del libro verte sulla produzione, sulla presa in esame di alcuni progetti, accomunati dal disegno come fondamento della prassi pogettuale, co­ me struttura che dà forma al prodotto: product design, interior design, car design, yacht design, fashion design, communication design sono alcune delle numerose declinazioni del fare design qui riproposte attraverso alcune schede in cui il passaggio dal segno analogico a quello digitale rappresenta uno spartiacque tra progetti di epoche differenti. E quindi si passa dalla Mini Kitchen di Joe Colombo, realizzata da Boffi nel 1963, alla concept car Nido di Pininfarina del 2008 o all’avveniristica cucina Z.island progettata da Zaha Hadid. Molto interessante appare l’esperienza della Noon Solar Bag, che, coniugando la bellezza e la qualità con le tecnologie proprie del­l’e­ cological design, si ispira ai criteri della sostenibilità ambientale. Avvalendosi infatti di un pannello solare posto su uno dei fian­ chi e di un accumulatore ener­ getico, questa borsa rende possibile ricaricare dispositivi portatili senza l’ausilio di fonti elettriche esterne. La terza e ultima parte del testo affronta la tematica complessa della didattica. Cosa e come insegnare, considerando anche

che la formazione del designer all’interno delle scuole universitarie appare come un’attività didattica relativamente recente, nata come filiazione dalle facoltà di architettura e di ingegneria. Quid docere, quomodo docendi è la domanda che si pone l’autore, alla quale risponde definendo in prima istanza il quid, la materia dell’insegnamento: dal­ l’invaso, nell’interior design, al corpo umano, nel fashion design, alla figura nel communication design. Circa il quomodo, le modalità dell’insegnamento, l’A. in­ dividua nelle forme laboratoriali della didattica la strada più giusta per avvicinare gli studenti alla prassi progettuale. In tal senso le esperienze didattiche descritte della Petrol Stations, progetto della stazione di servizio, o della Metropolitana Milanese rappresentano per un giovane designer dei validi momenti di crescita, soprattutto per la interazione delle discipline chiamate in causa dalla fase di rilievo a quella di progetto. Tuttavia, estendendo queste osservazioni ad un contesto più ampio, mi sembra che sarebbe auspicabile mettere in atto scenari didattici più aderenti alla realtà, interagendo con aziende, industrie, società, amministrazio­ ni pubbliche ed enti locali, con l’intento di promuovere in ambito universitario ricerche e studi che possano concretizzarsi. Ciò servirebbe soprattutto ad arginare quello smarrimento teleo­ logico, cui allude l’autore quando afferma che, in un panorama didattico sempre più simile a una rete informativa, o se si vuole a un iper-testo, pertanto ricco di stimoli e di interessi, vi è tuttavia il rischio di naviga-

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zioni incontrollate, di attraversamenti superficiali a cui non segua una reale acquisizione e sedimentazione delle conoscenze. Pertanto in un panorama contemporaneo contraddistinto dalla «perfezione dei mezzi e la confusione dei fini» (Einstein), l’ars docendi dovrebbe attingere a piene mani dalle esperienze del passato, riattualizzando e modernizzando esempi in cui veramente si è assistito ad una sinergia tra scuola e mondo del lavoro. L. F. S. Follesa, Pane e progetto. Il mestiere di designer, Franco Angeli, Milano 2009.

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La riflessione in forma di dialogo è la via proposta da Stefano Follesa per indagare il rapporto tra formazione e mestiere di designer. Ma più che nella delineazione del profilo di un ideale «designer tipo», l’autore del corposo volume edito da Franco Angeli – condiviso con un gruppo di quasi 50 figure professionali – si cimenta nel felice tratteggio di una costellazione di «forme di vita» sottese a una tra le più sfuggenti e articolate professioni contemporanee. Anche a costo di qualche ridondanza, l’insistere di Follesa con domande mirate circa il retroterra storico-territoriale di ogni autore costituisce uno dei pregi più rilevanti del libro in quanto è proprio sulla scorta di tale ricercata ricorrenza che e­mergono, procedendo man mano nella lettura, alcuni minimi denominatori della «fenomenologia», davvero vasta, costituita

dai diversi percorsi identitari proposti. E ciò proprio in quanto – al di là del piacere indubbio di attingere a notizie sovente insolite e sicuramente di «prima mano» circa i primi passi e i metodi di ricerca di/da autori che definire mitici è talvolta riduttivo come Mario Bellini, Andrea Branzi, Angelo Mangiarotti – il retroterra storico-territoriale-formativo costituisce quasi sempre un elemento di conoscenza non secondario per valutare quali urgenze conducano personalità sovente molto concrete a imbarcarsi nei meandri di una professione pressoché votata all’instabilità assoluta in perenne ricerca di novità e innovazione. Complessivamente il volume si pone come obiettivo di dare o proporre ragioni per un «fare» progetto dove – almeno da alcuni anni – la relazione sistema pro­ duttivo/designer appare sempre più un insieme «co-implicato» in cui è ormai molto difficile distinguere cosa dell’operato del professionista sia originato da una propria libera ricerca espressiva e creativa e cosa no. La stessa questione del ruolo e della consistenza qualitativa di cosa e chi possa essere oggi identificato come «nuovo» e/o «innovatore» è notevolmente problematica: talvolta anche mal posta. Vuoi perché il «fare» progetto ha forse più nessi con la negazione che con l’affermazione personale. Vuoi perché il design è una «prassi» che mira alla condivisione, è immersa nella concreta materialità dell’uso ed ha, presumibilmente, più obiettivi «riformatori» che «rivoluzionari». Vuoi perché anche le devianze e i mutamenti di traiettoria del sistema


possono costituire fonte d’ispirazione: per cui ogni manovra volta a opporvisi non determina un affrancamento quanto piuttosto una conferma dell’ampio spettro delle potenzialità inclusive del sistema stesso. Ovviamente è possibile ipotizzare «scenari tipo» di questa co-implicata relazione. I tre individuati da Follesa nell’introduzione – de/materializzazione della professione non più legata solo al prodotto ma anche ai servizi; rinnovato rapporto con artigianato e territorio; ricerca volta al rinnovamento tipologico – concordano tutti nell’indicare una specifica attitudine che marca la professione: la «costruzione di senso». Ma dalla lettura emerge anche una sorta di grafico temporale del prestigio di cui è stata ed è investita la professione. Grafico sul quale è possibile leggerne l’ascesa, il consolidamento e il declino – essenzialmente in termini di offerta di lavoro, ma non solo. Scorrendo le 340 pagine del libro, si evince nettamente quanto essere designer negli anni ’60 e ’70 significasse appartenere a una élite societaria. Fatto che offriva anche l’opportunità di confidenze culturali, letterarie, scientifiche e tecnologiche di altissimo livello – forse mai più riscontrate in ambito nazionale. Essere designer oggi – come nota laconicamente Giulio Iacchetti – significa invece fin da principio scegliere bene le strutture formative in cui apprendere il mestiere diffidando di chi chiama candidamente i propri allievi «clienti» e, al tempo stesso, significa essere consapevoli che

talento e determinazione sono fors’anche più importanti di ieri. Poiché a fronte delle autostrade lavorative reperibili quarant’anni fa, oggi occorre ritagliarsi un ambito operativo anche e soprattutto attraverso percorsi «laterali» tortuosi e intricati. Entro tale quadro, dalle tonalità meno romantiche e più operaie del passato, si rivela, probabilmente, il più spiccato distacco generazionale sancito dalla quasi totale scomparsa di accenni a tonalità «poetiche» implicite nella professione e a relazioni più o meno strette fra arte e design. E ciò proprio nei «racconti» autobiografici dei nuovi designer italiani – a eccezione di Paolo Ulian che dichiara apertamente di essere alla ricerca di fruttuose alternative al progetto industriale. Relazioni, tra l’altro, che per il curatore del volume – come per tutta la generazione di imprinting radical – sono palesemente tra i più rilevanti e proficui. Emerge però anche, come contraltare al declino del prestigio professionale, che la nuova generazione di designer è assai poco incline a indulgere in facili equazioni vittimistiche ed è anzi disposta ad acquisire in positivo sia i cambiamenti avvenuti in questi anni sia i valori di continui­ tà che ancora possono rivelarsi proficui per la professione. Assai perspicaci a questo proposito sono le, putroppo, fugaci considerazioni di Andrea Branzi – circa la persistenza di categorie culturali quali animismo e semplicità considerate come radici di una pluricentenaria identità del progetto plastico e visivo nazionale – che potrebbero rivelarsi utili elementi indiziari per allineare e

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indirizzare l’operatività di tan­ ti nuovi designer. Comprensibilmente, dunque, il volume non propone alcuna visione o opzione liberatrice dallo status quo. Vere vie di fuga non sembrano accessibili, ma si possono comunque ritrovare alcune proposte di lettura dello scenario disciplinare – talvolta antitetiche – che potrebbero rivelarsi utili opzioni strategiche per i designer del futuro. Per Giancarlo Vegni vivere in maniera strettamente poetica il mestiere di designer non è più possibile. Studi come i nostri devono essere organizzati sotto ogni punto di vista, avere una struttura. Non si tratta più di disegnare e basta. È necessario proporsi, seguire i contatti, sviluppare le parti tecniche, seguire il lavoro anche all’estero, le relazioni ecc. Oggi un giovane può anche iniziare a lavorare con la cosiddetta cartellina sotto il braccio ma alla lunga non sopravvive. È necessario crearsi uno staff. Da parte sua George J. Sowden auspica invece l’avvento di una produzione colta di cui egli stesso, in prima persona, si è fatto promotore. Penso che debbano nascere tante piccole aziende ‘radicali’ che progettano desideri di cambiamento. (…) Uno dei grandi problemi a cui la società occidentale dovrà fare fronte nel futuro è la ricostruzione di una economia reale basata sull’utilizzo delle conoscenze, dell’innovazione, del­ l’u­so creativo delle risorse uma­ ne e un trattamento appropriato, in termini economici, della proprietà intellettuale: Knowledge Economy.

Per il fattivo Aldo Cibic tutte le problematiche che riguardano, per esempio, le risorse, i rifiuti, il riciclo, l’ecosistema, influenzeranno radicalmente il nostro modo di vivere. Chi lavora nel progetto dovrà essere sempre più in grado di confrontarsi con saperi diversi, per produrre riflessioni, proposte, idee, che corrispondano ad un mondo che cambia. D’altro canto la lucida lettura di David Palterer nei riguardi dell’irrilevanza di quel che definisce design non spontaneo pone qualche dubbio circa le effettive potenzialità operative sul futuro contesto da parte della figura del designer. E ciò perché il mestiere appare sempre più teso fra il copywriter e l’art director, ovvero le “figure creative” delle agenzie pubblicitarie, che quasi sempre – e penso sia importante da notare – sono dei “liberi professionisti”. Il paragone con le “campagne pubblicitarie” diventa più incisivo se consideriamo il paradosso che anche nel design l’attenzione viene traslata dal­ l’oggetto (soggetto) al come “farlo notare”, “desiderare” e “scegliere” dal consumatore, scindendo il prodotto dalla “sua utilità”, e spesso da ogni funzione. The right to choose, il jingle dell’Unione Mondiale dei Pubblicitari, fa leva sul valore morale della “libera scelta”, mentre non considera, per ovvi motivi, il fatto che con tale azione si agisce (per non dire si deforma) il modo in cui si “fanno le scelte”. Opera che sfugge i più tenaci tentativi di sintesi, Pane e progetto. Il mestiere di designer può comunque vantare un valore do-


cumentale pressoché inusitato se si pensa ai profili di designer – molti dei quali assolutamente non celebrati altrove – che si sono trovati in relazione con un territorio così ricco di esperienze progettuali e produttive come la Toscana. Oltre la metà degli intervistati è nato, vissuto, si è formato, ha operato o insegnato in questa regione che li ha arrichiti ricevendone a sua volta il prezioso contributo in termini di crescita economico-culturale del territorio. Non sempre di tale proficuo rapporto si è avuta traccia nella storia ufficiale del design edita sia in volume che su riviste di settore. Sotto questo aspetto, Pane e progetto può essere quindi considerato una prima ricognizione su quale sia stato veramente – a partire dall’esperienza radical che, come detto, rappresenta per Follesa un evento cerniera imprescindibile e fondante – il ruolo storico della professione di matrice toscana nei riguardi della disciplina nazionale, e quali siano oggi le reali triangolazioni fra Milano, Torino e Firenze, intesi come luoghi ideali della «cultura del progetto» del terzo millennio. E anche, tra i differenti «approcci» toscani al progetto, su quali siano le figure e le imprese sulle quali avviare una possibile ricostruzione identitaria del «fare» design in Toscana. In questo primo nucleo di protagonisti – dal “transfuga” Branzi a Carlo Bimbi, da Biagio Cisotti e Sandra Laube a Nilo Gioac­chini, da Simone Micheli a Pao­lo Ulian, da David Palterer a Giancarlo Vegni – anche e soprattutto per l’originalità, merita una menzione a parte il percorso

biografico proposto da Gianfranco Gualtierotti che, forte del suo «vissuto» a stretto contatto con torni, telai e macchine per tessuti e materassi a molle, può oggi contare su una padronanza tecnologica veramente invidiabile nel settore dell’imbottito e nell’ingegnerizzazione di prodotto. Il resoconto di Gualtierotti rap­ presenta un racconto in presa diretta dell’avventura produttiva del design a partire dalla fine degli anni ’60 e la puntualità dei ricordi del designer pistoiese gli fanno incarnare al meglio il ruolo di testimone anche del lavoro altrui. Del lavoro, cioè, di alcune personalità un tempo considerate «figure chiave» e che oggi – al pari di molte appartenenti agli anni ’50 – stanno letteralmente scomparendo dalla memoria collettiva (e ciò a maggior ragione in un territorio tanto incline al polemos quanto poco disposto a celebrare – per incredibili teorie e labirinti di veti incrociati – coloro che hanno contribuito in qualche modo all’evoluzione produttiva regionale). Scorrendo la vicenda professionale di Gualtierotti abbiamo così modo scoprire – o ri-scoprire – l’attività di Carlo Gori – inventore «pazzo» di attrezzature per realizzare molle –, rivivere le prime sperimentazioni con i poliuretani Bayer svolte insieme a Emilio Guarnacci nonché le realizzazioni dei sedili per aerei di linea dei primi anni ’70, concepite e realizzate fra gli stabilimenti Permaflex di Roma e quelli della UNO PI di Calen­zano. Al sapore pionieristico che permea gli eventi narrati s’aggiunge l’opportuna «rotazione» del punto di vista, sovente foca-

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lizzato su quella fase cruciale e poco nota che va dalla definizione progettuale a quella produttiva. Una sorta di panoramico «dietro le quinte» e, al contempo, anteprima del prodotto finito al quale si arriva attraverso un più o meno lungo iter – costellato sovente d’ingenuità, errori, pertinenze implicite sottovalutate, compromessi alti, ripensamenti, migliorie, ecc. – la cui disamina rappresenta uno dei valori più educativi e più intensi rilevabili nel testo di Stefano Follesa. U. R. Roberto Pasini, L’ultimo degli In­­formali, Libreria Editrice Universitaria Verona, Verona 2008.

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Nuova avventura editoriale per Roberto Pasini che con L’ultimo degli informali inaugura una collana di monografie e saggi, di cui è direttore, editi dalla Libreria Editrice Universitaria di Verona. In questo nuovo scritto Pasini parte da una considerazione a lui molto congeniale, ovvero dalla constatazione che nella storia del­l’arte (e della cultura in generale) esiste il cronotopo: l’artista […] è identificabile dalla collocazione spazio-temporale (chronos, tempo; topos, spazio) che lo indirizza secondo il cromosoma anagrafico di cui è portatore. Ogni artista appartiene quindi a un orizzonte generazionale; ciò identifica e caratterizza la sua operatività. I problemi sorgono però nel caso di una nascita “fuori generazione” che complica il percorso dell’artista rendendo difficile il

suo inserimento all’interno del­ l’attualità. Questo è il caso di figure illustri della storia dell’arte del Novecento, come Paul Gauguin e Wassily Kandinsky, che hanno dovuto “recuperare” il terreno perduto in seguito alla nascita in “ritardo” sul­l’e­pi­ centro generazionale precedente, ma “precoce” su quello successivo, entrambi accomunati in questo destino crudele alla figura di Massimo Cavalli. L’artista svizzero infatti, nascendo nel 1930, pur operando per tutta la vita attraverso i modi dell’Informale, è totalmente fuori dalle due generazioni degli artisti del movimento (quella del 1900 di Fautrier e Dubuffet e quella del 1920 di Mathieu e Soulages) e questo lo segnerà per tutta la vita, attraverso il continuo tormento del non avere posto fisso, […] del sentirsi eternamente outsider […] sempre “stranieri” nel contesto in cui si opera. D’altra parte è lo stesso Cavalli ad ammettere: mi sono sempre sentito “spiazzato”[…]: “se nasco un’altra volta” la gavetta la faccio a Parigi… E proprio questa affermazione introduce i luoghi in cui è avvenuta la sua formazione: Locarno dove nasce, Milano dove si forma e Parigi, centro nevralgico della ricerca artistica internazionale sebbene, negli anni Cinquanta, l’importanza della città stia diminuendo per passare il testimone alla capitale americana. Questo essere fuori dal baricentro della sua generazione, porta Cavalli a un destino di fissità, a un istinto totalmente dedicato a “la stessa cosa” e, d’altra parte, lui stesso sostiene: sono fisso, cambiare è impossibile:


ho il mio territorio, conosco solo quello, come i gatti. Il 1962 è l’anno in cui l’attività dell’artista svizzero si trova alla massima espressione facendo sua la tematica di una materia vicina alla poetica dell’Ultimo Naturalismo; eppure, a livello internazionale, essa risulta una situazione ormai sorpassata dalla presenza sempre più predominante della Pop Art. Da questo, come sostiene Pasini, deriverà la malinconica consapevolezza di una posizione emarginata rispetto agli sviluppi principali della ricerca storico-artistica, pur restando fedele al linguaggio informale come pochi hanno fatto al di là dei suoi limiti storici. Solo Rafael Canogar, tra gli informali, nasce dopo Massimo Cavalli, ma è un artista totalmente diverso, caratterizzato da una precocità tale da non far sentire la “distanza” cronologica dai suoi compagni e capace, sullo scorcio degli anni Sessanta, di superare le posizioni dell’Informale per scegliere la traiettoria figurale. Dopo questa introduzione sul­ l’aspetto generazionale, così importante per definire l’attività e il destino di un artista, Pasini punta l’attenzione sul legame spirituale di Cavalli con Giorgio Morandi, non tanto per gli esiti, quanto per l’atteggiamento umano e spirituale. Può sembrare strano che una personalità così distante in senso artistico e geografico come Cavalli possa essere attratta dall’artista bolognese, al di là di un giustificato timore reverenziale verso una personalità determinante nel panorama artistico italiano del secolo scorso. Lo svizzero prova ammirazione per

quel “modo appartato” di vivere che mette luce sulla condizione “appartata”di Cavalli, il suo stare come sul balcone a guardare la storia dell’arte scorrergli davanti senza volere o potere prendere il treno già perduto alla partenza e mai più raggiungibile. Dunque ciò che lo lega a Morandi è il suo essere modello umano ed etico […], “punto di ritrovamento”:[…] un porto in cui approdare e sentirsi a casa, senza entrare nel merito delle questioni dibattute dalla critica che ha considerato, in passato, l’attività del bolognese come isolata rispetto agli esiti principali dell’indagine artistica. Cavalli rimane sempre estremamente pacato, composto, alla ricerca della velocità standard da far mantenere al suo motore. Ma Pasini continuando si chiede: la sua opera è ossimoro o sintesi? Perché, se da un lato emerge il nessun debordare in estremi operativi, dall’altro si intravede la ricerca continua di elementi contrapposti per stabilire, attraverso il loro impossibile matrimonio, la propria cifra stilistica. Questa vocazione per l’essenzialità non deve essere erroneamente intesa come una dichiarazione di appartenenza all’Astrattismo che, nel suo desiderio di allontanarsi dal mondo, è diametralmente opposto al profondo amore di Cavalli per la materia e l’oggetto, punto cardine dell’Informale. Dunque ossimoro o sintesi? Sintesi nella sostanziale univocità fermata sul ciglio di una “regola” braqueiana che non rinuncia all’“emozione” fautrieriana, e allo stesso tempo ossimoro perché non sovrappone

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la pulsione segnica e l’equilibrio operativo annullandoli, ma li mantiene vivi a contraddirsi felicemente. A questo punto viene analizza da vicino dapprima la pittura, sua forma principale di espressione, e poi la grafica, ricca di interessanti spunti di riflessione, in quanto meno esposta alle variazioni subite nell’attività pittorica. Singolare è la formazione per niente svizzera di Cavalli, il quale invece dimostra interesse per Mandelli, unito a lui nella dedizione alla causa dell’Informale, e Romiti, molto distante dall’artista svizzero per impostazione mentale e realizzazione operativa, ma […] Cavalli vi vede un pensiero pittorico robusto, concentrato, pulito: in una parola, lo sente come un classico. Dunque una forte attenzione verso il panorama artistico bolognese da parte di un artista attivo in una metropoli come Milano. Egli guarda infatti a un centro più piccolo, più defilato, come il capoluogo emiliano, dimostrando l’intento di mettere insieme la presa diretta sul mondo visivo con una morsa poetica che lo depuri da contingenze troppo evidenti. Nella pittura degli anni Cinquanta, il richiamo a Morandi e agli Ultimi Naturalisti emerge in opere come Fiori di campo del 1955 o in Fiori del 1957, nelle quali è evidente l’immersione nelle spesse maglie della natura e il paesaggio è vissuto interiormente, ma il suo destino di “fuori generazione” non gli consente di essere inserito tra gli Informali bolognesi, sebbene gli intenti siano gli stessi. L’infoltimento vegetale au-

menta al capo degli anni Sessanta. L’orizzonte è sparito, siamo immersi nella vegetazione, e Cavalli, nel pieno della sua produzione, si trova completamente coinvolto in una situazione stilistica giunta al termine. All’inizio sembra non accorgersi che ora la scena è dominata non più dalle paste iletiche dell’Informale bensì dalla nuova cultura di massa della Pop Art, ma poi qualcosa muta nella sua traiettoria, dato che non gli manca la sensibilità […] per avvertire i rivolgimenti in atto. Lentamente comincia a mancare l’intromissione nella natura e compare sempre più spesso il blu, simbolo di una dimensione più aerea che materiale. Nei decenni successivi torna la tematica del canneto, delle strutture verticali, memori da un lato di Soulages e Hartung, e dal­ l’altro rimando a un motivo che percorre tutta la sua attività fin dagli inizi. E se negli anni Ottanta, con il Postmoderno, il ritorno della pittura e il recupero delle grandi correnti del passato, Cavalli ha finalmente l’occasione di trovare la sua collocazione, egli tuttavia non sembra approfittare della congiuntura, ma semplicemente proseguire il suo discorso moderato e lucido […] dando vita a opere che […] rappresentano tentativi riusciti di giocare la carta della pittura con intensità e concentrazione. Infine negli anni Novanta il segno continua a essere protagonista di una ricerca spostatasi nel vuoto, da dove emergono dei lampi nella notte, in opere che scivolano sotto i nostri occhi quasi senza distinguersi le une dalle altre, emblema di una se-


renità espressiva di chiarezza assoluta da parte di chi, in un periodo storico in cui non esistono più correnti alle quali allinearsi, ha trovato finalmente un nuovo centro operativo. L’ultimo capitolo del libro è dedicato alla produzione grafica di Cavalli per delineare un panorama completo della sua produzione artistica. In questo ambito egli è in grado di costruire un intero percorso nel quale non si incontrano neppure i momenti di sutura-collegamento che si possono individuare nello svolgimento della ricerca pittorica. Dunque la grafica, vivendo a latere, si configura paradossalmente come espressione più libera da problematiche di “campo”. Tornano i rimandi a Morandi e Romiti con la presenza costante e discreta del vecchio canneto […] ancora lì a suggerire che il segno si alza verso un cielo che non c’è più e sogna una storia di natura ormai scomparsa per sempre. L. S. H. Foster, R. Krauss, Y. Bois, B.H.D. Buchloh, Arte dal 1900. Modernismo, Antimoder­ nismo, Postmodernismo, Zanichelli, Bologna 2006. A differenza di molti libri di storia dell’arte, questo volume, dotato di un ricco apparato iconografico, non si struttura come una trattazione di correnti e movimenti, né si dota di una prospettiva teorico-metodologica uni­­taria e condivisa da parte dei quattro autori, ma si presenta come una successione di eventi

all’interno di un arco cronologico che va dal principio del ’900 agli inizi del secolo successivo. Ciò, tuttavia, non deve indurre a pensare al libro come a una cronaca indistinta, priva di criteri interpretativi. Il volume si articola come un intertesto, la cui rete di rimandi e collegamenti garantisce la possibilità di ricostruire diversi percorsi tematici – come, ad esempio, la parabola dell’arte nel periodo precedente la prima guerra mondiale, tracciata nei termini della pittura espressionista, fotomontaggio dadaista, design Bauhaus e pittura e fotografia della Nuova oggettività; oppure, in una dimensione transnazionale, le diverse incarnazioni del Da­daismo da Zurigo a New York – criticamente problematizzabili attraverso le quattro prospettive teoriche dalle quali si confrontano dialetticamente gli autori Hal Foster, Rosalind Krauss, Yves-Alain Bois, Benjamin H.D. Buchloh. Uno degli approcci è la critica psicanalitica, incentrata sugli effetti soggettivi dell’opera d’arte. Un altro metodo è la storia sociale dell’arte, che si occupa dei contesti sociali, politici ed economici. Un terzo cerca di chiarire la struttura interna dell’opera – non solo come è fatta (nella versione formalista di questo approccio), ma anche come significa (nella sua versione strutturalista). Infine, le modalità della critica poststrutturalista sono impiegate per interrogare non solo il significato, ma anche l’istituzione, come le opere vengono definite e considerate arte. Tali prospettive vengono ana-

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lizzate, all’interno dei quattro saggi metodologici che introducono il testo, in quelli che sono i limiti euristici che presentano e private di ogni pretesa di universalità. Foster sottolinea, difatti, come la validità del metodo psicanalitico e la sua presenza al­ l’interno della critica cresce o diminuisce secondo l’avanzare o recedere dell’interrogazione sulla soggettività e sulla sessualità e come vada considerato storicamente. Questa doppia focalizzazione ci permette di criticare la psicanalisi e insieme di applicarla. Per quanto riguarda la storia sociale dell’arte, Buchloh pone in evidenza come, sia che l’opera d’arte venga intesa come esito diretto dell’ideologia della classe dominante, sia, sempre all’interno di un rapporto dialettico tra classe egemone e produzione cul­ turale, come fase della formazione di una coscienza politico-ideo­ logica di opposizione nell’ambito delle forze progressiste della borghesia, gli strumenti della critica storico-sociale funzionano fintanto che è possibile rintracciare una relazione tra l’opera d’arte e un referente politico-sociale. Nel­la misura in cui tali riferimenti vengano negati, come accade per alcune pratiche d’a­vanguardia quali l’astrattismo, il Dadaismo o l’opera di Duchamp, il cui telos intrinseco era stato quello di distruggere i rapporti tradizionali soggetto/oggetto e di registrare la distruzione delle forme tradizionali di esperienza, sia a livello di narrazione sia a quello di narrazione pittorica, i tentativi della storia sociale dell’arte di mantenere la coerenza del racconto storico

spesso si rivelano incongruenti o incompatibili con le strutture e le morfologie a disposizione, quando non falsamente restaurative. Alla stessa maniera, gli strumenti dello Strutturalismo – che intende la forma come struttura, ossia come rispondente alla Weltanschauung di una specifica classe, in uno specifico momento storico, e che si distingue da un “formalismo ristretto”, che si muove su un piano di mera analisi morfologica – se necessari ai fini dell’analisi di momenti topici dell’arte modernista e d’avanguardia, quali il Cubismo – quello di Picasso in particolare, che dimostrava quasi maniacalmente l’interscambiabilità dei segni all’interno del sistema pittorico e il cui giocare sul gesto minimo richiesto per trasformare una testa in una chitarra o una bottiglia […], sembra una diretta illustrazione della dichiarazione di Saussure, e le griglie di Mondrian, la cui massima riduzione degli elementi strutturali del quadro che produce infinte possibilità combinatorie è una esemplificazione della distinzione saussuriana tra langue e parole – si dimostrano inadeguati quando applicati a sistemi non definiti da un corpus chiuso di oggetti da cui può essere dedotto un insieme di regole ricorrenti. Analogamente, se i termini della critica poststrutturalista qua­ li il segno linguistico dell’indice – non riferibile ad alcun sistema fisso di codificazione – o i concetti di “autorialità” e di “scel­ta”, cui fa riferimento Krauss, si dimostrano più che mai appropriati alla comprensione di opere quali


il Grande vetro, Tre rammendi, Ruota di bicicletta o Scolabottiglie di Duchamp, rivelano i propri limiti, come sostenuto dall’autrice, nella demolizione dell’idea di medium che il Poststrutturalismo persegue, negando l’importanza che questo ha avuto nella perpetuazione e nella nascita stes­ sa delle pratiche moderniste. Ed è proprio la doppia tensione in cui il concetto di medium si viene a trovare da un lato rispetto al rapporto tra cultura di massa e avanguardia, dall’altro rispetto alle evoluzioni che tale rapporto subisce allorquando, all’indomani del secondo conflitto mondiale, il baricentro della produzione artistica occidentale si sposta dal­ l’Europa agli Stati Uniti, che scandisce il rapporto dialettico tra Modernismo, Antimodernismo, Postmodernismo. Tale rapporto – la cui importanza è posta in luce già a partire dal sottotitolo – emerge come il fil rouge dell’intera trattazione e della vicenda artistica novecentesca e viene discusso dagli autori all’interno di due “tavole rotonde” sullo stato della produzione artistica alla metà e alla fine del secolo. La possibilità di una storia affermativa del modernismo viene collegata alla critica formalista di Greenberg che si oppone alla negazione marxista di Adorno circa la possibilità di un accesso rinnovato a un’estetica dell’autonomia, una possibilità annichilita dalla distruzione finale del soggetto borghese dopo il nazismo e l’Olocausto. […] La memoria storica viene spostata e concentrata su un unico medium, la pittura avanzata, che fornisce allora le basi per una continuità storica che

non può essere mantenuta in altro modo. Siffatto formalismo consente, dunque, a Greenberg di vedere nei dripping di Pollock – che pongono fine alla pratica artificiosa della composizione verticale e si aprono alle più reali condizioni di gravità con il recupero del piano orizzontale – una linea di continuità e di innovazione linguistico-formale del modernismo statunitense rispetto alle esperienze europee. Questa evoluzione del rapporto tra opera e medium – che sul recupero della bidimensionalità, come elemento proprio della pittura aveva trovato uno degli elementi fondativi delle avanguardie storiche – sembrerebbe scandire il passaggio dalla fase di un persistente rifiuto modernista della cultura di massa da parte di Pollock, alla riemersione “antimodernista” di quest’ultima con Rauschenberg, Johns e, ancora di più, Warhol. Il percorso dell’arte a partire dal secondo dopoguerra viene, così, definito da Buchloh come una teleologia negativa: un continuo smantellamento di pratiche, spazi e sfere autonome della cultura e una perpetua intensificazione dell’assimilazione e dell’omogeneizzazione, al punto che oggi assistiamo a quello che Debord ha chiamato lo “spettacolo integrato”. Dissociandosi significativamente dall’attacco che il Postmodernismo, visto attraverso il prisma del Poststrutturalismo ha lanciato […] all’idea di medium, Krauss afferma l’importanza e la necessità di quest’ultimo come fonte di regole che induce la produzione, ma la limita anche, e spinge l’opera ad una riflessione sulle regole stes-

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se. […] Senza la logica del medium l’arte corre il rischio di cadere nel kitsch. L’attenzione al medium è un modo con cui il modernismo si difende dal kitsch. Viceversa Foster sottolinea come, pur all’interno di una dimensione della spettacolarità alcuni artisti trovano delle incrinature produttive – per cui non sarebbe corretto parlare della storia di un modernismo della specificità del medium, seguito da una condizione postmoderna, che sarebbe allora risarcita in qualche modo da una ripresa del medium, anche se in senso allargato. Qui il riferimento è a Warhol – esiste una denuncia più critica del lato oscuro dello spettacolo delle sue immagini della “morte in America” consumista del 1963 […]? – e, ad esempio, al femminismo di Cindy Shermann, la quale, attraverso le sue immagini di donne, riflette sulla capacità del­­l’industria cinematografica hol­lywoodiana di sostituirsi agli io soggettivi nei processi di costruzione delle identità di quegli stessi io. Ciò che emerge è come la dialettica tra Modernismo e Antimo-

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dernismo – che si esplica nella lotta dell’avanguardia per un’arte autonoma e nella tensione verso la costante ricerca di nuovi paradigmi, contro l’azione di appropriazione e svuotamento di questi ultimi da parte del mercato dei consumi di massa – venga sciolta all’interno della sintesi di un Post­ modernismo che, nella sua indefinitezza concettuale, non sembra capace di indicare un progetto sociale a quella internazionalizzazione dell’arte il cui fine è, secondo Buchloh, un’omogeneizzazione della cultura che punta verso l’eliminazione della contraddizione e del conflitto; né di categorizzare l’immensa mole della “frammentata” e “asistematica” produzione artistica degli ultimi vent’anni. Ma tale assenza di paradigmi interpretativi, dovuti alle difficoltà di estensione dei metodi discussi, se da un lato ha garantito una certa libertà artistica e critica, dall’altro, tuttavia, ha favorito una piatta indifferenza, un’incommensurabilità stagnante, una cultura turistica consumista di campionamento dell’arte. A. D.


Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 114.  L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115.  L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre N. 116.  Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117.  Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118.  Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119.  L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120.  Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121.  La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122.  L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123.  Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125.  Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per nar-

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rare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126.  L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127.  Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128.  Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129.  Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 131.  Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132.  Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133.  Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134.  Abitare la razionalità - Per una nuova clas­si­ficazione delle arti - Il design ae­ro­nautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135.  Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998

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«Grafica Elettronica» - Via Ferrante Imparato, 198/F4 - 80146 Napoli


Le pagine dell’ADI ASSOCIAZIONE PER IL DISEGNO INDUSTRIALE

ADI ha contribuito nell’ottobre scorso con grande successo allla realizzazione di due iniziative pensate per dare visibilità al design, a chi lo fa e a chi lo distribuisce. Il Compasso d’Oro torna alla Rinascente: una mostra per Milano design-in-the-city Il Premio Compasso d’Oro è nato nel 1954 al­la Rinascente: la primissima idea fu di Giò Ponti, con il sostegno di un Brustio e di un Borletti, al­ l’epoca rappresentanti, nel consiglio d’am­­ mi­ ni­ stra­zione della Rinascente, delle due famiglie da cui l’impresa era stata fondata e portata al successo nel settore della distribuzione di qualità. Ma l’attenzione dei grandi magazzini milanesi non si limitò alla promozione di un premio dedicato al design nazionale: mise anche in moto una serie di iniziative di lungo periodo, con lo scopo di far incontrare la cultura delle imprese con la cultura del progetto. Design manager della Rinascente (ma allora il ruolo non aveva ancora questo nome) era in quegli anni Augusto Morello, che fece da esploratore nel mondo dei progettisti – allora concentrato a Milano – con l’obiettivo di dare posto nella strate-


L’intervento di Maurizio Borletti (presidente di la Rinascente) all’inaugurazione della mostra nel Design Supermarket del sottopiano della Rinascente, piazza del Duomo, Milano.

gia dell’azienda alle forze culturali e ai prodotti più intelligenti dell’innovazione. Si costituì così un collegamento proficuo (una rete, si direbbe oggi) tra designer, imprenditori, comunicatori. Questa rete ante litteram si catalizzò quasi subito, nel 1956, in un’associazione, l’ADI Associazione per il Disegno Industriale, che riuniva tutti gli attori di questo nuovo palcoscenico. Dopo alcuni anni di collaborazione con la Rinascente, nel 1962 ADI divenne l’erede naturale della ge-


stione e dello sviluppo del Premio Compasso d’Oro: il momento in cui il design veniva alla ribalta e si rivolgeva al grande pubblico, presentandosi come fattore di qualità e di crescita nella produzione dell’industria italiana. Da allora è passato oltre mezzo secolo. ADI e la Rinascente hanno fatto ciascuna la propria strada. Il design da milanese è diventato italiano, diffuso non solo in decine di showroom su tutto il territorio del paese ma anche in ogni università e in ogni distretto produttivo. Il design manager Augusto Morello è divenuto prima presidente di ADI, poi di ICSID (la federazione mondiale delle associazioni del design) e poi ancora presidente della Triennale, mentre il Compasso d’Oro, edizione dopo edizione, ha arricchito senza soluzione di continuità la propria Collezione storica di oggetti esemplari per qualità e carica simbolica. Il design viene ormai ovviamente identificato come una delle componenti di prestigio dell’identità italiana nel mondo e anche le istituzioni pubbliche – in passato spesso diffidenti nei confronti del design come disciplina culturale, e comunque sempre di memoria corta – oggi danno per scontato che il design sia una carta vincente dello sviluppo del paese. Anche gli strumenti per far conoscere il design al grande pubblico si sono trasformati, ma l’idea di base è la stessa: la rete è un concetto più che mai necessario, occorrono iniziative che nascano dall’azione coordinata di progettisti, imprenditori e comunicatori, eventi fecondamente “ibridi” che


uniscano la qualità dei contenuti alla capacità di attirare l’attenzione del grande pubblico con elementi spettacolari, occasioni di aggregazione, momenti di collegamento tra il mondo dei professionisti e il mondo dei consumatori. Per l’ADI il momento era propizio per tornare a progettare uno di questi eventi insieme con la Rinascente. L’occasione di quest’anno è stata Milano design-in-the-city: una settimana di mostre, incontri, percorsi guidati nel territorio degli show­ room cittadini e degli studi dei designer, in cui il pubblico è stato invitato a conoscere più da vicino non solo le novità del mercato ma anche il modo di lavorare di chi pensa, realizza e porta sul mercato il design italiano. La settimana del design che si è svolta a Milano dal 22 al 25 ottobre 2009 ha riproposto in forma autonoma (e lo farà ancora negli anni a venire) l’equazione fortunata tra il design e la città che negli ultimi anni è stata alla base della più importante occasione di incontro diretto tra i prodotti e il pubblico: il “fuori Salone” che anima le strade di Milano in primavera in occasione del Salone Internazionale del Mobile. Mentre al Salone si incontrano i professionisti, negli showroom del centro e di via Tortona, negli allestimenti temporanei nelle piazze e nei cortili monumentali del centro cittadino (come il porticato quattrocentesco dell’Università Statale) il pubblico curiosa, si sorprende e si diverte informandosi sul design. Cosi Milano design-in-the-city, promossa e realizzata da un’agenzia di comunicazione – Desi-


L’intervento di Vanni Pasca (a destra). Da sinistra: Maurizio Borletti, Lui­ sa Bocchietto (presidente nazionale ADI), Giovanni Cutolo (presidente della Fondazione ADI, vicepresidente ADI), Valerio Castelli (di Design Partners, che ha promosso la manifestazione Milano Design in the City).

gnPartners – la cui presenza nel mondo del design è caratterizzata da iniziative di ampio respiro (tra cui il polo culturale rappresentato dalla Design Library e dalla sua attività di incontri sul progetto), per cinque giorni ha messo in moto la macchina del design milanese strappandola al letargo invernale: “I prototipi presentati ad aprile”, spiegano gli organizzatori, “diventano, in ottobre, prodotti in vendita negli showroom e nei negozi dove il grande pubblico ha un’opportunità unica per incontrare i protagonisti del design internazionale e scoprire i valori del design con i tempi di un lungo


week-end. Nell’ideare l’evento abbiamo interpretato un esplicito bisogno di aziende e showroom: un momento dedicato al consumatore che contemporaneamente incrementasse l’affluenza nei punti vendita. Milano, città europea con la più alta concentrazione di showroom di primo livello raggiungibili a piedi, ha ben accolto il format di Milano design-in-the-city: un grande evento che ha accolto i visitatori in percorsi cittadini attraenti e confortevoli, creando occasioni di comunicazione, di relazione e di vendita”. Hanno partecipato 64 showroom, mentre 20 studi di designer si sono aperti per la prima volta al pubblico: 5.000 i visitatori registrati negli show­ room, che hanno permesso anche di raccogliere informazioni sulla percezione del design da parte degli utenti finali – un’informazione preziosa per capire come pensare il design di domani. Per ADI, che oltre a dare il suo patrocinio al­ l’iniziativa ha realizzato una delle manifestazioni espositive del programma, è stata l’occasione di far tornare il Compasso d’Oro alla Rinascente. Anche qui molto è cambiato: il piano sotterraneo dello storico palazzo di piazza del Duomo oggi è interamente dedicato al Design Supermarket, uno spazio aperto che offre oggetti di ogni categoria merceologica (dall’arredamento all’illuminazione, ma anche oggetti tecnologici e libri sul design), un piccolo museo vivo contemporaneo, dove il pubblico può venire in contatto direttamente con i classici del design ma soprattutto con il design di oggi.


Una sezione della mostra.

Qui ADI ha allestito una mostra sul Premio Compasso d’Oro: nel panorama degli oggetti sono stati collocati trenta pannelli che, con testi e immagini, hanno illustrato al pubblico dei visitatori della Rinascente interessati al design la storia del premio, le ragioni della sua lunga vita e la sua perdurante validità: da riconoscimento lungimirante attribuito alla cultura del progetto italiano da parte del “salotto buono” della cultura industriale e creativa milanese a struttura articolata su tutto il territorio italiano, con l’esplorazione sistematica annuale delle novità e della loro qualità condotta dall’Osservatorio permanente del Design e resa pubblica dall’annuario ADI Design Index. Il 23 ottobre, all’inaugurazione della mostra, ad accogliere i visitatori – insieme con Luisa Boc-


chietto, presidente nazionale ADI e con Giovanni Cutolo, presidente della Fondazione ADI, che ha il compito di tutelare e sviluppare la Collezione storica del Compasso d’Oro – Maurizio Borletti, presidente della Rinascente, a rappresentare concretamente la continuità intellettuale e di cultura d’impresa che si è rinsaldata tra i grandi magazzini milanesi e ADI. Nella mostra, presentata da un’introduzione di Vanni Pasca, insieme con i pannelli c’erano foto d’epoca, cataloghi storici e nuove pubblicazioni. Ma anche l’oggetto emblematico forse più celebre di tutta la collezione: la scimmietta Zizi di Bruno Munari, prodotta da Pigomma, Compasso d’Oro nel 1954, esempio imbattuto di come si possano condensare in un prodotto innovazione tecnologica dei materiali e dei processi, cultura del progetto e gusto ironico che cattura e diverte l’attenzione del pubblico più vasto. Love Design 2009: il design e l’etica concreta della ricerca Il design oggi arriva al grande pubblico facendosi strada tra i rumori della vita quotidiana: se non lo si vede per le strade non lo si va a cercare nelle vetrine degli showroom, se non se ne parla nei telegiornali non ci si chiede che cosa possa rappresentare per la vita quotidiana. E soprattutto è difficile comunicare che il design ha un valore culturale e non solo di status symbol: che il design rappresenta non solo uno stile di vita collegato al


Composizione di icone per la manifestazione love design.


benessere, ma un modo di pensare gli oggetti che compongono il nostro mondo. In una parola: più che pubblicizzare i prodotti del design, che hanno a disposizione una fitta rete di strumenti di comunicazione e di agenzie specializzate, oggi è difficile diffondere l’idea che il design ha un’etica, cioè è capace di dare un senso profondo, attraverso il lavoro dei progettisti e dei produttori, alle scelte che tutti facciamo nel costruire la nostra cultura materiale. La difficoltà non sta certo nel parlare di questo tema, cosa facile e largamente praticata, ma nel realizzare azioni concrete e incisive, ascoltate e apprezzate dal grande pubblico, che incarnino questa dimensione etica del progetto. La sfida di oggi è quella di comunicare significati non banali nella forma più soft e in apparenza meno “impegnata”. ADI ha intrapreso questa strada, in parallelo con le sue attività fondamentali di sostegno e diffusione della cultura professionale del design, anche attraverso una partnership inconsueta ma che si è rivelata nel corso degli anni un investimento culturale di grande impatto: la collaborazione all’organizzazione di Love Design. Si tratta, a dirla con il vocabolario tradizionale, di una “vendita di beneficenza”: nell’imminenza del Natale e del periodo in cui si regala – e ci si regala – il meglio, una quantità limitata di prodotti di design per la casa (dal letto matrimoniale al complemento d’arredo, dalla libreria al set di sedute, dal vaso da fiori alle posate, alle pentole,


Alla serata inaugurale di LOVE DESIGN 2009, PAC, Milano, 22 ottobre 2009: da sinistra: Giacomo e Giovanni (del trio Aldo, Giovanni e Giacomo), la principessa Bona Borromeo (presidente AIRC Delegazione Lombardia), Luisa Bocchietto (presidente nazionale ADI), Raul Cremona (conduttore della serata), Aldo (del trio Aldo, Giovanni e Giacomo).

agli utensili da cucina) viene messa a disposizione gratuitamente dai produttori e venduta a vantaggio di un progetto benefico. Ma anche la beneficenza ha un suo progetto moderno e i suoi strumenti evoluti: ADI da quattro anni dà una collaborazione fondamentale in questa iniziativa ad AIRC, Associazione Italiana per la Ricerca contro il Cancro, una delle istituzioni private più dinamiche ed efficienti nel promuovere la raccolta dei fondi e soprattutto la loro destinazione verso obiettivi di ricerca concreti e verificabili. Così l’immunologo Alberto Mantovani, direttore scientifico della Fondazione Humanitas per la Ricerca, sottolinea il ruolo di AIRC: “Oggi ar-


riva a coprire più del 40% della spesa globale in questo campo. Una percentuale che di fatto rende AIRC responsabile dello sviluppo della conoscenza in ambito oncologico. Noi ricercatori – e parlo a nome di oltre tremila scienziati finanziati da AIRC – sappiamo che i nostri laboratori funzionano perché esiste AIRC che garantisce stabilità e continuità del finanziamento alla ricerca in modo meritocratico. AIRC ha permesso a migliaia di giovani ricercatori di ricevere il training necessario, ai migliori di avviare i propri laboratori in piena autonomia, dando loro modo di esprimere la propria creatività scientifica. Con AIRC abbiamo contribuito al progresso nella lotta contro il cancro trasformando i risultati della ricerca in benefici tangibili per il paziente”. Da quando gli accordi per la prima edizione di Love Design sono stati stretti con AIRC da Carlo Forcolini, allora presidente dell’ADI, l’iniziativa ha cambiato decisamente fisionomia, con obiettivi – economici e di visibilità – molto più ambiziosi: da una mostra allestita in uno dei “luoghi deputati” del design milanese (gli spazi degli ex capannoni Caproni in via Mecenate, nell’estrema periferia orientale della città), suggestivo ma forse troppo remoto rispetto agli itinerari del grande pubblico, l’iniziativa è cresciuta in quantità e in varietà di oggetti, ma soprattutto in visibilità. L’edizione 2009 è stata promossa da tre istituzioni: con AIRC, responsabile dell’organizzazione, e con ADI, che ha curato i rapporti con i produttori (51, in gran parte soci, più un’altra cin-


Alla serata inaugurale di LOVE DESIGN 2009, PAC, Milano, 22 ottobre 2009: il performer Franck Bouroullec esegue un ritratto di Leonardo Da Vinci, che verrà messo all’asta tra gli intervenuti.


quantina nel ruolo di “sponsor tecnici”), c’era il Comune di Milano. Alla guida delle tre istituzioni tre donne: il sindaco Letizia Moratti, la presidente di AIRC Lombardia Bona Borromeo e la presidente nazionale ADI Luisa Bocchietto: “Il senso dell’iniziativa con l’AIRC”, ha detto quest’ultima presentando l’edizione 2009 di Love Design a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, “sta nella nostra convinzione che la ricerca sia intimamente connessa con l’innovazione – la sostanza più profonda del design – e che, con l’adesione a Love Design, le imprese italiane del progetto contribuiscano a rafforzare il sistema che le unisce, anche in una prospettiva di crescita dell’occupazione dei giovani che lo sviluppo della ricerca non può che favorire”. La manifestazione, affidata da AIRC a un’a­ genzia specializzata nell’organizzazione e nella comunicazione di grandi eventi – che porta an­ ch’essa un nome di grande peso etico: The Family – si è imposta sui media e nel panorama istituzionale cittadino come nessuna delle edizioni precedenti: presentata con l’intervento del sindaco Moratti, citata sui quotidiani e sui media generalisti, ha avuto una rilevanza particolare anche nella serata inaugurale: nella sede centralissima e di grande prestigio del Padiglione d’Arte Contemporanea di via Palestro (progettato da Ignazio Gardella per ospitare mostre e iniziative culturali di grande rilievo in città) una serata d’apertura a inviti ha preceduto tre giornate di apertura al pubblico.


Una serata di spettacolo nel vero senso della parola, dove ai discorsi programmatici si sono sostituite l’ironia di un conduttore noto a tutto il pubblico televisivo (Raul Cremona) e del trio di attori Aldo, Giovanni e Giacomo. Insieme con loro un performer francese, Franck Bouroullec, che ha realizzato dal vivo un grande ritratto idea­le di Leonardo da Vinci poi battuto all’asta tra gli intervenuti. Insomma: creatività nei gesti e negli oggetti, veicolata con linguaggi moderni e diffusi tra il grande pubblico: anche la campagna di comunicazione collegata a questa edizione di Love Design è stata particolarmente importante. Tra gli strumenti (cartoline promozionali distribuite in città, messaggi sui mezzi pubblici, un piano media di grande estensione per più di 150 “uscite” complessive) spiccava uno spot ideato da Grey Milano e prodotto da The Family con la regia di Stefano Quaglia, intitolato The exhibition, proiettato sui maxischermi del centro cittadino e trasmesso dalle televisioni locali. In mostra, accanto agli oggetti, una serie di gad­get come in ogni occasione espositiva contemporanea, tra cui l’orologio Lorenz progettato per l’occasione da EMO Design. Il divertimento è in conflitto con l’etica? Certamente no: nei tre giorni di apertura si sono totalizzate oltre 20.000 presenze e il ricavato è stato di circa 400.000 euro, destinati a progetti di ricerca secondo gli obiettivi AIRC. A sigillare il segno etico dell’iniziativa e il va-


lore che il design assume in questo contesto, senza che l’interesse per gli oggetti potesse metterlo in secondo piano, è stata scelta una frase di Achille Castiglioni: “Se non siete curiosi, lasciate perdere. Se non vi interessano gli altri, ciò che fanno e come agiscono, allora quello del designer non è un mestiere per voi”.



ISSN 0030-3305

Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli


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