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maggio 2010

numero 138

Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli

Electa Napoli



Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Alessandra de Martini, Emma Labruna, Livio Sacchi Segreteria di redazione: Rosa Losito Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 081/7690783 Amministrazione: 80121 Napoli, Via dei Mille, 16 - Tel. 081/4297440 Un fascicolo separato e 9.00 (compresa IVA) - Estero e 10.00

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Electa Napoli


D. Baroni, Bob Noorda e la grafica di sistema P. Nunziante, Algoritmi per progettare C. de Seta, Celebrazioni del centenario futurista G. Dal Canton, Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Luigi De Ambrosi, Livia Falco, Francesca Lanz, Valeria Pagnini, Livio Sacchi.

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Bob Noorda e la grafica di sistema DANIELE BARONI

Agli inizi del nuovo anno, il 2010, si è conclusa a ottantadue anni la prestigiosa carriera di Bob Noorda1, indubbiamente uno dei maggiori protagonisti del design grafico internazionale del XX secolo. Sempre impegnato sul progetto più immediato su cui stava lavorando, Noorda non amava raccontare quanto di valido aveva fatto in un passato più o meno recente. Persino negli incontri pubblici, quando gli veniva chiesto di commentare uno dei suoi famosi lavori, da gentleman lo faceva semplificando i termini del problema affrontato, secondo i buoni princìpi dell’understate e senza attribuire molto valore al proprio lavoro. È pertanto importante considerare preziosa la testimonianza che ci ha lasciato, dialogando con Francesco Dondina in una lunga intervista, poi sfociata in una bella pubblicazione2. Diplomato nei primi anni Cinquanta all’Istituto di design Ivkno di Amsterdam3, una delle più accreditate scuole olandesi, a quei tempi con un orientamento culturale e progettuale di impronta costruttivista, nella scia della lezione bauhausiana e secondo l’evoluzione delle avanguardie storiche, una volta terminati gli studi, Bob Noorda si propone di sviluppare una proficua esperienza a livello internazionale, incerto però sull’indirizzo da prendere, fra New York e Milano. L’Olanda, al pari della Svizzera, possiede corsi formativi di alto livello, dall’architettura al design grafico, ma con uno sbocco professionale piuttosto limitato dato il suo territorio non molto vasto.

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Ma come spiegarsi un’eventuale scelta di Milano? In Italia, dopo la metà degli anni Cinquanta, sia pure in assenza di scuole di specializzazione, in una congiuntura favorevole, si crea uno sviluppo nell’area industriale e una indubbia intraprendenza nel campo progettuale. Soprattutto a Milano emergono alcuni settori, da quello dell’arredo alla meccanica fine, agli elettrodomestici, oltre a industrie come Pirelli o la non lontana Olivetti, senza dimenticare un centro per le attività commerciali come la Rinascente. Proprio quest’ultima società, nel 1954, come è noto, avvierà quella prima importante esposizione sull’estetica del prodotto industriale che sfocerà poco dopo nel Premio Compasso d’Oro. Inoltre a Milano ci sono le puntuali edizioni della Triennale: quella del 1948 sulla ricostruzione e quelle del 1951, 1954, 1957, tutte connotate da esibizioni intorno alla tematica dell’oggetto di design e degli arredi, a cura dei migliori architetti, designer, grafici, studiosi, da Ernesto Nathan Rogers a Marco Zanuso, da Franco Albini a Max Huber, da Argan ai Castiglioni. Così, nel 1957, Bob Noorda sceglie Milano. Numerosi studi di architettura, di design, uffici tecnici aziendali e le prime sporadiche agenzie di pubblicità milanesi, accoglieranno numerosi stranieri: svizzeri, tedeschi, finlandesi e anche alcuni olandesi. Fra coloro che hanno fatto esperienze a Milano negli anni Cinquanta e Sessanta, basti ricordare il finlandese Antti Nurmesniemi (1954-55), il londinese Alan Fletcher, più tardi tra i fondatori del Pentagram Group, Andries van Onck, designer e teorico olandese, e Richard Sapper, giunto da Stoccarda, il quale ha fatto di Milano la base della sua attività, sviluppata sempre più oltre i confini italiani ed europei. Dopo essere approdato allo Studio Boggeri per una breve collaborazione, fra le prime importanti realizzazioni di Bob Noorda a Milano si riscontrano numerose pagine istituzionali per Pirelli, da cui prende avvio una ben radicata collaborazione che durerà per alcuni anni, nella veste di designer e di art director. Materiali in origine poco attraenti come i cinturati per le automobili o per altri mezzi di tra-


sporto, nelle pagine di Noorda si trasformano in sorprendenti segni grafici, grazie anche a una elaborazione fotomeccanica che traduce la fotografia in disegno al tratto; tutto come sapiente avanzamento del linguaggio grafico avviato in passato da un maestro come Piet Zwart e in alcuni corsi del Bauhaus. Se vogliamo qui trattare almeno alcuni fra i numerosi progetti realizzati da Noorda in quasi cinquant’anni di attività, dobbiamo ricordare che dopo essersi messo in evidenza anche con alcune collaborazioni grafiche per la Rinascente, tra il 1962 e il 1963, gli si presenta un’opportunità di grande prestigio che ogni designer avrebbe voluto poter incontrare: quella di progettare la segnaletica della prima linea della metropolitana milanese. Un campo questo, in cui l’Italia e Milano in particolare, arrivano di gran lunga in ritardo nei confronti di altre capitali del mondo: ma il prodotto finale confezionato dallo Studio Albini, con la collaborazione di Bob Noorda, si trasformerà presto in un modello ammirato ovunque per l’alto livello raggiunto nel design. La segnaletica per la Metropolitana di Milano Il ritardo della realizzazione nei confronti di altre capitali europee non scalfisce l’impresa milanese: settant’anni dalle stazioni della imperial-regia metropolitana di Vienna, di Otto Wagner; sessant’anni dagli interventi di Hector Guimard per gli ingressi Art Nouveau della metropolitana parigina; oltre un trentennio dall’immagine impressa alla under­ ground londinese da McNight Kauffer, Henry Beck e altri designer. Ma proprio questo stacco temporale ha permesso a Franco Albini e Franca Helg, con il contributo di Bob Noorda, di evitare qualsiasi confronto con quei troppo lontani esempi e operare intorno a un loro personale modello. Soprattutto la visione illuminista, la tecnologia, oltre all’uso psicologico, adottati spesso da Albini nell’allestimento dei musei, vengono ora tradotti, nell’arredo della metropolitana, in una serie di «servizi»: impianti e segnali di pubblica utilità devono essere qui facilmente fruibili e memorizzabili.

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Gli anonimi spazi interni delle stazioni vengono dunque trasformati in un «sistema per l’uso», circoscritti e ritmati da siparietti che creano i percorsi sovrastando la frammentarietà e la monotonia con il colore e con l’armonia dei materiali. «Le lastre artificiali in «silipol» che simulano la pietra sono smontabili, per consentire di raggiungere facilmente gli impianti di illuminazione e areazione retrostante; il soffitto è una superficie in ombra dove la luce è condotta da canali luminosi. Il motivo del corrimano, staccato dalla parete, assurge a segno significante in cui si identifica l’intero arredo, leit motiv e “marchio” continuo, appena modulato nella parte terminale da una lieve voluta. A sostegno visivo di quest’ultimo, come una linea binaria, corre una fascia metallica che delimita la parte superiore della parete, an­ ch’essa di colore rosso-arancio (come il corrimano) con la funzione di supporto per la grafica della segnaletica. Con il progetto di Bob Noorda, la segnaletica della metropolitana Milanese è diventata ben presto un esempio da manuale, pubblicata dalle riviste specializzate di tutto il mondo. Non si tratta di un semplice intervento “tecnico”, ma di un vero e proprio studio di immagine coordinata applicata a un servizio pubblico»4. Uno degli impegni maggiori per Noorda è la soluzione di leggibilità delle insegne: «Il nome di ogni stazione viene riportato lungo tutta la banchina a intervalli di cinque metri, e a due metri circa da terra. Misure queste che permettono al passeggero di vedere sempre, dall’interno della vettura, almeno per due volte il nome della stazione»5. Prima di decidere il carattere tipografico da adottare, Noorda ha avviato prove di leggibilità con scritte viste in prospettiva, con due tipi di alfabeti, di cui uno ristretto. Ha prevalso, ma non vi era dubbio, il carattere più tondo e regolare. L’alfabeto preso in considerazione appartiene ai caratteri sans serif, cioè lineari «senza grazie»; il riferimento di partenza è stato il Neue Helvetica della Haas Grotesk, ridisegnato in Svizzera da Max Miedinger nel 1953. Bob Noorda però non si accontenta di adottare un carattere sia pure nuovo e all’apparenza perfetto, ma lo rimodella secon-


do le proprie esigenze (accorciando ascendenti e discendenti, ispessendo di poco le lettere). Di notevole importanza lo studio di un sistema di spaziatura che attraverso le unità di misura, stabilisce esattamente la quantità di spazio, necessario a una corretta percezione, da lasciare fra le lettere. Ad esempio, lo spazio equivalente a una unità lo pone fra due lettere tonde (od), oppure fra una una retta e un’obliqua (dv); zero unità fra una lettera obliqua e una tonda (ve); due unità fra una lettera tonda e una retta (ep); tre unità fra due lettere senza curve (nl). Un metodo rigoroso che entra a far parte della scienza della visione, oltre che un principio della migliore tradizione tipografica. Per quanto riguarda invece il marchio che ha funzione di segnalatore a ogni ingresso, posto in cima a un palo, dalla strada alla metropolitana, il progetto iniziale di Noorda non venne accettato. Si trattava di una doppia «M» di cui una rovesciata, sovrapposte in verticale (a rappresentare il sopra e il sotto); alla fine prevalse una singola «M» con un carattere simile a quello adottato per l’intera segnaletica, che ha permesso al progettista di mediare, contro altre richieste espresse dalla committenza. A quarant’anni di distanza dall’inaugurazione di quella prima linea metropolitana, il Comune di Milano ha dovuto intervenire per un sostanziale adeguamento alle normative entrate nel frattempo in vigore e lo ha fatto purtroppo in modo pesante, cancellando buona parte del lavoro dello studio Albini-Helg e di Bob Noorda. Dopo tutto, sarebbe bastato conservare un paio di stazioni, di cui almeno una nel centro della città, a memoria di quel progetto diventato un modello per vari paesi del mondo. Di recente, a seguito delle lamentele sollevate da alcuni progettisti e ai successivi dibattiti, l’attuale sindaco ha assunto l’impegno di riconsiderare il caso. Unimark, uno Studio grafico internazionale Fra il 1962 e il 1965, nel periodo in cui sta lavorando al progetto grafico della metropolitana, Bob Noorda sviluppa

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un’interessante esperienza come insegnante alla Scuola del Libro della Società Umanitaria di Milano, dove è stata avviata una serie di corsi per assistenti grafici riorganizzati e coordinati da Albe Steiner; il quale chiama come responsabili di quei corsi i migliori professionisti a quel tempo disponibili: Pino Tovaglia, Giancarlo Iliprandi, Ilio Negri, Massimo Vignelli, Bob Noorda e altri ancora, oltre a Michele Provinciali, già presente da qualche anno. In quella sede, fra Noorda e Vignelli nasce un sodalizio che li porterà a realizzare vari progetti come associati, e a fondare nel 1965, insieme a due soci statunitensi – dopo la diffusione del progetto di Noorda per la metropolitana – la Unimark International. Una società, dunque, che opera con due soci a Milano e due a Chicago e che avrà un rapido sviluppo proprio nella specializzazione del corporate design e dell’immagine coordinata. Agli inizi degli anni Settanta Vignelli, insieme alla moglie Lella, avvia uno studio a New York che, sia pure continuando a collaborare con l’Unimark, denomina Vignelli Associates. «Io invece – precisa Noorda – sono rimasto con i miei collaboratori di allora, costituendo una società italiana che mantenne lo stesso nome: Unimark International. Siamo andati avanti fino al 1999»6. Sulla scia del successo acquisito con la segnaletica di Milano, a Noorda viene richiesto il restyling della segnaletica delle oltre trenta linee della metropolitana di New York e, successivamente, nel 1972, anche il progetto per la nuova metropolitana di San Paolo del Brasile. Per New York è stato necessario ristudiare un sistema integrato e complesso di scritte, numeri, colori, cartelli segnaletici; per l’occasione Bob Noorda è stato coadiuvato da vari collaboratori e dal socio Vignelli, il quale ha poi progettato la mappa dell’intera rete, secondo i criteri adottati quarant’anni prima da Henry Beck a Londra. Mentre Noorda, nel 1973, realizzerà un «manuale degli standard», necessario per tutte le applicazioni grafiche. A San Paolo, dopo i primi layout, ci si rende conto che l’impianto necessita di luminosità, così Noorda decide per


una segnaletica luminosa con supporti modulari scatolari per permettere di inserirvi la luce. La comunicazione grafica nelle banchine viene realizzata secondo il consolidato sistema della fascia a correre lungo lo spazio disponibile, con i colori dall’azzurro al blu intenso e l’uso del carattere Helvetica. Un altro dei grandi progetti studiati e coordinati con intensa partecipazione da Noorda è il progetto che connota l’intera corporate image dell’Agip. Il primo intervento, ritenuto necessario dal progettista, è stato quello di rimodellare l’emblematica figura del cane a sei zampe, disegnato dallo scultore Luigi Broggini ai tempi della nascita della società fondata da Enrico Mattei. Noorda accorcia la figura, sia per rendere essenziale il disegno sia per poter meglio contenere l’immagine in un quadrato, facendone un marchio di buon impatto. Un’altra parte importante del progetto è determinata dalla costruzione di un alfabeto originale, da adottare in esclusiva in tutte le presenze delle aziende del gruppo Eni-Agip. Ancora una volta Noorda si affida a un cattere simile agli Haas-Helvetica – lo Standard Bold – ma interviene inscrivendo al centro dello spessore di ogni lettera un filo sottile in negativo, come se si trattasse di un segno luminoso che suddivide in due parti la lettera. In questo modo si possono ottenere uno o più logotipi fortemente connotati e, al tempo stesso, coordinati all’interno di un’immagine aziendale molto ampia. Una corporate, dunque, che deve necessariamente comprendere la comunicazione grafica dalle stazioni di servizio sparse lungo l’intero territorio della penisola, ed esauriente nella segnaletica dei singoli servizi. Sulla base delle esperienze fatte in precedenza, Noorda decide di ricorrere alla costante presenza di una fascia colorata continua per gli esterni, puntando, in questo caso, su un colore luminoso come il giallo. Un altro impegno considerevole è stato affrontato dal nostro nel disegno dei pittogrammi; per un’attività di servizi come quella dell’Agip, le esigenze si presentavano piuttosto variegate. In questo campo, intorno al disegno iconico dei simboli, in passato si sono formate importanti

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teorie, come il metodo scientifico della statistica per immagini di Otto Neurath, nella Vienna degli anni Trenta (poi trasferitosi in Olanda con il grafico che realizzava i pittogrammi, Gerd Arntz), fino alle equipe che ogni quattro anni, ai Giochi Olimpici presentano pittogrammi di nuova interpretazione, quantomeno da Città del Messico del 1968 a oggi. Bob Noorda e i collaboratori dell’Unimark affrontano per l’Agip con rigore anche questo particolare settore ottenendo una ben definita interpretazione. A tal punto, ad esempio, che il pittogramma della mano che impugna la pompa di benzina, è diventato il simbolo ufficiale del «fai da te» di tutti i distributori delle diverse società. Una peculiarità che ha contrassegnato per diversi anni i lavori dell’Unimark, sotto la guida di Noorda, è la paziente costruzione, pagina dopo pagina, dei «manuali d’immagine», in cui vengono affrontate tutte le esigenze di ogni settore dell’impresa, imprimendo un risultato coordinato dal punto di vista dell’immagine. Per quanto riguarda l’Agip, il lavoro da affrontare risultava in un certo senso anomalo, nei confronti, ad esempio, delle aziende produttrici di beni. Nel manuale d’immagine della società petrolifera infatti, bisognava anche saper valutare quale tipo di vegetazione privilegiare nelle stazioni di servizio, tenendo conto delle differenze climatiche che distinguono la presenza di un impianto a Bolzano piuttosto che a Trapani. Un progetto di corporate sul territorio probabilmente un po’ più semplice, quantomeno con meno problemi da risolvere, sembra essere stato quello della realizzazione del­l’intero sistema di segnaletica e di immagine generale affrontati per la Coop, a cominciare dalla revisione del marchio che, inizialmente (1963), venne disegnato da Albe Steiner. Le esigenze imprenditoriali e la relativa espansione dei centri commerciali erano mutate rispetto a quando Steiner aveva progettato il marchio. Nel 1985 a Noorda viene chiesto di intervenire per rinforzare l’impatto dell’acronimo e per costruire intorno a esso l’immagine globale del­ l’impresa.


Le collaborazioni editoriali e il disegno di nuovi marchi Da sottolineare che, a differenza dei grandi progetti di segnaletica, Bob Noorda quando affronta le tematiche editoriali, dal marchio alle collane di libri, alle singole copertine, adotta una grafica più in linea con la storia e la tradizione della tipografia; sceglie prevalentemente caratteri bodoniani o altri di valido redesign, come, ad esempio, il Century Old Style. Gli stessi princìpi valgono per i marchi, come quello ridisegnato per le edizioni del Touring Club Italiano: una ruota di bicicletta con la bandiera tricolore; oppure il marchio Vallecchi, sviluppato su un’idea di Geno Pampaloni, un autorevole intellettuale che negli anni Settanta è il direttore editoriale della casa editrice. Dice Noorda:«Il marchio rappresenta una catasta di tronchi d’albero disposti secondo un antico schema tradizionale toscano»7, e ne esce un segno astratto, ma con un preciso riferimento alla cultura popolare. Al marchio è stato accostato il logotipo con il nome dell’editore, nel più classico Bodoni; nel corso di un decennio, inoltre, Noorda per Vallecchi rivedrà l’impostazione grafica di varie collane. Per Feltrinelli inizia la collaborazione negli anni Sessanta, realizzando copertine, dopo il decennio precedente in cui è stato art director della neonata casa editrice Albe Steiner. Noorda e Vignelli hanno progettato l’immagine di alcune collane, tra cui la «Serie cultura 10» che, con una connotazione forte, una fascia cromatica dinamica e posta in diagonale, contribuirà alla definizione del nuovo marchio con la «F» costruita sul quadrato, a sua volta tagliato e ruotato a rombo. Successivamente, negli anni Ottanta, la Feltrinelli incaricherà Noorda di ridefinire e completare lo studio della corporate identity della casa editrice. Uno dei marchi editoriali realizzati da Noorda che hanno assunto nel tempo sempre maggiore visibilità, è certamente quello per Mondadori. Nel 1969 la casa editrice promosse una gara a inviti tra una decina di professionisti per l’individuazione di un nuovo marchio. Fu scelto quello disegnato da Noorda in cui viene evidenziata la fusione della

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M con la A di Arnoldo, poiché a quel tempo la denominazione della società si identificava con Arnoldo Mondadori Editore. Qualche preoccupazione destava quella «A» che primeggiava e che nelle future evoluzioni societarie avrebbe potuto risultare ingombrante. Con il senno di poi però, dopo le note vicende per l’acquisizione del gruppo, il costante rimando al fondatore si è rivelato una scelta proverbiale. Elegante nel disegno, equilibrato nella costruzione armoniosa del bianco e nero, il marchio è formato da caratteri di gusto neoclassico, dove le aste si raccordano con le grazie nelle parti terminali. C’è poi un marchio frutto di un lavoro comune tra diversi professionisti, fra i quali Bob Noorda: il marchio della Regione Lombardia, portato a termine nel 1974 e che ha visto impegnati a lungo, in un primo tempo una commissione di esperti – tra questi Bruno Munari e Italo Lupi – con un incarico di indagine sui contenuti e di coordinamento preliminare. Successivamente con l’affidamento del progetto a tre progettisti: Bob Noorda, Pino Tovagli e Roberto Sambonet. Lo studio del marchio avrebbe dovuto includere in sé un chiaro rimando alla storia e al passato più o meno lontano del territorio regionale8. Dopo varie ipotesi prese in esame i progettisti si sono ispirati a un dettaglio molto significativo delle incisioni rupestri della Val Camonica, un segno conosciuto come la «rosa camuna». Ineccepibile il lavoro svolto, soprattutto sotto il profilo metodologico e l’approdo a un risultato semplice e di facile memorizzazione8, tra l’altro, Premio Compasso d’Oro 1979. Ma ci sembra che quel marchio – anche se una critica a distanza di molti anni può risultare inutile – nella sua costruzione rigorosamente geometrica, abbia perso il valore dei suoi contenuti. Di quel segno originale e primitivo è stato annullato il significato più intrinseco e alla fine, quello della Lombardia fa pensare più a un marchio di fabbrica che alla tradizione istituzionale. Nel campo dei marchi istituzionali, Noorda ne ha firmati altri di indubbio interesse, come quello per l’Aem di Milano (Azienda Elettrica Milanese), per la quale ha disegnato


una A molto larga di colore blu, con al centro un sole dorato e stilizzato. Sempre per un’altra azienda milanese, l’Amsa (Servizi ambientali), il marchio realizzato è formato da aste verticali in cui viene rappresentato idealmente il Duomo riflesso; l’azienda ne aveva affidato lo studio a Noorda in qualità di docente del corso di grafica presso l’Istituto Europeo di Design di Milano; così venne prodotta una ricerca da un gruppo ristretto di studenti e il risultato finale è dovuto al progetto di Maurizio Minoggio, anch’egli allora studente, che con Noorda ha firmato il marchio. E con Minoggio, diventato poi assistente, negli anni Novanta Noorda progetta il marchio Enel in cui per esprimere il senso dell’energia e il suo radicamento nella terra, si è scelto di sintetizzare i raggi del sole con un accenno al tronco di un albero e una colorazione tutta dorata; in questo caso con un disegno più mosso e più libero che in altri suoi progetti, sia pure mantenendo rigorosa la costruzione. L’attività progettuale di Noorda nell’arco di cinquant’anni di lavoro è stata indubbiamente molto proficua, se si considera che soltanto nel settore dei marchi, con le relative applicazioni, dagli stampati d’uso ai manuali delle normative, lo stesso Noorda ne segnala centosettanta realizzati; alcuni di questi hanno ricevuto il Premio Compasso d’Oro – quattro in totale – tra cui uno per il marchio dell’azienda Fusital. Talvolta Bob è rimasto sorpreso per alcune modifiche recenti fatte a suoi progetti di anni addietro, per non essere stato consultato, come ad esempio è avvenuto nel caso Eni. Va detto che l’andamento frenetico di molte imprese, in particolare quelle che appartengono al terzo settore e ai servizi, genera continui aggiornamenti, cambiamenti più o meno radicali dell’assetto costitutivo, quando poi non avvengono fusioni o formazione di nuovi gruppi. Basti pensare al caso del marchio Aem, oramai inutilizzato perché la società, dopo la fusione con una azienda sua simile di Brescia, si è trasformata in A2A, senza più adottare un vero e proprio marchio. Un caso emblematico è quello di Banca Intesa, che dopo avere promosso una ampia e strutturata immagine

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coordinata, di orientamento vignelliano (qui non c’entra Noorda, ma il progetto era firmato Fragile), dopo la fusione con Sanpaolo, ha buttato l’intero progetto, senza sostituirlo (perlomeno dove è presente come associata). Non vi è dubbio dunque, che quelle metodologie nella costruzione di corporate identity e corporate image progettate per anni da Noorda e dall’Unimark, ma anche da Herion Design Associates a Londra o dalla Walter Landor negli Stati Uniti, sono oramai al tramonto. Ciò non significa che non si faranno più immagini coordinate, ma i futuri progetti probabilmente saranno più snelli e più flessibili. Fino alla fine dei suoi giorni Bob Noorda ha però continuato a svolgere, con l’aiuto di un assistente, le sue ricerche e i suoi studi sulla percezione della forma, con la medesima passione del passato. Tra gli ultimi soddisfacenti risultati, va ricordata la completa revisione di un marchio che intorno alla metà degli anni Ottanta era stato ideato da John Alcorn, per la Tea, i Tascabili degli Editori Associati, ripensato e corredato di tutte le necessarie norme di applicazione. Nel 2005 la Facoltà di Design del Politecnico di Milano gli ha conferito la laurea ad honorem e, per non smentirsi, quando gli è stata data la parola per l’atteso discorso, Bob ha fatto un intervento breve, come se avesse avuto ben poco da raccontare. Ma gli applausi da parte della folla di studenti e i festeggiamenti che sono seguiti in suo onore, rimangono un fatto indimenticabile.

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1   Bob Noorda, nato ad Amsterdam nel 1927, è morto l’11 gennaio scorso, a seguito di un banale incidente occorsogli nella sua casa di Milano. 2   Bob Noorda. Una vita nel segno della grafica. Dialogo con Francesco Dondina, Editrice San Raffaele, Milano 2009. 3   IVKNO, Instituut voor Kunstnijverheidsonderwijs, a quel tempo diretto, prima da Mart Stam, poi da Gerrit Rietveld. Infine, l’istituto prese il suo nome: Rietveld Academie. 4   Daniele Baroni, Italian look per il grande “tubo”, in «30 anni della nostra vita», 1964 fatti e persone, Eri Edizioni Rai e Gruppo Editoriale Fabbri, 1984.


5   Una esauriente presentazione del progetto grafico di Bob Noorda è stata pubblicata nella rivista «Pagina» n. 4, gennaio 1964, diretta da Bruno Alfieri e Pier Carlo Santini. 6   Riportato in Dialogo con Francesco Dondina, cit. 7   Ibidem. 8   Si veda in proposito, Pietro Gasperini (a cura di), Ricerca e pro­ gettazione di un simbolo. Bob Noorda, Roberto Sambonet, Pino Tova­ glia, Zanichelli, Bologna 1977.

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Algoritmi per progettare PIETRO NUNZIANTE

Se è vero che è il nostro cervello a costruire le immagini che noi crediamo di percepire1, possiamo condividere l’asserzione che l’effetto non può essere la causa, che la mappa non è il territorio, dunque che tra ideazione dell’architettura e rappresentazione dell’architettura esiste una differenza fondamentale. I sistemi digitali e i programmi di computer sono diventati elementi essenziali dell’organizzazione spaziale della vita e del lavoro2. Simultaneamente la crescita delle fun­ zioni del web sta producendo un impatto imprevisto delle reti informatiche sugli stili di vita, di consumo, e sulla società nel suo insieme; lo sviluppo dei network sociali e la trasformazione della vita sociale che ne consegue è appena iniziata. Possiamo condividere l’affermazione che il soft­ ware rappresenta oggi ciò che fu il motore a scoppio e la rete elettrica per la rivoluzione industriale3. L’insieme di questi elementi: il software, il web, le funzioni produttive dei network, rappresentano le fondamenta di quello che possiamo indicare come universo digitale. Si è dibattuto a lungo nel campo della teoria architettonica (De Fusco) e progettuale (Maldonado) dell’avvento del digitale in termini di rapporto tra virtuale e reale, tra possibile e reale; oggi il digitale appare sempre più un dato assolutamente reale, nei sistemi di relazione, di produzione e uso dello spazio costruito. Si può sostenere che l’architet-

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tura abbia acquisito un nuovo layer, che possiamo indicare genericamente come layer digitale. Quando gli strumenti sono nuovi (come lo è il computer) possono sembrare strani e venire interpretati come antagonisti ai loro predecessori. Inizialmente, l’automobile veniva considerata come un carro senza cavalli, la radio come un telegrafo senza fili, un computer per un progettista come un’apparecchiatura per il disegno non manuale. Con l’andar del tempo, man mano che il loro impiego diventa una consuetudine ed una più matura comprensione di fondo riesce a svilupparsi, le vecchie locuzioni suonano sempre più strane e finalmente abbandonate. La tecnologia diventa “trasparente”. Gli odierni automobilisti hanno smesso da tempo di pensare di essere impegnati in un viaggio senza cavalli: gli architetti di oggi sorriderebbero all’idea di una “progettazione assistita dalla matita”. I cronisti del nostro tempo potrebbero un giorno chiedersi: “progettazione assistita dal calcolatore, chi è costei?”. Per loro sarà soltanto progettazione4. La tecnologia e l’architettura sono da sempre interconnesse; la rivoluzione industriale ha alterato irreversibilmente l’architettura, attraverso l’impiego di nuovi materiali e l’uso di componenti prodotti industrialmente. Edifici a torre e grattacieli non sarebbero concepibili privi dei sistemi meccanici di risalita, della diffusione delle reti elettriche e dei sistemi a rete. L’organizzazione stessa della città moderna e della produzione industriale sono intrinsecamente legate all’avvento dei sistemi di trasporto e poi di telecomunicazione. Da queste innovazioni derivano la specializzazione funzionale delle parti urbane, la localizzazione di nuove funzioni territoriali e la zonizzazione come sistema di piano. Architettura, edifici e città hanno incorporato progressivamente i sistemi tecnologici e adattato i propri caratteri, tipologia e forma proprio grazie a questi. L’idea che la rivoluzione digitale avrebbe favorito una dematerializzazione5 dell’architettura appare contraddetta dai fatti. Il materiale dell’architettura e con cui il progetto deve oggi fare i conti si è ampliato, si estende oltre la com-


posizione di forma, funzione e struttura. L’avvento del digitale ha riconnesso saperi che si erano andati specializzando in modo separato e ci pone oggi un’oggettiva riunificazione delle categorie storiche della teoria in architettura. Forma e struttura sono controllate grazie a un linguaggio unico dove calcolo, istanze formali e necessità prestazionali devono comporsi. La distinzione tra design ed architettura, tra piani distinti per scala, sembra essere nuovamente priva di senso; nell’ottica dei progettisti, siamo oggi ritornati al motto modernista dal cucchiaio alla città, questo orizzonte risulta ulteriormente esteso, si potrebbe dire dal graphic design al landscape design. Sembra si stia realizzando, grazie alla tecnologia, il sogno modernista d’unificazione dei linguaggi creativi. A questo processo possiamo dare un ordine parziale a partire da due fondamentali linee teoriche che corrispondono evidentemente anche a pratiche che possiamo considerare pionieristiche, nel modo di esplorare e piegare l’informatica per l’architettura. La prima corrisponde al consolidarsi di un uso consapevole degli strumenti tradizionali del disegno trasferitisi in campo informatico grazie allo sviluppo dei cad e della computer grafica, l’altra è il contributo sempre più significativo dato dalla programmazione visuale alla definizione di uno spazio digitale di progettazione formale. L’idea stessa d’interno deve essere riconsiderata alla luce degli effetti sulle forme dell’abitare d’interfacce graficorelazionali. Cos’è infatti un’interfaccia? Un interno di un interno, o piuttosto, nella società contemporanea, il luogo esterno per eccellenza? In primo luogo possiamo dire che essa rappresenta la finestra attraverso cui l’uomo interagisce con le applicazioni del computer; ma si possono considerare interfacce tutti i fattori ambientali che ci collegano ad altre applicazioni, altre persone, altri mondi fisici. La progettazione d’interfacce fisiche è stata da sempre compito svolto dagli architetti, i quali hanno organizzato lo spazio costruito, dell’abitare e delle rappresentazioni attraverso connessioni visive, fisiche, sistemi di connessione e sosta;

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soglie, porte, portici e logge sono spazi assimilabili ad attivatori alla scala del corpo, vere interfacce spaziali. Con il telegrafo, l’uomo occidentale ha iniziato ad allungare i suoi nervi fuori dal proprio corpo. Le tecnologie precedenti erano state estensioni di organi fisici: la ruota è un prolungamento dei piedi; le mura della città sono un’esteriorizzazione collettiva della pelle. I media elettronici, invece, sono estensioni del sistema nervoso centrale, ossia un ambito inclusivo e simultaneo. A partire dal telegrafo, abbiamo esteso il cervello e i nervi dell’uomo in tutto il globo. Di conseguenza, l’era elettronica comporta un malessere totale, come quello che potrebbe provare una persona che abbia il cervello fuori dalla scatola cranica. Siamo diventati particolarmente vulnerabili. L’anno in cui fu introdotto il telegrafo commerciale in America, il 1844, fu anche l’anno in cui Kierkegaard pubblicò Il concetto dell’angoscia6. Umberto Eco ha ipotizzato che il progetto del futuro prossimo sarà effetto di un dispositivo semantico universale rappresentato dall’interfaccia, il quale, come tale, nega qualunque relazione tra forma e funzione7. Eppure la metafora spaziale pervade ancora la costituzione e la rappresentazione nel mondo digitale; essa stabilisce un riferimento mimetico che rende comprensibile e amichevole (friendly) il funzionamento del personal computer attraverso il modello della scrivania (desktop), e quello della rete come mappa. Questi modelli sono in primo luogo pattern cognitivi, permettono a chiunque di apprendere in modo spontaneo l’uso e le azioni consentite dalle applicazioni informatiche. Mentre concetti come de-costruzione, de-localizzazione, de-codificazione e de-territorializzazione dominavano il dibattito culturale si costruiva, localizzava, codificava e territorializzava l’imponente rete globale di comunicazione integrata (world wide web), costruzione eminentemente collettiva destinata all’intera umanità senza distinzione di cultura, religione e grado d’istruzione. Non possiamo continuare a credere che il contributo più rilevante dato dalla rivoluzione digitale all’architettura sia internet, ovvero la parte commerciale, contenutistica e


multimediale della rete, stiamo scambiando l’effetto per la causa, o si potrebbe dire il mezzo per lo scopo. Di cosa parliamo quando ci riferiamo a questo nuovo fattore di natura tecnologica che l’architettura ha incorporato, e che in modo semplificato abbiamo indicato come layer digitale? Il primo punto è l’impatto che il digitale ha sul piano dell’ideazione dell’architettura. Il computer è particolarmente utile per investigare fenomeni che sarebbe difficile osservare a causa della scala temporale (siano essi troppo veloci o troppo lenti). Grazie ai software che gestiscono ti­ meline la scala del tempo può essere manipolata per rivelare la matrice e le regole che altrimenti sarebbe difficile scoprire8. Il computer è utile nell’isolare graficamente e rendere visibile selettivamente ciò che con altri media è stato registrato, rendendolo comunicabile, e isolando i caratteri che ci interessano di un determinato fenomeno o forma, il comportamento di una struttura o di un materiale. Non possiamo qui sottostimare il peso assunto dall’uso sempre più esteso da parte dei progettisti di strumenti per la prototipazione virtuale (2d-3d), la prototipazione rapida, gli apparati di geometria generativa, la genetica della forma, gli algoritmi per definire e supportare soluzioni progettuali, la ricerca di forme strutturali libere (freeform) ed ottimizzate. I logici non meno dei pragmatisti hanno contribuito a distruggere una quantità di pregiudizi e contrasti tra le teorie oggi correnti e le vedute dei grandi scienziati e pensatori dell’antichità, ponendo in luce come molte tra le scoperte dei matematici moderni non siano consistite in altro che l’introduzione di nuovi modi più semplici e comodi, più perfetti per esprimere rapporti, e denotare procedimenti, già ado­perati o considerati sotto altri nomi, dai loro predecessori9. La tesi di Vailati ci fornisce una chiave per osservare gli accelerati avanzamenti della tecnologia come legati a una storia più lunga di quella che inizia con l’avvento del computer personale; possiamo attribuire ai sistemi digitali la capacità di affrontare i vecchi problemi in modo nuovo. La convergenza di logica matematica, filosofia, pe-

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dagogia delle arti ed esperienza progettuale è il terreno concreto su cui si è andata a innestare, in modo apparentemente naturale, la nascita della cultura digitale. Questa si è qualificata fino a oggi con una prassi sperimentale basata su esperienze empiriche, priva cioè di una teoria unificante. L’interpretazione produttiva dei linguaggi iconici ci conduce inevitabilmente al superamento degli approcci sintattici, quelli che nel campo delle arti si possono indicare come approcci stilistici. L’origine dei caratteri della cultura digitale può essere rintracciata nello stesso orizzonte da cui emerse il pragmatismo esperienziale di fine ’800, poi potenziato dai contributi della logica matematica e della sua applicazione nella creazione di nuovi linguaggi formali, quelli che diventeranno attraverso un processo di migrazione di concetti, i moderni linguaggi di programmazione. A ragione i programmatori/artisti10 d’oggi si riferiscono in modo consapevole e diretto alla teoria Gestalt come metodologia utile a comprendere funzioni e forme di processi e prodotti, ne estendono l’interpretazione sino ad usarne la metodologia come metafora della programmazione11; a ciò associamo l’eredità delle sperimentazioni cinestetiche e la critica dei valori commerciali che domina gran parte della migliore estetica digitale. La rapidità di sviluppo e diffusione di una cultura propriamente digitale deriva dall’opposizione all’ideologia delle grandi industrie informatiche che sfruttano l’intelligenza a buon mercato, non dalla larghezza di banda delle connessioni o dalla pubblicità dei grandi produttori di hardware. Piuttosto possiamo addebitarla ad alcune pratiche anticommerciali, quali la condivisione (sharing) delle conoscenze informatiche, alla negazione dei sistemi di protezione della proprietà intellettuale attraverso l’open source, al cosiddetto copyleft, il mediattivismo e il design collaborativo; e addirittura alle pratiche di pirateria informatica. Questa rivoluzione era stata in gran parte annunciata, sul piano della riflessione teorica, dal lavoro di Negroponte, il quale aveva cercato di unificare i contributi che l’Infor­ mation Technology avrebbe fornito all’architettura; dopo


che è stato a lungo sottovalutato12 possiamo oggi riconoscere il carattere di profezia al suo testo manifesto13. L’intero processo di progettazione è stato ricombinato attraverso l’uso integrato di dispositivi informatici e processi d’elaborazione. Un inedito linguaggio creativo si sta affermando alla convergenza di parole visive e immagini narrative, di lingua scritta e cognizioni visuali; non più solo stringhe d’informazione, bit o protocolli comprensibili unicamente a iniziati. Il progetto architettonico ha acquisito una nuova strumentalità, ma l’avvento e l’uso dei software per progettare non ha eliminato i compiti originari dell’architettura. Lo sviluppo e il progresso della programmazione informatica, la programmazione visuale, la costruzione di forme di comunicazione integrata, sono un primo passo verso la costituzione di un linguaggio progettuale universale. Se la modellazione mediante solidi e quella mediante superfici hanno costituito con la computer grafica la cifra del cambiamento operativo del progettare e dell’architettura nel corso degli ultimi 20 anni, la modellazione parametrica e quella associativa soppianteranno queste tecniche, e determineranno un ulteriore scarto nell’orizzonte del progetto, uno scarto che in primo luogo sarà cognitivo. I modelli naturali per l’architettura14 non appaiono più una chimera; un’idea di organicismo strutturale sembra emergere dalle sperimentazioni morfogenetiche. Il secondo carattere, non per importanza, di quello che abbiamo definito layer digitale dell’architettura riguarda il tramutarsi dei sistemi informatici in ubiquitous computer. Il paradigma d’interazione si basa sull’idea che la diffusione dell’informatica del futuro sarà data dall’integrazione di tecnologie e ambiente. Cioè dal formarsi di un modello che supera e in parte si oppone alla GUI (graphical user inter­ face), per intenderci il modello della scrivania. Qui i flussi d’informazioni saranno integrati con lo spazio e gli oggetti; questo determinerà per gli utenti una elaborazione d’informazione che si dissolverà in comportamento15. Già negli anni ’20 del secolo scorso le ricerche di Moholy-Nagy e

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Shlemmer avevano sviluppato modelli e teorie per il cinema, il teatro e le installazioni, nei quali avevano cercato di cedere il controllo autoriale alle forze creative del pubblico, ed erano riusciti a trasformare l’interazione in un’attività convincente esteticamente piuttosto che semplicemente partecipata. L’intelligenza ambientale appare come l’approdo di quel percorso di ricerca nato all’interno del Bauhaus. In principio i computer erano strumenti produttivi per l’ingegneria e la gestione dei dati, per il controllo balistico e dei sistemi di trasporto, ma erano oggetti sostanzialmente assenti dalla vita della stragrande maggioranza delle persone; oggi siamo dentro un panorama abitato in cui, a tutte le scale, si moltiplicano i dispositivi computerizzati. La proliferazione di questi artefatti può essere guardata come un unico dispositivo16, vale a dire un insieme di pratiche e meccanismi. Possiamo scorgere l’alba di un’avanguardia contemporanea, accomunata più che da intenti programmatici dalla condivisione di pratiche; la si può definire avanguardia di­ gitale e si qualifica per l’uso sperimentale delle tecnologie informatiche. Due fattori specifici concorrono a qualificare queste sperimentazioni: il primo è connesso al progresso delle capacità computazionali, determinato dalla crescita delle capacità di calcolo e simulazione, il secondo è il piano d’analogia dei linguaggi software con livelli di linguaggio alti a cui si possono associare i processi creativi. Se si distinguono all’interno della cosiddetta rivoluzione tecnologica i due elementi, emergono aspetti che definiscono i modi in cui si articola per un verso l’avanzamento e la diffusione degli strumenti informatici, dall’altro, il sorgere di una cultura propriamente digitale, che, a sua volta, determina ed influisce sul modo di indirizzare lo sviluppo di questi nuovi mezzi produttivi. Un nuovo campo alla frontiera di saperi disciplinari tradizionalmente separati sembra emergere, dove s’intrecciano pratiche e linguaggi che riguardano una nuova dimen-


sione dell’architettura. Qui lo spazio non è inteso esclusivamente per ospitare l’abitare ma diventa reattivo, modificandosi e adattando le proprie configurazioni. In questo quadro le sperimentazioni avanzate di progettazione migrano da un’idea statica dell’architettura verso la definizione di stati temporanei ed eventuali degli spazi, dove non è più possibile separare gli stati percepiti da quelli determinati. Da qui sembra provenire una consapevolezza nuova nella produzione progettuale: all’idea d’architettura statica si sostituisce progressivamente un’idea di architettura basata su concetti quali la crescita, l’adattamento, l’evoluzione. La caratteristica di tutte le estensioni sociali del corpo è che esse ritornano a tormentare i loro inventori in una sorta di rimorso di incoscienza. Proprio come Narciso, che si innamorò di un’esteriorizzazione (proiezione, estensione) di se stesso, l’uomo sembra innamorarsi invariabilmente dell’ultimo aggeggio o congegno, che in realtà non è altro che un’estensione del suo stesso corpo. Quando guidiamo la macchina o guardiamo la televisione, tendiamo a dimenticare che ciò con cui abbiamo a che fare è soltanto una parte di noi stessi messa là fuori. In questo modo, diventiamo servomeccanismi delle nostre stesse creazioni e rispondiamo ad esse nel modo immediato e meccanico che esse richiedono. Il punto centrale del mito di Narciso non è che gli individui tendono a innamorarsi della propria immagine, ma che si innamorano di proprie estensioni, convinti che non siano loro estensioni17. La caratteristica precipua della tecnologia è la sua capacità di diventare immediatamente necessaria, non sembra possibile arretrare di fronte a essa. Questo fa che ci appaiano primitive le forme di comunicazione e le macchine elettroniche di soli pochi decenni fa. Risulta oggi inconcepibile un mondo privo di telefoni cellulari e laptop. Così tra qualche tempo questi stessi ci appariranno oggetti di un passato remoto, oggetti antichi. Siamo testimoni attivi di un mutamento radicale dello spazio costruito, di categorie utili per interpretarlo descriverlo e trasformarlo. Questo assunto ci conduce alla riformulazione del quadro teorico

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entro cui collochiamo la riflessione e la pratica del fare progettuale. L’avvento del computer e il suo successo può essere ascritto alla capacità dei linguaggi di programmazione di incorporare risultati e strumenti conoscitivi più generali. In particolare, la forza del software si fonda sulla capacità di rendere visibile ciò che i linguaggi formali (matematica e fisica) hanno compreso e creare una corrispondenza invisibile, ma percepibile da tutti e comunicabile tra logica e azioni. Così come le dinamiche complesse dei sistemi naturali informano il progetto dei prodotti artificiali, siano essi oggetti, edifici o città; sempre più i principi ecologici sono determinanti nell’organizzazione delle attività umane, della produzione, della convivenza civile. L’architettura come attività intellettuale non può sottrarsi a riaffermare la necessità di una teoria, e del suo riferirsi come attività costruttiva a un’idea di società, e quest’ultima oggi non può fare a meno di usare gli algoritmi disponibili per poter progredire.

Cfr. Gregory Bateson (1979), Mente e natura, Adelphi, Milano 1984. 2   Cfr. William J. Mitchell, La città dei bits, Electa, Milano 1997. 3   Cfr. Lev Manovich, Software Culture, Olivares, Milano 2010. 4   William J. Mitchell, Malcolm McCullough (1991). Digi­ tal Design Media Strumenti digitali per il design, l’architettura e la grafica, McGraw-Hill, Milano 1996. 5   Cfr. G. Schmitt, Information Architecture, Testo&Im­ma­gine, Torino 1998; B. Tschumi (1996) Architettura e disgiunzione, Pendragon, Bologna 2005. 6   Herbert Marshall McLuhan (1963), Rimorso di incoscien­ za, articolo inedito pubblicato da Lettera internazionale, gennaio 2009. 7   Umberto Eco, Il design del futuro prossimo, DD4 rivista del Dip. INDACO, Milano 2003. 8   Birger Sevaldson, Designing Time. A Laboratory for Time Based Design, 2001. 9   G. Vailati (1906), Pragmatismo e logica matematica, pubblicato su «Leonardo» rivista d’ispirazione bergsoniana fondata da Papini e Prezzolini nel 1903. 10   Ben Fry e Casey Reas sono i programmatori di Processing 1

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software sviluppato all’interno del Computational and Aesthetic Group del MediaLab al MIT di Boston, allo scopo di insegnare la programmazione visuale ad artisti, designer e performer. 11   Casey Reas, Beyond Code, MIT Press, Boston 2004. 12   Giancarlo De Carlo commentava nel 1971 la pubblicazione nella collana a sua cura del testo di Negroponte: “le macchine per l’architettura, per quanto ancora imperfette e incespicanti, debbono essere considerate promettenti”. 13   N. Negroponte, 1971 La Macchina per l’architettura, Il Saggiatore, Milano 1971. 14   John Frazer, Evolutionary architecture, AAPress, London 1995. 15   Adam Greenfield Everyware: The Dawning Age of Ubiqui­ tous Computing, New Riders, Berkeley 2006. 16   Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo, Nottetempo, Roma 2006. 17   Herbert Marshall McLuhan, op. cit.

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Celebrazioni del centenario futurista* CESARE DE SETA

Nel febbraio del 1909 fu pubblicato su «Le Figaro» il Manifesto del futurismo: l’anno successivo si tenne al Teatro Lirico di Milano una serata che finì con una scazzottata e con l’arresto del promotore e mecenate del gruppo, Filippo Tommaso Marinetti: questo esordio segnò in modo indelebile il movimento che, fin dal suo primo apparire, ebbe nel suo seno una foga anarcoide e movimentista. Come si evince chiaramente dal Manifesto dei pittori futuristi, riproposto da SE, (Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini) lanciato in quella occasione e dal seguente Manifesto tecni­ co della pittura futurista reso noto in aprile. Il primo testo non si rivolge agli artisti ma esordisce in un modo che può apparire persino singolare: «Compagni!», e compagni a quel tempo ci si chiamava solo tra anarchici e socialisti. Il trionfante «progresso delle scienze» ha scavato un abisso tra «i docili schiavi del passato» e chi guarda al futuro: non v’è dubbio che Marinetti, di cultura e formazione francese *  La rassegna è limitata all’anno 2009, se avessi trasgredito questo dato, certamente fiscale, non avrei saputo dove fermarmi: non ha pretese di completezza e si misura con la mia informazione inevitabilmente lacunosa, ma forse la rassegna non è inutile per il lettore che voglia farsi un’idea del movimento attraverso un itinerario ragionato che non sia un freddo e sterile elenco di titoli. Va sottolineato il fatto che i cataloghi di mostre sono in stragrande maggioranza, da cui si deduce che sono le mostre a trainare l’editoria d’arte, e i risultati di questa politica editoriale non sono esaltanti.

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essendo nato ad Alessandria d’Egitto, sferrò l’attacco più radicale che ci fosse mai stato alla tradizione liberale, storicista ed hegeliana che dominava in Italia e aveva in Croce e Gentile i suoi indiscussi pontefici. A Marinetti Giordano Bruno Guerri ha dedicato una monografia bene informata Filippo Tommaso Marinetti. Invenzioni, avventure e passio­ ni di un rivoluzionario, Mondadori, nel cui sottotitolo è pienamente espressa l’intenzione dell’autore che rasenta l’agiografia. Sorvegliata la densa introduzione di Jeffrey T. Schnapp a F.T. Marinetti, Teatro, Oscar Mondadori, due volumi le cui 844 pagine danno ragione della foga visionaria con la quale si dedicò a comporre testi destinati alle scena. In edizione reprint compare il romanzo futurista di Marinetti, Il club dei simpatici, ora Edizioni Excelsior 1881, Milano; Simona Bertini, Marinetti e le «eroiche serate» con un’antologia di testi e sezione iconografica, presentazione di Giusi Baldissone, Iterlinea, ricostruisce il peregrinare di Marinetti e dei suoi amici per l’Italia nelle famose, convulse e famigerate serate. I futuristi odiano la storia, vogliono distruggere i musei e affondare Venezia, simbolo di ogni decadentismo: idolatrano l’industria, la macchina, la velocità, la metropoli e le nuove tecnologie. Nel ’15, in un proclama inneggiante alla guerra, Marinetti non ebbe peli sulla lingua: «A Mommsen e a Croce opponiamo lo scugnizzo italiano», ovvero lo spontaneismo dell’azione e la guerra-fe­ sta. Che non fosse una festa la guerra i futuristi se ne avvidero con dolore: Boccioni e Sant’Elia morirono in quella carneficina nel ’16, Carlo Carrà passò nelle file di Metafisica, Gino Severini si trasferì a Parigi. Città nella quale i futuristi erano stati accolti con sufficienza e un non celato fastidio. Sufficienza che a un secolo di distanza non è affatto lenita, come ben si vede nella mostra al Centre Pompidou, poi alle Scuderie del Quirinale, infine alla Tate Modern di Londra. Nella mostra parigina – di cui dirò più avanti diffusamente – il movimento italiano è presentato come un’appendice delle avanguardie: i cubisti e i loro compagni di strada considerarono questi strani futuristi degli agitatori, dei politicanti confusi per i quali non mostrarono alcuna


simpatia. Forse perché, se ci atteniamo a un dato squisitamente linguistico, i futuristi diedero una spallata alla «cristallizzazione delle forme» di Picasso e Braque: imprimendo velocità al reale e non volendo rinunciare alla corporalità degli oggetti, non si servono della linea, ma adottano «la massa in funzione di linea», come scrisse Roberto Longhi in un geniale articolo sull’amico Boccioni. Diedero così moto alla fissità volumetrica dei cubisti. Fu un salto in avanti decisivo e originale che ebbe in Boccioni il più dotato campione. Anche lui al centro delle recenti attenzioni, come si vede nella recente monografia di Gino Agnese, Boccioni da vicino. Pensieri e passioni del grande futurista, Liguori editore, nonché nella bella mostra al Museo d’Arte della città di Lugano, Omaggio a Umberto Boccioni, a cura di Bruno Corà, Tonino Sicoli, Cristina Son­ deregger, e nello stesso museo luganese La dinamo futuri­ sta. Omaggio a Umberto Boccioni / Primo Conti - Disegni per Harriet Quien, «La donna che venne dal mare», 19121925, Silvana editoriale; alla Fondazione Magnani Rocca, Parma-Mamiano di Traverseto, a cura di Stefano Roffi, Fu­ turismo! Da Boccioni all’Aereopittura, Silvana editoriale. Marella Caracciolo Chia, Una parentesi luminosa, Adelphi, traccia un profilo con documenti di prima mano di una storia d’amore di Umberto Boccioni con una signora della buona società. Dioscuro fu il più anziano Giacomo Balla, celebrato da impegnativa monografia di Fabio Benzi, Federico Motta, che torna con Giovanni Lista e Elena Gigli, Giacomo Balla. Futurismo e Neofuturismo, Fondazione Mudima: che si è impegnata meritevolmente in numerose edizioni e reprint. Un salto, quello futurista, che molti continuano a fraintendere e a sottovalutare. Infatti nonostante, ormai da mezzo secolo almeno, il Futurismo sia entrato con forza nella storia delle avanguardie del Novecento, grazie agli studi pioneristici di Giulio Carlo Argan, poi dei suoi allievi Maurizio Calvesi, Maurizio Fagiolo dell’Arco, Enrico Crispolti, Filiberto Menna che hanno arato in lungo e largo questo terreno per citare i più noti,

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non v’è dubbio alcuno che le resistenze e le incomprensioni critiche continuano a essere molte. Va detto che Marinetti in primis e i suoi sodali fecero di tutto per suscitare allarmate resistenze. Un’antologia a lui dedicata – da Gramsci a Sanguineti – è Ritratto di Marinetti, a cura di Gino Di Maggio, Daniele Lombardi, Achille Bonito Oliva, Fondazione Mudima. Il Futurismo ebbe una assai breve vita, e a poco valse la respirazione bocca a bocca, a cui si dedicò il suo fondatore per il resto della vita, poi assecondato da critici di bocca buona in servizio attivo: ciò non toglie che alcuni grandi artisti – su tutti Balla, Severini e Depero – ebbero una rilevante presenza ben oltre il Futurismo. L’ambiguità e la difficoltà nella valutazione del Futurismo è proprio qui: nella volontà marinettiana di coinvolgere ogni aspetto della vita: dalla cucina al teatro, dalla letteratura alla fotografia, dall’architettura all’industria fino alla politica. Ma è proprio questo aspetto, genialmente innovativo, a essere carattere distintivo del movimento italiano, che ebbe un solo referente: l’ambizione a una Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale) condivisa con l’Espressionismo tedesco. Su questi aspetti si snoda l’impegnata introduzione di Volker W. Feierabend, Il futurismo in Germania, all’enciclopedico volume di Giovanni Lista, Futurismo. La rivolta dell’avanguardia, Fondazione VAF - Silvana editoriale, edizione bilingue in italiano e tedesco. L’autore ha l’ambizione di «dare un assetto definitivo all’esame critico delle teorie e delle opere futuriste»: impresa assai impegnativa che si spinge fino agli ultimi conati futuristi: come testimonia la mostra milanese, di cui si dirà più avanti, di cui è stato co-curatore. È questo aspetto della presenza futurista che merita di essere sottolineato, mettendo tra parentesi, non per lasciarlo da parte, il ruolo successivo all’avvento del fascismo assunto da Marinetti. Si è già detto delle origini anarchiche del movimento – basti ricordare il Funerale dell’anarchico Galli (1914) di Carrà – ma ben più probanti sono le proposte contenute nel Programma politico futurista, pubblicato su «Lacerba» nel ’13 e nel Manifesto del partito futurista


del ’18: il parlamento verrà eletto a suffragio universale, il Senato è abolito, il diritto di famiglia è sconvolto alla radice con l’introduzione di un divorzio facile, si chiede – a guerra finita – un piccolo esercito di volontari e l’abolizione della coscrizione; se si passa al programma sociale troviamo l’abolizione del latifondo e delle Opere Pie, la soppressione di ogni «milizia politica», pari retribuzioni per uomini e donne, introduzione del diritto allo sciopero. Per dare impulso all’economia si chiede un’intensa industrializzazione, opere di bonifica, creazione di reti ferrate e autostradali, sviluppo dell’edilizia scolastica. Quello futurista è un progetto metapolitico fortemente nazionalista, anticlericale e libertario in senso lato. Pochi si avvidero della potenziale carica innovativa che esso esprimeva: ma tra questi Piero Gobetti e Antonio Gramsci. Il torinese, dopo aver difeso Croce, non esita a condividere l’esaltazione dei futuristi per la scienza e la tecnica, perché – scrive su «Energie nuove» del ’19 – essi «esprimono una cosa che sapevano Galileo e Leonardo», e, al tempo della riforma Gentile, prende partito nettamente per le critiche assai dure di Marinetti. Gramsci, in un articolo sull’Ordine nuovo del ’21, scrive senza mezzi termini: i futuristi «hanno avuto la concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista» che l’epoca che si sta vivendo è «l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa» ed essa deve esprimere «nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio». Anche il Gramsci dei Quaderni vede nei futuristi la premessa antiborghese necessaria per la svolta rivoluzionaria e proletaria a cui agogna. L’adesione al fascismo di Marinetti, tragicamente grottesco con la feluca di Accademico d’Italia, gettò un’ombra sinistra sull’intero movimento, ma a un secolo di distanza conviene separare il grano dal loglio. Una cosa è la politica dell’arte e la poetica rivoluzionaria inaugurata dai futuristi, altra l’adesione di Marinetti e dei suoi epigoni al fascismo: comunque fu Mussolini a scimmiottare Marinetti quando organizzò i Fasci, così come fu ricca la compagine di artisti bolscevichi che attinsero al futurismo. A questi temi di ca-

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rattere generale ha dedicato diversi saggi scritti nel tempo Angelo D’Orsi, Il Futurismo tra cultura e politica. Reazio­ ne o rivoluzione?, Salerno editrice: anche in questo caso le intenzioni dello storico sono espresse con chiarezza nel sottotitolo. Testo che va appunto dalla politica alla letteratura, e che sottolinea in Marinetti il ruolo dell’ardito degli esordi a quello del repubblichino della fine. Un profilo, di altro segno, del movimento sul versante ideologico e politico è quello di Emilio Gentile, «la nostra sfida alle stelle». Futu­ rismo e politica, edito da Laterza. Una riproposizione, dopo vent’anni, dunque assai datata è quella del Giovanni Lista, Arte e politica. Il futurismo di sinistra in Italia, Fondazione Mudima. Il problema critico e storico rimane quello della periodizzazione: il termine di avvio è senza alcun dubbio il 1909, ma a mio avviso la storia del futurismo ha una stagione eroica che si chiude nel 1916 con la morte di Boccioni e Sant’Elia. Altri tirano questa tela al ’19, ed è ipotesi ancora plausibile, molti altri ben oltre, fino a sfilacciarla con i conati provinciali di assai lieve peso. Il fascino del futurismo è anche in questo gioco alla fune che è destinato a continuare. Tuttavia il Futurismo è tra i pochi eventi del Novecento che pone l’Italia in prima fila. Una moneta, quella del futurismo, che il nostro paese avrebbe dovuto saper spendere da protagonista: così non è stato, perché la gragnuola di mostre disseminate per l’Italia – da Rovereto, a Milano, a Roma e altrove – è anche segno di una confusa politica della cultura. L’Italia avrebbe dovuto promuovere una grande mostra e l’avrebbe dovuta «vendere» ai maggiori musei del mondo: sia perché gran parte degli studiosi del movimento sono italiani, sia perché avevamo un diritto di «prelazione» da far valere. Di questo disordine programmato mi sono tempestivamente doluto e, come si dice, ancora una volta abbiamo perso il treno. Infatti il Centre Pompidou ha organizzato una grande rassegna Le Futurisme à Paris, catalogo 5Continents, a cui accennavo: la mostra, a cura di Didier Ottinger, fin dal titolo, ha un’articolazione saccente e debole per il modo in cui i futuristi vengono affogati in un cubismo + futurismo = cubofuturismo, come Ottinger titola il lungo


saggio d’apertura. Marinetti, Boccioni, Severini e Carrà si torcerebbero dalla rabbia: perché non sopportarono di esser giudicati epigoni dei cubisti e in effetti non lo furono. Non a caso la mostra si apre nel nome di Picasso e Braque, di Delaunay e Metzinger, di Léger e Gleizes. Ciò non toglie che gli amici francesi abbiano messo assieme una selezione eccellente di tele di Boccioni, Severini, Carrà, Russolo, mentre Balia è mortificato con solo due tele. Nessuno nega che i futuristi si inseriscono in un terreno già arato dal cubismo, ma la mostra alla galleria Bernheim-Jeune del febbraio 1912 fu solo un momento dell’articolata politica di lancio orchestrata da Marinetti con gran talento. Che le opere futuriste fossero una novità assoluta lo testimonia il fatto che esse scandalizzarono i parigini: i giornali francesi dicono delle reazioni violente sia di pubblico che di critica. La rivoluzionaria serie de Gli stati d’animo di Boccioni è del­l’11, e assai scarse relazioni ha con l’Adamo-cubista: le radici stesse della pittura di Boccioni sono radicalmente diverse (Officine a Porta Romana, L’idolo moderno, ’10-’11), come quelle di Carrà (Il funerale dell’anarchico Galli, Sob­ balzi di carrozza, La donna al caffè, Ciò che mi ha detto il tram degli stessi anni). Le tematiche futuriste della città, della velocità, della simultaneità sono del tutto estranee al milieu parigino: sono una tale novità che creano disagio anche a uno spregiudicato occhio come quello di Apollinaire. L’edizione alle Scuderie, commissario Ester Coen, ha il merito di aver eliminato molte tele non pertinenti e di aver puntato decisamente sul futurismo con uno scelto serto di opere, seppure con taluni clamorosi buchi. Complessivamente una settantina di opere, con preziose aggiunte, su 115 esposte a Parigi: un freddo dato notarile, significativo. In premessa al catalogo Electa, della mostra alle Scuderie, Antonio Paolucci saggiamente scrive che per il futurismo «più che di arte italiana è giusto parlare di varianti italiane di fenomeni globali e policentrici»: tra gli «invitati parigini», spicca il geniale Duchamp del Nu de­ scendant l’escalier. Questa, sì, opera che ha strette aderenze col futurismo.

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Una periodizzazione completamente diversa ha la mostra al Palazzo Reale, Futurismo 1909-2009. Velocità + Ar­ te + Azione, a cura di Giovanni Lista e Ada Masoero catalogo Skira, che si spinge agli anni Trenta, con il capitolo dell’Aereopittura (Tato, Prampolini, Diulgheroff, Dottori) e un finale, francamente strampalato, dedicato a L’eredità del futurismo (Fontana, Burri, Dorazio, Schifano). La mostra milanese è una sventagliata a tutto campo e ha il vantaggio, rispetto e contro la mostra parigina, di avere una sezione introduttiva dedicata alla grande tradizione lombarda di fine Ottocento. È pure vero che i futuristi sbeffeggiarono i pittori «montagnisti e laghettisti», ma per capire le radici di Carrà in primo luogo, ma dello stesso Boccioni e di Balla è impossibile prescindere da tutta la pittura simbolista e divisionista (Previati, Segantini, Pellizza) che ebbe peso ben maggiore dei cubisti nella formazione dei futuristi. Perché Marinetti ebbe sì un’indelebile formazione francese, ma operò sempre a Milano e la metropoli dell’industria e della tecnica fu il grande crogiolo della modernità in Italia. Fu Marinetti, generoso demiurgo del movimento, a dare voce a quel che si indica come secondo Futurismo. Non a caso Giorgio De Marchis, ci ripropone un affilato Futurismo da ripensare, Electa, che aggiorna un testo che apparve su «Alfabeta» nel lontano 1988. È davvero sorprendente che, nella girandola di mostre che hanno celebrato il centenario del Futurismo, l’architettura sia stata la grande assente: nella più ambiziosa rassegna partita da Parigi e conclusa a Londra, neppure è evocato il nome di Antonio San’Elia. Questo non accade nella mostra al Palazzo Reale di Milano dove una sezione è dedicata agli architetti futuristi ma resta marginale rispetto al ruolo che ebbe l’architettura e il suo maggiore protagonista. La grafica santeliana è un sensibilissimo sismografo di tutti i fermenti, gli umori e le novità che attraversano l’arte e la cultura artistica in senso lato dell’Italia di quel tempo. Certo Milano è l’occasione propizia del suo lento maturare: perché la città era la più industrializzata e moderna del Paese, nella quale più si sentiva quell’ansia di trasformazione che


Morasso prima, Marinetti e i suoi amici futuristi poi, interpretarono con genialità cd energia creativa. A Milano San­ t’Elia trovò un ambiente vivacissimo e amici fidati come Arata, Dudreville, Chiattone, Funi, Nebbia e Boccioni. Il movimento irradiò i suoi tentacoli fino a Firenze («Lacerba» è un nodo essenziale), a Roma, Torino, Napoli, ma anche in centri minori e aree di ricerca che lentamente vanno emergendo, come Bologna in mostra a Palazzo Saraceni. Questa mo­stra ha dato la stura a nuove informazioni: venerdì 5 febbraio il quotidiano bolognese Gazzetta dell’Emilia pubblica come articolo di spalla il Manifesto (catalogo della mostra 5 febbraio 1909. Bologna. Avanguardia futurista, a cura di Beatrice Buscaroli, Cassa di Risparmio di Bologna). Ma alcuni giorni prima il Manifesto era stato pubblicato su un foglio a Napoli. Comunque né Napoli né Bologna fecero notizia (I Futuristi e le Quadriennali, a cura di Gino Agnese, Giovanna Bonsegale, Mariateresa De Chirieo, Enrico Crispolti, Matteo D’Ambrosio, Anty Pansera, analizza questo segmento in una mostra a Roma, catalogo Electa - Quadriennale di Roma). I più importanti manifesti sono presentati in A+B+C/F = Futurismo, a cura di Sabrina Raffaghello e Roberto Borghi, Palazzo del Monferrato-Museo del Cappello, Alessandria. La pubblicità ebbe per i futuristi una particolare importanza, furono dei precursori dell’advertising: l’argomento è al centro di L’officina del volo. Futurismo, pubblicità e de­ sign, a cura di Sonia Pellegrini, catalogo Silvana editoriale della mostra al Castello di Masnago di Varese. Su argomento strettamente affine Futurismo manifesto 100 x 1000 anni per cento manifesti, a cura di Achille Bonito Oliva, Electa, mostra inutilmente itinerante tra Roma, Napoli e altre sedi; inoltre Pubblicità e propaganda. Ceramica e grafica futuri­ sta, a cura di Silvia Barisione, Matteo Fochessati, Gianni Franzone, Maria Teresa Orengo, catalogo Silvana editoriale, di scena al Wolfsoniana di Genova. Parte di questa galassia Futurismo moda design. La ricostruzione futurista del­ l’universo quotidiano, a cura di Carla Cerutti e Raffaella Sgubim, Musei provinciali-Borgo Castello, Gorizia. La

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moda è al centro del ricco volume, pregevole per eleganza grafica, di Luca Federico Garavaglia, Il Futurismo e la mo­ da, Excelsior 1881, Milano. Ma la grande vitalità dell’avanguardia futurista fu quella di aver pervaso la fotografia e il cinema (i Bragaglia), la musica e il teatro (Pratella, Russolo, Cangiullo), le arti decorative, la pubblicità e la moda (Balia, Depero, Prampolini). Nell’ambito pubblicitario un posto singolare assume la bottiglietta rossa del Camparisoda. L’aperitivo dell’arte veloce futurista da Fortunato Depero a Matteo Ragni, Corraini edizioni. Nel 1930 fu pubblicato il manifesto de La fotografia futurista: la rassegna più completa è stata promossa dal Museo Alinari di Firenze, Il futurismo e la foto­ grafia, a cura di Giovanni Lista. Il paroliberismo fu una linea di ricerca fervida, a cui concorsero letterati (Paolo Buzzi, Palazzeschi, Cavacchioli, Govoni, Altomare, Folgore) e pittori sia del primo che del secondo futurismo: al paroliberismo è dedicata un’altra mostra F. T Marinetti = Futuri­ smo, a cura di Luigi Sansone, catalogo Motta, al Palazzo delle Stelline a Milano, che pone in prima linea Marinetti. Esiste poi il tema della diffusione internazionale del Futurismo: a questo tema ha dedicato un’ampia mostra il MART di Rovereto: la rassegna ha un titolo vago, e un sottotitolo chiarificatore: Illuminazioni. Avanguardie a con­ fronto. Italia / Germania / Russia, a cura di Ester Coen, ca­talogo Skira: contributo complessivamente tra i più ricchi. Un navigato studioso come Cesare G. De Michelis, L’avanguardia trasversale. Il futurismo tra Italia e Russia, Marsilio, ha dedicato un denso saggio nel quale riassume gli studi di una vita sull’argomento. Un clima internazionale e provinciale aleggia nella mostra Futurismo e Dada. Da Marinetti a Tzara. Mantova e l’Europa nel segno dell’Avanguardia, a cura di Melania Gazzotti e Anna Villari, Casa del Mantegna, Mantova, Catalogo Silvana Editoriale: ardimentoso disegno che cerca di connettere il clima dadaista del Cabaret Voltaire alla provincia padana. Ci sono inoltre studi monografici su comprimari ed epi-


goni di questa avventura collettiva: come Alberto Braga­ glia, il futuro europeo, presso la Villa San Carlo Borromeo di Senago-Milano, catalogo Spirali/Vel; Ginna futurista. Armonie e disarmonie degli stati d’animo, a cura di Micol Forti, Lucia Collarile, Mariastella Margozzi, catalogo della mostra, Gangemi editore, al Museo Boncompagni-Ludovisi, Roma; Futurismo inedito. Capponi. I ritratti nascosti, a cura di Stefano Papetti, in scena al Palazzo dei Capitani, Ascoli Piceno, catalogo Librati. Scultura futurista 19091944. Omaggio a Mino Rosso, a cura di Beatrice Buscaroli, Roberto Folreani e Alessandra Possamai Vita, alla Galleria Civica Cavour, Padova, catalogo Silvana: la data 1944 la dice lunga di fino a quando si vuole stiracchiare la tela del futurismo. Nella stessa direzione va Futurismo. Filippo Tom­maso Marinetti, l’avanguardia giuliana e i rapporti in­ ternazionali, a cura di Marino De Grassi, Cassa di Risparmio di Gorizia, Edizioni della Laguna; assieme Futurismo Giuliano. Gli Anni Trenta. Omaggio a Tullio Crali, a cura di Marino e Massimo De Grassi, Maurizio Scudiero, Roberto Curci, mostra al Castello di Gorizia, Edizioni della Laguna. Un futurista presto pentito fu Mario Sironi tra fu­ turismo e metafisica. Quaranta opere dalla Estorick collec­ tion, a cura di Roberta Cremoncini e Stefano Renzioni, Fondazioni Peccioliper, Peccioli, associabile a Ada Masoero, Sassu Futurista. 72 opere 1927-1931, Edizioni Banca di Teramo. Naturalmente non mancano volumi antologici: tra questi Manifesti futuristi, a cura di Guido Davico Bonino, BUR-Rizzoli, succinta antologia, condita da un’arguta introduzione; curata dal medesimo Davico Teatro futurista sintetico seguito da Manifesti teatrali del Futurismo, Il Melangolo; anche il volume di D’Orsi ha un’addenda di testi largamente noti e pubblicati. Non è questo il caso di Giampiero Carpi che ha curato una selezione di testi antologici Futuriste. Latteratura, arte, vita, Castelvecchi. Benedetta, la moglie di Marinetti, fu capofila di questa compagine, in tal caso un contributo utile e ricco di una preziosa bibliografia. Un volume su tema analogo è quello di Valentina Mosco

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e Sandro Rogani, Le Amazzoni del futurismo, Academia Universitas Press, Firenze: una storia delle donne vista con gli occhi di futuriste e futuristi con interventi, manifesti, articoli per scoprire la visione della donna da parte dell’avanguardia futurista. Al tema specificamente letterario, senza connotazioni femministe, dedica un’antologia Alessandro Masi, Zig Zag. Il romanzo futurista, Il Saggiatore. Volume che apre un capitolo sul versante propriamente letterario che non si intende sfiorare, ma non si può tacere quantomeno del numero monografico de L’illuminista, rivista di cultura contemporanea diretta da Walter Pedullà, n. 27, di inusuali proporzioni (pp. 578), dedicato a Futurismo e letteratura.

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Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea GIUSEPPINA DAL CANTON

Il presente intervento prende le mosse dai quadri “a tesi” e dalle illustrazioni che Magritte realizza a partire dal 1926, tra i quali la celebre pipa con l’altrettanto celebre legenda “Ceci n’est pas une pipe”1. Realizzate con minuzioso realismo, le pipe del pittore surrealista belga intendono sottolineare come, rispetto sia ai segni visivi sia ai segni verbali attraverso i quali viene designato, il mondo “reale” rimanga sempre sfuggente, non condividendo con tali segni alcuna proprietà. Magritte intende quindi dimostrare il perpetuo scollamento fra segni visivi e segni verbali, nonché fra segni visivi e quella che si suole definire “realtà”. Negli scritti dell’artista belga non si trova traccia di un esplicito riferimento alla “logica dei predicati con identità” di Leibniz, e della legge secondo cui x = y se e solo se x gode di tutte le proprietà di y e viceversa. Tuttavia Magritte, che sicuramente aveva studiato Leibniz al liceo, afferma che risulta evidente che non può esservi identità fra ciò che chiamiamo la cosa (il referente per la semiotica) e i segni mediante i quali la cosa stessa (il referente) viene designato. Potremmo proseguire l’esempio della pipa dipinta, che non può essere presa fra le mani, riempita di tabacco, accesa e fumata, con altrettanti esempi desumibili dalla nostra esperienza quotidiana (basta chiedersi – domanda banale, ma necessaria – che cosa accomuni la resa quanto più possibile “realistica” dei tratti

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del volto o dei capelli o delle mani di un personaggio ritratto con i tratti del volto, i capelli, le mani di un personaggio in carne e ossa). Magritte però non si limita ad affrontare il problema dell’iconismo mediante le opere pittoriche, ma lo affronta anche dal punto di vista teorico con un testo pubblicato nell’ultimo numero della rivista “La Révolution surréaliste”, nel quale compare una serie di vignette dedicate a “Les mots et les images”2. In queste viene ribadito che la nominazione – sia verbale sia iconica – di un oggetto non si fonda sulla relazione diretta tra segni e oggetto (la legenda magrittiana dice esplicitamente “Un objet ne fait jamais le même office que son nom ou que son image” – “un oggetto non svolge mai la stessa funzione del suo nome o della sua immagine” – ovvero della sua rappresentazione), ma si fonda piuttosto sulla catena di sostituzioni-traduzioni di un segno in un altro segno. Parimenti Josef Kosuth, con Una e tre sedie (1965-1966) e con altre serie analoghe di qualche anno posteriori3, sembra prendere lo spunto dalla vignetta col cavallo di Magritte4 per riproporre, nell’ambito dell’arte concettuale, l’uso delle catene di segni intersemiotici in quanto appartenenti all’ordine dei segni verbali e all’ordine dei segni visivi, senza implicazioni metaforiche, ma solo mirando all’assunto secondo il quale vi è intercambiabilità fra i diversi linguaggi (visivo e verbale)5. Basterà qui osservare che a partire da Magritte gli artisti figurativi contemporanei più avvertiti, anche quando ricorrono ai sistemi tradizionali di rappresentazione, evidenziano la consapevolezza della natura convenzionale di ogni linguaggio artistico e, anziché adagiarsi in quello che Filiberto Menna definiva “referenzialismo ingenuo”6, manipolano abilmente i materiali linguistici prescelti. Va però anche precisato che la consapevolezza che quello delle opere d’arte è un linguaggio basato su un sistema autonomo di segni codificati e codificabili parte da molto lontano, dall’ultimo quindicennio dell’Ottocento. Sono infatti da ascrivere a tale atteggiamento “analitico” ossia autoriflessivo dell’arte moderna sia i quadri “a tesi” del


pointilliste Georges Seurat sia le opere di Cézanne della fase postimpressionista, nelle quali il maestro di Aix-enProvence, precursore del Cubismo, perviene alla riduzione del codice iconico e alla sua scomposizione e ricomposizione in forme geometriche elementari quali cilindri, semisfere e così via. Anzi, possiamo dire con Menna che proprio un dipinto come la Grande Jatte di Seurat (1884-1886) può essere assunto come il quadro emblematico della consapevolezza che la pittura sia un “sistema autonomo di segni”7: il dipinto vale infatti sia come tableau (il quadro come racconto di un soleggiato pomeriggio domenicale sulle rive della Senna) sia come peinture (la pittura di per sé, in quelle sue componenti elementari prive di significazione che sono i piccoli punti di colore, paragonabili ai pixel dello schermo televisivo e applicati sulla tela secondo le leggi del “contrasto simultaneo” e della “mescolanza ottica” studiate da Chevreul e Rood, non senza un’attenzione anche alla disposizione delle linee secondo gli studi di Charles Henry)8. Contestualmente alle ricerche di Seurat e Cézanne, Gauguin e soprattutto i Nabis, che a Gauguin si rifanno, manifestano istanze analoghe, quali la distinzione tra pittura di rappresentazione e pittura decorativa e soprattutto la concezione del quadro come mondo autonomo, dove a contare non è tanto quello che esso rappresenta, ma il quadro considerato in se stesso, che vale pertanto per la sua struttura intrinseca e non per ciò a cui rassomiglia o sembra rassomigliare. Se Gauguin in un suo scritto esorta a non lavorare attenendosi pedissequamente alla natura, ma semplicemente ad attingere alla natura “sognandola” perché l’arte è fondamentalmente astrazione, il Nabis Maurice Denis si spinge anche più in là scrivendo: Ricordarsi che un quadro, prima di essere un cavallo di battaglia, una donna nuda o un qualsiasi aneddoto, è essenzialmente una superficie piana ricoperta di colori accostati con un certo ordine9. Denis dà pertanto voce alla già diffusa convinzione che il quadro non valga tanto per ciò a cui rinvia quanto per se stesso, come oggetto “fabbricato”.

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Kandiskij sembra raccogliere le istanze già avanzate da Denis e dai vari artisti-teorici di fine Ottocento nel suo scritto del 1913, Sguardo sul passato, che è praticamente una dichiarazione di poetica, una breve autobiografia in cui fra l’altro parla della sua conversione all’astrattismo avvenuta attorno al 1908. All’epoca della “conversione” risiedeva a Monaco di Baviera e trascorreva le vacanze estive a Murnau, dove realizzò una serie di paesaggi fauves nei quali il colore e le forme erano già antinaturalistici, ma permaneva la figurazione, l’icona. Così racconta: […] un giorno rimasi colpito da uno spettacolo inatteso, proprio quando stavo tornando nel mio studio. Il sole tramontava; tornavo dopo aver disegnato ed ero ancora tutto immerso nel mio lavoro, quando, aprendo la porta dello studio, vidi innanzi a me un quadro indescrivibilmente bello. All’inizio rimasi sbalordito, ma poi mi avvicinai a quel quadro enigmatico, assolutamente incomprensibile nel suo contenuto, e fatto esclusivamente di macchie di colore. Finalmente capii: era un quadro che avevo dipinto io e che era stato appoggiato sul cavalletto e capovolto. Il giorno dopo, tentai, alla luce del sole, di resuscitare la stessa impressione, ma non mi riuscì. Benché il quadro fosse capovolto, distinguevo gli oggetti e mancava quella luce sottile del tramonto. Quel giorno però mi fu perfettamente chiaro che l’oggetto non aveva posto, anzi era dannoso ai miei quadri10. Il pittore prosegue lo scritto con ragionamenti tutt’altro che ingenui su ciò che debba sostituire, nel quadro, l’“oggetto figurativo”, suffragando la sua convinzione con argomentazioni che convergono nel dimostrare che la pittura è la collisione rimbombante di mondi eterogenei, chiamati ad edificare […] un nuovo mondo che si chiama opera”11. Qualche anno dopo, la tesi di Kandinskij diviene centrale e portata alle estreme conseguenze dai formalisti russi (per esempio da Victor Sklovskij12), mentre nello stesso contesto, sul versante pittorico, Kazimìr Malevic] arriva a


dipingere il Quadrato nero su fondo bianco (1913 circa), vertice della pittura aniconica13. Questo, se apparentemente non intende nemmeno rappresentare se stesso, ma agire soltanto da stimolo concettuale atto a far scattare nella mente dell’osservatore l’interrogativo fondamentale sulla natura dell’arte14, risulta in effetti vistosamente rappresentativo – almeno a livello metaforico – della fine di un sistema pittorico, anzi, addirittura di un mondo in cui era la figurazione a dominare; senza contare che, almeno nella cultura occidentale, quel nero ha una dirompente forza simbolica giacché si accampa prepotentemente sul bianco così che il fruitore può recepirlo, sia pur inconsapevolmente, come un lutto o una minaccia15. Va peraltro ricordato con Dora Vallier che, per comprendere la genesi del Quadrato nero, non bisogna dimenticare il rapporto fra un testo verbale di Kuc]enych e un testo visivo di Malevic]16. La Vallier ha infatti dimostrato con estrema chiarezza il percorso del pittore russo verso un’astrazione radicale proprio a partire dal linguaggio zaum (lingua transmentale) e precisamente a partire dalla scenografia da lui realizzata per lo spettacolo Vittoria sul sole (1913), con libretto di Aleksej Kruc]enych e musica di Michail Vasil’evic] Matju­si] n17: infatti, in quell’occasione, il pittore, assunta la veste dello scenografo, si era trovato a confrontarsi con il testo di un’opera in cui la lingua, fatta esplodere attraverso parole tronche o totalmente inventate, fa astrazione dal senso comune; ma la distruzione del senso comune del linguaggio zaum corrisponde alla distruzione semantica dell’oggetto dipinto e all’annullamento del rapporto fra questo e il referente, senza i quali la pittura diventa necessariamente astratta18. Percorso analogo e per certi versi diverso è quello di Piet Mondrian, del quale è peraltro ben nota l’adesione alle teorie di Madame Blavatskij e alla teosofia per cui i segni e le forme anche le più elementari delle sue opere rinviano ad archetipi e soprattutto rivestono significati riconducibili, appunto, allo spiritualismo teosofico (la linea verticale come elemento maschile, l’orizzontale come elemento fem-

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minile e complementare, dalla cui combinazione si generano l’equilibrio e l’armonia, le linee ortogonali – e quindi cruciformi – come griglia normativa e orientativa e così via). Tali significati sono ovviamente recuperabili non limitandosi a quello che in semiotica si definisce il livello denotativo delle opere, ma spostandosi dal piano denotativo a quello connotativo attraverso un approccio iconologico volto precisamente a ricostruire lo sfondo culturale sul quale l’artista si muove. Il sodale di Mondrian, Van Doesburg, sembra invece prescindere da particolari implicazioni metaforiche e mistiche. Spirito preminentemente pragmatico, si impegna a diffondere il verbo astrattista e nel 1930 arriva a definire l’astrattismo geometrico pittura concreta e non astratta, perché non c’è nulla di più concreto, di più reale, di una linea, di un colore, di un piano19. E prosegue: Forse che, sulla tela, una donna, un albero, o una mucca sono elementi concreti? No. Una donna, un albero, una mucca sono concreti allo stato naturale, ma, sulla tela, sono astratti, illusori, vaghi, speculativi, laddove un piano è un piano, una linea è una linea; niente di meno; niente di più20. Su questa linea non metaforica e autoreferenziale sembrano procedere gli artisti della pittura dell’Hard Edge, della Colorfield Painting e i minimalisti, specialmente quando volutamente negano un titolo alla loro opera, che nulla dovrebbe evocare. Tuttavia non è così perché spesso fortemente evocative sono le opere di pittori come Ad Reinhardt e Barnett Newmann. Il primo sembra portare alle estreme conseguenze l’esempio di Malevic]: creando tele completamente nere, ma contemporaneamente puntando sulla percezione liminare della figura scura (una croce) rispetto allo sfondo altrettanto scuro, intende innescare un processo più mentale che sensoriale nel quale resta tuttavia inevitabile il riferimento all’immagine – appena percepibile – della croce con tutte le sue implicazioni di significato. Così pure Newman crea non pochi problemi interpretativi


quando a un suo dipinto rigorosamente astratto, realizzato fra il 1950 e il 1951, appone un titolo come Vir heroicus sublimis, oggetto, com’è noto, di un’acuta analisi di Reinhard Brandt21. Certamente opere come queste che abbiamo citato pongono le questioni – ineludibili – della recezione da parte di un destinatario “non attrezzato” e dell’educazione di tale destinatario alla lettura e alla comprensione dell’arte contemporanea. Infatti il destinatario “poco provveduto”, è disposto ad accettare forme di astrattismo sotto forma di arte applicata, ma si mostra perplesso se non addirittura infastidito quando quelle stesse forme non si presentino come oggetti d’uso ormai entrati a far parte della sua esperienza quotidiana, ma come oggetti autonomi da guardare in sé e per sé, insomma come opere d’arte22. È peraltro pressoché inevitabile che comunemente si tenda a restare tenacemente aggrappati all’icona, cioè a una rappresentazione codificata che si presume essere una traduzione in termini visivi della cosa o, per meglio dire, del referente23. La forte “rivincita” della figurazione nelle correnti artistiche impostesi sul mercato dell’arte dalla metà degli anni Settanta del secolo appena trascorso in poi starebbero a confermarlo.

1   Della pipa di Magritte si sono occupati, com’è noto, storici dell’arte e filosofi tra i quali, in primis, Michel Foucault (Ceci n’est pas une pipe, Montpellier, Fata Morgana, 1973; tr. it. Questo non è una pipa, Milano, Studio Editoriale, 1988). 2   Les mots et les images in “La Révolution surréaliste”, n. 12, 15 dicembre 1929, pp. 32-33, ora in R. Magritte, Écrits complets, vol. 1, Paris, Flammarion, 2001; tr. it. Scritti, vol. 1, Milano, Abscondita, 2003, pp. 58-59. 3   In tali serie di installazioni Kosuth accosta a una sedia o ad altro oggetto reale, stilisticamente insignificante, la fotografia della stessa e un’asettica definizione del termine sedia o dell’oggetto prescelto tratta da un dizionario. 4   Si tratta della vignetta in cui un uomo in primo piano pronuncia la parola “cheval”, alla quale corrispondono sia l’immagine di un cavallo dipinto in un quadro posto sopra un cavalletto sia, più in là, un cavallo che dovrebbe rappresentare il cavallo “reale”.

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5   Cfr. a tale riguardo F. Menna, La linea analitica dell’arte mo­ derna. Le figure e le icone, Einaudi, Torino 1975, pp. 54-58, 89-91 e tavole 22, 23, 34, 36, s.p. 6   Ivi, passim. 7   F. Menna, La linea analitica … cit., commento alla tavola 1, s.p. 8   Ivi, pp. 10-18. 9   M. Denis, Du Symbolisme au classicisme. Théories, Hermann, Paris1964, p. 74 (la traduzione è nostra). 10   Il brano è tratto da W. Kandinskij, Rückblicke, Der Sturm, Monaco 1913; la traduzione qui presentata (Sguardo sul passato) è quella di G. Tatge in Wassili Kandinskij, 43 opere dai musei sovie­ tici, catalogo della mostra di Roma (Musei Capitolini) e Venezia (Museo Correr), a cura di C. Terenzi, Silvana Editoriale, Milano 1980, p. 21; successivamente è stata pubblicata una traduzione italiana di Rückblicke col titolo Sguardi sul passato, a cura di M. Milani (SE-Studio Editoriale, Milano 1999; il brano in questione è a p. 28). 11   Ivi, p. 23. 12  Cfr. V. Sklovskij, Chod Konja, Gelikon, Mosca-Berlino 1923; tr it. La mossa del cavallo. Libro di articoli, De Donato, Bari 1967, in cui si segnala in particolare il breve, ma significativo saggio Lo spazio nella pittura dei Suprematisti, pp. 85-92. 13  I testi teorici di Malevic] sul Suprematismo sono contenuti in K. Malevic], Der Gegenstandslose Welt, in Bauhausbücher, n. 11, 1927; tr. it. Suprematismo: il mondo della non oggettività (1922-1924), De Donato, Bari 1969. 14   F. Menna, La linea analitica… cit., p. 67. 15   A tale proposito si veda, anche se con alcune riserve da parte di chi scrive, F. Fornari, Cinema e icona. Nuova proposta per la psico­ analisi dell’arte, Il Saggiatore, Milano 1979, pp. 198-199. 16  D. Vallier, Malevic] oggi, in L’arte astratta (19802), trad. it. di A. Negri, Garzanti, Milano 1984, pp. 302-308. 17   La traduzione italiana della Vittoria sul sole è stata pubblicata in «il verri», n. 31-32, 1983, pp. 127-146. 18   D. Vallier, Malevic] oggi cit., p. 306. 19   Th. Van Doesburg, Commentaires à la base de la peinture concrète, in “Art Concret”, 1930, numero introduttivo, aprile, p. 2, ora in Id., Scritti di arte e di architettura, a cura di S. Polano, Officina, Roma 1979, p. 505. 20   Ibidem. 21   R. Brandt, Philosophie in Bildern, DuMont Buchverlag, Köln 2000; tr. it. Filosofia nella pittura. Da Giorgione a Magritte, Bruno Mondadori, Milano 2003; l’analisi dell’opera di Newman sta in Ap­ pendice. Il superamento del quadro. Barnett Newman (1905-1970): Vir heroicus sublimis, pp. 426-450. 22   Si veda, a tale proposito, l’acuto, seppur ormai risalente ad oltre mezzo secolo fa, saggio di S. Bettini, Poetica di Picasso, in “la biennale di venezia”, III, n. 13-14, 1953, pp. 21-22.


23   Si veda, a tale proposito, F. Fornari, Coinema e icona… cit. Lo psicoanalista vi sostiene che alla base della generazione dei segni è l’elaborazione nostalgica della perdita degli oggetti (l’uomo infatti “ha cominciato a rappresentare gli oggetti non per ‘imitare la natura’, ma per celebrare il lutto sotto forma di oggetti perduti”) (p. 201); ne deriva quindi che la crisi della rappresentazione nell’arte moderna e contemporanea può essere intesa anche come un “bisogno di negare un sovraccarico di lutto” (p. 202).

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Libri, riviste e mostre

Antonino Saggio, Architettura e modernità. Dal Bauhaus al­ la rivoluzione informatica, Ca­ rocci, Roma 2010. Il nuovo, brillante libro di Nino Saggio è una personalissima storia dell’architettura degli ultimi ottant’anni. Scritto con un linguaggio di facile lettura, semplice e diretto, non appesantito da artifici storiografici, il volume è chiaramente strutturato in otto par­ti: ciascuna di esse copre più o meno un decennio, a partire dalla fine della prima guerra e, in particolare, dal 1919, anno di fondazione del Bauhaus, fino a oggi, con un breve intervallo corrispon­ dente al secondo conflitto mondiale, fra il 1940 e il 1944. Più che una storia, si direbbe una organica collezione di saggi critici, in cui personaggi, movimenti e poetiche sono trattati con un approccio creativamente asistematico. Il titolo – Architettura e mo­ dernità – è, in parte, ingannevole: all’autore non interessa più di tanto definire la modernità, preferendo parlare, in maniera torrenziale e appassionata, di archi-

tetture e architetti, esemplificando dunque molto e teorizzando poco. Si parla raramente di codici-stile; mancano molte definizioni; manca anche, ed è certamente rinfrescante, l’ideologismo proprio di alcune, precedenti letture dello stesso periodo. I rapporti con il contesto socio-politico e soprattutto con le arti visive sono puntualmente richiamati in ogni capitolo, spesso con qualche nesso curioso e talvolta poco noto: si pensi al saut dans le vide di Yves Klein e al “blu dipinto di blu” di Domenico Modugno. Non si tratta di un manuale rivolto a studenti o lettori alle prime armi: le informazioni contenute, pur quantitativamente significative, sono spesso ellittiche e sempre orientate. Si racconta molto, si spiega poco. Ci sembra insomma che, dietro la piacevolezza e la facilità di lettura, dietro la chiara ambizione di porsi come un turnpager (di qui, riteniamo, l’insistito uso di assist che anticipano, a fine capitolo, i contenuti del successivo, quasi a voler “inchiodare” il lettore al testo), il testo sia rivolto più al co-

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noscitore che al neofita. Sia pur con il piglio disinvolto di chi scrive di getto e cita poco, di chi non cerca appigli e coperture critiche preferendo esporsi personalmente, quasi “in presa diretta”, sulle cose di cui parla, nel libro sono presenti quasi tutti: segno di una considerevole attenzione ai nomi, agli edifici e ai reciproci equilibri fra essi. Mancano alcuni personaggi eccellenti, senza dubbio volutamente i­gnorati dall’autore: un esempio vistoso è costituito da Edwin Lutyens, supremo classicista, al quale pure David Watkin, nella sua Storia dell’architettura occi­ dentale, dedica più pagine di quelle riservate a Le Corbusier. Ma Lutyens, come molti altri casi di sopravvivenze stilistiche, ha sempre suscitato scarsi interessi fra gli storiografi della modernità. Simmetricamente, pur nella sua relativa sinteticità, il testo non rinuncia a parlare di alcuni personaggi sostanzialmente “minori” come Constant Nieuwenhuis, Louis Sauer (comprensibilmente, essendo quest’ultimo l’og­ getto di una monografia scritta da Saggio nel 1988), Takis Zenetos, o come lo sfortunato Samuel Mockbee, con cui si conclude il volume. Terragni è riletto con cura, conoscenza ed entusiasmo (anche in questo caso, si tratta di un progettista cui l’autore aveva in passato dedicato un’ottima monografia). Pochi gli italiani: la gran parte dei progettisti operanti oggi – al di là, ovviamente, di Vittorio Gregotti, Renzo Piano, Massimiliano Fuksas, Paolo Portoghesi, Alessandro Anselmi, Fran­co Purini e pochissimi altri – non è citata. Ciò che, a un’occhiata superficiale, sembrerebbe

dovuto al taglio generale e compatto dell’opera, a ben guardare e considerando che l’autore è un italiano che ha sempre seguito con attenzione l’evolversi della scena architettonica nazionale, si delinea invece come una precisa, severa scelta critica. Emergono con evidenza le simpatie e le antipatie nutrite dal­ l’autore, tutte, ci sembra, di derivazione zeviana. Il secondo Mies per esempio, quello americano, ne esce abbastanza male: Mies elabora la teoria del “meno è più” che non è solo un’estetica della riduzione e dell’astrazione ma anche una ritirata, una excusatio non petita. Non è vero che il dettaglio può sostituirsi allo spazio. Né sono sufficienti alcuni effetti di levitazione o di ribaltamento che adopera in opere acclamate, e certo per mol­ti versi sublimi, come la Farns­worth (1945-50), la Crown Hall (1950-56), il Seagram (1954-58). “Sublimi”, certo; ma come restare indifferenti alla spazialità interna delle prime due o all’emozione che generano il Sea­ gram o la Nationalgalerie? Ridimensionato appare anche Le Corbusier. Prevedibilmente esaltati sono invece Frank Lloyd Wright, Erich Mendelsohn, Alvar Aalto; ma anche Hans Sharoun, Eero Saarinen, Jørn Utzon, John Johansen, Ralph Erskine, Paolo Soleri (Arcosanti è indicato come il miglior compendio delle speranze per un’architettura del domani prodotte in questi anni); la voglia di sperimentalità dell’autore è tale da risparmiare ogni critica persino ai discutibili Bruce Goff ed Herb Greene. In una sorta di progressivo, quasi evoluzionistico processo di


liberazione formale, sotto gli occhi del lettore scorrono decenni, personaggi, architetture: spiccano Peter Eisenman e Frank Gehry, ma anche Zaha Hadid, Rem Koolhaas, Jacques Herzog e Pierre de Meuron, Bernard Tschumi, Daniel Libeskind, Steven Holl, lo scomparso Enric Miralles, Santiago Calatrava. Potremmo continuare a lungo, ben al di là dei limiti di questa recensione. Ma, per concludere, analizziamo brevemente la parte più nuova e interessante del volume: l’ultima, dedicata alla rivoluzione informatica in architettura (l’autore ne è stato, com’è noto, fra i principali esegeti e promotori, essendo peraltro direttore di una sezione della fortunata “Universale di architettura”, la collana di tascabili fondata da Bruno Zevi, intitolata appunto “La Rivoluzione Informatica”). Si parla di Toyo Ito, Thom Mayne, Ben van Berkel, Diller & Scofidio, Foreign Office, Makoto Sei Watanabe, Kas Oosterhuis, Greg Lynn, Lars Spuybroek. Non è citata invece la presumibilmente troppo algida Kazuyo Sejima che pure, in questo 2010, si è aggiudicata, con Ryue Nishizawa, il Pritzker Prize e alla quale è stata, com’è noto, affidata la prossima Biennale di Venezia. Si parla ancora di architettura, ma di un’architettura che sembra fluidificarsi, sciogliersi, evaporare in nuvole di informazioni fino alla sua stessa fisica dissoluzione: pochi, prevedibilmente, gli edifici; molte invece le rappresentazioni virtuali, le ipersuperfici, i paesaggi informatici, i padiglioni temporanei, gli allestimenti artistici, le installazioni atmosferiche. Nel breve, penultimo paragra-

fo, intitolato Rivoluzione indu­ striale/rivoluzione informatica, si afferma che oggi si esplora un’idea di architettura basata sulla presenza centrale della soggettività, della personalizzazione, della comunicazione, della complessità in una logica sistemica. Non parliamo più di un existenz minimum per un’architettura che esaudisca i bisogni, ma semmai di un existenz maximum per un’architettura che allarghi le possibilità e i desideri, non lavoriamo più per strutture puntiformi a avvolgenti, non abbiamo più della città un’idea di macchina alla conquista del mondo ma lavoriamo sempre più tra le pieghe dell’esistente in nuovi interstizi, in nuovi attraversamenti, in nuovi affioramenti, in nuove derive, non pensiamo più a forme analitiche e astratte puramente sintattiche ma cerchiamo di veicolare anche messaggi e significati, non pensiamo più all’aderenza fissa tra una forma e una funzione perché abbiamo fatto valore dell’individualizzazione e della variazione e stiamo andando oltre la grande estetica della trasparenza, che fu il catalizzatore estetico del modernismo, per lavorare verso metafore di secondo livello, verso un’apertura capace di nar­rare storie aperte, verso un’in­terattività come valore cruciale. Per concludere, minimalisticamente ma non senza enfasi: Siamo nella rivoluzione informatica. Eppure, soltanto alla pagina precedente, lo stesso autore aveva scritto: Un aspetto della crisi economica con cui si chiude il primo decennio del Duemila è chiaro. Ed è la di-

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stanza che separa il mondo “virtuale” e informatico, dalla realtà: quando i processi finanziari ed economici virtuali, rimbalzando su se stessi, determinano un mondo parallelo e indipendente, deflagrano come palloni gonfiati artificiosamente. Se non nascondiamo qualche perplessità sulla prima, lunga citazione, siamo invece pienamente d’accordo sulla seconda: temiamo proprio che la sfera architettonica legata all’informatica e alla virtualità possa facilmente incorrere in simili rischi. Forse non a caso l’autore – contraddicendosi? – dedica l’ultimo paragrafo alla triste storia del già citato Mockbee, che con l’informatica ha poco a che vedere: l’esperienza del Rural Studio portata avanti nel derelitto distretto di New Bern in Alabama sembra riportarci bruscamente in una dimensione del fare architettonico primitiva, partecipativa, sociale, politica, concreta, costruttiva, sostenibile, etica. Il lavoro nelle crisi del mondo e della società insieme alla profonda interrogazione sugli strumenti nuovi che si affaccia alla storia dell’umanità esaltano la forza dell’architettura e ne direzionano il senso. Ci insegnano il coraggio della modernità. Quella modernità da cui il libro, sin nel titolo, parte, di cui a mano a mano si perdono le tracce in forza di un progressivo processo di liberazione e decostruzione dei suoi principi, che tuttavia riaffiora alla fine, fin quasi a mettere in crisi la fideistica linearità dell’intero discorso. Interessante infine è la bibliografia, suddivisa in parti che seguono l’indice del libro: vi si tro-

vano alternati, non senza disinvoltura, libri di riconosciuta rilevanza internazionale con testi di statura critica locale, ma si tratta di un regesto molto utile per accedere all’affascinante itinerario mentale seguito dall’autore. L. S. Manfredo Tafuri, Oltre la Sto­ ria, a cura di Orlando Di Marino, Clean Edizioni, Napoli 2009. Racchiudere e condensare in un libro l’universo tafuriano è operazione assai ardua e delicata, sia per l’inevitabile complessità di sintetizzare la sua vasta produzione bibliografica che per la necessità di disvelare l’uomo al di là dello storico dell’architettura. Si deve all’impegno di Orlando Di Marino se oggi, a quindici anni dalla scomparsa di Manfredo Tafuri, questa raccolta di scritti riesce a restituire un’immagine del grande storico ricca di tematiche ancora attuali su cui riflettere, dibattere e studiare. Il testo raccoglie, infatti, un ventaglio di testimonianze di storici e architetti che va dalle relazioni tenute da Marco Biraghi, Francesco Dal Co e Manuela M. Morresi presso l’Istituto per gli Studi Filosofici a Napoli, nel gennaio/febbraio 2006, agli apporti dialettici di Giulio Pane, Sandro Raffone, Fabrizio Spirito, Francesco Starace e lo stesso Orlando Di Marino, passando per il mirabile testo dell’orazione funebre per Tafuri tenuta nella sua Venezia da Massimo Cacciari, nel cortile dei Tolentini il 25 febbraio 1994. Ed è proprio quest’ultimo che più di


tutti colpisce il lettore per la vis dialettica che fa da collante al resto del libro. Quid tum. Che cosa, allora? È l’incipit del titolo. Domanda questa cui non deve far seguito necessariamente una risposta, una certezza, una soluzione. E del resto è proprio questo élan vital che sottende l’attività storiografica, critica e filologica di Tafuri: la messa in crisi di ogni certezza, assioma, dogma o postulato che sia, dalle produzioni del passato alla contemporaneità, travalicando i margini dell’indagine prettamente architettonica, le stesse ideologie politiche, su cui la realtà storica degli anni ’60 e ’70 lo vede impegnato. L’occhio alato dell’Alberti, cui allude Cacciari nell’orazione, ci scruta nel­l’incisione di Matteo de’ Pasti e ci interroga ancora oggi. Qual è il compito dello storico nel suo agire? Come deve porsi nei confronti degli eventi del passato? Con quale animo e con quali intenti ricostruirne le trame e restituirle al presente? Scrive Cacciari che nessuno è libero dalla vicissitudo che tutti ci costringe, che tutti siamo. E tale vicissitudine obbliga al continuo esercizio, alla perenne trasformazione, al sapere per indizi e congetture. Di tale sapere è stato maestro Manfredo – non di fondamenti o certezze. Ma lo ha insegnato senza enfasi, senza retorica alcuna. Con ironia lo affermava, e perciò con tanto più vigore: poiché ironia significa insistenza dell’interrogare, e distacco e misura del pathos. Manfredo insegnava che la stessa virtù, lo stesso esercizio hanno la medesima radice dell’impazienza e dell’irrequietezza che ci affliggono, che la stessa ricerca e la

stessa interrogazione manifestano i principi di quell’attesa, di quell’ansia, di quella incontentezza da cui vorremmo pure liberarci. Manfredo insegnava che il nostro essere vicissitudine equivale alla necessità di mascherarci, di contraffarci, di denaturare tutto. Insegnava Manfredo che la forza che ci rinnova e ci sospinge è quella stessa che ci trascina. Insegnava la cosa più difficile: l’arte del disincanto insieme a speranza e fede. È facile il disincanto che sopraggiunge alla morte di speranza e fede; ed è altrettanto facile comunicare speranza e fede quando non si è appreso o si rifiuta l’aspro esercizio del disincanto. Ma insegnare disincanto, speranza e fede in uno, insegnare quella fede e quella speranza che esigono disincanto, e quel disincanto che ci tiene sgombro lo sguardo per vedere speranza e fede – ebbene, di questo sono capaci soltanto i maestri più grandi, qualsiasi sia la loro disciplina. Coniugare questi due concetti, fede e disincanto, apparentemente antitetici, sembrerebbe ai più una forzatura. E se invece questi fossero le facce di una stessa medaglia, quella che porta inciso l’enigma albertiano tanto caro a Tafuri? E se la stessa medaglia, risalente alla metà circa del ’400, non fosse forgiata nel bronzo, ma nel più nobile dei materiale nelle mani dell’uomo, ovvero la conoscenza? Ciò rimanda inevitabilmente a interrogarsi sul concetto di storia, che per Tafuri coincide con la critica e che si costruisce attraverso il progetto. Per Tafuri identificare critica e storia significa, appunto, accettare la compresenza continua dei

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problemi irrisolti nella storia stessa: … problemi … che vogliono essere presi in considerazione da chi opera nel presente come domande perennemente aperte. La storia … deve valutare la propria attualità e i margini della propria utilità, deve decidere se proporsi come fondamento di una metodologia di progettazione, come inutile ornamento accademico, o come disciplina problematica che pone domande continue all’architetto, accentuandone la problematicità. La storia, pertanto, non è né madre consolatrice, né divinità portatrice di verità dogmatiche. Essa non è neppure un’ancilla della composizione, come la definisce Tafuri in una lettera indirizzata a Roberto Pane, la cui copia integrale emerge inaspettatamente nelle ultime pagine del libro, tra quelle autobiografiche e bibliografiche di chiusura. La storia è una linea spezzata, determinata da un criterio di scelta arbitrario che ne fonda, volta per volta, valori e disvalori. Ciò presuppone inevitabilmente un atto progettuale fondativo, che solamente attraverso l’espressione del giudizio mosso dalla conoscenza porta a discernere, selezionare, disvelare, riformulare, riattualizzare gli eventi storici, proprio come nella realizzazione di un progetto di architettura. E le dinamiche profonde che ne fanno da trama, struttura e cornice affondano le proprie radici secolari nel potere politico ed economico, dalla testimonianza storica più antica alla più avveniristica opera contemporanea. Non è forse questo il disincanto? Ma, sia che ci si trovi dinnanzi all’illustre archi-

tetto rinascimentale contro l’assolutismo dei progetti di un papa armato di mezzi architettonici, che per converso allo star system più recente, soggiogato dalle logiche del business, l’uomo, il vero storico, ha la responsabilità di essere analista e critico di ogni tempo. Non è forse questa la fede? Tali sono alcune delle domande che riecheggiano nell’universo tafuriano, il cui peso non trascurabile ha certamente condizionato nel bene e nel male il panorama culturale italiano nello scorso trentennio. Figure di questo calibro – difficilmente rintracciabili in un panorama attuale che appare di giorno in giorno sempre più privo non solo di ideologie condivisibili ma di uomini di cultura capaci di diffonderle – hanno rappresentato l’ultimo baluardo di un certo modus pensan­ di et operandi. L’apprendere inoltre attraverso la testimonianza di Raffone che tra i suoi studenti nessuno avesse la benché minima idea di chi fosse Manfredo Tafuri è la conferma di una diffusa aridità culturale dilagante. Pensare che alla stessa età degli studenti di Raffone un Tafuri giovane si opponesse ai vecchi accademici compromessi con il regime fascista, presentando una tesi di laurea in rottura con la prassi comune, è un’ulteriore conferma di quanto enunciato poc’anzi. Se la realtà universitaria dell’epoca di Tafuri si pone a cavallo di epoche storiche contrastanti, quella attuale non è che l’emblema di una ben più allargata crisi sociale. Sarebbe auspicabile pertanto dar senso e svolta al nostro presente, recuperando anche gli esempi del passato, dall’Alberti al Tafuri. Tutto ciò


perché, come sentenzia Cacciari, nel fiume che è Vita trascorrono quelli che vengon sbattuti qua e là, quelli che si aggrappano ad otri gonfi e vani, quelli che nuotano disperati per sopravvivere soltanto – e altri che resistono, invece, altri che si affidano alle tavole delle bonae artes, altri che mettono mano alla costruzione di naviculae. E nessuno più di questi è caro agli dei: nessuno più di coloro che lottano per guidare le nostre navicelle e riparare quelle tavole. L. F. Quali Cose Siamo, Triennale Design Museum, Milano, dal 27 marzo 2010. Il 27 marzo ha aperto al pubblico la terza edizione del Triennale Design Museum che, fino al 27 febbraio del prossimo anno, offrirà una nuova e alternativa interpretazione del design italiano affiancando e arricchendo senza sovrapposizioni quelle già proposte nelle precedenti edizioni. Se le prime due edizioni del museo, Le Sette Ossessioni del Design Italiano e Serie Fuori Se­ rie, curate da Andrea Branzi con allestimenti rispettivamente di Italo Rota con Peter Greenaway e di Antonio Citterio, cercavano una risposta alla domanda centrale Che cos’è il design italiano? Alessandro Mendini, a cui è stata affidata la curatela scientifica del Museo per quest’edizione, ha costruito il suo racconto intorno a un altro interrogativo profondamente diverso, ma non meno complesso: Quali cose siamo?. Alla base di questa terza edi-

zione vi è la dichiarata ipotesi che in Italia esista un grande e infinito mondo parallelo a quello del design istituzionale, un design invisibile e non ortodosso (Alessandro Mendini, Quali cose siamo, testo di accompagnamento alla mostra, in «Domus», n. 935, aprile 2010, p. 79) fatto anche di oggetti comuni ed esempi della cultura materiale che costituiscono un insieme spaziale destrutturato dei sistemi antropologici particolari, … l’insieme dei palcoscenici infiniti delle nostre menti e dei nostri corpi: [che] sono il nostro “antico design”, il design individuale, come si configura capillarmente davanti agli occhi di ognuno di noi. (Alessandro Mendini. Un mondo che qui viene rappresentato e messo in scena da 798 «cose», oggetti italiani, scelti per la loro capacità di suscitare emozioni, selezionati «i­stintivamente» da Mendini e disposti «a flipper» per raccontare «con quali cose siamo» e «quali cose siamo». Un racconto che si sviluppa in modo enciclopedico, rinunciando a un filo narrativo, chiaramente presente invece nelle precedenti edizioni, e componendo una storia non istituzionale del design italiano, fatta non di passaggi logici, ma di relazioni, di sinergie ed empatie. L’allestimento, affidato da Mendini a Pierre Charpin, è silenzioso e discreto, essenziale e astratto supporto alla collezione, che viene offerta al visitatore come un flusso di coscienza, senza gerarchia, né alcuna classificazione sia essa cronologica, tipologica o concettuale. Accoglie il visitatore un’enor-

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me vasca giallo fluo, ispirata ai Bagni Misteriosi di De Chirico, in cui si confrontano e dialogano tra loro oggetti e macroggetti emblematici della cultura del design italiano e rappresentativi della sua dimensione umanistica: una riproduzione del David di Michelangelo a scala reale dialoga con il sandalo disegnato da Ferragamo nel 1938 per Judy Garland riprodotto fuori scala e alto 2 metri; un’Ape Calessino limited edition si relaziona con il divano Montanara di Gaetano Pesce e non mancano fin da qui riferimenti alla giovane arte e al design italiano, con lavori di Pierluigi Caligano e con Ettore Sottsass, presente non con una sua opera ma come osservatore, rappresentato in un ritratto di Roberto Sambonet. Da qui si snoda un racconto composto da circa ottocento oggetti che comprendono lavori artistici, cose comuni, opere di maestri e banali souvenir, e ancora blasonati oggetti di lusso, lavori di giovani designer, architetture sperimentali, brani di città, interni di Scarpa, Viganò, Riva, comuni strumenti di lavoro, folcloristiche statuine e giocattoli. Un insieme eterogeneo di oggetti organizzato lungo il percorso su 8 piattaforme in legno chiaro, raggruppati tra loro per creare dei “teatrini”, liberamente disposti sui piani espositivi o custoditi in preziose teche, variamente accostati per «fare sistema», «creare relazioni» e ordinate secondo parametri esogeni, non direttamente appartenenti agli oggetti stessi, ma a ciò che essi trasmettono ed ai valori che le persone attribuiscono loro, inducendoci ad una nuova lettura del design, che

superi la catalogazione storica, materica, tecnologica, o legata all’attività del singolo professionista (Arturo dell’Acqua Bellavitis). Mendini ipotizza che proprio da questa nebulosa produttiva, agendo dalla tradizione alla novità, possa emergere per il design italiano una proposta più dilatata e diversa, sia nell’immagine, sia nell’etica, sia nelle sensibilità dell’uso e dei comportamenti. Significativamente Alessandro Mendini e Silvana Annichiarico hanno scelto di concludere il percorso con l’esposizione dei lavori di un gruppo di giovani progettisti di The New Italian Design (la banca dati approntata dalla Triennale di Milano in seguito a un censimento e a una selezione lanciati nel 2006) chiamati a interpretare la domanda Quali cose abitiamo, lavorando sul modello ideale della torre di Babele e sul tema dell’utopia progettuale a scala urbana. Questa terza interpretazione è permeata dal tema dell’utopia (la mia utopia è che noi progettisti torniamo ad essere degli utopisti da una positiva e fiduciosa visione del design italiano che è probabilmente il principale legame tra tutti gli oggetti esposti. Qui possiamo avvertirla leggera e diffusa, ma lo stesso tema, questa volta fortemente affermato, guiderà anche la nuova Domus, diretta per un anno da Mendini, che torna alla guida della rivista dopo 30 anni proprio con il numero di aprile sottotitolato “La nuova utopia”. Per un anno Mendini dalle pagine di Domus ci proporrà un’analisi dell’arte, dell’architettura e del design italiani dove gli oggetti di produ-


zione verranno analizzati non più come status symbol o come rappresentazioni narcisistiche dei designer stessi, ma come possibili mezzi per l’uso e l’interpretazione del mondo delle cose (cartella stampa editoriale «Domus», presentazione della nuova direzione). Con Quali co­ se siamo Mendini ci descrive questa stessa visione del design italiano attraverso una ricca selezione di oggetti eterogenei, accostati per la loro capacità di sprigionare una forza concettuale generata dalle relazioni che tra loro instaurano e selezionati al­ l’interno di un arco temporale che va dall’antica Roma fino a un prossimo futuro, tutti, di qualunque tipo essi siano, rigorosamente italiani, e, soprattutto, scelti per le emozioni che generano o hanno generato in singole persone, gruppi culturali o intere generazioni. Lungo questo racconto, che si apre con il Phaselus, amata barca di Catullo, (o, più precisamente, con le parole che il poeta le fa pronunciare nel suo Carme IV) troviamo mitici oggetti del nostro design, come l’Olivetti Lettera 22, di cui però l’esemplare esposto è quello utilizzato da Indro Montanelli, l’abito creato da Caraceni per Totò, ma anche calcinacci di abitazioni distrutte dal terremoto in Abruzzo, un bastone da bergamino, il sedile del vaporetto di Venezia o il grembiule che Castiglioni utilizzava per lavorare e i 9 compassi d’oro di Mario Bellini. È presente poi tra le opere esposte una specifica selezione che compone un delicato percorso dedicato ai bambini, completo di una pubblicazione pensata solo per loro e articolato come un piccolo gioco per

incuriosirli e guidarli alla scoperta del museo e del design italiano. Mendini non manca poi di includere, all’interno della sua visione, una riflessione sulla storia del design e sull’autorappresentazione che il design fa di se stesso e della sua storia: la storia del design italiano (quella che per intenderci inizia con la Vespa e con il libro di Gillo Dorfles nel 1963) – annota Mendini in alcune sue riflessioni riportate in calce del racconto allestitivo – può essere vista ed elaborata con sguardi diversi, con intrecci e prospettive che appartengono ad altri aspetti della sua natura. Anzi altri sguardi ne propongono proprio un’altra natura. Ritroviamo allora, tra gli oggetti esposti, anche diversi volumi, saggi critici più o meno recenti, cataloghi di mostre, storie del design, testimonianza del­ l’evoluzione di un pensiero dinamico e mutevole, e di differenti modi di interpretare e pensare il design italiano. L’esposizione si presta a molteplici interpretazioni e letture alternative e complementari tra di loro, e fornisce nel suo complesso un’idea del design italiano come un fatto culturale. Tuttavia, anche se alla base del progetto vi è una precisa volontà di avvicinare emozionalmente il pubblico al design, davanti a una tale libertà il visitatore paradossalmente vi si può facilmente trovare spaesato. Le didascalie poste agli angoli delle pedane rendono molto difficile accostare a ogni oggetto la relativa nota, che è comunque una sintetica indicazione dei dati essenziali dell’opera esposta, mentre la mancanza di un esplicito principio organizzativo che

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leghi tra loro gli oggetti rende faticosa l’individuazione di un filo conduttore; così, affannandosi alla ricerca di assenti punti di riferimento e sovraccarico di informazioni tra le quali non si rassegna a cogliere solo quelle a lui indirizzate, l’osservatore si riscopre confuso e disattento, e qualche volta irritato dalla sensazione di non riuscire a comprendere. È interessante invece soffermarsi a considerare come tra tutte le opere esposte si tenda a cercare gli oggetti noti e, dopo una più o meno lunga e accurata visita, si arrivi al termine del percorso ricordandone solo alcuni, spesso quelli famigliari. Forse Mendini cerca di invitare anche l’osservatore adulto a giocare, creando diversi percorsi, come quello per i più piccoli, o meglio offrendo a ciascuno la possibilità di creare un suo percorso nella memoria, attraverso le cose che siamo. Varcando il ponte sospeso, soglia tra Triennale e Museo di Mendini, con atteggiamento curioso, liberi da aspettative e disposti ad affrontare la visita emotivamente piuttosto che valutare razionalmente ciò che si vedrà, si ha la strana impressione come efficacemente dice Charpin, d’intraprendere un viaggio […] di scrutare il contenuto di una mente (quella di Alessandro? Quella di un pae­se?) la cui memoria, sfilacciata dal tempo, avesse prodotto una gran quantità, una grande varietà d’informazioni, d’immagini, di sensazioni (Pierre Charpin, presentazione del progetto di allestimento). Chi si avvicina a questa terza interpretazione aspettandosi di visitare una tradizionale mostra

di design, rimarrà perlomeno perplesso, ma forse non si tratta di comprendere ma di lasciarsi trasportare dalle sensazioni, dalle emozioni e ispirazioni errando tra questi oggetti che rappresentano la nostra storia. (Pierre Charpin, Il nome della cosa, in «Corriere della Sera», 25.03.2010, p. 53). F. L. M. Marzo (a cura di), L’archi­ tettura come testo e la figura di Colin Rowe, IUAV-Marsilio, Venezia 2010. Quando Colin Rowe, un architetto allievo dello storico dell’architettura Rudolph Witt­ kower, ha sostituito la continuità (della storia), con una sovrapposizione di Le Corbusier e Palladio, inventando un principio compositivo comune a opere lontane tra loro ideologicamente, nel tempo, nello stile, nelle forme, con La matematica della villa ideale, in qualche modo è intervenuto un capovolgimento del fronte. Il «fronte» in questione, nelle parole di Luciano Semerani nel capitolo che apre questo volume realizzato a più mani [Luciano Semerani, Alessandra Ponte, Peter Eisenman, Monica Centanni, Katia Mazzucco, Francesco Benelli, Sebastien Marot, Marco Biraghi, Bernardo Secchi, Robert Maxwell, Alberto Ferlenga, Luca Ortelli e Mauro Marzo] – frutto di un seminario internazionale tenutosi allo IUAV nel 2008 sul­l’apporto teorico di Rowe alla composizione architettonica – è quello del legame storiaazione, dove l’azione è il proget-


to di architettura, elemento centrale in una riflessione critica che si pone il problema del significato stesso della ricerca in questa disciplina. Più in generale si può dire che Rowe assieme a Robert Venturi, Aldo Rossi ed Ernesto Rogers abbia contribuito in maniera fondamentale ad abbattere le barriere tra il progetto e la storia, tra futuro e passato. Nato nel 1920 e scomparso nel 1999, allievo di Wittkower e membro di quel gruppo di giovani docenti del­l’Università del Texas soprannominati Texas Rangers, Colin Rowe è la figura che nella seconda metà del ’900 forse più di tutte ha agito come ponte tra gli ambiti più avanzati della critica e della storiografia architettoniche anglosassoni, provenienti dal Warburg Institute, e quello operativo della composizione progettuale, in quanto artefice della rivalutazione dell’architettura come «testo». In realtà il termine «testo» appartiene, per Peter Eisenman, alle preoccupazioni del­ l’architettura del giorno d’oggi e ha un’accezione che a Rowe sarebbe risultata del tutto estranea, trovando egli intollerabili le discipline della linguistica e della semantica. Ma ciò dà proprio atto dell’importanza del pensiero di Rowe e soprattutto della necessità oggi di discutere a proposito della sua eredità. Indagando la figura di Rowe a tutto tondo gli interventi raccolti nel volume mirano a ricostruire i vari aspetti del suo pensiero, la genesi e le radici culturali anche remote di questo e i suoi lasciti intellettuali specifici e generali. I principi della geometria e delle proporzioni numeriche seguiti nell’architettura dell’u­

ma­nesimo erano stati già ripercorsi e diffusi fin dal 1949 da Wittkower su The Architectural Review. Rowe, assieme a un altro «Ranger», Robert Slutzky, pubblica nel 1964 su «Perspecta» Transparency: Literal and Phe­ nomenal, dove emerge una «complessità» della «trama» architettonica, in Le Corbusier e Palladio, che intendevano simultaneamente più temi compositivi, tale da trasformare il textus, inteso come tessuto che diventa groviglio, portando dritto dritto a una nuova interpretazione della composizione intesa […] come esigenza di un’alta capacità di regia narrativa. La narrazione come costruzione mentale che prevale sulla fisicità dei corpi e dello spazio ha origini nell’opera dello storico svizzero Heinrich Wölfflin, inauguratore della scuola «formalista», e si trasmette fino a Rowe per mezzo di figure cruciali come Aby Warburg, Wittkower e Sigfried Giedion. Il warburghiano – ma fino a un certo punto – Rowe eredita l’attitudine a decostruire l’opera come un testo, appunto, in cui si scava alla ricerca della complessità e dell’influenza anche anacronistica del passato; scriveva un altro warburghiano, Edgar Wind, che il passato non viene distrutto dal presente ma sopravvive in esso come forza latente. Tramite la figura di Rowe il carattere speculativo dell’indagine – e di conseguenza del progetto – sarebbe poi fiorito nel lavoro di eminenti architetti delle generazioni successive, come James Stirling e Peter Eisenman. Se Aby Warburg era ossessionato dalla cosmogonia degli affreschi del Palazzo di Schifanoia, Rowe

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lo era in maniera analoga dalla città intesa come un collage, dove l’immaginario urbano è un universo di segni, in analogia con la macchina teatrale, operante sui depositi della memoria e persino del sogno […] che il progetto riprende attraverso una trascrizione o che diventa citazione: i Nostalgia-producing instruments nell’excursus alla fine di Collage City (con Fred Koetter, 1978). Questo approccio teatrale, segnico e manipolatorio sfocerà nelle architetture composite di James Stirling e nei progetti dello stesso Rowe, tra cui quello incluso nella Roma Inter­ rotta curata da Giulio Carlo Argan e Christian Norberg-Schulz ai Mercati Traianei nel 1978 (esperienza tra l’altro aggiornata da Aaron Betsky per la Biennale di Architettura di Venezia del 2008, a un trentennio di distanza, come a chiedersi se e quanto esista effettivamente ancora uno spazio per una simile concezione della realtà). Composizione è un processo di conciliazione degli opposti, a-simmetria e simmetria, stratificazione di matrice archeologica, velamento e disvelamento di un’architettura intesa come opera ibrida e compiuta al contempo, che viene scavata al suo interno. Come traspare dal saggio di Katia Mazzucco, già nel lavoro su Inigo Jones vi è un aspetto fortemente interpretativo, seppur ancora confinato alla filologia, ossia la ricostruzione del presunto trattato teorico del­ l’architetto, di cui non vi sono che labili indizi, e quindi il rapporto dell’architetto inglese con il sapere architettonico antico, basandosi sulle note originali di Inigo a Palladio.

All’inizio degli anni ’50 Rowe scrive Carattere e Composizione, durante il suo soggiorno a Yale; aveva abbandonato il londinese Warburg Institute (già Kulturwi­ senschaftliche Bibliothek War­ burg di Amburgo) e il suo mentore Wittkower per raggiungere in terra americana lo storico Henry Russell-Hitchcock. Al Warburg Rowe era giunto con una borsa per completare la propria tesi di Master sull’architetto inglese neo­palladiano Inigo Jones, sotto la guida di Wittkower. La successiva transizione da un’area di pensiero di matrice tedesca, incentrata su Wölfflin, Warburg e poi Wittkower, a una di matrice americana che da Hitchcock risale a Bernard Berenson, rappresenta, per Peter Eisenman, una transizione importante nel passaggio dalla «Matematica» alla «Composizione» […] che si potrebbe del pari correlare alla perdita d’influenza di Wittkower e al transitorio ascendente di Hitchcock, ma soprattutto la transizione da aspetti più concettuali ad aspetti più percettivi della teoria, soffermandosi particolarmente sulla sfaccettata nozione di carattere, più pacata rispetto a quella di composizione e perciò in grado di permettere una sintesi, applicata al XIX secolo ma anche ai più recenti presagi del postmodernismo nella metà del Novecento. Rowe intendeva applicare il metodo warburghiano all’architettura moderna e non trovando soddisfazione in Wittkower si rifugiò in Hitchcock, autore assieme a Philip Johnson del volume The International Style. All’interno dell’indagine su specificità e debiti di pensiero, e


metodo roweiani spicca il legame con il maestro Wittkower, protagonista della cerchia warburghiana durante il periodo di formazione di Rowe, gli anni Quaranta. In proposito Francesco Benelli parla di continuità e frattura: nel 1946, quando Rowe era l’unico studente di Wittkower al War­ burg, la prima era costituita dalla sopracitata tesi su Inigo Jones, mentre la seconda dal saggio sulla Villa Ideale, già dattiloscritto e pubblicato nel 1947, che riunisce l’interesse per l’architettura moderna con l’affinamento metodologico maturato al Warburg. L’esule Wittkower portava avanti, nelle sue ricerche londinesi, da un lato la comparazione come metodo conoscitivo – che Rowe poi riprenderà ne La Matematica – derivata sia dal progetto Mne­ mosyne di Aby Warburg, sia direttamente dal mondo classico e umanistico, e dall’altro lato l’interesse per le proporzioni, tema inaugurato in epoca moderna dagli studi di Erwin Panofsky e che egli trasferisce all’architettura. Facendo ciò Wittkower trasferì gli interessi warburghiani sulla persistenza del classicismo al­ l’ambito architettonico, usando per la prima volta il disegno come strumento scientifico di analisi. Nella tradizione warburghiana l’antico (classico) era visto come un modello che si sovrappone alla produzione dell’artista e lo condiziona variamente: da ciò prende avvio La Matematica del­ la Villa Ideale. Un antico e un classico che s’incarnano nel Rinascimento e che filtrati da Wittkower permeano in Rowe l’architettura di un idealismo platonico tale per cui essa è sempre

esibizione di un mito, in contrasto però con la sottile discrezione […] tenacemente storica e anti-idealista di Warburg medesimo. Di Warburg permane invece la procedura comparativa per accostamenti eterogenei che sfocerà nella rete orizzontale di relazioni precariamente biunivoche tra autori ed epoche, procedendo deduttivamente per grandi esempi, per paradigmi. La ripresa del classico nel dopoguerra – non a caso siamo negli anni in cui inizia a sgretolarsi l’ideologia del Movimento Moderno – è coerente a una critica sia del concetto romantico-hegeliano di Zeitgeist, sia del culto del progresso che cancella l’antico, due facce della stessa medaglia. La modernità non è rottura, essa sopravvaluta (ed enfatizza a torto), la propria novità. Per Monica Centanni la figura di Rowe trasforma la storia in una «sciarada» dei tempi in cui tutti i tempi si somigliano e lo storico, in particolare lo storico del­ l’architettura, dismette il proprio impegno. Al posto di tanto ideali quanto irreali ordini cosmici del passato, rimane un mondo densificato, affollato di oggetti, di cose e relitti di memoria. Collage City e la proposta per Roma Interrotta, entrambe del 1978, attuano una profonda mistione di città antica e città moderna; per Roma la proposta di Rowe è di una Collision City, mentre è il suo allievo Stirling, con un patchwork di 25 sue opere, a ipotizzare una vera e propria Collage City, anche se, nota Marco Biraghi, rivela anche un’altra esigenza di Stirling: quella di «rimettere assieme i pezzi»,

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per quanto non necessariamente al fine di ricostruire un intero. La poetica del frammento, in bilico tra storia e progetto, che risulta in collage e bricolage appare forse come il lascito più fecondo di Rowe; e non è forse un tema classico quello del rapporto fra le parti e il tutto, fra l’insieme e i frammenti, ossia la wittkoweriana pro-portionem? Per Bernardo Secchi è comunque necessario un criterio di selettività rispetto alla memoria e ai ritorni sempre possibili, che spieghi il perché e il quando oltre alla semplice (e insufficiente) accettazione di un collage. Robert Maxwell, junior di Rowe di due anni alla Liverpool School of Architecture, riconosce in fondo un certo pragmatismo nella visione bricolage della città come futuro realizzabile rispetto alle utopie irrealizzate che stanno alla base dei suoi frammenti. Lo stesso pragmatismo che bolla molte delle proposte e dei dogmi del­ l’architettura moderna come ideo­logiche e arroganti. Il volume è certamente interessante: un personaggio del calibro di Colin Rowe non può non suscitare interrogativi e persino l’impressione che può sorgere a tratti, ossia che la sua opera effettiva sia talvolta in secondo piano rispetto al significato che essa esprime (o dovrebbe esprimere) è, in effetti, pienamente giustificata dal fatto che qui si è tentato di porre in rilievo, come dice il titolo stesso, la figura di Colin Rowe. Anzi, va piuttosto riconosciuto il merito di ammettere ancora una volta che lo sguardo critico, così come quello storico, non può mai essere imparziale, ma è sempre orientato e distorce

necessariamente l’oggetto del proprio conoscere. E il nostro modo di conoscere (la storia) influisce sul modo di agire (il progetto). Quasi, si dà una lettura di Rowe à la Rowe, per frammenti e come se fosse egli stesso un testo da decifrare. Appare difficile, forse, riuscire a riunire i «cocci» di un percorso storico lineare dopo lo scardinamento attuato da Rowe; ma viene da chiedersi se sia proprio vero che i suoi allievi hanno abbandonato qualunque tentativo di ricostruire, seppure in forma apparente, un ordine riconciliante che tutto riunisca. L. D. A. G. Pigafetta, Le passioni del classico, Alinea editrice, Firenze 2009. Nel corso millenario della tradizione occidentale, i termini “passione” e “classico” sono stati declinati nelle forme più varie, lungo linee ora di continuità ora di separazione. Giorgio Pigafetta analizza della secolare riflessione che alimenta il tema delle passioni un passaggio specifico, che si colloca nell’âge classique tra Seicento e Settecento, ricco di intersezioni tra vari campi del sapere: la filosofia, le scienze, la storia dell’arte e l’architettura. Nonostante la forte presenza di una linea filosofica centrata sul tema della ragione, il Seicento francese, come rileva l’autore nell’introduzione, è stato definito il “secolo delle passioni”: queste si insinuano nel linguaggio quotidiano e vanno a radicarsi nel senso comune della società, penetrano nella teoria artistica, per


la quale divengono modelli irrinunciabili, rappresentati e allineati sugli scaffali di ogni pittore, come i calchi in gesso o le stampe raffiguranti antichità classiche. La riflessione prende avvio da una citazione di Ledoux, il quale ne L’architecture consi­ dérée sous le rapport de l’art, des mœurs et de la législation sottolinea la necessità per l’architetto di aprirsi a un rinnovamento formale, che attinga un’infinita varietà di temi dal “grande libro delle passioni”. La ricerca artistica dell’âge classique ruota attorno a una definizione delle passioni, intese come tutte le affezioni dell’anima (e del corpo) che provocano un qualche cambiamento […] dell’interiorità e dell’apparenza esteriore dell’uomo. Si stabilisce un rapporto di reciproca influenza tra la forza comunicativa dell’arte e quella delle passioni: queste si alimentano a vicenda, e mettono in comunicazione i loro contenuti disciplinari. Naturalmente, ogni forma d’arte necessita di un proprio metodo per riferirsi agli stati passionali: se infatti l’arte fonda la sua relazione con le passioni sulla mimesi, l’architettura si avvale di due strumenti fondamentali, segnalati dall’autore. Il primo e più logico è il ricorso all’analogia, che, mediante la diversa articolazione dei volumi, e il dialogo tra luci e ombre, permette di instaurare relazioni di somiglianza fra cose diverse e reciprocamente autonome; il secondo traduce le passioni in “sensazioni”, e affida l’espressività della fabbrica architettonica alla restituzione di un senso di attrazione o di repulsione, di accoglienza o di timore.

In questa prospettiva, se le passioni sono per i classicisti un modello, devono aspirare innanzitutto a essere universali e, in linea con le istanze della ricerca scientifica che in quegli anni si delinea, “verificabili”. Come rammenta Pigafetta, il sistema filosofico dominante nella cultura ancien Régime è quello cartesiano, che interpreta la passione come controparte della macchina del corpo: ogni funzione vitale dell’uomo è messa a sistema all’interno di un’immagine meccanicistica dell’organismo; viene così rifiutata l’idea che l’anima sia il motore dinamico del corpo, e anche le passioni, manifestate dai movimenti esterni, diventano misurabili e quantificabili. La dottrina artistica deve a questo punto rapportarsi con la fisiologia cartesiana, che diventa elemento fondamentale nella visione del mondo. L’idea del corpomacchina […] condiziona lo spirito e la sensibilità nei confronti del “creato” e degli esseri viventi, diventa elemento selettivo nei rapporti sociali e sentimentali. Sulla base della corrispondenza tra espressioni e passioni prende avvio una lunga serie di studi, il cui fine è la definizione del rapporto tra “movimenti esterni” e movimenti interni”: in questa linea di ricerca Le Brun giunge alla costruzione di un catalogo, che raffigura i volti corrispondenti alle diverse modalità espressive delle passioni, deli­ neando infine una nuova triade di relazione tra movimenti della macchina somatica, espressioni e passioni. Il determinismo così raggiunto rischia però di perdere forza nel momento in cui si considera

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la possibilità che ha il corpo, essendo una macchina indipendente dall’anima, di dissimulare le passioni. La verità rappresentativa dell’arte rischia di restare sospesa fra la bellezza codificata del classicismo e l’immediatezza delle passioni, fra la crudezza dell’espressione e la disorientante dissimulazione che nasconde lo stato dell’anima. La soluzione è brillantemente ritrovata dai classicisti nel concetto di fisionomia: se la passione “nasce e scompare, s’intensifica e si attenua, si combina con un’altra”, il carattere e il temperamento designano “un modo d’essere costante”. La costanza del modello naturale, dei caratteri e delle passioni garantisce la permanenza delle forme rappresentative classiche. E, com’è del tutto evidente, questa permanenza codificata del carattere sarà tanto più utile per gli strumenti espressivi di un’arte convenzionale e non mimetica come l’architettura. Gli ultimi capitoli del libro sono rivolti, tra l’altro, alla definizione del rapporto tra le passioni e la teoria architettonica: l’autore, partendo da alcune considerazioni fatte da Quatremère de Quincy, ribadisce il carattere non mimetico dell’architettura, e ne problematizza alcune questioni. La differenza fondamentale tra l’architettura e le altre arti si risolve nella differenza tra passioni e affezioni: la chiave di interpretazione è ancora una volta interna alla dottrina delle passioni, dalle quali dipende la qualificazione dell’architettura nel novero delle arti. L’architettura può manifestare dunque le affezioni, che costitui-

scono il versante “razionale” dei moti dell’anima, nel senso che descrivono uno stato di tensione verso qualcosa o di fuga da qualcosa. Il sublime è lo strumento più grande che la cultura artistica sei-settecentesca fornisce all’architettura per riacquisire una capacità espressiva che renda possibile l’imitazione della natura, nella misura in cui esso è il luogo poetico elettivamente destinato a rappresentare le passioni. Naturalmente, nell’ambito di una cultura che pone al centro dell’attenzione la misura, l’ordine e l’uso controllato di parole e forme, lo stesso concetto di sublime è “ridimensionato”: l’architettura deve fare riferimento a una limitata gradazione espressiva, e può restituire l’effetto del sublime sfruttando la propria forza dimensionale rispetto all’uomo. Il rapporto proporzionale resta fissato sulla dimensione dell’uomo, sul suo apparato sensitivo e sulla comprensione dello spazio affidata alla sua razionalità. Inoltre l’autore chiarisce la qualità di emozione non partecipata del sublime: la distanza dello spettatore rispetto all’immagine fa sì che l’uomo non si senta minacciato da ciò che osserva, e si possa concentrare sulla sua bellezza, avvertendo un senso di piacere. Nel caso dell’architettura, questo effetto può essere raggiunto, come è stato detto, attraverso la vastità degli elementi e i contrasti tra luci e ombre: nasce così una “architettura dello spazio vissuto”, che interiorizza la psiche dell’uomo e ne eccita le passioni più forti. L’ultima parte del libro è dedicata all’immaginazione, che nella teoria cartesiana sostituiva la


forza interna dell’anima: questa ha la capacità di costruire una seconda realtà, che trae origine dalla memoria e ne rafforza il potere evocativo, e per questo si accompagna all’attività dell’artista. La realtà offerta dall’immaginazione è fortemente segnata dal desiderio, poiché ogni elemento nasce nella nostra mente in risposta a un’assenza, fisica o qualitativa: il superamento delle regole, dei limiti imposti dalla natura, permette – nella visione immagi-

nante – di ricongiungere la forza interna con l’azione che si compie e di colmare lo iato insopportabile fra desiderio e suo appagamento. Il libro ha il merito di illuminare una tematica interessante, forse oggi non sufficientemente coltivata, che pure merita nuova attenzione grazie anche a un rinnovato interesse per il rapporto tra creazione artistica ed esperienza sensibile. V. P.

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Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 1.  Le «Nuove Iconi» e la «civiltà del consumo» - Architettura utopistica - La sociologia dell’arte dei sociologi - Esperienze della Biennale - Tecnologia e poetiche contemporanee - Nouveau roman e arti figurative - Il Gaudi di Pane (fascicolo esaurito) N. 2.  Design e mass media - Gestalt prima e dopo - L’estetica neonaturalistica di Romanell - Della Pop Art e di una mostra a Vienna - La poetica urbanistica di Lynch - Semantica dell’arte - Architettura come linguaggio (fascicolo esaurito) N. 3.  Architettura e cultura di massa - Alcuni temi dell’Informale - Kunstwollen e intenzionalità in E. Panofsky - Dal pragmatismo alla fenomenologia - Libri, riviste e mostre N. 4.  La critica discorde - S.K. Langer, L’influenza sociale del design - T. Munro, Recenti sviluppi dell’estetica in America - G. Veronesi, Sull’architettura del secolo - L. Vinca Masini, Le mostre dell’estate ’65 - Libri, riviste e mostre N. 5.  I criteri di valutazione dell’arte contemporanea - Una politica culturale per i socialisti - Il visual design - Pareri sulla IX Quadriennale - Libri, riviste e mostre N. 6.  Il disegno di architettura - J.P. Hodin, Esiste un’estetica dell’arte moderna? - Alcune voci dell’urbanistica contemporanea - Breve antologia delle ultime Biennali - Libri, riviste e mostre N. 7.  Note per una semiologia figurativa - W. Hofmann, Gli inizi dell’attività formale - E. Garroni, 33a Biennale di Venezia: «jeu» e «sérieux» - Libri, riviste e mostre N. 8.  Artisticità dei mass media - B. Jessup, Arte e storia - Il design scientifico di Alexander - Incontri di studi urbanistici - Libri, riviste e mostre N. 9.  Il pensiero estetico di Adorno - 4 artisti scelti da Barilli - A. Vivas, Filosofia della cultura, estetica e critica: alcuni problemi - Libri, riviste e mostre

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N. 10.  Il premio IN/ARCH alla nostra rivista - R. Barthes, Semiologia e urbanistica - Nuove idee per la Gescal - Il metodo scientifico nella pianificazione - G. Veronesi, Su alcune mostre dell’estate italiana - Libri, riviste e mostre N. 11.  G. Morpurgo-Tagliabue, L’arte è linguaggio? - Urbanistica e arti visive oggi - Valori ed obiettivi nella pianificazione - Libri, riviste e mostre N. 12.  Tre contributi alla semiologia architettonica - E. Garroni, L’eterogeneità dell’oggetto estetico - V. Corbi, Questioni di estetica empirica - A. Perez, Riflessioni di uno scultore sul tema dello spazio - Libri, riviste e mostre N. 13.  L’«environmental design» e il suo insegnamento - Per una teoria dell’architettura - L’estetica del «pensiero negativo» in Marcuse - Libri, riviste e mostre N. 14.  La prossemica: un nuovo apporto all’architettura? - La poetica dell’arte povera - Note sull’Università e la professione - O. Ferrari, Una Biennale rimasta senza giudizio - Libri, riviste e mostre N. 15.  I problemi dell’istruzione artistica - R. Segre, Presenza di Cuba nella cultura architettonica contemporanea - Architettura fra retorica e logica Libri, riviste e mostre N. 16.  Significanti e significati della Rotonda palladiana - G. Dorfles, Valori iconologici e semiotici in architettura - Attualità della retorica - Libri, riviste e mostre N. 17.  Il centro della città (definizioni) - M. Tafuri, Ambiguità del Guarini - Lettura storico-semiologica di Palmanova - Libri, riviste e mostre N. 18.  L’architettura per l’Università - E. Garroni, Semiologia e architettura. Alcuni problemi teorico-applicativi - Recenti contributi allo studio dell’«environmental design» - Libri, riviste e mostre N. 19.  Segni e simboli del tempietto di Bramante - Note sull’immaginario in Filarete - Philip Johnson: la funzione della maschera formale - Biennale/ricerca - Libri, riviste e mostre N. 20.  Utilità storiografica di una dicotomia linguistica - Meaning in Architecture - La cultura di Le Corbusier - New Towns (definizioni) - Libri, riviste e mostre N. 21.  Note per una epistemologia della rappresentazione visiva - G. Bonsiepe, Panorama del disegno industriale - Per una poetica del profondo: Blaue Reiter - Libri, riviste e mostre

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N. 22.  Nomi, luoghi, immagini di città nella «Recherche» di Proust - U. Eco, Analisi componenziale di un segno architettonico - Percezione ed esperienza estetica - Libri, riviste e mostre


N. 23.  La «riduzione» culturale - Libri, riviste e mostre N. 24.  «Arquitectura, historia y teoria de los signos» - Note di terminologia semiotica - Il design: processo e fruizione - Il «silenzio» dell’architettura contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 25.  Note sull’arte concettuale - L. Benevolo, La recente storiografia della città - Lo storicismo e i confini della semiologia - Città-pubblicità: sul caso Las Vegas - Libri, riviste e mostre N. 26.  La «riduzione» culturale nella progettazione architettonica - R. Barilli, Le due anime del concettuale - G. Morpurgo-Tagliabue, Commento alla «riduzione» culturale - L’antidesign - Libri, riviste e mostre N. 27.  Altri aspetti della «riduzione» culturale - Interventi: G. Dorfles, Riduzione ad oggetto, riduzione a progetto - P. Fossati, Riduzione o trasformazione? - T. Llorens, Sul concetto di comunicazione estetica - Libri, riviste e mostre N. 28.  Elementi semiotico-progettuali d’architettura - M. Krampen, Dalla semiologia della comunicazione alla logica degli strumenti - Libri, riviste e mostre N. 29.  Per una lettura semiotica della prospettiva - Elementi di una tendenza dell’architettura italiana - XV Triennale - Libri, riviste e mostre N. 30.  Problemi di semiotica dell’arte contemporanea - B. Zevi, Sei postille su «Il linguaggio moderno dell’architettura» - Alcune opinioni sull’iperrealismo - Libri, riviste e mostre N. 31.  Elementi della progettazione scientifica - Il segno indefinito della semiologia urbanistica - Note sulla cultura a «mosaico» - Arbitrarietà e motivazione del linguaggio architettonico - Libri, riviste e mostre N. 32.  L’eccentrismo, un momento della avanguardia sovietica - U. Eco, Chi ha paura del cannocchiale? - Nota sul segno urbanistico - I segni e le «figure» del Padiglione di Barcellona - Libri, riviste e mostre N. 33.  Architettura come istituzione - Il «ritorno» alla pittura - Università: le parole e le cose - Libri, riviste e mostre N. 34.  Dall’estetica alla semiologia - La teoria di Hjelmslev e l’architettura: alcuni problemi - Il «realismo» di Giuseppe Samonà - Libri, riviste e mostre N. 35.  Attualità dell’iconologia: alcune questioni metodologiche - R. Barilli, Difficoltà di un approccio semiotico alla culturologia - L’editoria architettonica - Libri, riviste e mostre N. 36.  I centri storici nella prospettiva semiologica - Le idee di teatro, oggi - Una riproposta del «multiplo» - Libri, riviste e mostre

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N. 37.  Dialettica del «piacere» e identità dell’architettura - Assenza-presenza: due modelli per l’architettura - La «storia dell’arte» nelle scuole - Libri, riviste e mostre N. 38.  Le ricerche di architettura più attuali ed insolite - Dalla fotografia al videotape - Analisi di un corso di laurea: il Dams - Libri, riviste e mostre N. 39.  La sociologia del gusto di Jean Baudrillard - Le posizioni di […] su alcuni temi della critica architettonica in Italia - Libri, riviste e mostre N. 40.  «Aforismi» sui centri storici - Note sulla simmetria in architettura Bataille e la “svolta” di «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 41.  Dipartimento e «architettura» - La «rappresentazione» tra storia del teatro e semiotica - La critica d’arte in «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 42.  L’idea di pittura in Lévi-Strauss - Sul concetto di gusto - Alcuni contributi alla critica dell’inconscio - Libri, riviste e mostre N. 43.  La post-avanguardia - Luoghi e luoghi comuni della recente critica d’arte - Narciso e «l’altro»: note sul dibattito architettonico - Libri, riviste e mostre N. 44.  Architettura: la «rimozione del nuovo» - Ipotesi per il segno iconico - Storia dell’arte, storia delle cose - Libri, riviste e mostre N. 45.  Topologia e architettura - La casa: norma e «deroga» - Artisti e cinema - Libri, riviste e mostre N. 46.  I quindici anni della nostra rivista - L’Architettura all’Ecole des Beaux-Arts - La Storia dell’arte Einaudi - Una griglia che non sia una grata N. 47.  Architetto e ingegnere - Le scuole di critica d’arte in Italia - L’immaginario nella cultura di massa - Libri, riviste e mostre N. 48.  Prima e dopo il Post-Modernism - L’iconizzazione del mobile - Civiltà del ’700 a Napoli - Libri, riviste e mostre N. 49.  Il restauro architettonico: ricchi apparati e povere idee - F. Menna, La Biennale di Venezia. Gli anni settanta: questi (mi)sconosciuti - Critica d’arte e processi produttivi - Libri, riviste e mostre N. 50.  Fortuna critica della «Tendenza» - R. Bonelli, Storiografia e restauro - La fotografia: indice o icona? - Libri, riviste e mostre N. 51.  Classicismo e razionalismo in J.N.L. Durand - Modelli interpretativi delle tendenze artistiche odierne - Architettura come testo - Libri, riviste e mostre

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N. 52.  L’espressione «Movimento Moderno» - Indagine su Carlo - Note sulla Transavanguardia - Libri, riviste e mostre


N. 53.  Il design tra «radicale» e «commerciale» - Dalla «ruminazione» dei guerrieri greci all’«insonnia» dell’estate romana - Fortuna degli slogans Libri, riviste e mostre N. 54.  Disincantamento e restaurazione - Lutyens fra storia e critica - Il Bauhaus e il teatro tedesco - Libri, riviste e mostre N. 55.  Continuità e Protorazionalismo - Se questo è un quadro allora non è un quadro - Gli oggetti di domani - Design come motto di spirito - Libri, riviste e mostre N. 56.  Dall’America. Warhol e Kosuth - Il design dell’«altra avanguardia» - L’International Style cinquant’anni dopo - Libri, riviste e mostre N. 57.  Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58.  E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59.  Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60.  Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61.  Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62.  Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63.  Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64.  Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65.  Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre N. 66.  Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre N. 67.  Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre

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N. 68.  Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69.  Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70.  Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71.  Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72.  Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73.  Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74.  Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75.  Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76.  I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre N. 77.  Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre N. 78.  L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79.  Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80.  Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81.  Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82.  Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre

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N. 83.  Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre


N. 84.  Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85.  Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86.  Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87.  Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88.  L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89.  Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90.  L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91.  «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92.  Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93.  La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94.  Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95.  Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96.  Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97.  Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98.  Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99.  Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre

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N. 100.  Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101.  Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102.  Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103.  Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104.  La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105.  L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106.  Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107.  Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108.  Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109.  Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110.  Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111.  Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112.  Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113.  Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114.  L’architettura italo-europea (fascicolo monografico)

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N. 115.  L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender


Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre N. 116.  Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117.  Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118.  Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119.  L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120.  Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121.  La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122.  L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123.  Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 124.  Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125.  Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126.  L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127.  Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128.  Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129.  Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 130.  Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 131.  Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132.  Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133.  Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134.  Abitare la razionalità - Per una nuova clas­si­ficazione delle arti - Il design ae­ro­nautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135.  Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136.  Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137.  Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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Le pagine dell’ADI Associazione per il disegno industriale

Giovanni Cutolo, I libri dell’ADI Nel dicembre 2004 andai a Napoli insieme a Carlo Forcolini allora Presidente dell’ADI per partecipare, negli spazi di Agorà messi a disposizione da Giuliano Serra, alla celebrazione dei primi quarant’anni di vita di “Op. cit.”, la rivista fondata e diretta da Renato De Fusco. Carlo intervenne raccontando del fascino che da sempre aveva esercitato su di lui, agli inizi della sua carriera nel mondo del design, questa piccola rivista priva di immagini che poneva il design al fianco dell’arte e dell’architettura. Una scelta che già di per sé contribuiva a dare al design uno statuto e una statura, in virtù del semplice affiancamento alle due vetuste discipline molto più ricche di storia e illustrate da poderosi apparati critici secolari. E poi, la rinuncia alle immagini, come a ricordare che non soltanto il bello è nella mente di chi guarda, ma nella mente vi sono anche le idee e le parole necessarie a individuarlo, esplicitarlo e raccontarlo. E poi la sorpresa e l’emozione di italiano nel ritrovare una copia della rivista negli Stati Uniti, sul tavolo di lavoro di un famoso architetto. Nelle ore seguenti la presentazione e soprattutto nella lunga notte dall’aria imbalsamata che seguì portai Carlo in giro per il centro di una Napoli magica come sempre e silenziosa come solo la notte può esserlo. Nel lento tempo sospeso della tipica “camminata” partenopea, in un paio di chilometri o poco più riuscii a convertire il mio amico con la chiacchiera, contagiandolo con i ricordi e l’emozione della nostalgia del transfuga. In effetti, mi fu sufficiente apporre le didascalie della mia memoria al fascino trasbordante dei vecchi palazzi, del lungomare, delle strade strette e dei vicoli, delle piazze e delle fontane, delle persone. Successivamente, in un lungo incontro con Renato De Fusco, prese forma l’idea di liberare “Op. cit.” dall’ingombrante peso della pubblicità che difatti, a partire dal n. 123 del maggio 2005, venne sostituita da sedici pagine, le ultime, destinate all’ADI e gestite a cura dell’associazione. Nella stessa occasione Forcolini, nell’incombenza del cinquantesimo anniversario dalla fondazione, chiese a De Fusco di scrivere una storia dell’ADI. Contempo-


raneamente prese forma l’idea che l’associazione potesse e dovesse curare la pubblicazione di libri allo scopo di contribuire alla costituzione di quell’apparato critico e storico di cui il design ha estremamente bisogno. Voltando le spalle ai libri di fotografie e avendo nella mente e nel cuore l’esperienza di “Op. cit.” immaginammo una collana di libri senza immagini, capaci di arricchire la riflessione intorno al fenomeno design al riparo di ogni possibile finalità promozionale o anche meramente illustrativa. Alla luce di questa modesta ed elementare “linea editoriale” sono fino a oggi apparsi i sette titoli che sono presentati in queste pagine; un ottavo titolo è in preparazione e uscirà entro il 2010. Alla fine del 2005 De Fusco consegnò puntualmente il manoscritto di Una storia dell’ADI che però non uscì come previsto nel 2006, inciampando successivamente nelle elezioni per il rinnovo del Comitato Direttivo a cavallo fra il 2007 e il 2008 e poi ancora nella difficile transizione durata tutto il 2009. Sicché il libro esce finalmente nel marzo 2010 con il n. 5 che gli era stato assegnato in vista di una uscita programmata ma poi rinviata. L’accordo sottoscritto con l’editore Franco Angeli garantisce la stampa e la distribuzione dei testi. L’idea conduttrice che ha sin qui guidato la collana è che il design non possa essere raccontato, insegnato e compreso con il solo aiuto di testi iconici. Così come non è immaginabile che si possa raccontare l’arte con le sole immagini di quadri, sculture o altro o l’architettura con i disegni dei progetti e le foto degli edifici. Di qui l’impegno a dare spazio a qualunque tipo di narrativa, critica, storica, biografica o di pura fantasia che possa, a giudizio del Comitato Scientifico in carica, contribuire a far capire e a diffondere l’idea di design. Riteniamo opportuno rivedere e riprogettare questa nostra attività dotandola di una linea editoriale meglio definita e maggiormente caratterizzata.

Luisa Bocchietto, ADI per i libri L’idea di Carlo Forcolini e di Giovanni Cutolo di supportare la rivista “Op. cit.” mi ha trovata disponibile a proseguire ancora nell’iniziativa da loro intrapresa, come presidente ADI in carica. Il piacere di leggere di design, senza la distrazione delle immagini, rappresenta una vacanza lussuosa per la mente. Nel nostro mondo bombardato dalle sensazioni visive, caratterizzato dalla conseguente adesione immediata, spesso inconsapevole, alle stimolazioni subliminali che ci vengono


continuamente inflitte, poter riflettere sulle parole e sul loro significato è salutare. Forse si paga il pegno di ridurre il numero dei potenziali lettori, ma si può contare sulla loro fedeltà e si può sperare che qualche messaggio giunga a destinazione, per collaborare a una crescita responsabile. Anche la dimensione ridotta e leggera della rivista mi piace. Mi sembra significativa di una volontà di ridurre lo spreco e pure la fatica di portarsi appresso tomi infarciti di pubblicità. Alcune riviste patinate hanno raggiunto ormai dei pesi notevoli rendendo indigesta (nel vero senso della parola) la lettura; ti si appoggiano sul ventre e impediscono il movimento oltre che il libero divagare mentale. Leggera, condensata e rigorosa dunque la rivista, grazie al suo fondatore e direttore Renato De Fusco e in piccola parte, da qualche tempo, grazie al contributo di ADI. Cosa proporre per la collana dei libri ADI, per rimanere in sintonia con questo approccio? Sicuramente testi di riflessione critica, di utilità per i progettisti e le imprese, per gli studenti e gli appassionati di design; testi per capire meglio cosa sia il design italiano che ci contraddistingue e per valorizzare un percorso che unisce tante persone di una qualche sensibilità. Se mi trovo a presiedere questa associazione lo devo alla curiosità di incontrare l’intelligenza altrui, applicata al mondo della creatività, che mi affascina al di là degli oggetti. Il prodotto di disegno industriale è uno strano precipitato di progetto, produzione, distribuzione e comunicazione, che permette di riflettere sul mondo circostante e di esprimere, allo stesso tempo, una visione utopica e concreta. Qualcosa di visionario, ma non così distante dal mondo reale da non poter essere capito da tutti. L’utilità, la forma, l’innovazione sono collegate e garantiscono di restare ancorati all’oggettività. In questo modo, attraverso il limite, è possibile cercare di arrivare alla creazione di qualche cosa di nuovo. A volte accade, ed è bello da vivere e da raccontare. Oltre gli oggetti è interessante, per il design, raccontare le persone, la loro vita, la loro esperienza, le loro riflessioni. Ognuno di noi legge per motivi diversi; personalmente, attraverso i libri, cerco di conoscere gli individui e quando trovo un autore che mi “parla” desidero sapere tutto di lui, mi interessa la sua biografia, il suo percorso. Così, anche per il design, vorrei scoprire tutti i protagonisti, le loro storie, i dubbi e le certezze. Cerco di capire, attraverso di loro, che indirizzo dare alle mie scelte. Dai libri della collana ADI vorrei che altri potessero trovare indicazioni di percorso, come dei sassolini bianchi disseminati da chi ci ha preceduti o


gettati da chi sa vedere più lontano, a suggerire una possibilità. Mi piacerebbe trovare il pensiero che sta dietro al prodotto, che lo precede; sondare la motivazione che spinge alla continua sfida che coinvolge il progettista e l’imprenditore; descrivere il processo creativo, per come si svolge, tra la mente che sogna e la mano che disegna. Forse accanto alle parole potrebbero esserci disegni in forma di pensieri, come ha fatto Mari recentemente, come alcuni iniziano timidamente a fare, dopo l’eccesso delle immagini reali e/o digitali così perfette, troppo perfette, così poco umane.

Enrico Morteo, Libri di design per il pubblico di oggi In un mondo che sta cambiando a velocità accelerata, sarebbe ingenuo non riconoscere le molte trasformazioni che stanno interessando il particolarissimo settore dell’editoria e, nello specifico, quello dell’editoria di architettura e di design. Infatti, da diversi anni è in atto un processo di radicale riorganizzazione dell’intero paesaggio editoriale, di cui il sintomo più visibile, ma certo non l’unico, è l’oramai cronico stato di crisi delle riviste illustrate, per tutto il Novecento fiore all’occhiello dell’editoria italiana. Solitamente, l’origine della crisi viene identificata con l’affermarsi dei nuovi linguaggi elettronici, che avrebbero dirottato l’attenzione dei lettori verso i nuovi media digitali. Non c’è dubbio che l’efficacia e la versatilità del computer unita alla accessibilità di internet abbiano in effetti modificato la scena, moltiplicando gli attori e i modelli della comunicazione: siti web, agili riviste realizzate con la formula di un artigianato digitalizzato, discorsive newslet­ ter hanno in effetti eroso il bacino di utenti delle riviste tradizionali, alterando profondamente le consolidate modalità di fruizione e di lettura. Di per sé un male relativo, che avrebbe solo disegnato nuovi equilibri del mercato editoriale. Personalmente però ritengo che, per quanto determinante sia il ruolo dei recenti supporti mediatici, questi siano solo gli strumenti e non le cause della trasformazione. Se così fosse, infatti, sarebbe stato sufficiente alle testate più prestigiose adeguare la propria formula alle esigenze di una diffusione digitale per fronteggiare il cambio di scenario. Certo, non possiamo trascurare il modificarsi dei modelli di lettura, sempre più condizionati dalla velocità di fruizione delle sole immagini, a scapito della dimensione dell’approfondimento solitamente delegata alla lettura. Ma, proprio grazie alla storica


presenza delle fotografie, neanche questo avrebbe dovuto essere un ostacolo insormontabile. Per quanto con comprensibili difficoltà, sia le redazioni che gli indispensabili investitori pubblicitari avrebbero potuto accompagnare e sostenere senza eccessivi traumi il passaggio verso una nuova dimensione “virtuale” dei supporti. Ma così non è stato. Credo che ciò si debba a un mutamento di statuto dei valori e delle idee e, par conséquence, della loro divulgazione. In altre parole, credo che il mutare dell’editoria, più che a fatti tecnici, si debba a cambiamenti assai più profondi delle strutture sociali e culturali, che non possono non riflettersi anche nell’elaborazione delle teorie e delle notizie, materia prima per libri e riviste. Proviamo allora ad avvicinarci a una delle figure che forse meglio rappresentano la nostra contemporaneità, ovvero la famigerata globalizzazione. Apparentemente il termine descrive una nuova condizione geografica, resa densa e veloce dalla rete dei sistemi di comunicazione oggi disponibili. In realtà la globalizzazione ha solo in parte “allargato” i confini del mondo (le periferie del pianeta rimangono tutt’ora periferiche, sebbene sempre più spesso entrino negli obiettivi di telecamere e macchine fotografiche). Più che alla dimensione del globo, il termine sembra riferirsi a una nuova facilità di accesso alla ribalta del mondo, senza che questo comporti il dover superare filtri o sbarramenti selettivi che in qualche misura stabiliscono gerarchie di valore, di attendibilità, di importanza. Chi vuole dice la sua, in un coro che oramai ha minato il fondamento di autorevolezza delle informazioni, delle notizie, dei fatti. A partire dalla immagini, oramai “eventi” di per sé, del tutto indipendenti dalla ‘realtà’ fattuale di cui dovrebbero essere rappresentazione, evocazione o prefigurazione, fino agli oggetti e alle teorie interpretative, è in atto una competizione non più basata sulla fondatezza o sulla credibilità, bensì sulla mera visibilità. Una condizione che ineluttabilmente si riflette nei modi stessi con cui si immaginano e si realizzano oggetti e progetti, sempre più spesso deliberatamente concepiti come forme a effetto, capaci di colpire la retina più che di instaurare durature relazioni di senso (con il paesaggio, con il pubblico, con il futuro…). Più che a una trasformazione dell’editoria, sembra piuttosto di assistere a un cambiamento di paradigma delle discipline del progetto e della creatività (e già l’uso di questa parola è sintomo di profondi cambiamenti) e, più in generale, della cultura, a partire dalle arti fino alle forme della politica.


Paradossalmente, questo cambio di scenario sembra aver colpito più duramente il veloce mercato delle riviste che quello più posato dei libri, che pare invece aver saputo trovare risposte più coerenti con le mutate aspettative dei lettori. Nel settore dei libri di architettura e design non era mai capitato di assistere a una fioritura di volumi biografici, raccolte antologiche, volumi a schede e regesti di progetti, quale quella verificatasi negli ultimi anni. Per quanto si tratti spesso di libri voluminosi, il loro è il peso dell’accumulazione, frutto dell’addizione di elementi semplici. Sempre guidati dal più o meno esplicito modello dell’elenco (tutti i lavori di un autore; tutti i progetti di una regione; una selezione di stanze d’albergo; una storia scomposta in brevissimi capitoli) sono volumi che possono essere affrontati per parti, che non richiedono eccessiva continuità e profondità di lettura, che comunque affidano alla microstruttura formata da immagini e didascalie il compito di costruire un percorso semplificato di fruizione. A pagare il prezzo di queste nuove formule editoriali sono gli approfondimenti storici e critici, non a caso da tempo quasi del tutto scomparsi dai cataloghi degli editori e, forse, dalle ambizioni degli studiosi e degli specialisti. Definito per sommi capi lo scenario, possiamo provare a ritagliare una linea di indirizzo che orienti le scelte di una collana editoriale edita da una associazioni di professionisti del design quale è l’ADI. Pare abbastanza evidente che, essendo quello della riflessione e dell’approfondimento critico il territorio meno occupato dagli editori tradizionali, sia logico orientare in quella direzione le iniziative editoriali. Questa premessa peraltro non fa che confermare lo spirito originario della collana dei libri ADI, che con questo spirito ha iniziato da qualche anno le sue pubblicazioni. Poiché però, come abbiamo visto, quello della saggistica di settore rappresenta la parte meno ricca del mercato, occorre muoversi con accortezza. Tenuto conto dell’identità istituzionale dell’ADI, associazione prestigiosa, credo sia indispensabile non solo allestire una proposta editoriale di impeccabile serietà e grande autorevolezza, quanto di trovare formule coerenti con gli interessi e le modalità di lettura del pubblico contemporaneo. Chiamati in causa, proviamo a immaginare quale possa essere la platea ideale dei lettori di una simile collana: gli associati, certo, ma anche gli addetti ai lavori, i giornalisti di settore e gli studenti universitari. Oltre a saggi critici che analizzino le trasformazioni del design contemporaneo (ma si tratta proprio del tipo di saggio più difficile da


immaginare oggi), credo che servano materiali di prima mano, documenti e testimonianze. Non grandi racconti riassuntivi e neppure esercitazioni accademiche, quanto approfondimenti e casi specifici. Tali temi dovrebbero o potrebbero ricalcare la pluralità di aree che la stessa ADI rappresenta, dai progettisti alle aziende, dalla distribuzione all’exhibit design, dalla grafica alla stessa editoria. Casi circoscritti per libri di foliazione altrettanto contenuta: 120 pagine mi paiono personalmente già moltissime quando un testo non si avvale di uno smagliante corredo iconografico. Si tratta anche di scegliere linguaggi semplici, come ad esempio le interviste. Fare libri però, non richiede solo di individuare i propri lettori potenziali, ma anche di disporre di un cospicuo numero di autori potenziali. Per quanto i soci ADI siano numerosi, volonterosi e duttili, non possiamo pensare che siano tutti desiderosi o capaci di scrivere libri. È necessario allargare il proprio orizzonte e cercare anche fuori dall’associazione chi possa essere sollecitato a produrre contenuti per la collana dei libri ADI. Di recentissima costituzione, l’Associazione Italiana Storici del Design potrebbe essere a tal fine un partner particolarmente interessante per sviluppare collaborazioni di reciproco interesse. In alcuni casi anche l’università potrebbe essere un serbatoio cui attingere, evitando però di scadere nel ruolo di editore al servizio delle logiche meramente carrieristiche di tanta editoria accademica. Simmetricamente, non essendo comunque l’ADI un editore, non credo siano da escludere collaborazioni con editori più tradizionali. In questa prospettiva si può anche immaginare di affrontare avventure più impegnative, come la traduzione di lavori stranieri e, nei casi più fortunati, ipotesi di coedizione. Ovviamente, queste brevi e rapide note non sono né ambiscono a essere un progetto editoriale, quanto un piccolo contributo che solo il Comitato Direttivo dell’associazione potrà raccogliere ed eventualmente sviluppare.

Renato De Fusco, Una collana come un albero Nei testi precedenti è stato raccontato come avvenne l’incontro del­l’ADI con «Op. cit.»; sono espressi positivi giudizi su quest’ultima, nata e pubblicata costantemente dal 1964, conservando l’originario programma e persino la veste grafica; viene ricordata l’idea di Cutolo e Forcolini di sostenere il periodico, utilizzandolo come una pubblicazione della associazione milanese. Tuttavia essi capirono che non


si trattava di un notiziario, ma di piccolo organo di stampa, basato principalmente su due idee. La prima era quella di dar conto di brani testuali (donde il nome della rivista), elaborati criticamente dai redattori e la seconda di rendere «concettuali» le immagini, solitamente punto di forza delle pubblicazioni d’architettura, d’arte e di design. Quanto alla prima idea, leggiamo ciò che si sosteneva nel primo editoriale-programma. Nostro iniziale intento era « di offrire una selezione della critica d’arte figurativa contemporanea. Intendiamo per selezione non una scelta esaustiva di tutto quanto si pubblica intorno alle arti visive – compito per il quale non siamo sufficientemente attrezzati – ma una esposizione dell’attività critica, soprattutto metodologica, ottenuta mediante l’esame di alcuni temi di maggiore interesse attuale. Ogni tema verrà svolto come una composizione di parti selezionate da saggi di estetica, di critica, di poetiche che, citate testualmente, verranno unificate in un discorso e corredate del maggior numero di annotazioni e indicazioni bibliografiche. Riteniamo con questa formula di fornire uno strumento utilizzabile sia in senso divulgativo, sia al livello della ricerca specialistica. Ma la selezione operata attraverso un certo numero di temi non risolve soltanto una difficoltà tecnica, qual è quella di limitare l’intera produzione critica entro pochi argomenti; oltre a ciò, l’elaborazione di ciascun tema, già scelto per un suo peculiare carattere, consente una esposizione che, per quanto composita, referenziale e informativa, non può, a sua volta, non essere critica». La seconda idea programmatica nasceva dal fatto che la sostituzione delle immagini con i concetti, forse dettata anche da ragioni economiche, doveva essere compensata da un adeguato numero di osservazioni, critiche e teorie che andassero oltre ciò che promettevano le figure. Nacquero così inchieste del tipo La critica discorde, nella quale si raccoglievano i giudizi dei maggiori studiosi internazionali contro l’arte moderna; indagini sul rapporto fra Architettura e mass media; la teoria della «Riduzione» culturale, intesa come ricerca dell’essenziale e delle invarianti strutturali: le proposte per un rinnovamento della storiografia; gli studi sulla semiologia dell’architettura, delle arti, del design; quelli sull’ermeneutica e le sua applicazioni progettuali, ecc. Alcuni di questi temi fanno ora parte della collana dei libri ADI, caratterizzata dalla grafica inconfondibile del compianto Bob Noorda. Nelle 16 pagine del presente fascicolo di «Op. cit», si inizia a discutere sugli sviluppi di tale collana.


Sebbene finora la collana si presenti, nei sette titoli finora pubblicati, abbastanza soddisfacente, tutti avvertiamo la necessità di una sua crescita qualitativa e quantitativa; donde le numerose proposte. La prima vorrebbe che la collana fosse più consona alla tecnologia digitale, per essere evidentemente al passo coi tempi, ma è indubbio che dovrebbe mettersi in fila rispetto ai numerosi precedenti; la seconda pensa a una serie di opere che, accanto ai testi, rechi immagini più o meno patinate, ma questo tradirebbe la principale specificità di «Op. cit.», vale a dire, come s’è visto, la sua scommessa di ridurre il visivo al «concettuale», specie in un momento in cui i concetti si sono messi in vacanza. Peraltro, il paradosso di «Op. cit» – uno dei genitori della collana ADI – ricorda un altro precedente paradossale: «la storia dell’arte senza nomi» vagheggiata da Wölffin, ma che tanta influenza ha avuto rispetto ad altri autori di biografi e agiografie; la terza ipotesi per la nostra collana è quella di una maggiore ricettività del gusto del pubblico, ma in tal caso potremmo superare quelle riviste e libri di design affidate solo allo snobismo. Trascuro in questa sede altre ipotesi innovative, confermando solo ciò che non si dovrebbe fare. Esiste un modello di cui una collana editoriale può essere una utile metafora: l’albero. Anzitutto, soggetto a un processo vitale, esso non è antico né moderno. Lo si può pensare come una struttura, al tempo stesso con crescita spontanea e modificata dalla mano dell’uomo. Specificando la metafora, il fusto sarebbe equivalente all’asse portante del sistema design (nel nostro caso l’ADI); ai rami andrebbero associate le varie merceologie, poiché non esiste un solo design ma tanti quanti sono gli oggetti quotidiani; le foglie corrisponderebbero all’uso dei materiali; i frutti, evidentemente sono l’esito positivo, godibile e consumabile, ecc. Assunto come paradigma l’albero, esso suggerirebbe il posto di ogni libro della collana specificamente dedicato a un argomento. Si potrebbe obiettare che al posto dell’albero sto parlando di un grafo, ossia di uno schema matematico costituito da nodi e da segmenti per risolvere o illustrare problemi logici, ma non è cosi, lo schema dell’albero comporta tutto quanto pertiene alla natura, alla sensazione materiale, all’imprevisto, perfino al cosiddetto scherzo di natura che si manifesta non puntualmente, ma così come capita, al pari della fantasia, materia prima del nostro design.


ADI

Una semiotica per il design

ASSOCIAZIONE PER IL DISEGNO INDUSTRIALE

Renato De Fusco

FrancoAngeli Nella letteratura sul design si trovano spesso riferimenti semiotici, così come nei testi di semiologia accenni al design, dando per nota a tutti, benché indefinita, la conoscenza dell’uno come dell’altro campo. Questo saggio invece guida il lettore verso una basilare, precisa, quanto riduttiva, cognizione delle due esperienze e del reciproco rapporto sia critico che progettuale. A partire dal titolo muove dal binomio semiotica e design, fornendo una definizione di entrambe le esperienze, con intenti di chiarimento e di divulgazione. Prosegue nella proposta di una classificazione delle varie mercecologie dei prodotti industriali, volta a raggruppare il maggior numero di oggetti nel minor numero di categorie. Ciò a dimostrazione che il design, inteso come la sintesi di quattro momenti (il progetto, la produzione, la vendita e il consumo), presenta sia aspetti unitari che molteplici. La seconda parte del testo è tutta dedicata all’applicazione al design dei principali concetti della semiologia, dedotti dalla linguistica strutturale.


Patrizia Scarzella Valentina Downey

ADI

Il Giurì del Design

ASSOCIAZIONE PER IL DISEGNO INDUSTRIALE

a cura di

FrancoAngeli Il Giurì del Design, fondato su iniziativa di ADI e Confindustria nel 1992, si basa su un codice di autodisciplina per garantire l’originalità delle creazioni del disegno industriale, contro imitazioni e comportamenti scorretti. Il libro racconta l’intensa attività del Giurì, i casi esaminati relativi ad aziende e designer, le ultime sentenze della magistratura basate su giudizi espressi dagli avvocati ed esperti del Giurì del Design, riconosciuto come l’unico strumento di giudizio autorevole nelle controversie in materia di disegno industriale Contributi di Lorenzo Biglia, Paolo Boffi, Giulio Castelli, Giovanni F. Casucci, Mathias Dekhumann, Carlo Forcolini, Mario Franzosi, Giancarlo Iliprandi, Antonio Macchi Cassia, Pierluigi Molinari, Maurizio Morgantini, Rodrigo Rodriquez, Marc Sadlez, Giuseppe Sala.


Antologia di saggi sul design in quarant’anni di

ASSOCIAZIONE PER IL DISEGNO INDUSTRIALE

Alessandra De Martini Rosa Losito Francesca Rinaldi

ADI

a cura di

FrancoAngeli Gran parte dei saggi sul design pubblicati nell’arco del 1964 su “Op. cit.”, periodico quadrimestrale diretto da Renato De Fusco, dedicato alle arti visive, ma rigorosamente senza immagini, in bianco e nero e senza carte patinate; caratteristica questa, che denuncia il suo carattere essenzialmente teorico nato dalla precisa volontà di ridurre tutto il visibile al dicibile o, meglio, tutto il percettivo al concettuale. Lo sviluppo della vicenda del design viene seguito con tutti i moti e le oscillazioni del gusto dagli anni Sessanta a oggi per cogliere, allo stesso tempo, nella complessità e variabilità degli eventi, gli aspetti costanti, universali e, come tali, sempre vivi. Contributi di Giulio Carlo Argan, Rosario Assunto, Alessandro Castagnaro, Giovanni Cutolo, Gabriella D’Amato, Gelsomino D’Ambrosio, Antonio D’Auria, Renato De Fusco, Gillo Dorfles, Pino Grimaldi, Cettina Lenza, Giuseppe Lotti, Ezio Manzini, Enzo Mari, Carlo Martino, Filiberto Menna, Bruno Munari, Vanni Pasca, Lucia Pietroni, Livio Sacchi, Maria Cristina Tonelli Michail, Vincenzo Trione.


% “Questa importante e approfondita indagine sulla situazione della forma ! $ zione per il ! design in Italia Dalia senz’altro op compiuta

da Gallico, era al pubblico $ ! ! portuna per ! permettere, non solo profano ma agli stessi prota- ' ( gonisti di questa disciplina, di rendersi conto di quale posizio' (! #& ' (sia l’attuale ne, la consistenza, e soprattutto di quali siano gli aspetti positivi (per fortu " ! ! !

# ! ! ! na parecchi) e quelli negativi (purtroppo ancora molti), del settore�. (Gillo ! ! Dorfles) Si # $ approfondiscono dati quantitativi relativi a: didattica, numero degli studenti, tasse iscrizione, numero dei laboratori ecc. Inoltre di

! ! una ! # $ ! serie di interviste a imprenditori, dirigenti, docenti, esperti e progettisti, ! ! # $ che aprono un sipario tra formazione, futuro professionale e mondo del lavoro. Lo studio sulla formazione al design in Italia è l’occasione per riflettere su cento scuole pubbliche e private, sui diversi approcci, sulle caratteristiche, sul futuro. Da una parte con l’obiettivo di capire e conoscere, le necessitĂ richieste, le varie funzioni, i profili piĂš ricercati. Dall’altra per dare una traccia di riferimenti semplici e chiari per spunti di riflessione.


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Il design che prima non c’era

ASSOCIAZIONE PER IL DISEGNO INDUSTRIALE

Renato De Fusco

FrancoAngeli Più inventori che stilisti, i designer cui è dedicato questo saggio appartengono alla più giovane generazione di progettisti appena usciti o quasi dalle scuole e dalle facoltà italiane di Disegno industriale. Essi sono stati distinti per i loro progetti e prodotti che non appartengono al genere del furniture design, in generale satura di modelli, ma ad altri, alcuni dei quali del tutto inediti. Il libro, per classificare quest’ultimi, li ha connessi ad alcune tendenze delle arti figurative (pop art, arte povera, ready made modificati e simili) così da tradurre le produzioni in concezioni, ovvero materie utili alla didattica del design. Non seggiole, tavoli e poltrone sono l’argomento di questo saggio, bensì altri generi di design, i cui prodotti sono spesso addirittura inediti e sollecitati dalla spinta dell’ironia. Per classificarli sono stati tradotti da oggetti in concetti, in idee cioè utili per comunicare, insegnare e imparare il disegno industriale.


Creatività mercantile e Progetto di consumo

ASSOCIAZIONE PER IL DISEGNO INDUSTRIALE

L’Edonista Virtuoso

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Giovanni Cutolo

FrancoAngeli “L’edonista maturo sa cosa vuole, perché ha imparato a organizzare i propri desideri”. Dopo 20 anni dalla prima edizione, il contenuto visionario di questo libro non si è soltanto attualizzato nella realtà dei consumi contemporanei, ma rappresenta un modello ancora valido e auspicabile. “Una delle tesi di Cutolo”, afferma De Fusco nella sua prefazione a questa edizione, “è di puntare proprio al progetto”. Anche a quelli “della produzione, della vendita e persino del consumo. Quest’ultimo assunto mi sembrava una contraddizione: come si fa a progettare qualcosa che non si poteva programmare date le poco attendibili ricerche di mercato, e segnatamente le scelte che il consumatore faceva di testa sua, confermando il motto de gustibus non est disputandum? Diversamente da come pensavo, oggi è proprio il consumo che va progettato. E ciò non solo perché è più utile e significativo partire dalla domanda piuttosto che dall’offerta che, specie nel settore del forniture design, non sembra dire molto di nuovo, mentre tanto c’è ancora da scoprire nella sociologia del consumo e nei moti del gusto”.


ASSOCIAZIONE PER IL DISEGNO INDUSTRIALE

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Una storia dell’ADI

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Renato De Fusco

Istituzione dell’ADI, Compasso d’Oro, mostre di design in Italia e all’estero, presidenti e comitati direttivi della più antica e autorevole associazione del design italiano, attiva dal 1956: tutte le informazioni relative ai programmi, all’organizzazione, alla politica culturale e alle finalità dell’associazione, intrecciate alla storia del Premio Compasso d’Oro, istituito da la Rinascente nel 1954. L’accostamento indica la doppia natura di entrambe le istituzioni: pratica e ideale, organizzativa e culturale, economica ed estetica. Muovendo da tale polivalenza il libro, nel narrare i fatti del contesto socio culturale a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta (miracolo economico, società dei consumi di massa, movimento del ’68) fino ai giorni nostri, pone in evidenza le opere e i personaggi che hanno fatto la storia del design in Italia negli ultimi cinquant’anni. Contributi dei presidenti dell’ADI Enzo Mari, Giotto Stoppino, Angelo Cortesi, Pierluigi Molinari, Giancarlo Iliprandi, Carlo Forcolini, Luisa Bocchietto.



ISSN 0030-3305

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