Op. cit., 139, settembre 2010

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numero 139

Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro - L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli

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Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Alessandra de Martini, Emma Labruna, Livio Sacchi Segreteria di redazione: Rosa Losito Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 081/7690783 Amministrazione: 80121 Napoli, Via dei Mille, 16 - Tel. 081/4297440 Un fascicolo separato e 9.00 (compresa IVA) - Estero e 10.00

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P. Scala, Cinque voci sulla venustas in architettura L. Pietroni, Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro S. Perna, L’immagine-processo. Media digitali e design del codice F. Lanz, Yacht design P.P. Peruccio, Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Renato Capozzi, Livia Falco, Valeria Pagnini, Titti Rinaldi.

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Cinque voci sulla venustas in architettura PAOLA SCALA

Nel numero 136 di questa rivista Emanuele Carreri ha pubblicato un articolo dal titolo: Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia, un divertente dialogo, una sorta di taglia e cuci tratto dal blog che da marzo a maggio 2009 si è tenuto sul sito web www. eurau10.it. Il dialogo tra Bellezza, Architettura, Mercato e Democrazia si svolge a New York, lungo la rampa che lega i sette livelli del Guggenheim (primo e ultimo edificio che ascolti le ragioni di architettura, mercato e democrazia, e sia anche bellissimo). Quel giorno il Guggenheim ospita – guarda caso – una mostra sull’architettura contemporanea: tante immagini, pochi e aforismatici commenti. Alla Bellezza non piace la piega che stanno assumendo le cose nel mondo, e medita, arrivata in cima alla rampa, di buttare giù almeno uno dei suoi interlocutori. Ma neanche Architettura, Mercato e Democrazia sembrano tanto tranquilli1. Nei giorni 23, 24, 25 e 26 giugno 2010, è stato «messo in scena» un nuovo dialogo tra architettura mercato e democrazia, non sul palcoscenico del Guggenheim di New York, ma su quello del Centro Convegni Partenope di Napoli, dove si è svolta non una mostra di architettura ma «Eurau 10», 5° edizione delle giornate Europee della Ricerca Architetto-

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nica e Urbana, convegno dal titolo: Venustas, architettura/ mercato/democrazia. L’edizione napoletana, coordinata e diretta da Roberta Amirante della Facoltà di Architettura di Napoli, si proponeva dunque di indagare e organizzare un confronto tra le tante, possibili interpretazioni del concetto di venustas in epoca contemporanea. I circa centosettanta interventi dei relatori provenienti da tutta Europa, selezionati per partecipare alle quattro giornate di studio, costituiscono altrettante risposte alle domande poste dagli organizzatori del convegno nel call for paper lanciato nell’ottobre del 2009: è possibile ancora oggi parlare di una «bellezza» tutta interna all’architettura? Il termine bellezza è effettivamente il più appropriato per raccontare la venustas dell’architettura nel tempo del mercato e nell’epoca della democrazia moderna? E comunque è ancora la «bellezza» una necessità per l’architettura di oggi, utile a spiegare il rapporto degli uomini con il mondo e con il tempo? E ancora: come coniugare necessità e «bellezza», qualità e «bellezza»? Questo compito spetta ancora a qualche «maestro»? O alle «scuole» pensate come luoghi dove si costruisce la circolarità del sapere? E in ogni caso, come coniugare creatività e regole, disciplina e immaginazione? O, nell’epoca della «rete», sono altri i luoghi e gli strumenti con cui si costruiscono e si trasmettono le tante, variate interpretazioni della «bellezza»? Ed infine: come si costruisce la domanda di «bellezza»? E come si valuta la «bellezza»? Chi la valuta e su quali molteplici canoni? È possibile insomma indagare le modalità attraverso cui oggi la venustas viene colta, interpretata e messa in forma?2 Nella giornata introduttiva del convegno Renato De Fusco, Gustavo Zagrebelsky, Marco Romano e Michele Salvati, hanno tracciato, ciascuno dal proprio specifico disciplinare, un quadro teorico di riferimento, costruendo, di fatto, lo scenario sul quale, nei giorni successivi, si sono confrontate le relazioni dei convegnisti. Gli interventi dei centosettanta relatori sono stati sviluppati nell’ambito delle sessioni parallele, organizzate secondo le tre tematiche


principali individuate dagli organizzatori del convegno – progettare la venustas, trasmettere la venustas, costruire la venustas. A partire dagli esiti del congresso, è possibile cominciare a ragionare sulla voce «venustas» di un possibile dizionario di architettura contemporanea, provando a inquadrare le diverse posizioni contenute negli interventi dei partecipanti alle giornate, nell’ambito di un più ampio dibattito architettonico. I cinque significati del termine venustas che seguono, sono dunque costruiti alla maniera di Op. cit, ovvero rintracciando una struttura di relazioni tra citazioni tratte dagli articoli pubblicati nei pre-atti del convegno (attualmente disponibili sul sito www.eurau10.it) e posizioni teoriche espresse dalla critica architettonica contemporanea. Venustas: 1. qualità propria dell’architettura sia intesa come disciplina che come opera, rinvenibile cioè nel carattere e nella forma dell’opera stessa e nel sistema di regole che ne definiscono la struttura. Secondo Renato De Fusco, venustas e bellezza sono sostanzialmente la stessa cosa, definita quasi per intero dalla symmetria vitruviana da lui stesso associata all’idea di standard: a qualcuno dispiace se associo l’idea dello standard alla symmetria vitruviana e se sostengo che questa definisce quasi per intero la bellezza in architettura?3 La symmetria teorizzata da Vitruvio, da non confondere con la simmetria bilaterale, definisce la relazione tra le singole parti e il tutto dell’opera: la composizione del tempio si basa sulla simmetria i cui principi l’architetto deve rispettare scrupolosamente. Essa del resto nasce dalla proporzione che in greco è detta άναλoγlα. La proporzione non è altro che la possibilità di commisurare, secondo un modulo fisso, le singole parti di un’opera e l’insieme nel suo complesso […] senza rispettare simmetria e proporzione nessun tempio può avere un equilibrio compositivo come è perfetta l’armonia di un uomo ben formato4. Nel terzo libro del De Architectura dunque, Vitruvio lega il concetto di symmetria alla parola greca

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άναλoγlα. Il termine ha una carica semantica che meglio racconta le implicazioni anche figurative di un sistema di regole «analogo» a quello del corpo umano: un sistema di proporzioni che, in quanto tale, esprime un rapporto gradito alla vista, in quanto commensurabile si esprime in termini numerici. Nella symmetria vitruviana, non è importante l’unità di misura – che nel corpo umano è il pollice, il palmo o il piede, nel tempio è la grossezza delle colonne o del triglifo e nelle navi è l’interscalmio – ma il sistema di regole che assicura l’armonia dell’opera. Il modulo non è perciò un modulo-natura, ma un modulo-misura: in Vitruvio, il modulo è mero principio metrico: non pretende di riflettere una profonda legge di natura, ma mira soltanto ad assicurare un’armonia di effetti visivi5. In altre parole nell’idea di symmetria vitruviana, l’armonia dell’opera non dipende dai singoli elementi che compongono lo spazio, riconoscibili come forme (colonna - pilastro - arco - etc.), come accade ad esempio nel Barocco, ma dalla commensurabilità della singola parte con il tutto. Secondo Argan infatti nello spazio costruito da forme la bellezza non è l’esito di un processo ripetibile e trasmissibile poiché il valore della forma non dipende solo dalla propria morfologia, ma dalla propria situazione; mentre l’oggetto è sempre ripetibile, né può mutare con il mutare della propria situazione spaziale6; ecco dunque apparire in tutta evidenza quel fil rouge teorizzato da De Fusco, nel suo intervento introduttivo al convegno, tra il concetto di symmetria vitruviana e l’idea moderna di standard, che non è un tipo di forma, ma un tipo di oggetto […] e come tale prende il posto che aveva, nel processo della progettazione classica, il modulo: tanto da potersi affermare che la grande scoperta dell’architettura moderna è la sostituzione del modulooggetto al modulo misura7. La venustas come qualità intrinseca all’architettura, legata cioè alla sua struttura, non è riconducibile ad un determinato momento storico e dunque, anche in epoca contemporanea, il compito di coniugare necessità e bellezza, qualità e bellezza non può che essere affidato a quella scuola e


segnatamente a quel maestro che si assume la responsabilità di suggerire precise norme […] a quei maestri che non si lasciano suggestionare da mode passeggere quali il postmodern o il riduzionismo, distinguendo la modernità dal modernismo e contando ancora sui fondamenti, magari mai studiati e approfonditi prima8. L’idea di una venustas intesa come continuo ri-fondamento della disciplina architettonica, esito di un processo compositivo che poggia su di una teoria e su di una tradizione disciplinare è uno dei temi trasversali che viene sviluppato da molti degli interventi discussi nelle quattro giornate del convegno. La condizione per superare i fascini del tatuaggio e della grafomania che insidiano l’architettura è, come sempre, la riflessione sull’architettura stessa: l’osservazione e la comprensione dei manufatti che ne costituiscono il corpo disciplinare e la memoria materiale9. Questa idea di una venustas contenuta nella struttura stessa dell’opera, nell’ordine della sua composizione, nella disposizione dei suoi elementi sembra ancora oggi una possibile risposta alla domanda posta dal mercato e dalla democrazia su una possibile individuazione di «parametri di valutazione» della qualità estetica di un’opera, che non si esauriscano nella soggettiva sensibilità di chi valuta. Gio Ponti sosteneva che nella nostra cultura tutto è simultaneo e che dunque non possono esistere fratture storiche e/o tecniche nel giudicare l’architettura antica e moderna dal momento che i termini di giudizio per giudicare l’architettura […] trascendono dall’epoca stessa e dai suoi materiali in un ricorso esclusivamente spirituale a perenni e immutabili termini di pensiero10. In molte delle relazioni presentate al convegno è evidente la volontà di non cedere alla tentazione di confinare la bellezza in architettura nell’ambito della sola sfera della percezione personale e del gusto soggettivo, – non più soltanto pulchritudo ma di nuovo venustas11 – richiamando invece gli architetti ad una tradizione disciplinare che insegna che la bellezza dell’opera di architettura non può prescindere dalla ricerca di un sistema di regole e dalla individuazione di una struttura che definisca un ordine

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chiaramente intelligibile, nella consapevolezza che lo spazio architettonico non può esistere senza struttura12. È nella ricerca di una bellezza trasmissibile in termini tutti interni alla disciplina che alcune di queste relazioni individuano un possibile rapporto tra venustas e democrazia, altrimenti negato dalla condizione limite della nostra epoca: venustas vs democrazia, dove la vera venustas è negata ad una collettività in-consapevole13 perché travolta dalla cultura dei media che ha come corollario il fatto che, a poco a poco, l’osservatore è diventato sempre più passivo14.

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Venustas: 2. Qualità estetica ed etica dell’architettura, capace di coniugare cioè i caratteri formali dell’opera con esigenze di carattere funzionale, economico e di svolgere un ruolo attivo nell’educazione e nella responsabilizzazione della collettività. Alla venustas, viene dunque affidato il compito di superare una dimensione estetica tout-court dell’architettura e di recuperare una sua qualità etica15 che impone di non considerare il manufatto architettonico come un oggetto autonomo e autoreferenziale, ma come elemento di una struttura più ampia – città, territorio, paesaggio. La venustas, co­me sintesi della qualità etica ed estetica dell’opera, costringe perciò l’architetto a riflettere sulla responsabilità del progetto con la sua capacità di ingombrare durevolmente il mondo e di influenzare in maniera diretta la nostra vita quotidiana16. Alla dimensione etica della venustas fanno riferimento anche tutti quegli articoli che ne danno una interpretazione più «oggettiva», valutabile in termini di sostenibilità ambientale e di rispondenza a precisi requisiti come quelli del­ l’abitare contemporaneo. Senza voler, anche qui, soffermarci sugli aspetti morali, che dovrebbero appartenere in diversa misura alle singole coscienze, ciò che appare importante per la definizione della moderna «venustas» è la necessaria attenzione ad alcune implicazioni etiche del costruire sostenibile, intendendo questo termine nel­ l’accezione più ampia possibile17. Dal momento che, nel­


l’epoca della tecnica è stata definitivamente espulsa la dimensione estetica connessa a quella etica del progresso, facendone un elemento a sé stante e autoreferenziale18, è oggi più che mai necessario indagare su di un concetto di venustas che non produca una scissione tra l’immagine del­ l’opera e la sua sostenibilità tecnica ed economica «tradendone» la funzione. Si tratta di recuperare cioè, oltre a un nuovo equilibrio tra firmitas, utilitas e venustas, il valore di altre componenti vitruviane come il decoro, inteso come appropriatezza della forma alla funzione e la distribuzione intesa come misura della giusta spesa moderata dalla ragione. Il rapporto forma – funzione oggi, da binomio sostenibile legato a tecniche e a saperi locali, è divenuto antitesi, con soluzioni identiche per ogni contesto territoriale, basate su largo uso di tecnologie ed impianti come unica risposta ai criteri di comfort e vivibilità degli edifici19. All’idea di una architettura indifferente ai valori del contesto nel quale si inserisce, incapace di stabilire una relazione con la storia e la geografia del luogo che interviene a modificare e a creare, si oppone la necessità di una risposta e(ste)tica alla crescente domanda di qualità proveniente dal mercato. La nostra società infatti chiede proprio all’urbanistica e all’architettura di affrontare i grandi temi della contemporaneità che sono la domanda sociale, la qualità urbana, l’ambiente, la residenza, la mobilità, un prodotto edilizio ecologicamente sostenibile … pertanto «Bello» nel senso che abbia grazia e armonia con il contesto, […] emerge il bisogno di far percepire i luoghi costruiti come luoghi sistemici, superandone la visione del funzionamento atomizzato che identifica ogni edificio come ambiente isolato20. Venustas: 3. Capacità del progetto di lavorare sulle differenze per strutturare nuove relazioni tra frammenti di paesaggi diversi costruendo una immagine «nuova» ma congruente con le tracce del passato. Nel passaggio da un’interpretazione più interna al corpus disciplinare architettonico a quella di una sua maggiore

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aderenza alle richieste attuali del mercato, l’idea di venustas si apre dunque al luogo. Questo spostamento dello sguardo ci impone di leggere il singolo manufatto come parte di un sistema di nessi più ampio, di una struttura nella quale la disposizione degli elementi non è più semplicemente legata alla ricerca di un’armonia interna dell’opera e ad un sistema di regole interno alla disciplina, ma ai caratteri del luogo, alla sua architettura fatta di forme che sono memoria e traccia della sua storia e della sua geografia. L’apparire dei luoghi obbliga il progetto ad abbandonare l’astrazione di un modello universale e a specificarsi rispetto al contesto nel quale si inserisce, una specificità che non è mimesi stilistica ma capacità di leggere, interpretare e tradurre in forma le relazioni di uno specifico contesto21. Dalla composizione architettonica al progetto urbano, se i principi dell’architettura rimangono immutabili nel tempo sono i materiali del progetto che cambiano. L’analisi urbana negli anni ’60 si è misurata con la città storica e con le sue regole, l’architettura contemporanea è oggi invece chiamata a lavorare con nuovi materiali: il vuoto, le aree di margine, i recinti delle aree industriali dismesse; materiali urbani spesso «vuoti» di significati o al contrario ridondanti di messaggi contraddittori. Su questa realtà le categorie tradizionali dell’analisi urbana slittano ed è pertanto necessario ricorrere a nuovi strumenti e tecniche di descrizione. Non si tratta però, o soltanto, di mettere a punto uno strumentario capace di riconoscere la bellezza inusuale di questi luoghi, con quel moderno gusto del pittoresco che si concretizza in atlanti nei quali materiali «eclettici» vengono assemblati attraverso un sistema di nessi insolito, restituendo nella struttura stessa dell’atlante la complessità della città contemporanea. Piuttosto è necessario riconoscere il valore della bellezza [come] operatore progettuale imprescindibile, attraverso il quale l’architettura può riqualificare [anche] i contesti che definiamo di margine o residuali22. È questo il ruolo del progetto urbano inteso come progetto di modificazione23, un progetto che non solo è misura


– modus – della modificazione che il contesto induce sul­ l’opera ma anche di quella che la stessa induce sul territorio traducendo in una nuova forma fisica il sistema di relazioni che costruisce un paesaggio. Questo progetto quindi non può essere l’esito compositivo di una struttura di regole universali; al contrario esso non può che essere l’esito di un processo che prende le mosse dall’inventario delle differenze che costruiscono i luoghi e trasformano il territorio, dominio dell’urbanistica, in paesaggio, campo d’azione anche del progetto urbano. Delle differenze il progetto si dovrebbe alimentare per restituire una interpretazione quanto più autentica del senso dei luoghi sui quali agisce. Ragionare sulle differenze dovrebbe essere quindi il presupposto imprescindibile per il perseguimento della venustas. La riconfigurazione dei paesaggi urbani contemporanei dovrebbe partire dal riconoscere le differenze tra i luoghi, indagando i loro caratteri identitari, dettati dalla geografia, dalla storia, dalla vita di chi li abita o li attraversa24. Venustas: 4. Capacità del progetto di risignificare un luogo costruendo una struttura a dimensione umana da contrapporre allo spazio globale che la nostra epoca propone. Alla bellezza si chiede dunque di restituire significato a queste aree trasformandole in luoghi urbani nei quali la collettività possa riconoscersi. È nella coppia oppositiva globale/locale che, nella società contemporanea, il dialogo tra venustas, architettura/mercato e democrazia conosce maggiori asprezze. In realtà oggi al centro della vita degli individui che consumano non c’è solo la conquista di una concezione infinita dello spazio ma anche il suo contrario: la percezione del luogo e del suo territorio vissuti come controtendenze rispetto ai processi in atto25. Da una parte dunque i cambiamenti culturali della nostra epoca hanno riempito le nostre città di «non luoghi» – il concetto inventato da Augé per indicare una categoria di spazi della città contemporanea, come stazioni, aeroporti ma anche centri commerciali e ipermercati, in cui l’individuo si muo-

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ve indifferente alla loro qualità spaziale e attento solo al messaggio globale che questi spazi trasmettono; dall’altra è proprio qui che spesso si chiede all’architettura di intervenire per ritrovare un’identità locale capace di restituire una dimensione umana agli spazi in cui viviamo. La bellezza di questi luoghi non può più essere la perfezione, non è la concinnitas, non è l’equilibrio di un attimo. È una bellezza di secondo piano, una bellezza meticcia diffusa come un benessere necessario, come una patina che può, senza inutili moralismi, restituire seduzione reale anche al più cafone mercato dell’Occidente o alla più impegnata organizzazione non governativa di una delle tante aree a rischio del pianeta. La bellezza democratica è oggi la griffe falsa, la chirurgia plastica, la tecnologia a buon mercato, le utilitarie di lusso vendute a rate, insomma il simulacro della felicità offerta a tutti, a tutti i costi26. E tuttavia ciò che resta in qualche modo equivoco, rispetto a questa definizione di bellezza, è proprio il ruolo della cultura architettonica nella loro trasformazione. Se è vero cioè che buona parte di questi luoghi è costruita senza mediazioni come merce, prodotto di un vero e proprio mercato, che esprime il suo «desiderio di bello» e di autoaffermazione estetica attraverso il linguaggio del prodotto condiviso e compreso ma «tragicamente» lontano da ciò che chiamiamo cultura architettonica27, è altrettanto vero che proprio la cultura architettonica tende spesso ad arroccarsi su posizioni teoriche distanti dalla realtà, o al contrario, a cedere al fascino delle immagini mediatiche e alle lusinghe del mercato, aderendo incondizionatamente all’idea dell’architettura come prodotto e della bellezza associata sostanzialmente alla componente rappresentativa dell’architettura.

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Venustas: 5. Qualità estetica dell’architettura capace di concretizzarsi in una immagine portatrice di significati «aggiunti», come la poetica personale dell’architetto e la sua ricerca figurativa. Nei casi più estremi questa idea di bellezza si traduce in un modo di fare ed intendere l’archi-


tettura come marchio d’autore, espressione massima di una cultura del «branding» che reinterpreta attraverso un nuovo equilibrio la relazione architettura - mercato e democrazia, sbilanciandola forse verso il mercato. Non c’è dubbio che la nostra epoca sia caratterizzata, anche in architettura, dallo strapotere dell’immagine. I cambiamenti tecnologici hanno determinato, da un lato, un enorme incremento nella produzione delle immagini, dal­ l’al­tro, la possibilità che le stesse, attraverso la rete, possano essere diffuse contemporaneamente in qualsiasi parte del mondo. Cellulari, Iphone, Blackberry sono diventati accessori indispensabili che continuamente ci trasmettono informazioni. Che nell’architettura ci sia stata sempre una componente rappresentativa è indubbio; ancora Vitruvio nel De Architectura associa questa componente al decor che impone che un tempio sia costruito rispettando la statio o […] la consuetudine o natura28: la forma del tempio, così come la scelta della sua localizzazione, deve «raccontare» il carattere delle divinità cui è dedicato. Ma anche la capacità del­l’opera di comunicare la posizione economica del committente, ravvisabile nella distributio, è ascrivibile alla necessità di trasmettere, attraverso il manufatto architettonico, dei significati associativi come ad esempio la sua funzione. L’architettura si è spesso tradotta in simboli dal significato concordato o convenzionale. Una facciata classica simboleggia un edificio pubblico, che si tratti di una banca, di una biblioteca o di una scuola29. Anche la sostituzione del simbolo come icona non è una novità dei nostri giorni: è sufficiente pensare all’architettura parlante di Ledoux, al limite tra simbolo e icona e soprattutto alle provocazioni di Robert Venturi che, negli anni ’60, teorizza che non è l’architettura a dominare lo spazio bensì il segno, con la sua forma scultorea e i suoi effetti di luce. Sulla scia di queste considerazioni, Venturi arriva provocatoriamente a sostenere che, nel caso di un chiosco per la vendita di piatti a base di pollame, è lecito considerare l’anatra (duck) una legittima forma dell’architettura moderna dal momento che la costruzione di natura commerciale è diventata una scul-

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tura e la forma simbolica si è letteralmente impossessata dell’architettura30. Non sembrerebbe dunque esserci alcuna novità in una possibile interpretazione della venustas come carattere dell’architettura inerente alla sua componente rappresentativa, se non fosse per il fatto che, oggi, questa modalità di intendere la venustas non sembra essere l’esito di una riflessione teorica tesa a «spostare» in avanti i confini dell’architettura costruita ma piuttosto la stanca adesione di uno «stile tardo», un periodo in cui non vi è alcun nuovo paradigma. L’uso del computer può produrre uno spostamento dalla forma notazionale a quella digitale, ma questo in sé, non costituisce ancora un nuovo paradigma31. Ledoux apre a Boullée, Venturi scandalizza ma tutto sommato consente alla ricerca architettonica di aprirsi alla realtà di una città che cambia e che impone all’architettura stessa di trovare nuovi significati. Ciò che invece inquieta oggi le coscienze di molti è il fatto che le forme degli edifici diventano spesso icone dei processi che li hanno generati, o nella migliore delle ipotesi marchi in grado di «reclamizzare» un prodotto: «l’architettura di quell’architetto». Zaha Hadid ha raggiunto la fama dopo aver concepito il suo linguaggio fibroso, la sua idea di design, il suo brand, che ha poi applicato a molte delle sue opere rendendo il lavoro sempre riconoscibile e facendo in modo che le architetture stesse fossero in sé una forma di pubblicità. Pubblicità sfruttata anche dalle amministrazioni comunali che ostentano gli edifici come fossero capi firmati. Il brand dell’architetto è adattabile alle stazioni e ai musei ma anche al design delle scarpe o alla homepage del sito dello studio32. Non c’è dubbio che questa idea di bellezza, legata ad un’immagine chiaramente riconoscibile è oggi una realtà «globale» che investe grandi metropoli e piccoli centri, ognuno alla ricerca di una o più opere firmate che consentano di costruire una nuova immagine della città da rivendere attraverso la rete. Dagli Stati Uniti – «Andate a Roma, c’è il Maxxi». L’invito rivolto ai lettori del New York Times.


Non solo Colosseo, il New York Times: «Visitate Roma, c’è il Maxxi». […] Roma è il ventesimo dei «44 posti dove andare nel 2009», consigliati sul sito del New York Times. Ma nella classifica stilata dai lettori del giornale, la Città eterna balza al terzo posto, seconda solo a Washington e all’India. E fra i luoghi da visitare nella Capitale, il quotidiano di New York consiglia, oltre ai “soliti” Colosseo e Vaticano, il Museo Maxxi, un «sito futuristico», disegnato da Zaha Hadid33. Altrettanto indubbio è il fatto che spesso gli «ingredienti» moderni a cui si fa riferimento per valutare l’attuale significato di bellezza sono: la «quantità» che, vinta la sua battaglia sulla qualità appiattisce ogni valore in nome dell’indifferenziazione e omologazione; il «gusto», dal momento che scartata ogni velleitaria pretesa di trovare un modo per rendere oggettiva la bellezza, ci si trova di fronte a un relativismo generalizzato che porta a definire ciò che bello è ciò che non lo è, in base a ciò che piace o non piace ai più; il «mercato» e la «moda» dal momento che, spesso, la legittimazione del bello passa, attraverso questi due parametri e la bellezza è tale solo in quanto lusso; e infine la «massa» ovvero l’entità a cui tutto si rivolge che ha una forma indistinta e nella quale ogni personalismo è azzerato34. È vero anche però che con l’ingombrante termine di archistar si omologa un mondo di figure e di architetture molto diverse fra di loro, consentendo ad una certa critica architettonica di rifiutare in blocco uno dei maggiori fenomeni delle nostra epoca. La relazione tra venustas e immagine è infatti certamente una delle questioni più rappresentative del dibattito architettonico contemporaneo se è vero che, tra i centosettanta paper presentati ad Eurau, neppure uno sfugge alla tentazione di far riferimento a questa possibile interpretazione di venustas, per aderenza o per contrasto. Ciò considerato, paradossalmente la partita fondamentale della venustas oggi sembra dunque ancora giocarsi tra chi sostiene che la deriva formalista, dalla «lezione di Las Vegas» a oggi, ha piegato l’Architettura da un lato alle

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roboanti, quando non arroganti, performance delle archi-star e dall’altro al «grottesco» dei repertori linguistici del neoeclettismo popolare35 e chi invece sostiene che l’esigenza di costruire nella città opere che rispondano alle esigenze di bellezza e creatività, innovazione estetica e singolarità viene soddisfatta solo se il progetto di queste opere viene affidato alle archistar, che sono i soli soggetti che hanno la forza, e talvolta il consenso, per potere affermare con forza un concetto36.

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1   E. Carreri, Venustas blog.cit, in «Op. cit» n. 136, settembre 2009. 2   Cfr. www. eurau10.it. 3   R. De Fusco, Della bellezza in architettura, relazione introduttiva al convegno Eurau’10, Napoli, 23 giugno 2010. 4   M. Vitruvio Pollione, De Architectura, libro 3, trad. it L. Migotto (a cura di), edizioni Studio Tesi, Pordenone 1990, p. 125. 5   G.C. Argan, Modulo misura e modulo oggetto, in «La Casa», Quaderni di architettura e di critica, n. 4 (1958), ora in G.C. Argan, Progetto e oggetto. Scritti sul design, Medusa, Milano 2003, p. 113. 6   Ivi, p. 10. 7   Ivi, p. 113. 8   R. De Fusco, op. cit. 9   G. Arcidiacono, L’anastilosi della bellezza, in Eurau’10, preatti del convegno, www.eurau10.it. 10   Gio Ponti, Amate l’architettura [1957], Rizzoli, Milano 2008, p. 66. 11   M. Assennato e F. Véry, Architettura, teoria, venustas, in Eurau’10, cit. 12   A. Conte, Venustas e costruzione, in Eurau’10, cit. 13   F. Visconti, R. Capozzi, Il bello come sistema di nessi, in Eurau’10, cit. 14   P. Eisenman, Insegnare architettura, in «Casabella» n. 769, settembre 2008, p. 3. 15   M. Lanzi, Luoghi (non) comuni sulla città, in Eurau’10, cit. 16   Ibidem. 17   M. Faiferri, E(ste)tica: etica del progetto contemporaneo, in Eurau’10, cit. 18   M. Losasso, Costruire sostenibile e valori estetici, in Eurau’10, cit. 19   M. Scerbo, T. Vincenti, Architettura sostenibile è Venustas: dalla valutazione del costruito al progetto di nuove forme di città, in Eurau’10, cit. 20   B. Melis, Bellezza Mostra e Dimostra, in Eurau’10, cit.


21   P. Scala, Elogio della mediocritas. La misura nel progetto urbano, Cuen, Napoli 2008, p. 85. 22   A. Airoli, Venustas sul margine. Lo sguardo e il progetto tra gli spazi residuali, in Eurau’10, cit. 23   V. Gregotti, Architettura come modificazione, in «Casabella» n. 498/499, gennaio-febbraio 1984. 24   O. Fatigato, M.L. Nobile, G. Parità, I paesaggi della venustas: variazioni eccezionali, in Eurau’10, cit. 25   M. Ilardi, Il tramonto dei non luoghi, Meltemi, Roma 2007, p. 46. 26   C. Gambardella, Per una bellezza democratica, in Neorealismo magico. Atlante di architettura 2005-2009, Electa, Napoli 2009, p. 7. 27   L. Capobianco, Venustas quotidiana, in Eurau’10, cit. 28   M. Vitruvio Pollione, De Architectura, libro I, cit. p. 23. 29   P. Eisenman, op. cit., p. 4. 30   AA.VV., Teoria dell’architettura, 117 trattati dal Rinascimento ad oggi, Taschen, Colonia 2003, p. 792. 31   P. Eisenman, op. cit., p. 5. 32   S. Piedimonte, PubliCittà, in Eurau’10, cit. 33   P. Pierotti da Il Sole 24ore Roma del 28.01.09. 34   D. Buonanno, Analisi sociologica della bellezza, in Eurau’10, cit. 35   Z. Dato, Ascoltare, interpretare, veicolare, restituire… un po’ più oltre, in Eurau’10, cit. 36   A. Capuano, Bellezza, belle città e democrazia, in Eurau’10, cit.

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Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro LUCIA PIETRONI

La Biennale Internazionale del Design - edizione “0”, intitolata “Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro”, promossa e organizzata dalla Scuola di Architettura e Design “Eduardo Vittoria” dell’Università di Camerino, con sede ad Ascoli Piceno, e dal Consorzio Universitario Piceno, si è conclusa il 16 luglio 2010. Si è trattato di un programma articolato di eventi dedicati al design che si è svolto, dal 21 aprile al 15 luglio 2010, tra Ascoli Piceno e San Benedetto del Tronto, coinvolgendo più di 10 differenti location (tra cui le principali: il Palazzo dei Capitani ad Ascoli Piceno e la Palazzina Azzurra a San Benedetto del Tronto), e che ha rappresentato un momento significativo di riflessione e dibattito sul design come opportunità di sviluppo territoriale. L’obiettivo della manifestazione culturale era di approfondire ed esplorare le diverse dimensioni del design, come espressione forte dei cambiamenti socio-culturali e degli stili di vita, come fattore strategico di innovazione e come componente significativa dello sviluppo socio-economico. Il programma, molto ricco ed intenso, più di 40 eventi in poco più di due mesi, ha presentato 5 mostre, 4 tavole rotonde, 4 conferenze, numerosi workshop con gli imprenditori, e più di 20 tra incontri, conferenze, presentazioni di libri, proiezioni e performance per arricchire la riflessione ed il confronto sul design e le sue differenti declinazioni,

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nonché per proporre un concetto di design come “laboratorio permanente di idee per l’innovazione e il futuro”. Le 5 mostre

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Le cinque mostre, che si sono susseguite lungo tutta la durata della BID edizione “0”, hanno costituito gli assi portanti della manifestazione con l’obiettivo di costruire un percorso di riflessione sul ruolo del design tra storia e futuro, intersecando la dimensione locale a quella internazionale, le tematiche della contemporaneità con quelle, senza tempo, sulla ricerca di senso nell’azione progettuale. – Radical Memories, a cura di Cristiano Toraldo di Francia. La mostra intendeva documentare la nascita del fenomeno del Design radicale attraverso la ricostruzione degli elementi della prima mostra della Superarchitettura del Dicembre 1966 e l’esposizione dei primi oggetti di design che da tale mostra furono ispirati. Il percorso espositivo, oltre a raccontare come tale evento segnò la nascita dei due gruppi Archizoom e Superstudio, seguiti poi da altri gruppi come gli UFO, ha documentato anche il lavoro sperimentale di singoli operatori quali Ettore Sottsass, Ugo La Pietra e Riccardo Dalisi, ognuno con una propria strategia di ricerca orientata alla messa in discussione dell’eredità modernista e la convinzione del potere del progetto come strumento conoscitivo, volto a smascherare le contraddizioni di un sistema sociale in rapido cambiamento. – Norwegian Talks. Knut Hjeltnes, Carl-Viggo Holmebakk, Jensen&Skodvin, a cura di Nicola Flora e Gennaro Postiglione. La mostra aveva la finalità di esporre, sedici anni dopo la venuta del maestro norvegese Sverre Fehn (Kongsberg 1924 - Oslo 2009, Pritzker price 1998) ad Ascoli nel 1994, tre degli architetti norvegesi della nuova generazione che ne hanno saputo sviluppare, reinterpretandoli, temi e modalità di approccio al progetto, con una particolare attenzione al


rapporto natura-artificio. Oltre 200 metri di foto e disegni sono stati in mostra per due settimane nel chiostro del Polo S. Agostino ad Ascoli, ed una conferenza dei tre autori (Skod­vin&Jensen, Holmebakk, Hjeltnes) introdotta dai curatori (Nicola Flora e Gennaro Postiglione), oltre che da Pippo Ciorra e svolta nell’auditorium dello stesso complesso, ha permesso di entrare in contatto con sorprendenti interpreti della modernità quasi assolutamente assenti dalla pubblicistica nazionale di settore. La mostra-convegno è stata realizzata in collaborazione dalla SAD (Scuola di Architettura e Design di Ascoli Piceno-Università di Camerino) e dalla Facoltà di Architettura e Società oltre che dal DPA del Politecnico di Milano e ha visto la partecipazione del­l’Ambasciata di Norvegia a Roma, del Norsk Form (l’i­ stituzione norvegese di promozione della cultura del progetto norvegese), oltre che degli ordini degli Architetti di Ascoli Piceno e Macerata. – Eco-Design & Eco-Innovazione. Nuovi scenari del design sostenibile, a cura di Lucia Pietroni, Marco Capellini ed EcodesignLab. La mostra intendeva indagare gli sviluppi e i nuovi scenari del design sostenibile evidenziando le punte di innovazione nel campo della ricerca, della formazione e della produzione nel contesto nazionale ed internazionale. Un percorso espositivo che, attraverso progetti, prodotti e materiali, ha esplorato le differenti dimensioni del design per la sostenibilità ambientale. La mostra era articolata in 4 diverse sezioni: 1. Una selezione di più di 60 prodotti eco-sostenibili ed eco-innovativi di aziende italiane ed internazionali, appartenenti a differenti settori merceologici (calzature, elettrodomestici, apparecchi di illuminazione, arredo e accessori casa e ufficio, telefonia, gioielli, casalinghi, mezzi di trasporto, prodotti per l’edilizia, ecc.), progettati da designer di tutto il mondo (USA, Argentina, Italia, Spagna, Svezia, Finlandia, Polonia, Ungheria, Uruguay, Giappone), a testimonianza che le tematiche del design sostenibile sono trasversali ai comparti merceologici e ormai sviluppate a livello

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globale. In questa sezione sono stati esposti prodotti d’u­so comune e prodotti ad alto contenuto tecnologico, tutti caratterizzati da elevate performance ambientali e dall’attenzione ai criteri di design per la sostenibilità ambientale: utilizzo di materiali a ridotto impatto ambientale, provenienti da risorse rinnovabili, riciclati, biodegradabili, riciclabili; elevata efficienza energetica; facile disassemblabilità, manutenibilità e riciclabilità; sostituibilità delle componenti e allungamento della vita utile; utilizzo di fonti energetiche rinnovabili; riduzione delle emissioni di CO2 in tutte fasi del ciclo di vita del prodotto. Un percorso affascinante tra posate e bicchieri monouso biodegradabili e compostabili, lavabiancheria ad alta efficienza energetica, calzature realizzate con materiali naturali e rinnovabili, biciclette e caffettiere in alluminio riciclato al 100%, sedie per ufficio completamente disassemblabili e riciclabili a fine vita, apparecchi di illuminazione a bassissimo consumo energetico, abiti, gioielli, borse realizzati con materiali eco-innovativi. 2. Una selezione di campioni di materiali riciclati provenienti dalla materioteca Matrec-Material Recycling; come esempio dell’ormai ampio mondo dei materiali eco-innovativi disponibili sul mercato. Matrec raccoglie ed elabora da anni informazioni sulle caratteristiche tecniche e prestazionali dei materiali riciclati, mettendole a disposizione delle aziende, dei progettisti, dei centri di ricerca: uno strumento/ servizio estremamente utile per lo sviluppo di prodotti a ridotto impatto ambientale e per l’eco-design. 3. Più di 40 progetti e prototipi sviluppati dagli studenti della seconda edizione del Master in “Eco-design & Ecoinnovazione. Strategie, metodi e strumenti per la progettazione e lo sviluppo di prodotti eco-sostenibili” della Scuola di Architettura e Design dell’Università di Camerino, in collaborazione con aziende marchigiane operanti in differenti settori (radiatori, packaging, arredamento, calzature, veicoli ecologici) e designer ed esperti di eco design. 4. I risultati di un progetto di ricerca ed innovazione intitolato “Progettare con l’aria per nuovi stili di vita sostenibili”, realizzato dalla Scuola di Architettura e Design del­


l’Università di Camerino in collaborazione con Elica, azienda leader nel settore delle cappe aspiranti. La ricerca progettuale ha esplorato il ruolo dell’aria e i suoi utilizzi sostenibili per migliorare il benessere e il comfort nell’ambiente cucina, oltre che sperimentare i principi e le linee guida dell’eco-design come strumenti efficaci per prevenire e ridurre gli impatti ambientali dei prodotti lungo tutte le fasi del loro ciclo di vita (dal reperimento delle materie prime fino alla dismissione), in risposta alla crescente domanda di prodotti eco-sostenibili da parte di un mercato sempre più esigente anche in termini di sostenibilità ambientale. – Emidio Angelini “Narratore per Immagini”, a cura di Silk Screen Studio. La mostra aveva l’obiettivo di offrire un significativo spaccato del percorso artistico di Emidio Angelini, fotografo ascolano definito dai critici un “narratore per immagini”, ripercorrendo attraverso la sua esemplare e particolare ottica intellettuale, un lungo viaggio caratterizzato dalla costante ricerca e sperimentazione della tecnica fotografica e dalla capacità di ridurre le immagini alla voluta funzione narrativa. Dalle prime immagini degli anni ’60, alle sequenze in fo­tomeccanica, molte delle quali rimaste ancora inedite, dalle diverse opere premiate e selezionate in concorsi nazionali e internazionali degli anni ’60-’70, tra cui il Premio NIEPCE Italiano 1965 per la fotografia, assegnatogli da una giuria composta fra gli altri da Elio Vittorini, Umberto Eco, Bruno Munari, Cesare Zavattini, Alvaro Valentini, Luigi Crocenzi, all’illuminata attività didattica durata 40 anni, in cui ha trasferito e insegnato con passione e determinazione, la conoscenza, gli strumenti e il lavoro sperimentale frutto della propria esperienza artistica, fino alla collaborazione con i principali Enti ed Istituzioni per la promozione del patrimonio artistico e culturale del territorio. – Dove va il design? e il popolo del design, a cura di Vanni Pasca e Lucia Pietroni. La mostra ‘Dove va il design?’ intendeva costruire una mappa dei differenti territori e approcci del design contem-

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poraneo, attraverso l’esposizione di progetti, prodotti e prototipi di 24 designer della nuova generazione: esempi dei differenti modi di intendere e praticare una professione, quella del designer, ormai multiforme e in continua evoluzione. Un’esposizione, quindi, che ha esplorato le diverse dimensioni del design emergente e del ruolo dei designer nella società contemporanea e futura. Ad ogni designer/ gruppo selezionato per l’esposizione è stato chiesto di segnalare il proprio prodotto/progetto più significativo per descrivere la propria attività e il proprio approccio al design. I prodotti dei designer sono stati allestiti in uno scenario particolare, una mostra di fotografie di Fabio Gambina: ‘Il popolo del design’, un racconto antropologico per immagini su coloro che frequentano le design week, gli eventi di design, il Salone del Mobile di Milano, il Fuori Salone. Quindi due differenti mostre, una di design e una fotografica, fortemente integrate tra loro, per riflettere sulle prospettive della cultura del progetto.

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Le 4 tavole rotonde “aperitivi con il design - seconda edizione”. La seconda edizione degli “Aperitivi con il Design” (la prima edizione era stata realizzata nel maggio del 2009), organizzata nell’ambito della BID n.0, ha proposto 4 nuovi incontri/tavole rotonde (due delle quali di due giorni) con la partecipazione di designer, architetti, teorici, critici, imprenditori, giornalisti, per approfondire i temi legati alle 5 mostre e per discuterne altri di grande rilievo come, ad esempio, il ruolo del design della comunicazione nella società contemporanea. I quattro incontri, che hanno richiamato un pubblico ampio ed eterogeneo, hanno consentito di riflettere con i protagonisti sul design radicale e le sue influenze sulla cultura del progetto, di fare approfondimenti sul design sostenibile e le sue prospettive di sviluppo da un punto di vista socio-economico ed industriale, di dibattere sul design della comunicazione nelle sue differenti accezioni, di stimolare il confronto tra designer della nuova generazione sui differenti approcci al progetto.


– Radical memories, a cura di Cristiano Toraldo di Francia. La prima tavola rotonda ha proposto le riflessioni da parte di alcuni dei protagonisti del radical design (Lapo Binazzi, Gilberto Corretti, Riccardo Dalisi, Piero Frassinelli, Ugo La Pietra, Cristiano Toraldo di Francia) sulla propria attività progettuale, poi interventi delle aziende coinvolte nel cambiamento culturale e produttrici dei primi oggetti di serie del movimento radicale, ed infine le testimonianze di direttori di riviste che hanno documentato quel periodo storico e l’opinione di alcuni critici e storici del design sulle influenze “radical” che ancora è dato di leggere nel progetto contemporaneo degli oggetti. – Eco-design & Eco-innovazione, a cura di Lucia Pietroni, Marco Capellini ed EcodesignLab. La seconda tavola rotonda ha posto al centro della discussione il contributo del design verso la sostenibilità ambientale, con particolare attenzione alle strategie delle imprese. Sono stati presentati alcuni casi di aziende che hanno attivato processi di eco-innovazione per riflettere sul ruolo del design come strumento di innovazione e sviluppo competitivo. L’obiettivo era di aprire un confronto sulla Sostenibilità Ambientale e sulle conseguenti implicazioni di mercato per il sistema industriale nazionale ed internazionale: un tema che, negli ultimi anni, sta caratterizzando in modo significativo l’innovazione di prodotto e che sta portando il consumatore ad una crescente consapevolezza e responsabilità in fase di acquisto. Alla tavola rotonda hanno partecipato gli amministratori delegati di tre importanti imprese marchigiane: Indesit Company, Elica e Faam. – Design della comunicazione, a cura di Federico O. Oppedisano. La tavola rotonda, articolata in due giornate di dibattito con esperti, ricercatori e specialisti, ha approfondito la riflessione sulla progressiva estensione degli orizzonti del linguaggio audiovisivo, soprattutto in riferimento alla convergenza crossmediale digitale. L’azione progettuale è oggi

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più incerta, ma anche più consapevole circa l’importanza di elaborare la comunicazione in modo responsabile, pensando ai suoi effetti nella società e nella cultura. Il linguaggio audiovisivo riveste un ruolo centrale per la sua costante presenza nella vita sociale e soprattutto per la sua capacità di “generare valore”, influenzare modelli comportamentali, fornire informazioni e sollecitare interessi. I settori industriali delle comunicazioni – cinema, Tv, telefonia, informatica – cresciuti in maniera indipendente, convergono oggi sulle piattaforme digitali: sono strategicamente capaci di integrare modelli comunicativi eterogenei. Con il moltiplicarsi dei processi e delle piattaforme comunicative, si assiste oggi a una estensione dei territori del linguaggio audiovisivo che coinvolge figure professionali di natura diversa e amplia il quadro di competenze e conoscenze necessarie ai progettisti. Il designer, oltre a definire le modalità di fruizione del prodotto e formalizzare linguaggi visuali, è chiamato a relazionarsi con principi di varie discipline, a comprendere le nuove complessità e a sviluppare ipotesi di strategie comunicative. – Dove va il design? Conversazioni tra designer della nuova generazione, a cura di Vanni Pasca e Lucia Pietroni. La quarta tavola rotonda è stata una due giorni di dibattito sul design contemporaneo, una conversazione tra designer italiani e stranieri della nuova generazione che operano in Italia per riflettere sui diversi approcci progettuali e i nuovi profili professionali che si stanno delineando nel panorama nazionale ed internazionale. Partendo da un progetto/prodotto da loro scelto, i designer invitati hanno raccontato la loro storia, la loro filosofia e le loro esperienze progettuali nel contesto italiano. Dopo la generazione dei grandi “maestri del design italiano”, finalmente emerge una nuova generazione di progettisti, plurima e multiforme, con tante anime e diversi modi di concepire e praticare il design. Attraverso le loro storie si è cercato di iniziare a mappare i nuovi territori e le prospettive del design contemporaneo. All’‘incontro, introdotto e moderato da Vanni Pasca, hanno partecipato: Matteo Ragni, Gumdesign, Adrianodesign, De­


li­neodesign, Angeletti Ruzza Design, Mirco Palpacelli (Ultradesign), Vittorio Venezia, Ilaria Marelli, Enrico Azzimonti, Marco Capellini, Odoardo Fioravanti, Monica Graffeo, Lorenzo Palmeri, Roberto Giacomucci, Gabriele Schiavon (Lagranja Design), Niklas Jacob, Ely Rozenberg, Francisco Gomez Paz. Fra i Discussant, Enrico Tonucci, Presidente dell’ADI-Delegazione Marche Abruzzo Molise, Alceo Serafini, Design Manager, Giorgio Tartaro, giornalista, Carlo Vannicola, Designer e docente dell’Università di Genova e Lucia Pietroni, Direttore scientifico BID n. 0. Le 4 conferenze Le quattro conferenze, proposte nell’ambito dell’edizione “0” della BID, sono state tra gli eventi che hanno richiamato il pubblico più numeroso, certamente per il livello e l’importanza dei relatori, ma anche per l’interesse verso i temi trattati. L’interazione vivace tra relatori e partecipanti, il dibattito prolungato al termine delle conferenze, la generosità dei conferenzieri hanno trasformato questi quattro appuntamenti in reali opportunità e strumenti di sviluppo e approfondimento culturale allargato. – Gillo Dorfles, critico d’arte e professore di estetica, ha aperto una “Discussione sul design e sull’arte oggi”, introdotto da Vanni Pasca. – Gabriele Pezzini, designer, ha parlato di “Intuizione, Visione, Progetto e Coraggio”, con una introduzione di Alberto Bassi. – Alberto Meda, ingegnere e designer, ha affrontato il tema “Design e tecnologia”, introdotto da Vanni Pasca. – Philippe Daverio, storico dell’arte e professore di disegno industriale, ha ragionato su “Design, arte e futuro del bel Paese”, ancora con una introduzione di Vanni Pasca. In sintesi, l’edizione “0” della Biennale Internazionale del Design ha coinvolto più di 120 professionisti, tra designer, imprenditori, esperti, ricercatori e studiosi di fama nazionale e internazionale, oltre ad un numero di visitatori e

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partecipanti ai differenti eventi veramente cospicuo. Ha, pertanto, rappresentato un significativo banco di prova, un luogo di sperimentazione per la costruzione e la promozione del più complesso progetto “Biennale Internazionale del Design” che si intende organizzare, ogni due anni, a partire dal 2012 sul territorio marchigiano. Un racconto per immagini della BID edizione “0” è presente nel sito www.biennaledeldesign.it, dove è disponibile, in una apposita “mediagallery” nel menù “biennale del design”, una rassegna fotografica di tutti gli eventi della manifestazione. Che cosa è e come è nato il progetto Biennale Internazionale del Design?

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Il design è un motore di innovazione, una strategia per crescere, uno strumento strategico per connettere la dimensione sociale, economica e culturale dello sviluppo affinché sia realmente sostenibile. L’Italia è internazionalmente riconosciuta come il “paese del design”, della “progettualità diffusa”. Il modello socio-economico del “Made in Italy” è stato studiato in tutto il mondo per le sue dinamiche innovative e propulsive che hanno dato fama internazionale ai nostri designer e alle nostre imprese. Eppure in Italia il sistema della formazione pubblica nel campo del design è molto recente, anche se in rapida crescita su tutto il territorio nazionale, e il sistema pubblico di promozione e supporto al design è molto debole, quasi assente, rispetto a quello di altri paesi europei ed extra-comunitari. Da questa riflessione è nata l’esigenza di concepire una manifestazione internazionale che possa promuovere e supportare il design come fattore strategico per l’economia italiana e locale e per la competitività internazionale dei nostri giovani talenti e delle nostre imprese, soprattutto in una realtà italiana caratterizzata da tanti “territori operosi e creativi” e da una dimensione sistemica del “design diffuso” e delle differenti “culture d’impresa” radicate nelle regioni italiane.


Così è nato il progetto “Biennale Internazionale del Design”, un complesso di eventi culturali (un concorso internazionale di design, mostre, workshop, conferenze, dibattiti, “porte aperte” nelle aziende, ecc.) articolati e coordinati intorno ad un tema nodale della contemporaneità, di riflessione per la cultura del progetto e per la cultura imprenditoriale. Il progetto si è basato su un approfondito studio preliminare di fattibilità condotto e realizzato, nel 2007, da un gruppo di lavoro costituito da ricercatori e docenti della Scuola di Architettura e Design “Eduardo Vittoria” dell’Università di Camerino e da rappresentanti del CUP-Consorzio Universitario Piceno, che ha avuto l’obiettivo di individuare le potenzialità e i benefici culturali e socio-economici di una Biennale del Design sul territorio marchigiano. La Biennale Internazionale del Design, inoltre, come si è verificato in altri paesi europei che hanno adottato questo modello, è una manifestazione che ha una dimensione territoriale e diffusa, (pur facendo capo ad una città come polo principale, solitamente una cittadina piccola e accogliente, non frenetica, votata ad attività culturali, ricca di storia e tradizione e/o significativa dal punto di vista industriale), che produce, oltre all’impatto diretto in termini di aumento dei posti di lavoro nell’area della cultura e dei servizi, un forte impatto in termini di investimenti e di sviluppo nel settore del turismo culturale, incrementando la cultura dell’ospitalità e il numero dei luoghi di ricettività nella città e nel territorio circostante. Il progetto “Biennale Internazionale del Design”, pertanto, non vuole essere l’organizzazione di un evento culturale “una tantum”, ma la creazione di un “incubatore permanente di idee e progetti a sostegno dell’innovazione guidata dal design” che si propone di lavorare con continuità allo sviluppo di un programma di promozione e confronto della cultura del design, con particolare attenzione alla valorizzazione della dimensione locale e alla costruzione di un network di relazioni nazionali e internazionali.

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Perché una Biennale Internazionale del Design nelle Marche e ad Ascoli Piceno?

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Le ragioni di una Biennale Internazionale del Design organizzata nelle Marche, con polo principale ad Ascoli Piceno, sono numerose. In primo luogo, una ragione di natura storica: il modello organizzativo dei distretti industriali è considerato dagli studiosi di economia la chiave del successo del “Made in Italy” e dei prodotti del design italiano; e il territorio delle Marche è caratterizzato dalla presenza storica dei distretti industriali, o di aree ad alta specializzazione produttiva, costituiti per lo più da PMI molto “operose e creative”, che in una dinamica di “cooperazione competitiva” hanno favorito lo sviluppo e l’innovazione di interi comparti produttivi e l’emergere di alcune imprese leader a livello nazionale e internazionale. Questa cultura imprenditoriale diffusa ha profondi legami con la presenza e lo sviluppo nelle Marche di numerose imprese “design-oriented”, ovvero aziende che in modo esplicito, o anche implicito, considerano il design un valore e uno strumento di innovazione. In secondo luogo, una ragione di natura geografica: le Marche sono al centro dell’Italia. Il design è ovunque, non solo nelle regioni in cui c’è una più elevata concentrazione di industrie. Questo è tanto più vero nell’attuale scenario di globalizzazione e delocalizzazione produttiva. Il design è produzione di nuove idee, di innovazione progettuale e tale attività è presente con differenti approcci sia nel sud che nel nord del mondo, sia nel sud che nel nord dell’Italia. Essere al centro facilita logisticamente e culturalmente il dialogo. Inoltre le Marche sono geograficamente collocate in modo strategico come importante via di collegamento verso la regione dei Balcani. In terzo luogo, una ragione di natura strategica: in una continua disputa tra le grandi città italiane per aggiudicarsi il primato culturale nei settori arti, spettacolo e design, riteniamo strategico che un territorio intero, anche organizzato attraverso una rete di poli, e non una città-metropoli, diven-


ti una vera e propria “comunità creativa”, un luogo di promozione e attrazione di talenti provenienti da tutto il mondo e di sviluppo e diffusione di un’autentica cultura della “crea­ tività”, ovvero della “capacità di concepire e sviluppare idee, tecnologie, progetti, prodotti, contemporaneamente nuovi e utili”, come direbbe Richard Florida. Infine, nel progetto “Biennale Internazionale del Design”, Ascoli Piceno è il polo propulsore, il terminale di una rete di relazioni, luoghi, persone che producono, si scambiano e condividono know how sul design, in quanto luogo in cui ha sede l’unica scuola pubblica di disegno industriale di livello universitario della regione Marche. La partecipazione al progetto, come promotore, del Corso di Laurea in Disegno Industriale e Ambientale (DISIA) della Scuola di Architettura e Design “Eduardo Vittoria”, con sede ad Ascoli Piceno, non solo facilita le connessioni con la rete di soggetti nazionali ed internazionali che operano nel settore del design, fondamentali per lo sviluppo e la riuscita del progetto, ma garantisce la qualità della manifestazione sotto il profilo culturale e tecnico-scientifico. Inoltre la presenza della Scuola di Architettura e Design sul territorio piceno consente di avvalersi, con continuità e in modo permanente, della consulenza e del lavoro di ricercatori, docenti e giovani designer qualificati con competenze e professionalità specifiche.

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L’immagine-processo. Media digitali e design del codice STEFANO PERNA

1. L’utilizzo del computer come strumento di produzione visiva non è certo una novità degli ultimi anni e l’interesse per le questioni teoriche poste dall’“immagine digitale” si è concretizzato in una ormai vasta letteratura. Il problema del “nuovo statuto” delle immagini nell’epoca dei media digitali e delle relative implicazioni culturali, estetiche, epistemologiche, è stato ampiamente discusso e sviluppato in più direzioni. Quella che si vuole prendere qui in considerazione non è però tanto la generale riconfigurazione del campo della creazione e della ricezione delle immagini che la digitalizzazione avrebbe comportato, quanto la maniera in cui specifici settori del visual design e delle arti visive stiano a loro modo articolando in forme peculiari tale transizione. In alcuni filoni della produzione visuale contemporanea si è infatti venuta a produrre una profonda trasformazione delle strategie di lavoro e del rapporto con la materia grafica nella direzione di una maggiore astrazione delle procedure progettuali e, al contempo, di un controllo sempre più preciso e approfondito della materia visiva digitale. Per definire questo universo non è però sufficiente appellarsi al “digitale” in quanto tale e bisogna rintracciare altri elementi d’analisi. Si tratta dunque, in prima battuta, di descrivere a grandi linee le caratteristiche di questa singolare materia visuale.

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2. In un saggio dedicato alla computer graphics, il noto teorico dei media tedesco Friedrich Kittler indica quello che probabilmente è il principale elemento distintivo delle immagini digitali, ciò che le colloca, almeno sul piano tecnico, in radicale discontinuità con tutti i precedenti “media ottici”. La questione centrale per Kittler è la “completa indirizzabilità (addressability) di tutti i pixel”1. Si tratta di una caratteristica che, derivata direttamente dalle tecnologie militari – in particolare dal radar – fa dell’immagine elettronica un nuovo tipo di “costrutto” che si espone a possibilità di controllo “atomico” prima inimmaginabili. Ogni singola particella dell’immagine, il pixel, diviene interamente “controllabile e gestibile con precisione matematica e in maniera indipendente da tutte le altre” (ibid.). A differenza della “trama” analogica, la “matrice” digitale permette infatti di “arrivare” al singolo pixel senza “dover attraversare tutta l’immagine” (ibid.). I legami di dipendenza locale tra le parti dell’immagine vengono in qualche modo disarticolati, aprendo la strada ad un concezione molecolarizzata della superficie visiva, e facendo sì che l’unità di ogni immagine sia letteralmente sbriciolata in un enorme quantità di “granuli” perfettamente localizzabili nello spazio e programmabili nel tempo. Una sorta di “polvere visuale” soggetta a completo controllo. In una direzione simile si muovono le analisi sul digitale condotte da Edmond Couchot, che a tutt’oggi rimangono tra le più approfondite sull’argomento. Nel corso di una lunga serie di ricerche, iniziate a partire almeno dalla metà degli anni ’80, lo studioso francese analizza quella che potrebbe essere definita – riprendendo il titolo di un suo noto articolo – la “conquista dello schermo da parte del calcolo numerico”2. Secondo Couchot è l’associazione della “discontinuità” e della “precisione numerica” a permettere il controllo totale dell’immagine “punto per punto” (Couchot 1988, p. 128), ed è proprio questa possibilità a segnare lo scarto dalla natura ottico-chimica della fotografia e del cinema e da quella opto-elettronica della televisione (p. 127): i punti che costituiscono tanto l’immagine fotografica che


quella televisiva “non sono i correlati di valori numerici” (p. 128). La composizione “numerica” del­l’immagine digitale richiama invece la sua natura “algoritmica”. Trovandosi di fronte alla possibilità di manipolare e controllare singolarmente milioni di elementi discreti, il creatore di immagini digitali deve necessariamente trovare il modo di delegare la maggior parte di questo lavoro ad un set standardizzato di istruzioni, un algoritmo appunto. La questione diviene cioè quella di “definire l’insieme delle regole operatorie che permettono al computer di comporre l’immagine punto per punto – si dirà sintetizzarla – a partire da dati numerici-discontinui” (ibid.). Secondo Couchot è proprio qui che risiede la differenza e la novità delle immagini digitali nel momento in cui se ne va a considerare la specifica morfogenesi. L’immagine diviene sostanzialmente una “combinazione di algoritmi” (ibid.), un assemblaggio di operazioni astratte che detta al computer istruzioni rigorosamente definite su dove, come e quando attivare o disattivare ogni singolo granulo visivo. 3. Questi elementi sono alla base di ciò che, seguendo la linea tracciata dal filosofo e teorico dei media Mark Hansen, potrebbe essere definita come l’“esplosione della stabilità tecnica” delle immagini3. Se da un lato la “trasformazione” in numero e l’assoggettamento ad algoritmi e a operazioni di tipo matematico sottopongono l’immagine ad una “controllabilità totale”, dall’altro provocano una radicale “destabilizzazione” della materia grafica. Bisogna infatti tener presente una serie di fattori. In primo luogo, costituendosi come “un’accumulazione di frammenti discontinui”, l’immagine digitale tende a divenire una configurazione contingente di valori numerici che possono essere soggetti a micro-modificazioni “molecolari”(p. 9). Come già notava Deleuze in un breve passaggio sulle “nuove immagini” numeriche, esse divengono “l’oggetto di una perpetua riorganizzazione in cui una nuova immagine può nascere da un qualunque punto dell’immagine precedente”4. Ovviamente ciò non significa che ogni immagine digitale si

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trasformi necessariamente in una moltitudine proliferante e anarchica di elementi. Piuttosto, la stabilità e l’unità di un’immagine non sono più garantite dai rigidi vincoli materiali di un supporto (carta, celluloide, nastro) ma da un fattore mobile di “formattazione”5, codificato nei sistemi operativi e nei software6, che appunto localizza, controlla e organizza le masse di pixel in forme temporaneamente stabilizzate. A tal proposito si rivela di particolare interesse il concetto, proposto dalla filosofa americana N. Katherine Hayles, di “flickering signifier”, dove il termine “flickering” si riferisce allo “sfarfallìo” elettronico, parola di origine tecnica riferita all’intrinseca “vibratilità” dell’immagine tecnologica7. I “significanti” elettronici visualizzati su di uno schermo non sono altro che il livello più alto di un complesso sistema di processi interrelati e dinamici. Si possono manifestare come semplici iscrizioni percepibili ma, compresi in profondità, non sono che il risultato visibile, tangibile di istruzioni codificate ed eseguite da una macchina. Il gerundio “flickering” è da collegare alla natura processuale del “segno” elettronico, caratteristica che lo differenzia ad esempio dal segno duraturo proprio della tecnologia della stampa e dell’inchiostro. Il segno elettronico, massa di pixel temporaneamente attivata sullo schermo, si presenta in definitiva come una “traccia in vibrazione interna”, sempre virtualmente sul punto di modificarsi. L’insieme di questi elementi di precarietà, temporaneità e mutabilità radicale, congiunti agli aspetti di “controllabilità totale” consentiti dai linguaggi di programmazione, fa delle immagini digitali delle particolari formazioni metastabili, intrinsecamente predisposte alla variazione e alla modificazione (Manovich 2004, pp. 67-71), sorta di “punti d’arresto controllato” di un processo continuamente e sempre virtualmente in divenire8. Lazzarato individua – con un terminologia deleuze-guattariana – nei “codici tecnologici” che costituiscono il supporto operativo dei pixel una “forza di deterritorializzazione” (p. 123). Progressivamente “disincastrati” dalla rigida adesione a un supporto stabilizzato,


i flussi visivi sono appunto presi in un movimento di deterritorializzazione che aumenta in maniera esponenziale le potenzialità di “tessitura”, di processamento e di manipolazione. 4. Questo particolare intreccio di instabilità e di controllo ha la capacità di “liberare” potenzialmente la materia grafica digitale da tutta una serie di vincoli e di aprire nuovi scenari progettuali e di creazione. “Potenzialmente” perché, pur avendone la capacità, non è assolutamente detto che lo faccia. Affinché ciò accada è necessario infatti che la liberazione di un “potenziale tecnologico” sia intercettata da una qualche forma di progettualità estetica che cerchi di “metterlo al lavoro” e di organizzarlo in forme specifiche. Un’“in­novazione”, più che il semplice esito di un’evoluzione strumentale, va infatti considerata come il prodotto dell’incontro di una macchina tecnica con una macchina sociale9, e quindi della connessione del potenziale tecnologico inscritto nel dispositivo materiale con tutta una rete di pratiche e di usi concreti e situati che da quel potenziale cerchino di “cavar fuori” delle strategie estetiche inedite. Questo avvertimento metodologico e “mediologico” ricalca del resto quanto già espresso da Gene Youngblood in un seminale articolo sui problemi estetici posti dal “digital imaging”10. Dopo aver identificato il potenziale dell’immagine digitale e del codice informatico nel loro essere sostanzialmente delle “macchine di variazione”, Youngblood sostiene che per rispondere a tale quesito e rintracciare effettivamente le nuove direzioni espressive del medium è necessario individuare il “corpus di strategie estetiche” (ibid.) che il sistema incorpora. Tale corpus, infatti, dice l’autore: “already exists in the system. Our task is to discover it, identify it, draw it out and name it” (p. 28). C’è dunque da domandarsi: vi sono, nel­l’universo attuale della progettazione visiva digitale, zone in cui avviene in maniera significativa questo “innesto tecno-culturale” tra “logiche materiali” del medium e “procedure creative”? Se si, quali sono, e che caratteristiche presentano?

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5. Design del Codice. Il campo della progettazione visiva si è andato, almeno dalla seconda metà degli anni ’80 dello scorso secolo e in particolare in seguito alla diffusione massiva dei personal computer e dei software di desktop publishing, di fotoritocco e di grafica vettoriale, progressivamente digitalizzando. L’impatto di tutto ciò sulle modalità di lavoro e sulle forme visive producibili è stato dirompente e ha progressivamente liberato la materia grafica dai vincoli delle tradizionali tecnologie di stampa tipografica e da tutto l’armamentario concettuale ad esse collegato. In ogni caso, è possibile affermare che almeno a partire dalla metà degli anni ’90 sia venuto a prodursi un ulteriore e forse ancora più radicale scarto, qualitativamente diverso da quello della “prima ondata” di digitalizzazione, che ha progressivamente indotto un gran numero di progettisti a prendere le distanze da quegli stessi software che avevano traghettato la transizione al digitale. Due riferimenti permettono di chiarire i termini della questione. Il primo è una pubblicazione del 2001 di Golan Levin, uno dei protagonisti della prima ora della nuova “scena” del design digitale. Già il titolo scelto per il volume – Beyond Photoshop with Code – al di là della connotazione tecnica contiene una precisa indicazione d’intenti, e cioè la dichiarazione progettuale di voler spingere l’azione creativa “al di là” del “range predeterminato di operazioni che i software commerciali” (Photoshop in primo luogo) avevano progressivamente imposto11. Per Levin, chiunque si fosse approcciato alla progettazione di una forma visiva era stato implicitamente obbligato a ripercorrere gli schemi di utilizzo imposti dalla struttura stessa dei programmi. Fino a che il campo d’azione del designer fosse rimasto imbrigliato nei tracciati predeterminati dalle interfacce-software, non si sarebbe mai saputo – spinozianamente – “cosa un computer può”, e cioè dove le sue “potenze materiali”, legate al nuovo modo di processare le informazioni e di costituire le immagini, avrebbero potuto condurre. Non si poteva più continuare quindi, in termini mcluhaniani, a limitarsi a “far fare al nuovo medium il lavoro di quelli vecchi”. Per il de-


signer americano la via maestra per la liberazione della materia grafica digitale sarebbe dovuta necessariamente passare per quella che potrebbe essere chiamata la “presa del codice”. Solo agendo ad un livello “inferiore”, lo stesso sul quale agiscono le interfacce dei software commerciali, e cioè quello degli algoritmi, dei dati e dei processi di computazione – il “codice” appunto – si sarebbe potuto iniziare a comprendere e a sfruttare in maniera più ampia e articolata il medium digitale. Il secondo riferimento è a un noto progetto del designer e artista visivo Adrian Ward, Auto-Illustrator – realizzato nel 2000 e insignito nel 2001 dell’importante primo premio del festival delle arti elettroniche Transmediale di Berlino. Ward descrive il suo lavoro come una “parodia” dei pacchetti software commerciali dedicati al design visivo che attacca in particolar modo la loro pretesa di fornire all’utente “funzionalità” e “controllo”. Si tratta di un software perfettamente funzionante che, almeno in superficie, si presenta esattamente come un tipico programma di grafica vettoriale (leggi “Adobe Illustrator”). Ma, attraverso una sorta di “sabotaggio” dell’interfaccia, che in superficie mantiene un look “serio” e “user friendly” mentre viene trasformata in un generatore randomizzato di forme, Auto-Illustrator si fa burle dell’utente mettendolo di fronte al fatto che dietro la piana apparenza di funzioni quali “tracciare una linea”, “riem­pire” e “sfumare” esiste un universo sommerso di procedure computazionali – dalle quali è sistematicamente escluso – che trasformano il suo gesto “manuale” in punti, linee e colori. Ward sembra suggerire che è solo per “convenzione tecnologica” che il trascinare una “matita” da un punto all’altro dello schermo traccerà una “linea” e che l’imposizione di queste convenzioni da parte degli sviluppatori dei software se da un lato chiaramente facilita la vita all’utente, consentendogli di utilizzare il computer senza dover gestire algoritmi e linguaggi di programmazione, dall’altro preclude l’accesso a tutto un universo alternativo di modi di formare le immagini. Ciò non significa ovviamente che questi ipotetici modi “altri” siano meno conven-

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zionali o più “autentici”, ma che potrebbero emergere delle convenzioni d’uso diverse da quelle estratte dai linguaggi mediali precedenti e maggiormente in linea con le virtualità contenute nella materia digitale. Sepolto sotto strati di interfacce c’è infatti sempre all’opera un sistema di algoritmi compilati in un linguaggio formalizzato che media tra i comandi del­l’utente e i flussi elettromagnetici che scorrono nei circuiti integrati che costituiscono il substrato materiale del computer. Agire su quel linguaggio potrebbe voler dire esercitare un controllo espressivo del medium infinitamente superiore a quello consentito dai software commerciali. Dopo circa un decennio di predominio pressoché assoluto di questa forma “schermata” della manipolazione della materia visiva digitale, un gruppo di artisti e progettisti ha iniziato a cercare delle modalità di accesso “diretto” al controllo dei processi di computazione. Sebbene sia difficile individuare precisamente il momento inaugurale di questa nuova fase di esplorazione del medium – si è trattato infatti di un processo molecolare che ha coinvolto una molteplicità di attori – si può indicare il lavoro svolto da John Maeda e dai suoi allievi al MIT Media Lab a partire dalla metà degli anni novanta come una delle sorgenti fondamentali di questa linea di sviluppo. Nel 1996 Maeda è stato infatti il fondatore di un piccolo gruppo di ricerca all’interno del MIT, l’Aesthetic + Computation Group che ha esplorato sistematicamente i fondamenti della manipolazione del codice informatico a fini espressivi. In quegli anni fu sviluppato anche il primo ambiente integrato di progettazione visiva basato su codice pensato esplicitamente per designer e artisti visivi, Design by numbers, un semplice linguaggio di programmazione basato su Java interamente virato verso lo sfruttamento delle potenzialità di computazione grafica12, da cui deriva direttamente quello che attualmente può essere considerato il linguaggio di programmazione più diffuso nella comunità dei designer e artisti digitali, Processing, sviluppato da due allievi di Maeda, Ben Fry e Casey Reas. È chiaro che una simile riconfigurazione delle modalità di lavoro sull’immagine finisce per cambiare sensibilmente


l’approccio progettuale: chi progetta immagini ha di fronte a sé una tastiera di lettere e cifre con le quali creare “algoritmi, combinarli, tradurli nel linguaggio appropriato: insomma scrivere un programma”13. La questione diviene quella di “istruire” le immagini affinché si comportino in una determinata maniera, attraverso l’uso di un linguaggio performativo: come in una sorta di torsione del motto austiniano, si tratta di “fare immagini con le parole”. La progettazione diviene cioé una forma di “notazione”, scrittura di una “partitura eseguibile” che, dal punto di vista delle logiche operative, risulta in qualche modo più vicina alla composizione musicale che alla composizione grafica. Scrivere linee di codice significa infatti creare sequenze di istruzioni formalizzate – una notazione appunto – che saranno lette da un interprete specifico, il computer, in grado di eseguirle concretamente14. È questa modalità di progettazione che permette di accedere in maniera più precisa al substrato e di “mettere al lavoro” la configurazione tecnica delle immagini digitali, la loro natura “granulare” e meta-stabile. Riprendendo ancora una volta lo scritto di Levin, si potrà chiamare questa modalità progettuale design del codice. Ed è in relazione ad essa che si delinea una nuova modalità della progettazione di forme visuali: tipologie di design che, in luogo di produrre immagini mediante una manipolazione “diretta” di elementi grafici su di un “piano di composizione”, elaborano piuttosto sistemi di produzione di elementi visivi su di un “piano di espressione” – lo schermo elettronico – capace di tenere traccia, in tempo reale, dei processi di computazione avviati dall’esecuzione di un codice compilato ad arte.

1   F. Kittler, Computer Graphics: A Semi-Technical Introduction, in «Grey Room», n. 2. (Winter, 2001), MIT Press, 2001, pp. 30-45. 2   E. Couchot, Il mosaico ordinato o lo schermo conquistato dal calcolo, in A. Amaducci, P. Gobetti, «Video Imago», in Il Nuovo Spettatore, n. 15, numero speciale, 1993. 3   M.B.N. Hansen, New Philosophy for New Technology, MIT Press, Cambridge, Mass. 2006, p. 8.

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G. Deleuze, L’mmagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989, p.

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293. 5   R. Frieling, Form Follows Format. Tensions, museums, media technology and media art, in «Media Art Net 1: An Overview of Media Art», D. Daniels, R. Frieling (editors), 2004. 6   L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, Milano 2004, pp. 97-99. 7   N.K. Hayles, How we become posthuman: Virtual Bodies in Cybernetics, Literature and Informatics, The University of Chicago Press, Chicago 1999, pp. 30 sgg. 8   M. Lazzarato, Videofilosofie: la percezione del tempo nel postfordismo, Manifestolibri, Roma 1996, p. 130. 9   F. Guattari, Caosmosi, Costa&Nolan, Genova 1996, pp. 4547. 10   G. Youngblood, Cinema and the Code, in «Leonardo. Supplemental Issue», vol. 2, Computer Art in Context: SIGGRAPH ’89 Art Show Catalog, MIT Press, 1989, pp. 27-30. 11   G. Levin, 4x4 Generative Design. Beyond Photoshop with Code, Friends of Ed, New York 2001, p. 4. 12   J. Maeda, P. Antonelli, Design by Numbers, MIT Press, Cambridge, Mass. 2001. 13   E. Couchot, Images: de l’optique au numerique: les arts visuels et l’evolution des technologies, Hermes, Paris 1988 pp. 129130. 14   C. Reas, {Software} Structures, in O. Goriunova, A. Shulgin, Re- ad_me, Aarhus University Press, Aarhus 2004.

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Yacht design Francesca Lanz

Parlare di architettura a bordo è sempre stata una questione controversa e lo è ancora più pensare a un confronto con l’architettura terrestre: tuttavia gli scambi di tipo simbolico, tecnologico e formale tra il costruito nautico e navale e l’architettura sono sempre stati intensi e, soprattutto, biunivoci1. È indiscutibile infatti che l’arte di costruire navi abbia fin dall’antichità affascinato architetti e artisti e che il possesso di una flotta sia sempre stato motivo di orgoglio per governi e regnanti di ogni epoca: così le navi sono sempre state, ancor prima che mezzi di trasporto per passeggeri, portatrici di valori culturali, luoghi di rappresentanza e rappresentazione dove il progetto si caricava di significati per diventare metafora e simbolo di valori altri. In particolare i transatlantici costruiti dalle grandi potenze europee nella prima metà del Novecento assunsero su di sé un fondamentale ruolo di ambasciatori del potere e dell’avanzamento tecnico e culturale dei paesi armatori, che attraverso essi si rappresentavano e si sfidavano contendendosi primati di comfort, lusso e velocità2. Così gli interni di queste navi, concepiti inizialmente per mascherare la macchina navale imitando i più rassicuranti interni domestici di lussuosi palazzi storici e grandi hotel, si trasformarono in vere e proprie vetrine, luogo di esposizione e rappresentazione della produzione artistica nazionale fino a divenire,

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agli esordi del periodo moderno, un paradigma di un nuovo modo di abitare e luogo per sperimentazioni e innovazioni nel campo del design e delle arti applicati. In questo periodo, come nota Paolo Giardello, si osserva un’inversione di tendenza […] gli interni [dei transatlantici] si riscattano dalla dipendenza propria dell’immagine statica e tranquillizzante della casa e danno vita a nuove soluzioni adatte alle specifiche modalità di uso dello spazio interno, limitato nel tempo e nella dimensione, flessibile e compatto, rinnovato nei materiali e nelle funzioni. Gli interni di tali mezzi e veicoli divengono estranei a comportamenti e a ritualità tradizionali e, tendendo a una diretta corrispondenza tra forma e contenuto, propongono in definitiva nuovi stili di vita3. Questo cambiamento partì dalla Germania, dove le istanze di rinnovamento emergenti nel settore dell’arredamento e le nuove ricerche formali e stilistiche nel campo delle arti applicate trovarono applicazione e terreno fertile a bordo dei transatlantici. Il dibattito nato e sviluppato in seno a movimenti come quello delle Vereinigte Werkstätten investì così anche la costruzione navale e in particolare il campo dell’allestimento interno delle navi passeggeri, di cui venne compresa l’importanza quale vessillo di cultura nazionale e quale mezzo in cui si concentrarono evoluzioni tecnologiche e ricerche d’avanguardia oggetto di sperimentalismi e investimenti innovativi. Gli addetti al traffico internazionale, osserverà Hermann Muthesius nel 1907, sono in grado di svolgere una missione culturale in tutto il mondo a favore dell’attività tedesca: le navi delle grandi compagnie di navigazione tedesche trasportano un pubblico internazionale di passeggeri che durante il viaggio vive in un agio obbligato e che si lascia influenzare dal gusto esistente a bordo4. In seguito sarà l’attenzione degli architetti del periodo moderno a concentrarsi sulla macchina navale intuendo le possibilità di ricerca che questo campo progettuale offriva loro in quel determinato periodo storico: pensiamo a Le Corbusier che vedeva nel transatlantico la prima tappa


nella realizzazione di un mondo organizzato secondo lo spirito nuovo5. Più tardi, negli anni Trenta, seppure con un certo ritardo, le questioni inerenti l’architettura navale e il ruolo degli allestimenti interni dei grandi transatlantici raggiunsero anche l’Italia, coinvolgendo alcuni tra i protagonisti della scena architettonica moderna, occupando le pagine delle maggiori riviste di architettura italiana quali Domus, La Casa Bella o Edilizia Moderna e comparendo costantemente in tutte le principali esposizioni di architettura e arti applicate del periodo, comprese le Biennali di Monza e le Triennali di Milano. Il dibattito che nacque e si sviluppò in questo periodo è denso e ricco di spunti molto interessanti, che tuttavia non sono oggetto di questo saggio, ma è importante notare che uno degli aspetti più interessanti che segnano questo periodo è l’affermazione nell’architettura navale di un livello di professionalità così consolidato da diventare un modello anche per l’architettura terrestre6. Espres­ sione diretta e tangibile della volontà di fare della nave un prodotto simbolo dell’Italia moderna e delle sue eccellenze produttive, la progettazione degli allestimenti interni di questi transatlantici e il relativo dibattito teorico che intorno ad essi si sviluppò, videro coinvolti architetti del calibro di Gio Ponti, Gustavo Pulitzer Finali, Nino Zoncada, BBPR e Carlo De Carli, aziende come Cassina, Artflex e Richard Ginori e artisti come Antonio Maraini, Augusto Cernigoj, Piero Fornasetti e Lucio Fontana. Gli allestimenti dei grandi liners non furono soltanto una fondamentale occasione economica, di promozione e visibilità per industrie, paesi e progettisti; ma offrirono soprattutto importanti occasioni di sperimentazione per architetti e artisti favorendo la creazione di un rapporto di collaborazione continuativo tra arte e industria che caratterizza ancora oggi sia il progetto di interni sia il design italiani. Si trattò di esperienze che costitui­ rono la base della tradizione progettuale navale e nautica italiana, ma furono anche fondamentali momenti di scambio tra diversi settori disciplinari e produttivi, che contribuirono a dare inizio al fenomeno del design italiano delinean-

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done i tratti principali che ancora oggi lo contraddistinguono a livello internazionale. Come osserva anche Andrea Branzi, introducendo il tema degli allestimenti navali nel­ l’ap­pena conclusa seconda edizione del Museo del Design Serie e Fuori Serie, questo settore produceva … un indotto che consisteva nell’arredare i grandi transatlantici di linea e da diporto, favorendo l’organizzazione industriale di produzioni artigianali di falegnamerie e tappezzerie, spesso disperse sul territorio, che concorrevano a fornire componentistiche che i capicommessa allestivano nei cantieri navali […] Questa committenza industrialeartigianale incentivò lo sviluppo del settore del­l’ar­re­da­ mento, tradizionalmente periferico, costringendolo a stabilire relazioni di collaborazione tra i progettisti, a organizzarsi efficacemente in forma di produzione diffusa in distretti specializzati7. Oggi l’Italia si trova a detenere una posizione di leadership nella produzione di yacht di grandi dimensioni8, rinomati in tutto il mondo non solo per l’avanzamento tecnico e le prestazioni offerte, ma soprattutto per la progettazione dei loro interni9. Se si guarda al progetto nautico come a uno dei campi di applicazione del progetto di interni e del design più in generale esso si presenta nuovamente, a distanza di circa cinquant’anni dalle sperimentazioni a bordo dei grandi transatlantici, come un fecondo ambito di ricerca e sperimentazione, all’interno del quale, soprattutto negli anni più recenti, si stanno verificando e sono possibili interessanti scambi e trasferimenti di conoscenze, esperienze e soluzioni progettuali tra settori vari ed eterogenei. Il problema della nave dal punto di vista architettonico, osservava già Antonio Maraini nella sua introduzione al lavoro di Gustavo Pulitzer Finali nel 1935, è certo tra i più interessanti e tipici che si siano proposti all’arte moderna ed uno di quelli che ha dato luogo alle soluzioni e ripercussioni più decisive10. Nella progettazione degli interni tanto di navi quanto di grandi yacht o piccole imbarcazioni da diporto, anche se a diverse scale e con le specificità che caratterizzano questi


differenti oggetti, ci si trova ad affrontare problematiche simili a quelle di un grande edificio, condizionate inoltre da aspetti più specificamente legati alla macchina navale: da questioni impiantistiche (un’imbarcazione deve essere completamente autosufficiente sotto ogni punto di vista, dal­l’e­let­tricità alla distribuzione idrica, dal condizionamento alle comunicazioni etc…), a quelle di distribuzione generale (deve essere garantita a bordo la sicurezza degli ospiti così come dei diversi mebri dell’equipaggio, nonché la necessaria privacy e comfort per ogni persona a bordo) fino a scelte legate al dettaglio e allo sfruttamento intensivo dello spazio, il tutto ulteriormente vincolato da normative e da aspetti più tecnici di adeguatezza dei materiali, sicurezza e peso. A bordo ci si trova a doversi confrontare con tematiche ricorrenti nel progetto di interni, in generale concentrate però in un contesto relativamente ristretto e in un interno particolarmente “difficile”. Non si deve infatti mai trascurare il fatto che, per quanto grande un’imbarcazione possa essere e nonostante le analogie che può avere con abitazioni e ambienti di terraferma, essa è caratterizzata dalle forme curve e non ortogonali della carena, ma soprattutto non si deve dimenticare che essa non è fondata nel terreno, ma sull’acqua, sulla quale galleggia e si sposta. Una barca non è una casa, anche se oggi molte di esse sono malamente concepite e progettate come se lo fossero, ma sicuramente la complessità che la caratterizza la rende un’ottima palestra progettuale e una stimolante sfida per molti progettisti, nonché come spesso sottolineato, anche un utile esercizio didattico. Dopo anni di stasi questo settore, tradizionalmente conservatore e restio ad innovazioni radicali, ha subito nell’ultimo decennio enormi trasformazioni; questi mutamenti sono legati da un lato ad una serie di innovazioni tecniche e tecnologiche, dall’altro a complessi mutamenti sociali e culturali in atto che hanno investito anche l’idea stessa di andar per mare, ma soprattutto possono essere collegati ad un sempre più denso scambio di conoscenze tra il settore del progetto nautico e quello dell’architettura e del design con l’ingresso nel campo di progettisti formati an-

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che in altri ambiti, quali architetti, artisti, designer e stilisti, e svariate ditte di design e aziende che qui, proprio grazie alle stimolanti esigenze prestazionali richieste a bordo e agli elevati budget a disposizione, possono nuovamente portare avanti sperimentazioni che da tempo non sono più possibili in altri settori. Tutto ciò ha portato ad una grande rivoluzione tecnicostilistica che ha consegnato al mondo dello yacht design nuove chiavi di lettura e nuovi concept evolutivi11. Nell’ultimo decennio, si sono così progettati e prodotti yacht sempre più grandi e comodi, pensati, soprattutto quelli a motore, come simbolo per eccellenza di esclusività e come immagini dello stile di vita del loro armatore. Queste barche affiancano e sostituiscono così attici e ville diventando il luogo dello svago e della socialità di lusso e mezzo di autorappresentazione, non più per intere nazioni, ma per singoli armatori, politici, attori, imprenditori e uomini di potere. Il lusso e il comfort interno di questi yacht è divenuto oggi, come era a bordo dei transatlantici, un aspetto fondamentale, a volte addirittura superiore alle prestazioni della barca stessa. Ritroviamo barche sempre più grandi, comode e simili a lussuose ville di terra, che seguono anche nella progettazione degli spazi interni le stesse mode che si leggono nel progetto degli interni di architettura: loft invece che spazi definiti, estroflessione degli spazi interni sull’esterno at­traverso ampie aperture e finestrature, atmosfere minimaliste, massima cura del dettaglio, cura maniacale nel celare tutti gli apparati tecnici, dotazione ridondante di apparecchiature elettroniche e di impiantistica per il benessere12. L’ospitalità a bordo diventa un motivo dominante e la barca, che viene vissuta come contenitore di svago e piattaforma d’intrattenimento, rappresenta oggi sempre più uno status symbol caricandosi di significati e funzioni nuove: lo yacht da mezzo di trasporto diviene luogo di lavoro e manifesto del suo proprietario; addirittura si sono visti esempi esagerati, in cui gli armatori hanno esibito un lusso così sfrenato da diventare barocco e, fatto significati-


vo, a volte addirittura maggiore di quello delle proprie abitazioni, come se la barca dovesse rappresentare il proprio gusto e il proprio benessere più della propria casa. Le ragioni di tale tendenza potrebbero in parte essere identificate nell’essenza stessa dello yacht come mezzo di trasporto che offre la possibilità di dare corpo a un sogno, vivere emozioni, eludere, con fantasia futurista a quasi un secolo di distanza, le leggi dello spazio e del tempo13; in parte poi, come sottolinea Domitilla Dardi, influisce anche in questo processo di identificazione tra armatore e allestimento interno e sull’esasperazione di questa relazione, l’assenza di un sito con cui lo yacht si possa relazionare: mentre una villa o una casa vengono costruite in relazione ad un contesto e si inseriranno in esso tenendone presenti le caratteristiche, per una barca non è così, il suo contesto è variabile e questa realtà non può non avere importanti ricadute sul progetto. Se è vero che, dice la Dardi, come sosteneva Christian Norberg-Schulz «l’identità dell’uomo presuppone l’identità del luogo» ecco che nella mancanza del luogo fisso anche il senso dell’identificazione umana assume connotazioni del tutto particolari. […] ecco allora che, quando la relazione con il contesto non è negata, ma assunta nel suo divenire, in un costante mutamento con relativo aggiornamento così come imposto dalla condizione della navigazione, la barca assume su di sé un ruolo fondamentale come depositaria di identità14. Potremmo allora forse dire che oggi a bordo degli yacht, più che nelle abitazioni domestiche è possibile ritrovare quella che Mario Praz definiva la «stimmung» il senso dell’interno, dell’ambiente sentito come calco di un’anima, involucro – espansione dell’“io” senza il quale l’anima si sentirebbe come una chiocciola priva della sua conchiglia15? Quello nautico, in ultima analisi, è sicuramente un ambito di progetto caratterizzato da una forte complessità sotto molteplici punti di vista: progettare interni di bordo significa confrontarsi con uno spazio fisso, limitato e ridotto e lavorare su margini e soglie, su un bordo tra mare e terra, tra pubblico e privato, tra tradizione e innovazione, fra una di-

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mensione formale e di rappresentanza e una intima e domestica. È un progetto che si colloca a cavallo tra diverse discipline, dall’architettura al design e l’ingegneria e che coinvolge molteplici competenze e tematiche, alcune più specifiche del settore nautico e navale, altre attinenti alla progettazione d’interni, ma anche al design del prodotto e della comunicazione. Superando una prassi che vedeva la progettazione degli interni delle barche svincolata da quanto i dibattiti teorici e le realizzazioni pratiche mettevano a segno nel mondo dell’abitare contemporaneo, un numero sempre maggiore di progettisti e case di design si confrontano con il tema della progettazione e dell’allestimento nautico, vedendo in questo campo non soltanto un nuovo mercato, ma anche, cosa assai più interessante, un campo di sperimentazione per nuove tecniche, soluzioni e linguaggi. Possiamo riscontrare oggi, soprattutto in Italia, un rinnovato interesse da parte del settore dell’architettura e del design verso i temi del progetto nautico, che ritrova un suo spazio nelle riviste e nelle esposizioni nazionali di settore. Era dalle pubblicazioni di Domus e Casabella e dalle Esposizioni di Arti Decorative degli anni a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, quando gli interni dei grandi transatlantici italiani erano occasione di vivaci dibattiti e riflessioni, che il mondo dell’architettura non dedicava tale attenzione al progetto nautico e navale. Parallelamente sta crescendo il numero di corsi di formazione specialistica nel settore dello yacht design attivati dalle Università italiane, mentre d’altra parte la dispersione di informazioni e l’assenza di un volume che raccolga e analizzi criticamente il materiale e gli spunti offerti da riviste, ricerche universitarie e conferenze, rappresenta una grossa difficoltà per chi si accinge allo studio e all’approfondimento di questo campo progettuale. Molto spesso infatti lo yacht proprio a causa della sua caratteristica diportistica è stato poco considerato dalla critica e dalla cultura ufficiale che lo ha sempre ritenuto un oggetto inutile e lussuoso e quindi necessariamente, e auspicabilmente, effimero. Tuttavia il campo nautico può (e dovrebbe) essere indagato come uno dei campi di applicazione del progetto


di interni caratterizzato da alcune specificità, come l’elevato budget e la severità di requisiti, che lo rendono un ottimo campo per la sperimentazione, la ricerca e l’innovazione. D’altra parte negli ultimi dieci anni si è progettato molto, ma con una sorta di frenesia e di necessità di inventare, migliorare le tecniche, ferme da tempo, e crescere nelle dimensioni per rispondere alla sempre crescente domanda di imbarcazioni lussuose, confortevoli e veloci. Nuovi armatori e attori, richieste sia qualitativamente sia quantitativamente sempre più impegnative, un’offerta di tecnologie e materiali sempre più ampia e varia, hanno portato a radicali innovazioni, ma è venuto a mancare il senso critico, la capacità, da parte del progetto nautico, di auto-analizzarsi e correggersi laddove ve ne fosse bisogno, e, soprattutto, di elaborare un linguaggio proprio e maturo. Un’analisi critica dei progetti portati avanti in questo settore condotta con gli strumenti della cultura e non solo secondo le logiche di mercato, come per lo più avviene oggi, da un lato permette quindi di leggerne i cambiamenti in atto evidenziandone le conseguenze e, soprattutto sottolinean­ done le criticità, le potenzialità e le possibili evoluzioni; dall’altro fornisce certamente nuovi spunti di riflessione e punti di vista per la lettura del progetto di interni contemporaneo riportando l’attenzione su un ambito di applicazione del progetto di interni e del design escluso da tempo dalla critica e dalla progettazione e ampliando i confini della disciplina progettuale.

1   Sul tema degli scambi tra architettura navale e civile si segnala il testo S. De Gotzen, F. Laner, La chiglia rovesciata, Franco Angeli, Milano 1988 e la tesi di laurea di Nicolò Belloni, La tecnologia del Bagnasciuga. Elementi del progetto in architettura navale e in architettura, Relatore Guido Nardi, Correlatore Silvia Piardi, Politecnico, Milano 1989/90. 2   Trai trofei più ambiti, il Nastro Azzurro, Blue Ribbon in inglese, un premio assegnato alla nave che deteneva il record di velocità sulla traversata dell’Oceano Atlantico. Fu istituito, a partire dal 1930 seguendo un’idea di Sir Harold Hales, e promosso dalle compagnie marittime transatlantiche per la pubblicità che garantiva il possesso della

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nave più veloce. Sulla storia della competizione per il Nastro Azzurro si veda M. Eliseo, Il Nastro Azzurro, in P. Campodonico, M. Fochessati, P. Piccione, a cura di, Transatlantici. Scenari e sogni di mare, Skira, Milano 2004, pp. 179-195. 3   P. Giardello, Un interno difficile, in A. Bossi, P. Giardiello, a cura di, L’interno delle imbarcazioni da diporto. Ricerca e sperimentazione, due tesi di laurea, Oxiana edizioni, Napoli 2006, p. 22. 4   H. Muthesius, Das Kunstgeverbe, in «Die Weltwirtschaft», n. 2, 1907. 5   Le Corbusier, Saugnier, Vers une Architecture, Editions Crès, Parigi 1923, trad. it., P. Cerri, P. Nicolin, a cura di, Verso un’architettura, edizioni Longanesi & C., Milano 1973, 1984, p. 80. 6   N. Puitzer Los, La cultura del progetto navale, in «Rassegna», n. 44/4, dicembre 1990, p. 9. 7   A. Branzi, Introduzione al design italiano. Una modernità incompleta, Baldini & Castoldi, Milano 1999, p. 97. 8   Bisogna comunque sottolineare che la recente crisi finanziaria mondiale ha duramente colpito il settore della nautica in generale e la cantieristica italiana in particolare, portando anche a un generale ridimensionamento della frenetica corsa al gigantismo e al lusso che ha caratterizzato la recente produzione di yacht nel nostro paese e in tutto il mondo. Quali possano essere le ricadute di questa nuova inversione di tendenza non è ancora chiaro: sembra emergere una ricerca rivolta a mezzi di propulsione e progetti più ecocompatibili, modi di navigare più slow e possibilità di acquisto alternative come la multiproprietà. 9   Con yacht di grandi dimensioni si intendono unità da diporto di dimensione superiore agli 80 piedi, 24 metri e con la possibilità di ospitare a bordo fino a 12 passeggeri e un numero illimitato di membri dello staff, personale di servizio e tecnici: queste imbarcazioni vengono definite dalla vigente normativa come navi da diporto. 10   A. Maraini introduzione a G. Pulitzer Finali, Navi e case. Architetture interne 1930-1935, Hoepli, Milano 1935, p. IX. 11   M. Paperini, D. Dardi, Interior yacht design. Abitare tra cielo e acqua, Electa, Milano 2008, p. 40. 12   S. Piardi in S. Piardi, A. Ratti, a cura di, Yacht Design. Progettare e costruire imbarcazioni da diporto, Clup, Milano 2003, p. 12. 13   Ibidem. 14   D. Dardi in D. Dardi, P. Paperini, op. cit., pp. 10-11. 15   M. Praz, La filosofia dell’arredamento, (1964), TEA, Milano 1993, pp. 22-23.

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Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo PIER PAOLO PERUCCIO

Nel 1968 l’immagine di un palloncino a forma di punto interrogativo campeggia sulla copertina di giugno di «Architectural Design»1. La rivista britannica dedica un intero numero alle strutture pneumatiche ed esprime con un segno iconico le difficoltà di catalogazione di queste esperienze all’interno della sfera delle arti figurative, di quella dell’architettura o del design. Infatti, il Pneu World, come titola la rivista, appare un mondo dai confini incerti verso cui convergono molti interessi tra cui quello dei produttori di pneumatici e materie plastiche (da Zodiac a Dunlop, da Goodyear a Firestone fino a Esso, Michelin e Pirelli). Per documentare anche visivamente questa ibridazione, a fianco dell’editoriale della critica d’arte Jasia Reichardt (tra l’altro curatrice nell’agosto dello stesso anno della celebre mostra «Cybernetic Serendipity») sono collocati due lavori dell’artista Christo esposti nel 1966 al Walker Art Center di Minneapolis e nel 1968 in occasione della rassegna d’arte internazionale «Documenta IV» di Kassel2. In entrambi i casi è rappresentato il tentativo di impacchettare l’aria mediante un tessuto sintetico, tecnica che Christo perfezionerà negli anni e che diventerà cifra della sua attività artistica: nel primo caso si comprime un volume d’aria di circa 1.200 metri cubi, nel secondo circa 5.600 metri cubi all’interno di un monolite gonfiabile alto 85 metri ideato insieme a un ingegnere, quasi a sottolineare la vicinanza con il mondo dell’architettura3.

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I campi di applicazione delle strutture ad aria si ampliano e si radicalizzano: si passa in breve tempo dall’ambito «spaziale» con l’involucro pneumatico messo a punto da Goodyear per la NASA alle cupole progettate da Buckminster Fuller con nervature in tubi pneumatici, o a soluzioni più estreme e al tempo stesso ludiche come «Water walk» del gruppo anglo-olandese Evenstructure Research per passeggiate sull’acqua all’interno di tetraedri traslucidi di PVC e aria. È proprio l’interesse verso la forma perfetta del pallone ad aria, che deriva dalla differenza di pressione tra interno ed esterno, a incuriosire il mondo dell’arte e del progetto inteso nella maniera più estensiva del termine. Sfogliando le riviste di quegli anni è infatti facile imbattersi nei lavori sul materiale gonfiabile di artisti come Piero Manzoni («Cor­pi d’aria», 1959 e «Placentarium», 1960), Andy War­ hol («Clouds», 1966), Marinus Boezem («Air objects», 1966), ma anche di architetti come il viennese Hans Hollein con le sculture temporanee in PVC colorato realizzate nel 1966 per un festival nel parco austriaco di Kepfenberg o, nello stesso anno, Mike Webb del gruppo londinese Archigram con il progetto di capsula gonfiabile «Cushicle», e CoopHimmelblau con l’unità abitabile «The Cloud» (1968). Tuttavia, le vicende legate al Pneu world prendono avvio nel settore edilizio già nel primo decennio del XX secolo con i lavori pionieristici di Frederik William Lanchester per poi intensificarsi durante il secondo conflitto mondiale, quando il guscio pneumatico viene impiegato diffusamente come rifugio d’emergenza ma anche ricovero dei mezzi militari e riparo delle postazioni radar4. A Buffalo, negli Stati Uniti, sarà l’ingegnere Walter Bird a perfezionare questa tipologia costruttiva e a fondare nel 1956 la società «Birdair Structures» specializzata nelle progettazione e costruzione di strutture pneumatiche per uso civile e militare. Grazie alla facilità di montaggio e smontaggio delle strutture in PVC e aria, si realizzano ripari temporanei e facilmente trasportabili di varie forme e dimensioni secondo i canoni di un’ipotetica «estetica del provvisorio» sistematizzata suc-


cessivamente nelle ricerche sulla pneumatische konstruktionen condotte da Frei Otto tra il 1958 e il 19615. È proprio alla fine degli anni cinquanta che inizia a diffondersi, negli Stati Uniti come in Europa, le virus de la pneumanie, anche sulla scorta dei progressi ottenuti da tali costruzioni in campo «spaziale»: l’effimero offerto dalle applicazioni pneumatiche nel campo dell’architettura, del­ l’urbanistica, fino all’arredo, inizia ben presto ad affascinare architetti, designer e ingegneri. Tra il nutrito gruppo di progettisti attratti dal tema delle strutture ad aria vi è anche Frank Lloyd Wright, autore nel 1959, anno della sua scomparsa, di un progetto di «Air House» costituita da due ambienti pressurizzati a forma di cupola ancorati al suolo mediante tubi riempiti d’acqua6. Costruire con l’aria richiama prepotentemente scenari utopici negli immaginari degli architetti: il termine utopia inizia a circolare sulle riviste, nelle formulazioni che da lì a poco irromperanno sulla scena con l’architettura radicale. Non a caso nel 1962 «L’Architecture d’Aujourd’hui» dedica un’intera sezione alle Architectures fantastiques7, ripercorrendo un itinerario nella storia dell’architettura che dalle città futuriste di Antonio Sant’Elia passa attraverso le esperienze espressioniste di Bruno Taut, Hans Luckhardt, Hans Poelzig ed Eric Mendelsohn, il costruttivismo di Vladimir Tatlin ed El Lissitzki, e giunge alle «architetture visionarie» di Kiyonori Kikutake, al centro civico di Louis Kahn per Philadelphia, ai progetti di Buckminster Fuller, fino all’«architettura pneumatica» di Victor Lundy, ben sintetizzata nel padiglione espositivo gonfiabile da lui progettato in occasione della mostra itinerante per la Commissione statunitense per l’energia atomica nel 1960. Le due grandi cupole unite da una sella, realizzate tramite una doppia membrana pressurizzata, diventano nelle parole di Frei Otto la prima importante costruzione pneumatica ascrivibile al campo del­l’architettura. Ben presto le infinite possibilità di manipolazione degli spazi che le costruzioni gonfiabili presentano, insieme al loro facile trasporto e l’estrema flessibilità nei confronti

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delle esigenze degli utenti, dei luoghi e delle mode, irrompono anche sulle riviste non specializzate. L’arte del pneumatico diventa à la page. Tuttavia, il punto più alto delle ricerche condotte intorno al tema delle strutture pneumatiche può essere individuato negli esiti della mostra Structures gonflables che si tiene nel mese di marzo del 1968, a Parigi, presso il Musée d’Art Moderne: un repertorio di oltre cento prodotti, dai veicoli di terra, di mare fino a quelli per il volo aereo e per la navigazione nello spazio, oltre ai dispositivi per la sicurezza e la protezione nel campo dell’ingegneria e dell’architettura come giunti, casseforme, rivestimenti, ma anche sculture ed elementi di arredo. Tutto rigorosamente gonfiabile, come espressamente richiesto dai curatori dell’esposizione, gli architetti Jean Aubert, JeanPaul Jungmann e Antoine Stinco, membri del gruppo francese Utopie che comprende anche i sociologi Jean Baudrillard e René Loureau, gli urbanisti Catherine Cot e Hubert Tonka e la paesaggista Isabelle Auricoste8. Intorno ai progetti presentati in quell’occasione da Aubert, Jungmann e Stinco si costruisce il mito della cultura pneumatica: il «Dyo­don» (di Jungmann), abitazione sperimentale «a bolle», su più livelli, interamente pneumatica in ogni sua parte, dagli arredi alle attrezzature fino ai tubolari portanti e alla pelle esterna, naturalmente galleggiante e talmente leggera da poter essere sospesa nel vuoto; il «Podium itinerant pour 5.000 spectateurs» (di Aubert), una cupola geodetica autoportante, sul modello di quelle già realizzate con nervature in tubi pneumatici, di 80 metri di diametro e 27 metri di altezza per spettacoli circensi o di teatro, cinema, musica. Facilmente trasportabile per le sue «sole» 25 tonnellate e poco più di peso totale; infine la «Hall itinerant d’exposition» (di Stinco), spazio espositivo anch’esso trasportabile, le cui sale, dalle pareti costruite con tubolari pieni d’aria, sono coperte da porzioni di sfere gonfiate, ricoperte da un enorme telo fissato a terra da palloni d’acqua. La mostra Structure gonflables comprende inevitabilmente anche alcuni oggetti di design e il furniture: su progetto di Aubert, Jungmann e Stinco vengono esposti i pro-


getti di una serie di arredi in PVC, realizzati come elementi indipendenti o variamente assemblati. Tuttavia, tra i vari corpi illuminanti, cuscini, puff, divani, tavolini e sedute di varie forme, saranno le poltrone pneumatiche ad avere la maggior fortuna critica e commerciale. Lo dimostrano la loro presenza alle Galerie Lafayette di Parigi già nel 1967 e le coeve sperimentazioni sullo stesso tema condotte da Jonathan De Pas, Donato D’Urbino, Paolo Lomazzi e Carlo Scolari con «Blow» e da Nguyen Manh Khanh (Quasar) con il «Fauteuil gonflable satellite junior»9. Blow, in particolare, sarà uno dei primi oggetti di design pneumatico made in Italy ad accedere al mercato dei grandi numeri, tanto da essere riedita nel 1988. Nonostante gli esiti davvero interessanti di alcune sperimentazioni condotte alla fine degli anni sessanta che tentano di superare la tradizionale forma a cupola dei gonfiabili, come nel caso del tunnel di collegamento fra due settori della XIV Triennale di Milano realizzato da De Pas, D’Urbino e Lomazzi nel 1968, l’inaugurazione dell’Esposizione universale di Osaka di due anni dopo segna, con la diffusione allargata e banalizzata di questa teconologia nelle grandi fiere e nelle innumerevoli mostre, la fine di una ricerca fino a quel momento costante sull’impiego del pneumatico. Tra il centinaio di anonimi padiglioni disposti all’interno del piano disegnato da Kenzo Tange, molti dei quali con struttura pneumatica come imposto dalla moda del momento, spicca il Fuji Pavilion di Yutaka Murata e Mamoru Kawaguchi con la convincente e del tutto nuova disposizione a cerchio di 16 tubi d’aria uguali di lunghezza e diametro. Anche nel XXI secolo questo materiale continua ad affascinare architetti e artisti. Lo dimostrano esperienze come quelle condotte dall’architetto Nicholas Grimshaw in Gran Bretagna (Eden Project, 2001; Leicester National Space Center, 2001) o, sul fronte opposto, quelle dell’artista lussemburghese Simone Decker, nota principalmente in Italia per le installazioni «Chewing-gum» sparse per la città di Venezia in occasione della Biennale d’Arte del 1999. Tuttavia, se il guscio pneumatico in passato veniva impiegato

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come riparo, negli ultimi dieci anni diventa per lo più membrana protettiva, rivestimento, elemento «accessorio», per stutture pubbliche dalla forte valenza simbolica: come lo stadio Allianz Arena di Herzog & de Meuron, inaugurato nel 2005 a Monaco, in cui cuscini trasparenti romboidali in politetrafluoroetilene (ETFE) gonfiati con gas colorati sono utilizzati come pellicola esterna dell’impianto, fino a quelli impiegati come rivestimento della piscina Water Cube progettata dallo studio australiano PTW Architects in occasione delle Olimpiadi di Pechino del 200810.

«Architectural Design», vol. XXXVIII, giugno 1968.   Jasia Reichardt, When is art, art?, in « Architectural Design», cit., p. 247. 3   «Una volta sollevato, il 5.600 Cubicmeter Package misurava 85 metri di altezza, con un diametro di 10. L’ingegnere capo Dimiter Zagoroff ha disegnato una “culla” in acciaio di 11 metri di diametro e del peso di 3,5 tonnellate per sorreggere il pacco in aria a 11 metri da terra. Questa invasatura in acciaio era imperniata su una colonna centrale, anch’essa in acciaio, ancorata a un basamento di cemento del peso di una tonnellata» in «5,600 Cubicmeter Package, Documenta 4, Kassel 1967-68», Burt Chernow, Christo e Jeanne-Claude: una biografia, Skira, Milano 2001, p. 97. 4   Giovanni Fuzio, Costruzioni pneumatiche, Dedalo libri, Bari 1968. 5   Si veda: Frei Otto, Rudolf Trostel, Zugbeanspruchte Konstruktionen: Gestalt, Struktur und Berechnung von Bauten aus Seilen, Netzen und Membranen, Ullstein Fachverlag, Frankfurt 1962. 6   L’opera di Wright viene esposta nel 1960 a New York in occasione dell’International Home Exposition. 7   Cfr. «L’Architecture d’Aujourd’hui», n. 102, juin-juillet 1962. 8   J. Aubert, J.P. Jungmann, A. Stinco, H. Tonka, Utopie in «Architectural Design», cit., p. 255. 9   Si veda: Chantal Prod’Hom ( a cura di), Air en Forme, Musée de Design et d’Arts appliqués contemporains, Lausanne 2000. 10   Cfr. Oliver Herwig, Axel Thallemer, Air. Unity of Art and Science, Arnoldsche, Stuttgart 2005. 1 2

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Libri, riviste e mostre

G. Dorfles, Design: percorsi e trascorsi. Cinquant’anni di riflessioni sul progetto contemporaneo, a cura di Fulvio Carmagnola, Lupetti - Editori di Comunicazione, Milano 2010. Il libro, organizzato secondo una sequenza temporale, riprende e rielabora una precedente edizione del 1996 di cui conserva parte degli scritti, integrati da articoli più recenti. Il risultato è una testimonianza attenta e acuta che copre più di cinquant’anni, come già esplicita il titolo della raccolta, di esperienze e riflessioni. Gli argomenti trattati sono i più vari ed è, per noi oggi, particolarmente interessante conoscere il pensiero dell’autore che ha analizzato delle tematiche ormai chiare e definite ma all’epoca dei primi scritti appena poste e ancora tutte da sviluppare. A questo proposito è esemplificativo proprio articolo iniziale che tratta la questione dell’uso del metallo nel progetto d’arredo e il suo con­dizionarne la forma dando vita a nuovi modi dell’abitare. A volte i temi scelti sembrano quasi

di secondaria importanza ma in realtà fanno da spunto a riflessioni più sostanziali: è il caso, ad esempio, di un saggio sul design degli pneumatici, analisi di un dettaglio che conduce alla ben più globale conclusione secondo cui la forma è solo parzialmente giustificata dalla funzione. La raccolta è una valutazione del­l’e­ poca come dimostra il testo inerente il congresso dell’industrial design alla X Triennale a cui l’au­ tore non risparmia critiche con­ siderando, nel complesso, troppo teorico l’approccio da par­te delle diverse figure professionali presenti: industriali, architetti e filosofi. Tra i primissimi impulsi del­l’uomo c’è, certamente, quel­ lo di creare oggetti scrive in un articolo del 1962 evidenziando come questi possano essere ritenuti un prolungamento dell’individuo che ha da sempre cercato di assegnargli una qualità estetica oltre che pratica: il design esisteva prima che ci si fosse resi conto che era qualcosa di nuovo. Oggetti che nel tempo hanno conservato alcune caratteristiche e contemporaneamente si sono

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arricchiti di nuove valenze diventando in alcuni casi portatori di segnali come avviene nell’arredo urbano, ambito in cui sono stati acquisiti significati convenzionali e ormai istituzionalizzati. Oggetti che sono diventati protagonisti nelle opere pittoriche come dimostrano le nature morte dal Barocco in poi, che si trasformano e animano nelle opere surrealiste, che cambiano di valore al punto tale da essere esposti nei musei. Infatti, da antesignano, Dorfles affronta una questione oggi di grande attualità: la tendenza a feticizzare gli oggetti come avviene nel caso dei reperti archeologici che, anche se umili, acquistano significato di opera d’arte; si assiste cioè al trasferimento estetico dei valori dell’oggetto d’uso comune a quelli dell’oggetto artistico. Di primaria importanza è la tematica inerente il rapporto tra persona e oggetto secondo la quale non deve essere l’individuo ad adattarsi ad alcuni meccanismi ma viceversa; rapporto che dovrebbe basarsi su una umanitarietà intesa come atteggiamento equilibrato dell’uomo nei confronti del mondo degli oggetti che non deve essere visto quindi né come vivente né come amorfo. Sono sottolinea­ te la tendenza alla universalizzazione degli oggetti e, parallelamente, la volontà e il bisogno del­­l’uomo di differenziazione e personalizzazione; l’autore auspica, a riguardo, la realizzazione di pezzi modificabili rendendo così l’individuo attivo e partecipe e trasformando l’oggetto industriale standardizzato in oggetto industriale modificato. La valutazione degli oggetti è cambiata nelle diverse epoche ed è stretta-

mente legata al gusto, fattore ancora più determinante oggi per noi in piena età dei consumi; Dorfles si chiede fino a che punto il design può imporre il suo gusto alle masse: le opinioni a riguardo sono contrastanti, e variano tra chi ritiene che a dover avere la meglio sia il consumatore e chi invece afferma che sia possibile manipolarne il gusto; in ogni caso vi è la consapevolezza che si è trasferito al campo del design quel modo di essere che fino ad ieri era caratteristico per il prodotto esclusivamente artistico. L’autore immagina anche l’intercambiabilità, in alcuni ambiti, dei concetti di arte e design per cui molti settori scientifici si arricchiranno di valenze estetiche e molte strutture artistiche verranno riviste secondo nuo­ve ottiche. Non mancano riferimenti al mondo della pubblicità che velocemente e con forza ha modificato i volti di molte città, al fenomeno del re-design cui vengono sottoposti gli oggetti per rispondere alle esigenze sempre nuove del mercato e spesso non a bisogni concreti. Viene esaminata anche la questione del contro-design, la tendenza per cui sono realizzati e venduti anche non mobili, pezzi che rimandano ad altro, che spesso tendono al kitsch e che il più delle volte non possono avere un reale uso. In alcuni casi questioni specifiche vengono scelte per poi espandersi a riflessioni di più ampio respiro, come dimostra il testo sul lavoro di Alvar Aalto, un mae­ stro profondamente radicato nella sua terra, capace di assorbire i dettami del Movimento Moderno facendoli propri e trasformandoli in più umani; protagonista di un


organicismo razionalizzato che da il meglio di sé quando lavora nel proprio ambiente creando opere che dialogano con il contesto, cosa che non avviene nei progetti realizzati in luoghi a lui estranei. Questo appunto è poi esteso da Dorfles all’intera produzione architettonica del momento che non mostra legami con il territorio in cui sorge trascurando le effettive esigenze della collettività. Sono affrontate, inoltre, problematiche legate alla vita breve degli oggetti d’uso, alla tendenza a buttare via prima che ci sia una reale usura, al consumismo che porta, in alcuni casi, all’assenza del legame affettivo con gli oggetti; una mancanza di relazione che si allarga alla società intera, alla labilità dei rapporti umani, alla perdita di valori. Negli scritti che, si è detto, sono molto diversi tra loro, emergono comunque delle costanti come ad esempio il carattere simbolico degli oggetti, la loro importanza non solo pratica ma anche psicologica; nel vivere comune esiste un mondo degli oggetti (…) costituito da quell’insieme di elementi naturali e artificiali, industriali e artigianali, senza i quali la nostra stessa esistenza sarebbe priva di significato perché non avrebbe più un punto di riferimento. Oggetti a cui si assegnano, a volte, poteri superstiziosi investendoli di una anomala forma di tesaurizzazione; fenomeno, questo, che in passato accadeva con i pezzi unici di artigianato, legati alla memoria e ai ricordi e che oggi è riscontrabile con alcuni oggetti di tipo industriale che vengono, in questo modo, investiti di valori che vanno oltre il loro reale essere. Dor-

fles ipotizza una futura evoluzione del design e dei suoi rapporti con l’arte e la società; da un lato, prevede la crisi e la scomparsa di alcuni oggetti sostituiti da segni, dall’altro, l’espansione del campo del design a nuovi ambiti, considerando comunque necessaria una estetizzazione dell’ambiente. Sono evidenziati il passaggio dall’artigianato al semiartigianato, all’industriale, dal mec­ canico all’elettronico. Si assiste, infatti, alla miniaturizzazione, alla scomparsa conseguente di alcuni manufatti e alla trasformazione di altri anche se ci sarà sempre bisogno del design. Il pronostico non può che essere felice e resterà il simbolo del XX secolo. È in questo secolo che per la prima volta si è effettuata una nuova forma di essere dell’oggetto usato dall’uomo. Vengono riconosciute ed evidenziate alcune caratteristiche proprie della cultura italiana: uno spontaneo buon gusto, il culto per la forma e una sorta di stimmung. In Italia è infatti rimasto integro quel rapporto tra ordine e disordine tra fantasia decorativa e equilibrio razionale che conduce ad importanti risultati nell’ambito del progetto dell’oggetto. Le riflessioni investono anche altre aree geografiche; infatti, non sono analizzate solo le forme del design italiano ma viene anche riconosciuto un identico approccio alle diverse tematiche da parte dei popoli del mediterraneo accomunati da miti e forme di creatività simili derivanti evidentemente dall’esistenza di un genius loci, e da scambi costanti nel tempo che hanno esercitato reciproche influenze e arricchimenti. Il libro, che mostra una coe-

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renza di stile e pensiero straordinari, termina con una conversazione tra l’autore e Vanni Pasca che tira un po’ le conclusioni del discorso. Viene ribadita, tra le varie annotazioni, la necessità che non siano gli artisti a progettare oggetti perché privi delle necessarie nozioni tecniche e come sia anche sbagliato, contemporaneamente, che architetti e designer realizzino pezzi unici poi battuti alle aste perché considerati opere d’arte da un mercato che crea così artisti anche dove non ci sono diffondendo il fenomeno di designart; in questo senso una collezione di oggetti di design è posta allo stesso livello di una collezione di opere d’arte. L’immagine in copertina, L’Arca di Gillo, mostra una serie di oggetti ben riconoscibili, opera dei grandi maestri del design, pezzi che evidentemente fanno parte ormai del nostro bagaglio culturale, della nostra storia e della nostra quotidianità e che, proprio per questo, sempre di più bisogna imparare a guardare e a conoscere in maniera diffusa come con chiarezza e fermezza afferma l’autore: credo sia molto importante che il design venga studiato anche fuori delle scuole specialistiche perché costituisce la base del nostro modo di vivere. T. R. R. Astarita, Casabella anni Tren­ ta. Una “cucina” per il moderno, Editoriale Jaca Book, Milano 2010.

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Negli anni Trenta, la rivista «Ca­sabella» è stata un ineludibile centro di elaborazione teorica,

non solo per quanti operavano nel campo dell’architettura, ma, più in generale, per molti intellettuali aperti al confronto tra vari campi del sapere: le ragioni di questo successo, e le vicissitudini delle persone che lo hanno promosso, sono oggetto del bel volume di Rossano Astarita. Nell’Introduzione l’autore e-­ spo­ne le motivazioni che lo hanno indotto a questa ricerca, illustrando nel contempo i criteri metodologici che l’hanno animata: nel documentare la forza e l’importanza di «Casabella», qua­ le crocevia di riflessioni e incontri nel contesto culturale e politico di quegli anni, Astarita rilegge l’archivio privato di Anna Maria Mazzucchelli, la segretaria di redazione e redattrice capo che ha curato e gestito l’allestimento del­ la rivista, imprimendovi anche il segno di una forte personalità umana e professionale. La ricchezza dei documenti che sono raccolti negli archivi privati, ai fini di una accurata ricerca storiografica sull’architettura contemporanea, è sottolineata dall’autore, che sceglie di ‘raccontare’ la storia di «Casabella» partendo da questi documenti, apparentemente minori rispetto a possibili analisi tematiche. Questo criterio metodologico è peraltro già stato consolidato da numerose ricerche, che hanno preso avvio proprio dalla catalogazione dei materiali rinvenuti nei fondi privati: opportunamente, però, l’autore lamenta la mancanza di una ‘messa in rete’ di tali documenti, sia nel senso di un collegamento ancora assente tra loro, sia nel senso di una pubblicazione sul web. La minuta ricostruzione delle corrispondenze epistolari, dei bi-


glietti redazionali, e degli altri documenti, intrisi della quotidianità che si svolgeva attorno alla rivista, da un lato determina la spinta per riportare l’affascinante storia di «Casabella» (che a tratti coincide con la biografia stessa di Anna Maria Mazzucchelli), e dall’altro offre l’occasione di illuminare i percorsi esistenziali e le biografie intellettuali che hanno segnato quell’epoca, purtroppo senza lasciare spesso adeguata traccia nella storia. Commentando la genesi del libro, l’autore os­ serva che il sottotitolo Una “cucina” per il moderno indica che esso non si propone quale altra storia né altra storiografia di quegli anni, proprio perché il dibattito avviato sulla rivista milanese rappresentò esso stesso un primo tentativo di storicizzare l’architettura moderna, proseguito poi, dalla lettura zeviana in avanti, in numerosi, pregevoli e fondamentali studi. È lo stesso autore, infatti, a chia­rire la cifra caratterizzante della rivista, che egli intende met­ tere in risalto: «Casabella» fu non tanto strumento divulgativo delle realizzazioni architettoniche italiane di quegli anni, ma piuttosto sede di elaborazione teorica, ‘palestra’ alternativa alla ricerca accademica, oppressa dall’ideo­logia nazionalista imposta dal regime. L’analisi del ruolo di «Casabella» all’interno del dibattito sul­l’architettura durante il ventennio fascista è limitata cronologicamente agli anni Trenta, con alcune significative espansioni nel periodo precedente e in quello successivo, per mostrare la genesi o le conseguenze di eventi e posizioni che si avvicendarono in quegli anni.

Sono numerosi gli intellettuali – primo tra tutti Bruno Zevi – che hanno attribuito alla rivista il merito di aver costituito per i suoi contemporanei un importante canale di diffusione di conoscenze e pratiche architettoniche, e per noi, suoi eredi, testimonianza di come si è generato il nostro presente. Il dibattito sull’architettura moderna italiana era quanto mai acceso e ricco di implicazioni: se infatti, da un lato, gli scontri accademici spesso sfociavano in accuse e attacchi, anche sul versante politico, dall’altro il clima culturale che ruotava attorno alla rivista era di ampio respiro e di forte vivacità, soprattutto grazie all’apporto di grandi personalità – come Carlo Levi, Alfonso Gatto, Adriano Olivetti – che operavano in ambiti culturali e professionali diversi da quello strettamente architettonico. L’interesse che questi riportavano nei confronti della difesa dell’architettura moderna internazionale va inquadrato all’interno di un discorso non meramente estetico, ma piuttosto indirizzato a una generale battaglia contro tutto ciò che risultava politicamente caratterizzato. I meriti che oggi le riconosciamo furono, durante il ventennio fascista, veri e propri capi d’accusa per la rivista, la quale si trovò a fronteggiare attacchi da più parti, esterni, ma anche interni alla stessa redazione. In Italia la sua diffusione non fu sempre agevole: né il professionismo accademico, né la critica giornalistica al servizio di posizioni culturali e ideologiche di volta in volta retrograde, autarchiche, razzistiche contribuivano infatti ad una maggiore distribuzione. La Mazzucchelli ricorda per esem-

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pio che la rivista era boicottata al punto da essere «proibita alla scuola di architettura di Roma» e i fascicoli in omaggio venivano «regalati ai portieri». Si vendeva piuttosto nelle edicole, acquistata da studenti e giovani architetti che fuori dalle università si formavano anche sulle sue pagine, dove potevano “leggere” le prove d’esordio della prima generazione di architetti modernisti. Sullo sfondo di queste vicende editoriali, si staglia la figura di Anna Maria Mazzucchelli, che gioca un ruolo di primo piano anche quando si allontana dalla rivista a causa di problemi di salute e in seguito al matrimonio con Argan: negli anni trascorsi a Roma a cavallo tra le due guerre, continua ad essere il referente principale del gruppo di studiosi e architetti che collaborano alla rivista; del suo ruolo lei stessa è lucidamente consapevole, quando scrive: «abbiamo impegnato assai più che parole nella difesa dell’architettura nuova in Italia, senza indulgenza per gli istrioni dell’ora». Altro fondamentale protagonista della vicenda di «Casabella» è Edoardo Persico: il peso che ebbe il critico napoletano al­l’interno della rivista è testimoniato non solo dalle scelte che egli assunse in relazione a ogni suo aspetto, grafico e redazionale, ma anche dalla quantità di lettere e messaggi ricevuti, dopo la sua morte, dalla Mazzucchelli, che ne rievocano l’importanza e ne rimpiangono la presenza. Tra le tante, particolarmente toccante quella di Lionello Venturi, esule a Parigi, che ringrazia la Mazzucchelli per l’invio dell’ultimo libro di Persi-

co e delle riviste che ne annunciavano la morte: «Cara signora, Le sono molto grato. Ho voluto anch’io bene a Persico. Mandandomi l’ultimo libro dell’amico scomparso e le riviste che l’hanno ricordato, Lei ha compiuto un atto pietoso verso di lui e verso di me. Mi è sembrato di tornare tra gli amici e le speranze, e la tristezza del­l’assenza mi si è fatta più dolce». La qualità del lavoro di Persico è tale da spingere i suoi amici e collaboratori a interessarsi alla rilettura e raccolta dei suoi numerosi scritti; Elio Vittorini, Alfonso Gatto, Giulia Veronesi e altri esplicitano le loro intenzioni ad Anna Maria Mazzucchelli, la quale, d’intesa con i più intimi amici di Persico di Torino e Milano, tentò di posticipare la pubblicazione degli scritti, soprattutto al fine di delineare una valida definizione della posizione del critico, lasciandolo al di fuori delle polemiche di quegli anni. Tuttavia, nei primi anni Sessanta la raccolta degli scritti di Persico fu affidata alla cura di Giulia Veronesi, per conto delle Edizioni di Comunità. Si tratta di un testo piuttosto controverso, poiché il taglio critico della Veronesi polarizzava l’attenzione sulla figura del critico napoletano quale unico responsabile di «Casabella», ignorando il significato corale di quell’esperienza. La seconda parte del libro di Astarita è dedicata alla descrizione di alcuni tra i principali ‘addetti ai lavori’ di Casabella: Ragghianti, Levi, Labò, Podestà, Ber­ tocchi, Veronesi, nonché gli stessi Persico e Mazzucchelli. Puntando ancora l’attenzione sul carattere poliedrico, sottoli-


neato dallo stesso autore, dei contributi apportati alla rivista, mi sembra interessante riportare ciò che Astarita scrive di Levi. Lo scrittore viene accolto da Pagano nonostante il manifesto antifascismo, e nei suoi articoli dimostra di possedere una notevole capacità critica e di comprensione dell’architettura moderna. Infatti, quando scrive un articolo sul complesso scolastico “Karl Marx” di Villejuif, realizzato dal­ l’architetto Lurçat, Levi ne descrive minuziosamente gli elementi tipologici e compositivi, cogliendo in maniera magistrale alcuni valori e peculiarità della fabbrica. Come nota Astarita, [Le­ vi] bene evidenzia il felice inserimento dell’architettura nel paesaggio, sottolineando la tangibile presenza della natura nell’edificio: «nulla è più lontano da ogni senso di costrizione e di ristrettezza che queste ampie vetrate, questi cortili di belle proporzioni, ricchi di piante scelte per il vario verde come le fusaggini scure, le chiare gaggie, i gialli ligustri dorati […]. Sulla strada davanti alla scuola, un filare di pioppi neri, diritti e sottili, accentua l’orizzontalità delle linee della costruzione e coopera a dare quel senso di aperto, di non legato, che con tanta evidenza ci colpisce». L’ultima parte del libro raccoglie materiali prodotti dai collaboratori della rivista, sia in forma di veri e propri articoli, che di pubblicazioni relative a mostre o monografie, organizzati per collocazione geografica (Stati Uniti, Francia, Olanda, Germania, Scan­ dinavia e Russia), e, all’interno di ogni singola nazione, per scuole e architetti.

Attraverso questi scritti è possibile rilevare l’apertura internazionale della rivista, la sua vocazione a selezionare le proposte più interessanti e innovative del panorama straniero, per diffonderne la conoscenza tra quanti non potevano accedere direttamente a quelle strutture e a quelle proposte. Il volume è ben corredato da un suggestivo apparato fotografico, che raccoglie la riproduzione di lettere inviate ad Anna Maria Mazzucchelli, e fotografie d’epoca che riprendono alcune tra le architetture di cui dà conto la rivista: insieme ai testi, le immagini ci offrono lo spaccato di un’età, sulla quale «Casabella» ha lasciato uno sguardo lucido e pertinente, e che noi oggi possiamo cogliere in tutte le sue implicazioni grazie alla documentata e appassionata ricerca di Rossano Astarita. V. P. G. Canella, Architetti italiani del Novecento, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2010. Si può condensare in poco più di trecento pagine la produzione architettonica italiana dello scorso secolo? A quanto pare, sì. Que­ sta sintesi mirabile è opera del compianto Guido Canella, architetto, la cui improvvisa scomparsa risalente al 2009 ha fatto sì che il testo uscisse postumo. Vorrei ricordare, per chi si accostasse per la prima volta a questo autore, che Canella è stato un importante protagonista dell’architettura italiana del dopoguerra, la cui attività si è articolata tra la

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teo­ria e la prassi architettonica, l’insegnamento universitario, la direzione di riviste quali Hinterland e Zodiac. Il libro, come ci illustra Enrico Bordogna in prefazione, si divide in due nuclei tra loro legati da sostanziale organicità: un nucleo (la seconda parte dell’indice) articolato per profili di singoli protagonisti letti in chiave monografica; e un nucleo (la prima parte dell’indice), costituita di saggi tematici, che inquadrano con sguardo storicocritico complessivo lo sviluppo del­l’ar­chi­tettura italiana dal­l’E­ clet­tismo ottocentesco al secondo dopoguerra, costruendo un quadro di riferimento dentro il quale i profili della seconda parte possono trovare utile termine di riscontro. Partendo dall’avvento della città moderna di fine Ottocento, l’Autore traccia infatti con grande maestria un excursus storico che, nel suo delinearsi attraverso le pagine del libro, manifesta il grande ventaglio di cause sociali, politiche e culturali che sottendono la produzione architettonica di quel tempo: dallo svi­ luppo dell’architettura del ferro e del mattone dei primi interventi della nascente città industrializzata, fino a quelli degli an­ni sessanta, passando per l’affermarsi del movimento moderno e della sua particolare storia italiana, cui fa da sfondo la parabola fascista. Precisa infatti l’Autore a tal proposito come il corso del Razionalismo italiano abbia costituito un caso anomalo tra gli stati soggetti alla dittatura politica, poiché per tutta la durata del regime fascista, sia pure con alterna fortuna, non solo riuscì a esprimersi ideal­ mente e operativamente, ma ad­ dirittura a godere di una legitti-

mità culturale, avversata più da un pregiudizio di gusto che non da motivi ideologici. L’Italia di quel tempo ha pertanto sfornato i maggiori esponenti dell’architettura razionalista. Basti pensare a Terragni, Per­sico, al gruppo BBPR, Gardella, per citarne solo alcuni. La loro produzione architettonica rivive nelle pagine di Ca­nella, nelle sue lezioni universitarie, riproposte nei saggio in questione, attraverso uno studio ed una critica attenti, scrupolosi, che non si fermano ad un’analisi superficiale delle fabbriche e degli autori ma ne scandagliano le motivazioni più profonde. La seconda parte del libro è incentrata sulle singole personalità che costellano il panorama architettonico italiano. L’Au­tore passa in ras­ segna le pro­duzioni di ciascun ar­ chitetto, da Sant’Elia a De Carlo, passando per De Finetti, Persico, Terragni, Samonà, Rogers ed altri ancora. Nel delineare le figure dei maggiori esponenti dell’architettura del Novecento, il nostro, che in gioventù è stato tra l’al­tro allievo di Rogers, non si esi­me dal­l’inserire anche dei cen­ ni autobiografici, che contribuiscono non solo alla conoscenza della vita del­l’Autore stes­so, ma anche a rendere la lettura più intima. Emblematico è infatti il pas­ so in cui, illustrando la figura di De Finettti, Canella si sofferma sulla propria vita e sulle proprie radici culturali. Ven­go da una fa­ miglia borghese trapiantata a Milano sulla metà degli anni 30. Mio fratello Luciano, architetto, faceva parte di quella “leva Pagano” formatasi ed attiva in Casabella dopo la morte di Persico e con l’avvicinarsi della guer­ra. Perciò, ancora bambi-


no, sapevo chi fossero Marinetti, Pagano, Persico, Terragni, Al­bini, Gardella e conobbi Ernesto Rogers. Di qui un rapporto disinibito con l’architettura moderna. Ricorrere a spunti autobiografici risulta per­­tanto congeniale nell’economia generale del­ l’opera, tanto all’autore quanto al lettore. Soprattutto per quest’ultimo l’avvicinarsi, scoprire o riscoprire certi maestri del passato attraverso i racconti ed aneddoti di vita vissuta umanizza architetti che la storia tende naturalmente a mitizzare. Parlando di Rogers, infatti, l’Autore ricorda gli anni dell’università e del suo rapporto con l’architetto triestino al­ l’epoca suo docente. E lo fa soffermandosi sul momento della sua tesi di laurea, quando Rogers fu l’unico membro (compreso il relatore) della commissione … a difendere un progetto per quei tem­pi assai anomalo (votato a una figurazione tra espressionista e na­zionalpopolare, almeno negli in­tenti), di cui egli non poteva con­dividere presupposti e, proba­ bilmente, esiti formali. Ed ancora, introducendo la figura di Albini, Canella inserisce nel testo elementi autobiografici. Nella sezione dedicata al­l’architetto comasco, infatti, così esordisce. Il primo incontro avvenne per interposizione: quando avevo una decina d’anni e mio fratello Luciano, di quattordici anni maggiore e all’epoca studente di ar­ chitettura, lavorava nello studio di Albini. A casa nostra, un appartamento con arredamento borghese, egli era riuscito ad allestire nella sua stanza-studio, gelosamente chiusa a chiave, un’atmosfera, per così dire, albiniana. Quella stanza, che do-

vevo accontentarmi di spiare dal buco della serratura, fu la mia Wunderkammer, finché riuscii a violarla con abilità di precoce scassinatore. Inoltre, ricordando Albini, l’Autore scrive non posso scordare una conversazione del dicembre del 1967, mentre tornavamo in aereo da Roma. Albini, solitamente riser­ vato… mi raccontò di uno dei suoi viaggi a Rio de Janeiro. In vista della costa, per un guasto improvviso, l’aereo dovette ammarare chiedendo soccorso. For­se i mezzi di salvataggio era­ no insufficienti per cui due giovanotti americani, liberandosi di scarpe e indumenti ingombranti, si tuffarono per raggiungere la costa a nuoto e Albini imitandoli fece altrettanto. I due americani, più giovani, nuo­tavano più velocemente ma vennero assaliti dai pescecani, Albini invece fu soccorso in tempo e si salvò. Oltre a ricorrere a cenni autobiografici, come in que­st’ultimo avventuroso caso, al­tro utile strumento adottato dal­ l’Autore per delineare le personalità degli architetti è il ricorso alla distinzione tra gli stili adottati da ciascuno. Ereditando dal campo pittorico le definizioni di stile lineare, stile plastico e stile prospettico di sintesi tra forma, luce e colore, Canella usa tale paradigma interpretativo, preso in prestito da Longhi, esten­dendolo alle varie produzione architettoniche esaminate. Se la maggior parte della produzione albiniana è riconducibile, secondo l’Autore, allo stile lineare, a Terragni si deve la manifestazione della plasticità architettonica, mentre a Gardella la sintesi di forma, luce e colore. Nel primo è emblemati-

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ca la Libreria in tensostruttura, degli anni 40, dove, con effetto a voliera, i consueti montanti verticali, assumendo sagoma a fuso, si ritrovano sdoppiati e inclinati diagonalmente a fungere da puntoni per tendere la catenaria che regge la serie di ripiani vetrati sospesi a bilancia. Ancora più interessanti sono le pagine dedicate al confronto tra Terragni e Gardella, in cui l’autore traccia un rapporto dialettico tra plasticità architettonica del primo e stile prospettico del secondo. La famosissima Casa del Fascio diventa, pertanto, un cubo, un blocco sul quale Terragni è intervenuto per via di togliere, quasi si fosse trattato di un’opera di scultura. Mentre nell’altrettanto famosa Casa per gli impiegati Borsalino, Gardella tende ancor più a dissolvere il confine tra interno ed esterno… ln tal modo il susseguirsi e l’inclinarsi degli arretramenti scompone l’integrità della facciata in piani-luce di diversa profondità. La summa del confronto di tali titani sta nella risolutiva equazione dell’autore, secondo la quale il plasticismo di Le Corbusier sta a quella di Terragni come il luminismo di Aalto sta a quello di Gardella. L. F. A. Castagnaro, A. Lavaggi, A. Picone (a cura di), Piccolo e Bello, intr. di A. Lavaggi, con scritti di P. Belfiore, R. De Fusco, C. Lenza, F. Purini, S. Raffone, S. Stenti, Paparo edizioni, Napoli 2010.

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Un libro quadrato, centotrentasei pagine, un terzo occupato

da saggi e due da progetti. Un libro che « (…) documenta un ciclo di seminari (…) con l’obiettivo di aprire una finestra sul mondo della professione agli studenti del Corso di laurea in Scienze dell’Architettura della Federico II». Un libro quindi di architetture, di ‘giovani’ noti e meno noti – A. Dias, F. Capanni, A. Buletti, MADE, S. Pascolo, M. Parga + I. Otegui/PO2, Berranger&Vin­cen­ te, D. Vargas, M. De Cesaris + R. Iodice, Gnosis, Corvi­no + Mul­ tari, S. d’Ascia, I. Forni, A. Monaco + M. Cimato, A. Tejedor, X Studio, F. Scardaccione, Costanzo e Lanini, Fgp Studio, G.F. Frascino – che hanno realizzato «opere di buona qualità e di dimensioni contenute (…) nella logica che anche in architettura la qualità non dipende dalle dimensioni», invitati a ‘dare ragione’ agli studenti dei loro lavori. Ma anche un libro di ‘pensamenti’ e riflessioni, preceduti dall’Introduzione di Antonio Lavaggi, ordinati nelle sezioni Scrit­ti, Contributi Teorici e Workshop di progettazione. Architetture e pensieri a confronto: principia ed exempla quali momenti necessari per una praticabile trasmissione del mestiere, dove con piacere si rileva il coraggio di usare la T maiuscola per la Theoria. Una Teoria intesa come riflessione razionale che, nell’approfondire il dualismo annunciato dal titolo “Piccolo e Bello”, consente agli autori di ‘interrogare’ le opere (le architetture strictu sensu) traendo da queste i principî che le informano, i fondamenti del mestiere, le norme, i nomoi: dal momento che il lavoro scientifico in architettura si avvale di esempi e non di astratte ipotesi da verifica-


re/falsificare. Un libro programmaticamente intelligibile ma al tempo stesso ‘polifonico’ con un dichiarato intento didattico ma anche con un ‘punto di vista’ dichiarato: il problema del bello e del suo rapporto con la dimensione o meglio con la ‘misura’ da preferirsi alla genericità dell’aggettivo ‘qualità’. L’Introduzione di Antonio Lavaggi spiega il titolo tratto da una sua lezione di ‘repertorio’ su ‘piccole architetture note’ di cinque maestri – Khan, Loos, Mies, Wright e Schinkel – che, in luoghi e tempi diversi, hanno accettato il problema della dimensione contenuta come condizione e, dato per scontato l’assunto di ‘bellezza’, consentono una loro trattazione a confronto dimostrando come si possa fare buona architettura in condizioni di linguaggio così distanti tra loro. ‘Piccolo’ e ‘Bello’ dunque: legati da una semplice congiunzione che a ben vedere può e vuole diventare copula. E molti dei saggi si occupano però di mostrare non tanto la coincidenza tra i due termini quanto la loro relazione dialogica: ‘piccolo’ iden­tificato come strumento, come condizione necessaria, ‘bello’ come fine o almeno come aspirazione. Il contributo di Alessando Castaganaro oppone i capolavori caratterizzati da misura ed adeguatezza della migliore tradizione italiana – da Brunellesschi a Palladio, da Borromini a Della Porta, da Scarpa a Gardella fino ad Albini, Samonà, Rogers, Ridolfi e poi Rossi e Grassi – ad una certa architettura contemporanea sempre più globalizzata e ‘gigantista’, denotata da una pro-

liferazione ‘babelica’ di -ismi. Antonio Lavaggi si interroga sul concetto di bellezza e, pur senza fornire risposte definitive, propone alla riflessione la relazione tra l’opera e i contesti, la storia, gli aspetti formali e tipologici, sottolineando la necessità per l’architettura di misurarsi con i desiderata della collettività e rinunciando anche ad usare il termine “bello”, a volte forse imponderabile. Adelina Picone sottolinea il carattere didattico dell’iniziativa ricollegandola alla esperienza della Scuola di Venezia ispirata da Giuseppe Samonà, nella direzione di un superamento degli specialismi, per puntare ad una ‘unità del sapere’ in cui, come nella stagione della “Tendenza”, l’insegnamento (…) tende a descrivere e trasmettere una teoria, una griglia capace di dare ordine e gerarchia alla conoscenza, per insegnare un metodo che non sia mai separato e separabile dal fare. Anche Sandro Raffone si sofferma sul­ l’aspetto pedagogico dell’iniziativa ripercorrendone le tappe e ricordando l’esperienza della visita con Campo Baeza a Casa Malaparte: una possibile concretizzazione di quell’‘elogio della modestia’ auspicato da Giuseppe Pagano. Nel saggio di Renato De Fusco, ragionando attorno al con­ cetto di utopia e ripercorrendo le declinazioni del termine da Platone a Camapanella, si afferma che l’utopia realizzata dei nostri anni non può essere quella della ‘primazia tecnologica’ ma bensì quella della piccola dimensione, della riduzione conforme, per richiamare Husserl, che metta al centro la dimensione umana, il mondo della vita. Tale atteggia-

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mento, secondo De Fusco, è riconoscibile nei caratteri distintivi dell’architettura italiana: dimensione piccola e modesta, l’ambientamento, la valenza classico-razionale, il rapporto con le presenze archeologiche versus le posizioni zeviane e a favore di una architettura ‘piccola ed ambientata’ capace di migliorare la condizione sociale dei suoi abitatori. Per Franco Purini, nel definire l’identità dell’architettura italiana, entrano in gioco ulteriori tre categorie: la concezione del progetto architettonico come ‘funzione della città’ (…); la centralità tra innovazione e tradizione; una connaturata capacità di pensare alla ‘scala umana’, usate per leggere alcune opere emblematiche e per disquisire, a partire dalla tradizione trattatistica da Alberti in poi, sul controllo di ogni aspetto del­ l’opera sino al tema della finitezza e alla dialettica tra lineamenta e structura. Pasquale Belfiore, nel riflettere sulla coppia, nega l’assunzione banale della congiunzione come identità (bello = pic­colo) e propone di intendere la (e) ora come congiunzione ora come verbo chiosando infine, con Corbù, che “piccolo e [/è] buono”. Ripercorrendo la tradizione del Movimento Moderno e dei CIAM sull’alloggio minimo, Belfiore recupera la posizione di Taut che vedeva nelle case operaie i “barlumi di questa nuova bellezza”: una bellezza che non aveva nulla di ineffabile ma che (…) derivava dalla assenza di contraddizioni tra esterno ed interno [significante e significato]. Cettina Lenza propone i termini proporzione e misura come due polarità ‘essenziali’ nella de-

finizione della forma architettonica e dell’aspirazione alla venustas. A partire da Vitruvio e dal concetto di eurythmia, passando per la concinnitas albertiana, fino a Claude Perrault – che dal trinomio vitruviano proportio, symmetria, eurythmia espunge il primo termine in quanto arbitrario e riservato agli intenditori – e poi nelle posizioni dell’illuminista Boullée e del neoclassico Durand si ripercorre l’evoluzione del rapporto proporzione-dimensione, associando, con Ruskin, il ‘grande’ e il ‘piccolo’ ai concetti kantiani di ‘sublime’ e di ‘bello’. Nel Novecento la ricerca della bellezza nell’architettura piccola coincide anche qui con l’Existenz­ minimum, in cui scompaiono le emozioni ed il problema si fa sociale ed economico; si chiude con Eisenman che finisce per affermare che se nella proporzione ci si era illusi di riflettere l’ordinamento del cosmo, l’architettura piccola o grande – e appunto in quanto piccola o grande – si conferma in funzione dell’uomo. Sergio Stenti discute il concetto di qualità attraverso i parametri di Smallness, bigness e sustainability in cui al piccolo, al domestico, al normale non rimane altro che fare da sfondo, luogo privilegiato della scala dell’individuo in contrasto con il grandissimo e lo ‘smisurato’ conseguente alla globalizzazione. Ma il piccolo nella sua ‘indifferente ripetizione’, può determinare una condizione in cui come accade nello sprawl, nelle villettopoli (…) le differenze tra urbano e rurale si perdono in una condizione pervasiva di città diffusa o non città. E nell’emergere di nuove doman-


de, le risposte contenute nelle posizioni teoriche di Krier – la piccola città (tradizionalista) – e di Koolhaas – la città generica (iper­ modernista) – devono entrambe essere superate all’insegna di una revisione urbana (…) in opposizione all’ambiente invivibile del­ le periferie per cui urge (…) un ripensamento che superi l’e­ste­ tica dell’oggetto (…) in una visione di città come agglomerato molto compatto e non diffuso. Infine nel contributo di Gianluca Di Vito, che apre alla presentazione dei progetti, si racconta, come in un diario di bordo, una esperienza di workshop con Alberto Diaz delineando una metodologia operativa che procede dalla scelta e conoscenza del sito, passando per il programma e arrivando al confronto tra soluzioni alternative viste come ‘variazioni sul tema’ più che come intercambiabile combina­toria. Come ha rilevato Carlos Martí Arís sono infine le opere le autentiche depositarie della verità e da esse si deve in qualche modo partire per svelarne il ‘segreto’, per ‘estrarre’, come piace dire a De Fusco, le norme e non le leggi, che, trasmissibili, non posso-

no essere celate da una sorta di mistero mistico e inconoscibile. In tal senso non tutte le opere presentate dagli architetti invitati sono paradigmi assoluti ma, per fortuna, molte possono considerarsi emblematiche di assunzioni teoriche, di alcuni modi che presiedono al fare. Se c’è una critica che lecitamente si può avanzare a questo lavoro forse sta proprio nella parziale rinuncia a tentare di ‘snidare’ in questi lavori – certo accomunati dal fatto di essere piccoli, misurati e fatti da giovani progettisti di valore – alcuni tematismi per rintracciare ‘famiglie coerenti’ non tanto sul piano del linguaggio (necessariamente soggettivo), quanto su quello della modalità di costruzione di risposte valide a problemi costanti in una tensione ad un ‘progetto collettivo’, ad una architettura nor­male. La risposta a questa esigenza ‘ordinatrice’ potrà forse essere l’occasione di un successivo approfondimento di cui gli autori sono certamente capaci, nella speranza che anche i progettisti ne avvertano l’urgenza e l’operatività. R. C.

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Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 57.  Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58.  E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59.  Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60.  Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61.  Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62.  Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63.  Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64.  Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65.  Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre N. 66.  Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre N. 67.  Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre

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N. 68.  Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69.  Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70.  Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71.  Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72.  Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73.  Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74.  Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75.  Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76.  I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre N. 77.  Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre N. 78.  L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79.  Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80.  Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81.  Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82.  Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre

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N. 83.  Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre


N. 84.  Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85.  Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86.  Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87.  Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88.  L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89.  Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90.  L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91.  «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92.  Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93.  La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94.  Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95.  Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96.  Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97.  Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98.  Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99.  Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre

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N. 100.  Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101.  Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102.  Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103.  Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104.  La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105.  L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106.  Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107.  Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108.  Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109.  Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110.  Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111.  Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112.  Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113.  Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114.  L’architettura italo-europea (fascicolo monografico)

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N. 115.  L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender


Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre N. 116.  Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117.  Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118.  Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119.  L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120.  Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121.  La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122.  L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123.  Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 124.  Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125.  Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126.  L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127.  Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128.  Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129.  Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 130.  Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 131.  Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132.  Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133.  Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134.  Abitare la razionalità - Per una nuova clas­si­ficazione delle arti - Il design ae­ro­nautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135.  Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136.  Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137.  Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138.  Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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Le pagine dell’ADI Associazione per il disegno industriale a cura di Maria Antonietta Sbordone e Dario Moretti

È stato presentato in giugno alla Triennale di Milano ed è attualmente nelle librerie specializzate italiane ADI Design Index 2009: l’edizione più recente dell’annuario che da dieci anni ADI pubblica, selezionando con una struttura appositamente creata (l’Osservatorio permanente del Design) i migliori progetti del design italiano di ogni settore usciti sul mercato nell’anno di riferimento. Ma non si tratta unicamente di un catalogo vivente del design italiano, che si rivela peraltro interessante per varietà di panorami settoriali e sorprendente per capacità d’invenzione: gli oltre cento esperti che si alternano nelle commissioni di selezione dell’Osservatorio, a livello locale sul territorio, a livello specialistico per tutta l’Italia, compongono anno dopo anno un panorama che muta sensibilmente, facendosi specchio delle trasformazioni del sistema culturale e produttivo del paese. Per questo pubblichiamo nelle pagine seguenti, dopo la prefazione al volume di Luisa Bocchietto, presidente nazionale ADI, le introduzioni che i responsabili dei singoli settori tematici hanno premesso all’illustrazione delle scelte collegiali delle rispettive commissioni, in grado da sole di fornire un’utile indicazione sui più recenti sviluppi del design italiano nel suo insieme. E per ogni settore, a titolo di esempio, riportiamo l’immagine di uno dei prodotti selezionati con le motivazioni che ne hanno motivato la scelta. L’emergere di una via nuova del sistema del design italiano è caratterizzato, come afferma Lui­ sa Bocchietto, da tre parole chiave: rete, etica, senso. Queste descrivono un paesaggio inedito, fondato su valori che si affermano nelle pieghe di una società definita della “crisi” dove non è possibile fare marcia indietro “bisogna dunque inventare il nuovo”, parola di Michel Serres (Temps des crises, Paris, Le Pommier 2009). La “rete” si fonda sul bisogno di dar voce alla pluralità di intenti, di progetti, di ansie e di entusiasmi che animano il quotidiano visto da molto vicino e che nell’“etica” dei comportamenti riscopre la possibilità reale di ri-costruire secondo una dimensione allargata e condivisa. Fin qui niente di nuovo se non si accetta un dato fondamentale: quello del­


l’agire con “senso” che significa ammettere, da un lato, che il nuovo ci sommerge e, dall’altro, che siamo di fronte ad una rottura profonda; il nostro pianeta è un attore essenziale, apparentemente muto, che ci chiede una migliore e più decisa rappresentazione. Questa, dunque, è la sfida alla quale il design è chiamato a rispondere.

Rete, etica, senso Luisa Bocchietto, presidente nazionale ADI Il design sta cambiando, insieme al mondo. Dal design del prodotto al design del processo al design del servizio, l’attenzione si sta spostando dal materiale all’immateriale. Oltre i valori formali e funzionali verso valori etici e strategici, dalla ricerca dei materiali alla ricerca sui comportamenti, dal progetto della distribuzione al progetto del consumatore. Rete, etica, senso; tre parole per riassumere la direzione dell’attività dell’ADI. La grande opportunità offerta dall’Osservatorio permanente del Design ADI (più di 140 esperti, Commissioni tematiche, Comitato di selezione finale, dodici Delegazioni sul territorio), è quella di poter valutare i prodotti del sistema del design italiano e contemporaneamente riflettere sui criteri di selezione. Questo lavoro incessante pretende un continuo rinnovamento dei principi per accogliere le trasformazioni esterne. Rete È il valore della rete ciò che rappresenta meglio, oggi, l’ADI. Un lavoro davvero straordinario che avviene a titolo volontario e sussidiario per la collettività. Il lavoro dell’Index è strutturato a livello annuale per raccogliere i migliori prodotti e per indirizzarli al Compasso d’Oro, ogni tre anni. A valle dell’Index, a livello territoriale, lo strumento del Codex è nato per rilevare e accogliere le evidenze territoriali; quei prodotti e quei protagonisti che dimostrano vitalità e costituiscono una risorsa per l’innovazione. Tre regioni, Veneto, Lazio e Campania, li hanno già realizzati, dimostrando come questo diventi immediatamente strumento di crescita a livello locale. La rete è dunque finalizzata a fare emergere la qualità del design, andandolo a scoprire anche alla periferia, a fare interagire le persone


tra loro e con le istituzioni, a creare dibattito evolutivo sui temi e criteri di selezione. La rete creata in questo modo permette di qualificare il lavoro del­ l’ADI nei confronti delle Istituzioni nazionali. Diventa evidente come questo screening continuo sia utile alla diffusione della cultura materiale, che il design, meglio di ogni altro fenomeno rappresenta. Per sua caratteristica il design riesce a sintetizzare aspetti formali ed economici in grado di essere facilmente compresi e di produrre effetti concreti. In questa direzione vanno visti i risultati raggiunti negli ultimi mesi che hanno consolidato i rapporti con i diversi ministeri: con il ministero dei Beni Culturali, attraverso la partecipazione al Consiglio Italiano del Design, con il ministero dello Sviluppo Economico, attraverso la collaborazione diretta con Fondazione Valore Italia, con il ministero dell’Innovazione, con la segnalazione dei tre premi annuali ADI al Premio dei Premi consegnati ogni anno l’8 di giugno dal Presidente della Repubblica. Il design è attività trasversale; l’ADI ne è consapevole avendo al suo interno componenti diverse che si occupano di progettazione, produzione, formazione, comunicazione e distribuzione; la rete dei contatti istituzionali diventa fondamentale. Etica La seconda parola che voglio utilizzare per raccontare il percorso in atto. Per i non addetti ai lavori ci può essere la convinzione che la selezione avvenga per meccanismi di premialità interni; non è così. Da qualche tempo il processo di selezione coinvolge molte persone, determina dibattito, non garantisce la dimenticanza e l’eliminazione degli errori soggettivi, però produce la definizione di alcuni valori oggettivi. Sempre più spesso ci troviamo a premiare aziende e persone che non hanno rapporti diretti e personali con i selezionatori o con l’ADI, accanto alle aziende e progettisti che fanno parte da sempre dell’associazione. L’elemento che emerge indifferentemente è la qualità del lavoro. Etica corrisponde anche a promuovere un codice deontologico. Etica corrisponde a sostenere accanto ai requisiti della forma e dalla funzione, i principi della sostenibilità, della riduzione dei rifiuti, del design for all, ancora oggetto di dichiarazione più che di reale convinzione da parte di molti. Etica significa rispettare le regole nei concorsi pretendendo premi congrui, giurie serie e incari-


chi ai vincitori per evitare che il lavoro dei progettisti venga utilizzato senza rispetto. Etica significa creare occasioni per i giovani, ma anche determinare un’età limite oltre la quale si diventa progettisti, con tutte le responsabilità del caso e differenziare ciò che è prodotto dalle scuole e dagli studenti e ciò che è prodotto professionalmente. Etica è non accettare che il design sia una componente del marketing e non rinunciare a essere visionari, per evitare che il panorama di ciò che produciamo sia formalmente bello ma inutile. Il design italiano si contraddistingue per questa forza sovversiva che ha saputo anticipare e riversare sul mercato. “Dal cucchiaio alla città” significava non tanto il volere disegnare tutto, per smania di controllo da parte dei progettisti, quanto non rinunciare alla scommessa dell’utopia. Oggi, persa ogni velleità urbanistica, il design deve continuare a inseguire una visione di critica sociale e perseguire progetti a ricaduta collettiva. L’alternativa è il formalismo senza anima. In questa logica è stata inserita la tematica del design dei servizi, che riconosce al design un valore di coordinamento di esigenze diverse, che necessitano di competenze formali e strategiche. Il committente non è più solo l’impresa e diventa la collettività o l’istituzione. Senso Il senso della parola design resta legato al valore del progetto, che sarà sempre meno connesso al solo prodotto tridimensionale e sempre più coinvolto nello studio di temi complessi. Si aprono nuovi ambiti di lavoro nel settore dei servizi (immobiliari, bancari, connettivi, sanitari) e sono possibili collaborazioni con imprese che tradizionalmente non si sono mai occupate di design, per la valorizzazione del turismo, del territorio, dei beni culturali. In tutti questi settori è utile la componente formale e strategica del design, capace di dare qualità espressiva a esigenze immateriali o latenti; la capacità creativa e progettuale può essere messa a disposizione d’imprese o enti che devono valorizzare il patrimonio esistente sia questo rappresentato da monumenti, identità, prodotti locali. L’accezione di food design comprende lo studio grafico, il packaging, la forma del prodotto, ma anche la promozione della qualità complessiva di un territorio. Il design per i beni artistici può produrre arredi urbani e piani di utilizzo dei servizi, il design per il turismo può ri-progettare l’identità dei


territori o qualificare la ricettività. La crisi degli ultimi mesi ha liberato il campo da molte sovrastrutture formali, le persone cercano sempre più la sostanza, valutano i costi, scelgono più consapevolmente. Tutti desideriamo meno merci e più servizi. Le aziende che necessitano di design sono molte ed è utile rivolgersi a queste e non soltanto a quelle già affermate. La ricerca continuerà a studiare i materiali e la tecnologia per produrre innovazione, ma sarà lo studio dei comportamenti che potrà offrire spunto per la creazione di prodotti utili. Il progetto non può mai essere gratuito, per giustificarsi ha bisogno di un significato, credo che questo sia il senso di continuare a immaginare un mondo migliore. Il nostro mondo futuro dipende da come lo sappiamo immaginare, progettare, realizzare. Coltivare l’im­ ma­ginazione, studiare i comportamenti, agire pensando davvero un po’ meno a noi stessi e un po’ di più a noi tutti.

Gianluca Sgalippa, Design per l’abitare Alcune aree del design impongono al progetto dei parametri restrittivi (ergonomia, premesse tecnologiche, ecc.) e altri, al contrario, dilatano i confini a favore di nuove sperimentazioni semantiche ed esornative, come invenzioni visive sollecitate dalla grafica digitale. I prodotti destinati al paesaggio domestico e all’ufficio occupano una posizione intermedia: si muovono, nella maggior parte dei casi, lungo i solchi di tipologie già collaudate e cristallizzate, non condizionate dalla complessità degli apparati tecnici, mentre l’idea della decorazione (applicata e indotta) rimane ancora debole. Lo sciame dei prodotti esaminati dalla commissione per l’arco del 2008 manifesta un orientamento particolarmente significativo. Pur nella caleidoscopicità degli approcci progettuali e delle filosofie aziendali, le proposte raccolte in questa sezione rivendicano il valore della forma come tema di approfondimento e strumento di riconoscibilità in un panorama merceologico che non ha ancora vissuto l’urto della grande crisi mondiale. Si mette in primo piano l’identità dell’artefatto come fattore distintivo. Si cerca di affermare la sua personalità in un mondo creativo dominato dal fenomeno della trasversalità e dell’omologazione, a un passo dallo scenario che ha portato alla ribalta in termini urgenti – nell’industria, nei progettisti, nei consumi – le questioni del limite, della riduzione e della compatibilità con l’ambiente.


Nanook. Progettista: Philippe Bestenheider, Produttore: Moroso. Caratteri essenziali della sedia sono la forma organica della scocca in plywood di faggio curvato e la decorazione grafica con disegni concentrici su shape a multipetalo; quest’ultima realizzata con l’applicazione di una pellicola acetalica, colorata in diverse tonalità. La leggerezza visiva della scocca è amplificata dal basamento in doppio tondino a diametro ridotto. Questo progetto ha ottenuto, su segnalazione di ADI, il Premio nazionale dell’Innovazione nel giugno 2010.

Aldo Bottoli, Design per l’ambiente Quando ci riferiamo all’ambiente, rimandiamo a un campo semantico dove convivono il costruito e l’insieme di tutti gli oggetti d’uso presenti nella nostra quotidianità. In particolare il paesaggio urbano, esito di un operare collettivo, è il risultato degli interventi che si sono succeduti nel tempo e del loro sovrapporsi senza progetto. Gli oggetti d’uso, al contrario, sono frutto di progetto puntuale e testimoniano una precisa epoca e un ben definito modo di intendere l’abitare. Il valore assegnato ad essi riflette la filosofia di vita e la visione del mondo che appartiene alla società che li ha espressi. In questo modo si genera una forte relazione capace di indurre fenomeni di felicità/soddisfazione. Per questo motivo l’architettura e il design hanno un ruolo fondamentale nel realizzare ciò che chiamiamo “qualità della vita”, condizione di cui abbiamo più bisogno per condurre una vita civilizzata. La selezione di oggetti che presentiamo è emblematica dei molti saperi altamente specializzati che operano con cura e con gusto, ma ci piace pensare che questo operare di imprese, artigiani, progettisti, come per il mondo dell’arte, non si fermi solo alla maestria del fare, ma esprima valore anche nell’intenzione. Perché gli spazi e gli oggetti non sono mai solo valutabili dal punto di vista quantitativo: nel momento in cui l’uomo “li vive” diventano sempre anche qualitativi, caricandosi di affettività. Pensiamo ad un fare design come tentativo di portare nel quotidiano “la domenica della vita” in cui Hegel aveva racchiuso la sola fruizione dell’arte.


Territorio. Progettista: Jonathan Olivares. Produttore: Danese. Territorio è una piccola “infrastruttura per la sosta” per gli spazi pubblici e condivisi. Oggetto ibrido, a metà strada tra la seduta e il tavolo, è dotato di una forma che non suggerisce una destinazione d’uso univoca e prestabilita e invita alla libera interpretazione funzionale. Si compone di un’ampia superficie d’appoggio, che funziona come seduta o piano di lavoro, e di una spalliera a struttura metallica, all’occorrenza informale appendino. Lo spazio protetto al di sotto del piano di seduta/lavoro può fungere da temporaneo ricovero per i bagagli.

Gianni Arduini, Lorenzo Bonfanti, Antonio Macchi Cassia, Felice Ragazzo, Gianfranco Salvemini, Isabella Steffan, Design per il lavoro “Il brutto non si vende!” Raymond Loewy

Officine Meccaniche S. Rocco, Officine Galileo, Olivetti OCN, Durst, ELVI: alcuni nomi di aziende che dal 1954 al 1984 hanno vinto il Compasso d’Oro e che avrebbero potuto essere selezionate da quella che è adesso la Commissione per il Lavoro. Erano produttrici di beni strumentali con forme, ancora oggi, estremamente innovative e tese ad una giusta sintesi tra forma e funzione nel rispetto anche di una corretta ergonomia. Non utilizzavano tecnologie estremamente costose ma intelligenti ed adatte alla realizzazione di prodotti che hanno rinnovato l’immagine di quel tipo di macchine. Oggi, in questo settore, si vedono soprattutto scatoloni in lamiera, dove l’innovazione è rappresentata in gran parte da una sofisticatissima elettronica. Poca ergonomia e pochissimo design: quasi soltanto interventi grafici. Quando poi sono altre le tecnologie costruttive, raramente vengono sfruttate in modo completo ottenendo così prodotti al di sotto delle loro possibilità di espressione. Questa tendenza si sta sviluppando da parecchi anni e non è soltanto colpa delle limitazioni della situazione congiunturale ma di un progressivo allontanamento da parte di qualche produttore dalla capacità di mantenere le


peculiarità del Made in Italy. La storia – o forse e meglio dire la leggenda – racconta che il design, nella sua accezione attuale, è nato intorno al 1929 in occasione o meglio per contrastare gli effetti della grande recessione. Prima pochi poi sempre più produttori, con reali capacità imprenditoriali, si sono resi conto che con una metodologia innovativa che comprendesse tutti i campi d’intervento del progetto sarebbe stato possibile prima diminuire gli effetti e poi superare la crisi. I pochi prodotti dell’anno 2008 che seguono – frutto delle selezioni destinate alla presente edizione e che emergono dal resto di quanto da noi valutato – vogliono essere il punto di partenza per una riqualificazione progressiva di questo settore all’interno dell’ADI Design Index, partendo dall’Osservatorio permanente del Design, da cui la serie di volumi editi traggono origine e ragion d’essere. WD.04 miniturbina eolica. Progettista e produttore: Windesign. Dotato di un ridotto impatto visivo e acustico, il micro-generatore eolico ad asse verticale produce energia elettrica anche in condizioni di bassa velocità del vento. La turbina, direttamente connessa a un alternatore tramite l’asse centrale, è priva di avviamento assistito elettricamente, di motoriduttori o di altri parti meccaniche in movimento. Uno speciale sistema autofrenante entra in funzione in caso di vento eccessivo, senza interrompere la produzione di energia.

Paolo Tamborrini, Design per la persona Una rinnovata commissione tematica e la collaborazione con le delegazioni territoriali hanno determinato una selezione di circa 50 oggetti pensati e prodotti per la persona. Un’ulteriore selezione, a cura del Comitato di Selezione Finale, non sempre condivisa dalla commissione di esperti nell’ambito tematico, ha portato alla selezione finale, che continua comunque a dimostrare come il settore sia attivo nelle tipologie tradizionali e propositivo, in cerca di innovazione, in contesti ancora inesplorati. Lo sport rappresenta, come


sempre, il “luogo” della ricerca in cui, anche con piccoli cambiamenti, vengono migliorate le prestazioni e l’usabilità degli oggetti stessi. Primi cenni di produzioni per il food design, in cui la forma del cibo è definita da “funzionalità percettive” e modalità di degustazione inedite. Si tratta di prime importanti esperienze, ma ancora limitate per un settore che rappresenta una forte componente all’interno del sistema produttivo nazionale. I lavori delle commissioni danno evidenza di un buon livello di produzione di accessori, al limite tra moda e design: borse, abbigliamento e gioielli in cui si sperimentano materiali, tecnologie innovative o inedite. Dalla mancata selezione di giochi e articoli per l’infanzia emerge una disattenzione progettuale e produttiva per un’utenza importante. Genitori e bambini, in particolare, sono indubbiamente soggetti complessi da soddisfare; i più piccoli rappresentano però il futuro ed è importante offrire loro qualità, per stimolarne la crescita, per abituarli al prodotto ben fatto e, in fondo, per educarli al buono, al giusto e, quindi, al bello. Anello Digital, Progettista e produttrice: Stefania Lucchetta Anello realizzato in speciali leghe anallergiche, solitamente impiegate per le protesi o in alcune parti dei motori di aerei. La particolare lavorazione in sinterizzazione (trattamento termico di ‘saldatura’ delle particelle metalliche al di sotto del punto di fusione del componente principale) valorizza sia l’aspetto estetico che le qualità meccaniche delle leghe. Tale procedura ha permesso di realizzare forme, volumi e pesi non ottenibili con le tradizionali tecnologie di produzione dei gioielli.

Livio Salvadori e Alfredo Zappa, Design dei materiali e componenti Tra le nuove aree tematiche introdotte in questa edizione dell’ADI Design Index, quella dei materiali e dei componenti per le costruzio-


ni apre interessanti prospettive di osservazione e riannoda il legame con un settore che storicamente ha trovato, nel panorama italiano, alcuni tra i suoi più significativi protagonisti. Da Ponti a Scarpa, da Zanuso a Mangiarotti a Giugiaro, solo per citare alcuni tra i moltissimi che si sono misurati creativamente con materiali da cantiere, elementi costruttivi e componenti strutturali, alla ricerca di una forma altra. Ecologia, risparmio ed efficienza energetica sono le tendenze emergenti per un settore dove non tutto il disegno industriale è destinato ad apparire secondo i canoni estetici tradizionali e i recenti orientamenti, così come gli enormi investimenti a essi legati, parlano di design dei materiali a scala nanometrica, oppure di innovativi elementi costruttivi destinati però a rimanere nascosti alla vista una volta integrati nell’edificio, di produttori di sistemi di facciata e serramenti che si impegnano ad azzerare l’impatto estetico delle strutture, di materiali da rivestimento che dietro l’aspetto superficiale, nascondono una seconda bellezza, frutto di cicli industriali rivoluzionari. Una realtà per certi versi inconsueta, che durante le riunioni di selezione ha stimolato la discussione con l’obiettivo di definire adeguati parametri di giudizio. Il percorso d’indagine è avviato e in prospettiva crediamo riuscirà a testimoniare efficacemente quanto di interessante sta accadendo. Sistema Geco. Progettisti: Fabio Frambati, Gianni Royer Carfagni. Produttore: Teleya. Il sistema si basa su un piccolo supporto puntuale che si aggancia direttamente all’interstrato plastico posto all’interno del vetro stratificato, e lo trasforma in elemento strutturale portante. Tale soluzione consente di ottenere superfici vetrate continue, senza fori o elementi metallici di sostegno aggiuntivo. Geco risolve i problemi della stabilità dei bordi e della delaminazione, propri dei normali vetri stratificati, e offre significativi riscontri in termini di sicurezza nel comportamento post-rottura del vetro.


Stefano Maffei + Ezio Manzini, Elena Pacenti, Giordana Ferri, Beatrice Villari, Luca de Biase (con il supporto scientifico di DIS_Dipartimento INDACO-Politecnico di Milano + Service Design Department-Domus Academy), Design dei servizi Per la prima volta l’ADI Design Index ha deciso di introdurre tra le categorie selezionate anche quella del design dei servizi. Questa selezione nasce dal riconoscimento di una realtà evidente che la più importante associazione italiana del design e del progetto non può più ignorare; ovvero che sempre più la nostra esperienza quotidiana in tutti suoi aspetti non è mediata solamente da artefatti-prodotti materiali ma anche da un continuum di servizi, senza cui questi prodotti non sarebbero accessibili o senza cui essi sarebbero inutili. Nella sua evidenza più concreta questo dato, supportato dalle statistiche OECD ci dice che nei paesi ad economia avanzata, di cui l’Italia fa parte, il 70% circa del PIL è realizzato attraverso il settore dei servizi. Questa crescita impetuosa di una economia dei servizi finisce per porre delle questioni sulla relazione tra sistema produttivo e il progetto. Se come dice Negro un servizio è “…un processo di interscambio finalizzato alla soluzione di problemi, alla soddisfazione dei bisogni e dei desideri delle persone singole o collettive e imprese che si attua mediante il trasferimento reciproco di informazioni, conoscenza, abilità, lavoro, appartenenza, sicurezza, o la disponibilità ad usare individualmente e temporalmente beni, strumenti e il trasferimento di risorse naturali…” e se questo genere di processi rappresenta la maggior parte di ciò che attualmente la nostra esperienza di utenti vive e sperimenta (oltre alla complessa relazione con gli artefatti-oggetti) allora possiamo dire che questo processo interattivo è progettabile. Anche qui la cultura del progetto italiana ha dato un contributo seminale partecipando ad un riconoscimento educativo e professionale di quest’area di competenze disciplinari. Il design dei servizi è passato dall’essere una questione teorica a una pratica di ricerca e consulenza progettuale professionale. Testimonianza di ciò è la nascita di network internazionali di università, agenzia di consulenza-progetto, enti di ricerca, istituzioni che sta facendo emergere un mondo della ricerca e della pratica professionale di cui in Italia si comincia a percepire la dimensione. E per questo motivo ADI deve iniziare ad occuparsene: essa rappresenta


un’area di sviluppo professionale interessante che conoscerà in tempi brevissimi un’imponente espansione e sviluppo e sarà oggetto di un’altrettanto importante espansione industriale. Cohousing.it. Progettista: Ezio Manzini, DIS-Dipartimento Indaco-Politecnico di Milano e Innosense Partnership. Produttore: Innosense Consulting. Le comunità di cohousing combinano l’autonomia dell’abitazione privata con i vantaggi di servizi, risorse e spazi condivisi. Cohousing.it offre i servizi necessari per realizzare i progetti: dalla ricerca delle aree idonee, alla formazione del gruppo promotore e alla sua evoluzione in una comunità residenziale organizzata. Questo progetto ha ottenuto, su segnalazione di ADI, il Premio nazionale dell’Innovazione nel giugno 2010.

Carlo Branzaglia, Visual design Il tema del visual diventa sintomatico del ruolo del design nel momento in cui viene chiamato primariamente a costruire un rapporto di relazione fra utente e marca. Nella necessità di mantenere costante nel tempo questo rapporto, attribuendo valori coerenti alla marca nelle sue declinazioni; ma anche nell’opportunità di modularlo, gestendolo in modi, spazi e tempi opportuni. Dove il valore del concept nella comunicazione visiva rappresenta un primo dato essenziale.

Mario Mastropietro Exhibition design La selezione operata per l’ADI Design Index è il risultato di un lavoro attento e, finalmente, coordinato degli Osservatori territoriali con la commissione tematica. Coordinamento e “vista lunga” ancor più necessari per un ambito quale l’exhibition design strettamente


Napoli Teatro Festival Italia. Progettisti: Tassinari-Vetta, Leonardo Sonnoli e Paolo Tassinari. Committente: Fondazione Campania dei Festival. Il progetto di identità visiva di “Napoli Teatro Festival Italia” si basa sull’adozione di un inedito logotipo, che si richiama al titolo dell’evento; in esso, al posto delle vocali sono impresse le relative controforme, che richiamano alla forma della lettera introducendo però un elemento di spaesamento. Il logotipo così concepito è quindi declinato in diverse versioni, corrispondenti al festival nella sua identità istituzionale, e alla sua prima edizione nel 2008.

legato ai luoghi in cui prende forma. Quest’anno, oltre all’assoluta eccellenza del progetto allestitivo, si è posta particolare attenzione agli aspetti innovativi dei linguaggi e degli strumenti messi in atto per “comunicare esponendo”. E ciò è avvenuto sia per l’ambito apparentemente più classico, le mostre, sia per stand, retail, eventi. Dalla mostra “30 anni di radio fm” che, con l’attento apporto di suoni e multimedialità, ha affrontato il tema dell’itineranza; alla mostra “Salvatore Ferragamo”, uno dei più affascinanti esempi di mostra celebrativa di un brand. Dalla mostra “dinamica” su Carlo Scarpa per la Biennale di Venezia alla mostra su “Roberto Sambonet”, ambedue tese a mettere in rilievo, a “far leggere” il rapporto tra paesaggi mentali e progetto. Caso particolare le due mostre tenutesi a Palazzo Rea­ le a Milano: “Canova alla corte degli Zar” e “Bacon” si sono confrontate con gli spazi aulici del Palazzo, la prima esaltandoli, la seconda negandoli. Due strade opposte, due allestimenti straordinari nel rispetto delle opere e del luogo. La mostra “Agli Dei Mani” rappresenta un ottimo esempio di integrazione vitale con il Museo Archeologico di Aosta che l’ha prodotta. L’allestimento dello stand “il Casone” è un caso straordinario di prodotto (e di lavorazioni) che si autorappresenta. Tre eventi “The New York Times Style Magazine”, “Multivisione architettonica per le Olimpiadi di Pechino” e l’evento


multimediale di Peter Greenaway con l’Ultima cena ridanno un senso compiuto all’abusato termine “evento” mettendo in campo sofisticate tecnologie. Per ultimo “Shop Sharing”, il primo e più avanzato esempio di temporary shop: strategia dinamica e interattiva al servizio del marketing. Multivisione architettonico-artistica per le Olimpiadi di Pechino. Progettisti: Paolo Buroni e Sabine Lindner. Committente: Municipalità di Pechino. Organizzato in occasione delle ul­time Olimpiadi, l’evento di multi-proiezione artistica è stato ideato per essere trasmesso dai principali canali di comunicazione visiva del pianeta. La figura iconica della CCTV Tower di Pechino si è così trasformata nel supporto architettonico per la più grande proiezione mai effettuata su un grattacielo in vetro, con oltre 24.000 mq di superficie interessata.

Grazia Gamberoni, Ricerca per l’impresa Dalla solitudine dell’idea alla comunione degli intenti, dal prodotto dell’uomo a quello per l’uomo: dentro questa forbice virtuale, si snoda il percorso, anche a volte tortuoso, della ricerca. Sia essa teorica che pratica, sia, dunque, quella svolta nelle aule e nei laboratori delle scuole e delle università, negli studi professionali, sia quella che si consolida dentro le aziende, polo catalizzatore di investimenti di idee e di professionalità, che, agendo anche in campi molto diversi, producono o meglio dovrebbero evolversi in innovazione. Ed è in questo ambito che la Commissione tematica sulla Ricerca per l’Impresa intende muoversi, per dare valore a percorsi spesso disomogenei tra loro, non confrontabili nei risultati, non paragonabili negli sforzi e investimenti, ma che hanno alla base, la volontà di uscire dal “fatto”, inteso come evento, e dal “ben fatto”, inteso come prodotto, per postulare una visione di insieme con “comunione di intenti e di indirizzi”, come affermava Marco Romanelli nel volume


ADI Design Index 2008, agli albori della commissione di cui mi onoro di far parte, nel testo a commento dei primi lavori selezionati. Ed è proprio attraverso questa diversa visione strategica che si può lavorare perché il progetto di design non sia più solo espresso e letto come sintesi tra forma e funzione, ma come la risposta con la miglior sintesi tra le tante possibili per tecnologie e materiali, alla più complessa questione di dare vita ad un progetto eticamente sostenibile e funzionalmente compatibile, con finalità condivise, attraverso competenze non elitarie e che diventano stimolo per sviluppi futuri. Facendo proprio conto di ciò, si sono analizzate alcune realtà tra loro diverse, per dimensioni, specificità e tipologia di produzione ma anche per cultura imprenditoriale. Snodo cruciale per la qualità del­ l’analisi è che la diversità sia un plus e non un limite. Medoc. Progettisti: Michele De Lucchi, Philippe Nigro. Produttore: Margaritelli, listone Giordano. Sistema-pavimento composto da tavole dall’inedita sagoma trapezoidale, con effetto superficiale segato trasversale. Ogni singola tavola è costruita con tecnologia multilayer e strato a vista in legno di rovere. All’originale forma degli elementi si associano inedite soluzioni relative al trattamento superficiale del legno, alla pigmentazione in due tonalità di colore e alla finitura a olio naturale, che donano alle tavole particolari note tattili, cromatiche e olfattive. Questo progetto, ha ottenuto, su segnalazione di ADI, il Premio nazionale dell’Innovazione nel giugno 2010.

Vanni Pasca, Ricerca teorica, storica, critica e progetti editoriali Con la globalizzazione, la rivoluzione informatica, la digitalizzazione, Il design è in grande sviluppo. Si articola in più direzioni,


sia in senso verticale (crescono le tipologie di cui si occupa il design, sempre più considerato plus nella concorrenza internazionale fra aziende e sistemi paese), sia in senso orizzontale (aumento delle categorie che lo denotano: social design, design for all, design for sustainability, interactive design, design art ecc.). C’è poi un secondo processo in corso: sul piano internazionale, cresce il numero dei paesi in cui il design assume rilievo; in Italia, poi, aumentano i processi di territorializzazione innescati dal costituirsi di corsi di laurea nelle varie regioni ma anche dall’attività delle delegazioni ADI. In questo scenario, aumenta il numero delle pubblicazioni riferite al design nei suoi vari aspetti. La crescita è notevole e con essa la discontinuità qualitativa: proprio per questo è importante individuare e selezionare quanto di realmente utile e interessante per gli sviluppi della cultura del design venga prodotto nel nostro paese. Per fornire un servizio reale a quanti al design sono interessati, e per segnalare per il Premio Compasso d’Oro i contributi di reale qualità, come si è sempre cercato di fare per quanto riguarda i prodotti e la grafica. Grande Atlante del design. Autore: Enrico Morteo. Editore. Mondadori Electa. Attraverso una mappatura geostorica, che parte dalle origini del disegno industriale e si estende fino all’oggi, il volume rilegge la parabola del design come fenomeno culturale. Seicento oggetti, scelti come paradigma, vengono illustrati alla luce del gusto, delle abitudini di consumo, dell’universo industriale del tempo e del luogo in cui sono stati ideati. Il volume prevede oltre duecento doppie pagine, strutturate in altrettanti temi attraverso cui sono analizzati oggetti di diverse tipologie e destinazioni. Di fatto una vera storia del design ritagliata nella struttura di un più facile volume a schede.



ISSN 0030-3305

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