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numero 140

Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli

Electa Napoli



Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Alessandra de Martini, Emma Labruna, Livio Sacchi Segreteria di redazione: Rosa Losito Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 081/7690783 Amministrazione: 80121 Napoli, Via dei Mille, 16 - Tel. 081/4297440 Un fascicolo separato e 9.00 (compresa IVA) - Estero e 10.00

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Electa Napoli


L. Sacchi, L. Panaro, P. Nunziante,

Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo Dieter Rams progettista d’interfacce Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI

Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Livia Falco, Valeria Pagnini, Dario Russo, Massimo Visone.

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Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA LIVIO SACCHI

Due recenti eventi internazionali, uno concluso da poco, l’altro ancora in corso, molto diversi tra loro per impostazione ed esiti ma accomunati dal costituire entrambi due grandi osservatori sulla scena architettonica contemporanea, ci sollecitano a svolgere alcune riflessioni sullo stato presente delle cose. Il primo è la 12. Mostra di Architettura della Biennale di Venezia che, inaugurata alla fine di agosto, si è chiusa nella seconda metà di novembre dello scorso 2010. Il titolo-tema People meet in architecture proposto dalla curatrice Kazuio Sejima, inclusivo ed evanescente, è stato prevedibilmente interpretato dagli architetti invitati con grande, se non troppa, libertà1. Anticipiamo che la mostra apre a una dimensione creativa rarefatta e sperimentale a un punto tale da apparire spesso scissa da ogni concretezza costruttiva. Com’è avvenuto in altre precedenti rassegne veneziane, per motivi diversi, il risultato delude dunque in parte chi, forse con un po’ d’ingenuità, si aspettava semplicemente un’ampia informazione su quanto di nuovo accade nel mondo dell’architettura. Il secondo evento è in realtà anch’esso, a sua volta, costituito da una coppia di eventi al momento ancora in corso, accomunati dall’essere localizzati nella città di Amburgo. Si tratta, nell’insieme, di un progetto molto ambizioso che saremmo tentati di definire Das Neue Hamburg: un po’ come a

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Francoforte negli anni Venti – la rivista fondata e diretta da Ernst May dal 1926 al 1930 portava appunto il titolo “Zeitschrift Das Neue Frankfurt” –, il colossale sforzo progettuale e costruttivo attualmente in corso all’interno di quel complesso sistema idrografico costituito dall’estuario del fiume Elba si è trasformato in una grande vetrina della contemporaneità: immediatamente a ridosso del centro storico con HafenCity, la nuova città che sta sorgendo su di una serie di isole e penisole facenti parte dell’area portuale; sulle isole solo un po’ più a sud-est con gli sperimentali cantieri-laboratorio di una “esposizione internazionale d’architettura” o, meglio “del costruire” (Internationale Bauausstellung) con IBA Hamburg2. Si tratta di una vicenda complessa e articolata, che vede nel suo insieme attivamente coinvolti politici e amministratori, investitori e committenti privati, progettisti e costruttori: una testimonianza tangibile di come l’architettura, che è prima di tutto difficilissima arte del fare, si determini solo attraverso un serrato e costruttivo confronto dialogico fra professionisti diversi. Due diversi modi di pensare e fare architettura a confronto dunque, forse due diversi mondi: quello proposto nella città veneta da una parte e quello in cantiere nella città anseatica dall’altra, entrambi molto interessanti: ma crea­ tivamente mistificante il primo, concretamente ancorato alla realtà del costruire il secondo. Anticipando le nostre conclusioni, ci sembra che, in un momento di crisi economica generale e di grave crisi del nostro mestiere, in particolare nel nostro Paese, l’immagine dell’architettura che emerge dalla rassegna veneziana, pur affascinante, veicoli un messaggio pericoloso. Preferiamo guardare invece con attenzione all’esperimento amburghese, soprattutto nella misura in cui si auspichi che al momento della formazione – giustamente sempre più diffuso nell’intera vita dell’architetto – segua quello, altrettanto eccitante quanto inesorabilmente retto dalle regole che a esso sono proprie, della professione.


L’ultima Biennale La mostra veneziana appare chiaramente tagliata sugli interessi di Sejima, sul lavoro suo e del suo studio, sempre di straordinaria qualità, sui personaggi che le sono creativamente affini. Sul tema prescelto, la stessa curatrice precisa: in un’epoca in cui la gente comunica sempre più con mezzi diversi in un ambiente non fisico (…) è specifica responsabilità dell’architetto creare spazi reali per una comunicazione fisica e diretta tra le persone3. Manca la maggior parte delle star internazionali (a eccezione di Toyo Ito, che espone uno sperimentale progetto per il teatro del­l’Opera a Taiwan, corredato da un dettagliatissimo esecutivo, e di Rem Koolhaas, che vince, meritatamente, il Leone d’Oro alla carriera e porta in mostra un’inaspettata lezione sul recupero dell’esistente); pochissimi gli italiani (Andrea Branzi, Aldo Cibic, Renzo Piano); due gli omaggi ai da tempo scomparsi Lina Bo Bardi e Cedric Price. Non poche invece le presenze di artisti, nel senso più ampio del termine: da Wim Wenders, con il video 3D If buildings could talk dedicato al bellissimo Rolex Learning Center realizzato di recente a Losanna dallo studio SANAA e quindi dalla stessa Sejima, a Olafur Eliasson, che propone una mobile, luminosa, letteralmente liquida installazione all’Arsenale, fino all’americano Tom Sachs, che riflette a modo suo sull’architettura in generale e su Le Corbusier in particolare con una serie di opere in gran parte note ma non per questo meno intelligenti e provocatorie. Numerosi gli architetti che fanno gli artisti, con risultati solo in alcuni casi interessanti, quasi sempre impropri. Ne emerge un quadro composito, in cui escono esaltate le difficoltà della progettualità contemporanea: quella che potremmo interpretare come una dichiarazione d’impotenza – o almeno come una denuncia implicita delle aporie e delle contraddizioni che segnano la scena odierna – non manca peraltro tra le righe di uno dei saggi pubblicati in catalogo: gli attuali processi di elaborazione parametrica e algoritmica, che cercano di combinare l’indeterminatezza con il

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controllo, implicano in maniera diretta la questione dell’incertezza. Essi rendono possibile la produzione di opere di straordinaria complessità morfologica con procedure relativamente semplici. I processi di progettazione parametrica sono un ricco ed eccitante ambito di ricerca formale, ma sinora non sono riusciti a colmare il divario tra progettazione innovativa e processi di produzione4. Molto ampliato rispetto alle edizioni precedenti è il Padiglione Italia. Il curatore, Luca Molinari, risarcisce l’esigua presenza nazionale all’interno della mostra di Sejima con una inclusiva e articolata rassegna che guarda all’oggi e prova ad aprire al futuro. La mostra privilegia giustamente i giovani (senza per questo tralasciare Franco Purini, Renato Rizzi, Italo Rota, Cino Zucchi e alcuni altri) e pone una decina di importanti, eterogenei interrogativi, da “Cosa fare con i beni sequestrati alle mafia” a “Come imparare dagli archetipi e farne dei prototipi”, ai quali non tutti gli architetti invitati sembrano in grado di fornire risposte convincenti. In particolare, visti i progetti che provano a rispondere all’interrogativo sulla possibilità di realizzare residenze a meno di 1000 €/mq, molti visitatori – non troppo ironicamente – erano tentati di rispondere “no”, a testimonianza del gap sempre più profondo che separa i progettisti dai fruitori dell’architettura. Nell’insieme emerge un panorama nazionale ricco e creativo, ma purtroppo lontano da tutto ciò che d’importante sta effettivamente accadendo nel nostro Paese, dalla ricostruzione in Abruzzo alle colossali operazioni immobiliari in corso a Roma, a Milano e in altre città fino all’Expo 2015 nella stessa Milano, tanto per fare qualche esempio concreto. Gli altri, sempre più numerosi, padiglioni nazionali sembrano invece oscillare fra la ludica sperimentazione di installazioni ambiziose quanto distanti dall’architettura e la banale promozione di carattere cultural-turistico (come quello, premiato, del Bahrein). Alcune positive eccezioni confermano, a nostro giudizio, tale impressione generale: il padiglione giapponese, curato da Ryue Nishizawa (partner di Sejima) e Yoshiharu Tsukamo-


to, in cui spicca il lavoro di Atelier Bow Wow; quello francese, ideato con grande senso della comunicazione spettacolare da Dominique Perrault, che propone una ricerca sulle cinque maggiori aree metropolitane (“Grand” Paris, Bordeaux, Lyon, Marseille e Nantes-St-Nazaire), evitando peraltro accuratamente di pubblicizzare l’operato professionale dei suoi colleghi; quello cileno che punta sul recente terremoto e sulle conseguenze di tale colossale catastrofe; quello dei paesi scandinavi e quello danese che centrano l’obiettivo di offrire un panorama dei progetti e delle realizzazioni più recenti e qualificati. La Danimarca, in particolare, mostra grande apertura nei confronti dei progettisti stranieri che vi stanno operando (da Nouvel a Foster, da Hadid a Libeskind, da Holl a OMA) e presenta ai visitatori un ambizioso progetto di ring infrastrutturale, urbanizzato ma altamente sostenibile, destinato a rendere ancor più dinamica l’interessante realtà metropolitana transnazionale già da qualche anno determinatasi con l’apertura del ponte che collega Copenhagen alla svedese Malmö. L’Australia infine ci riporta alla Biennale del 2006 con una riflessione che parte da una considerazione e una domanda: Con il 93% della popolazione concentrato nelle città, l’Australia è uno dei paesi più urbanizzati del pianeta. Qual è il significato di “urbanistica” e perché è importante che cominciamo a progettare in anticipo?5 Per la prima volta presente all’interno della rassegna veneziana è infine lo spazio dell’IN/Arch, voluto dallo stesso presidente della Biennale, Paolo Baratta – che ha in passato presieduto anche lo storico istituto fondato da Bruno Zevi – e realizzato da Massimo Locci e da chi scrive in collaborazione con l’ANCE, l’Associazione Nazionale dei Costruttori Edili, per celebrarne i 50 anni. Una piccola mostra suddivisa in tre parti: la prima, storica, che ricorda l’irrealizzato quanto attualissimo progetto romano dello SDO, il Sistema Direzionale Orientale, di cui era in mostra un grande plastico originale (conservato a Roma presso lo Studio Passarelli) e una efficace ricostruzione video di Emiliano Auriemma; la seconda, fotografica, dedicata al mondo delle costruzioni

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(con immagini di Gabriele Basilico, Gianni Berego Gardin, Mimmo Jodice e molti altri); la terza, infine, interamente video con, fra l’altro, un filmato sull’attività dell’istituto rea­ lizzato da Marta Francocci. All’attenzione dei visitatori la rinnovata alleanza tra committenti, progettisti e imprenditori, l’unica in grado di garantire pregio alla produzione architettonica nel nostro Paese. L’intento, esplicito, è ricordare a tutti che, per raggiungere la qualità, chi costruisce ha bisogno di una progettualità forte e creativa; chi progetta ha bisogno di una industria delle costruzioni competitiva ed efficiente. Per concludere, ancora una breve considerazione legata alla dimensione professionale, una considerazione forse “Ailati”, come intelligentemente titola la mostra di Luca Molinari. Pur condividendo interesse ed entusiasmo per la sperimentazione più libera e creativa, temiamo che la figura dell’architetto delineata, ancora una volta, in quest’ultima Biennale – come in altre grandi rassegne internazionali, in molte riviste di settore e in tanti frequentatissimi websites – rischia di risultare purtroppo ingannevole nei confronti di un mestiere, nei fatti, diverso; di allontanare sempre più gli altri, necessari comprimari sulla scena dell’industria edilizia, segnatamente i costruttori, nell’accezione più ampia del termine; di far perdere di vista agli studenti l’obiettivo principale che è prepararsi, modestamente e molto seriamente, a rispondere alle sempre più esigenti richieste di un mercato professionale globale; di far dimenticare, in una parola, che l’architettura, come s’è detto, è prima di tutto difficilissima arte del fare. Se è certamente esagerata l’impietosa visione del sottosegretario per i Beni e le attività culturali Vittorio Sgarbi in base alla quale ci sarebbero in Italia pochissimi, “forse tre” veri architetti, ci sembra tuttavia difficile non convenire con lui quando, nel corso dell’affollata cerimonia di apertura del Padiglione Italia, ha ricordato che il vero problema nel nostro Paese, caso unico al mondo, sono le centinaia di migliaia di laurea­ ti in architettura e i quasi 150.000 iscritti agli ordini professionali.


Das Neue Hamburg La recente esperienza amburghese è, come s’è detto, formata da due eventi paralleli. Il primo riguarda HafenCity – la società appositamente costituita per il suo sviluppo è denominata HafenCity GmbH –, un’estesa area urbana a sud della Innerstadt, cioè del centro. Di quest’ultimo, a seguito delle distruzioni belliche, non resta, com’è noto, che l’impianto urbano e qualche sporadica architettura (gran parte dell’edificato all’apparenza storico è in realtà ricostruito). Il nuovo quartiere è collegato alla città vecchia da una serie di ponti che superano i canali racchiusi dalle affascinanti, colossali fabbriche portuali in mattoni che testimoniano il ricco passato mercantile di Amburgo. Il Master Plan, redatto già nel 2000, rinuncia a grandi segni totalizzanti e a ogni sviluppo verticale (cedendo così educatamente il passo alle affascinanti guglie gotiche che punteggiano questo come ogni altro insediamento anseatico), optando piuttosto per una flessibile suddivisione in lotti di dimensioni medie e piccole, affidati ad architetti diversi. L’unica “emergenza” è la Elbphilarmonie, ambizioso progetto polifunzionale proposto da Jacques Herzog e Pierre de Meuron che ospita, fra l’altro, una grande sala da concerti: l’immagine è quella di un altissimo iceberg, una porzione di tempestoso mare del nord improvvisamente congelatosi o, forse, un wagneriano vascello fantasma dalle vele spiegate appoggiato su di una possente preesistenza uniformemente rivestita in mattoni. Fra i punti di forza dell’intero progetto alla scala urbana sono: la coesistenza di funzioni, forme, materiali e immagini diverse, che ricrea­ no con successo quell’effetto di varietà e vivacità che co­ stituisce una delle qualità più apprezzate delle città europee; l’attenzione alla sostenibilità, con la definizione di una speciale certificazione costituita ad hoc; l’interesse per lo spazio pubblico, con la realizzazione di piazzali, terrazze panoramiche, percorsi, pontili, passerelle e aree verdi, per lo più affidati allo studio spagnolo EMBT, oggi diretto dall’italiana Benedetta Tagliabue. Fra i progettisti coinvol-

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ti: David Chipperfield, con un austero complesso per uffici; Richard Meier, con una piccola, bianca torre cilindrica; Stefan Behnisch con un vistoso complesso commerciale caratterizzato da uno spettacolare interno aperto al pubblico, probabilmente più interessante per le soluzioni tecniche, altamente sostenibili, che per l’immagine che ne risulta; Atelier Teherani, e molti altri. Il secondo evento di questa felice stagione anseatica è IBA Hamburg, il capitolo più recente di una lunga storia di sperimentazioni progettuali e costruttive che, attraverso alcune grandi mostre d’architettura (intese, come s’è detto, come eventi in cui non ci si limita a esporre disegni, foto e plastici, ma si realizzano prototipi edilizi e interi quartieri, fino alla definizione al vero di un nuovo paesaggio urbano), ha reso la Germania protagonista della vicenda architettonica contemporanea: si pensi a Matildenhöhe a Darmstadt (1901); alla Weißenof Siedlung a Stoccarda (1927); alla Stalinallee e a Interbau con il celebrato Hansa Viertel a Berlino (1952-57); alla stessa prima IBA di Berlino (1987), che tutti ancora oggi ricordano come il palcoscenico architettonico internazionale più significativo degli anni Ottanta6; all’IBA Emscher Park nella Ruhr (1999); all’IBA di FürstPückler e all’IBA Sassonia-Anhalt (entrambe chiuse nel 2010) fino, appunto, a questa IBA di Amburgo, la cui conclusione è prevista per il 2013. Qui si è scelto di operare su di un’area che, con i suoi 52 kmq, include Veddel, Kleiner Grasbrook, Steinwerder e Wilhelmsburg; quest’ultima, in particolare, è la più grande isola fluviale d’Europa. Un ecosistema di grande interesse, ma anche inquinato e compromesso (dopotutto, sorge nel cuore di una delle maggiori aree portuali del mondo) e soprattutto esposto alle disastrose piene legate alle maree del Mare del Nord (l’ultima inondazione, nel 1962, provocò 315 morti e la distruzione delle case per circa 60.000 persone). I tre titoli-temi affrontati sono Kosmopolis, Metrozonen e Stadt in Klimatewandel: il primo pone la questione dell’abitare in una società multietnica e multiculturale; il secondo concentra l’atten-


zione su quelle “isole”, spesso semi-abbandonate, poste in corrispondenza di grandi infrastrutture, aree ferroviarie o portuali, zone industriali dismesse, discariche ecc.; il terzo pone infine il problema della città nell’epoca dei cambiamenti climatici. Il concept ispiratore del Master Plan – redatto da un gruppo formato dall’olandese-lussemburghese Jo Coenen e dallo studio francese di architettura del paesaggio ter – è sintetizzato dagli slogan “Wilhelmsburg Mitte”, cioè la realizzazione di un nuovo centro urbano nella, fino a oggi, periferica Wilhelmsburg, e “Leap across the Elbe”, cioè un “balzo” oltre l’Elba che consenta l’avvicinamento, psicologico prima ancora che fisico, visto che si parla solo di un paio di fermate di S-Bahn dal centro storico di Amburgo. Il piano prevede un mix di recupero e nuova edificazione con appartamenti, uffici, spazi commerciali e servizi, un albergo, una serie di infrastrutture e, soprattutto, un grande parco al cui interno spicca una collina dedicata alla produzione delle energie rinnovabili. Anche IBA Hamburg, in maniera non dissimile dalla rassegna veneziana, nasce come grande mostra d’architettura. Ma se la Biennale s’imbarca in percorsi espositivi suggestivi e spettacolari installazioni, rinunciando in fondo a comunicare la realtà architettonica attraverso i tradizionali media costituiti da elaborati grafici, fotografie, filmati e soprattutto plastici, l’esperienza tedesca invece non solo punta chiaramente a tutto ciò, ma fa molto di più: espone costruendo, ricordandoci inesorabilmente che l’architettura è tale in quanto dotata di una spazialità interna realmente e concretamente esperibile. Sullo sforzo progettuale e realizzativo compiuto ad Amburgo ci sarebbe ovviamente ancora molto da dire. Basti in questa sede sottolineare come tutto ciò che vi si sta realizzando costituisce, prima di tutto e al di là dei singoli, specifici risultati conseguiti, un esempio da seguire per il futuro delle città europee: città che, diversamente da ciò che avviene in altri continenti, non conoscono espansioni fisiche e demografiche particolarmente impetuose;

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non si sviluppano più di tanto in altezza; non sono costrette, a eccezione di alcuni casi particolari, a sottrarre aree al mare. Ma sono invece, in molti casi, seriamente impegnate nel recupero del patrimonio storico in senso lato e quindi nel riutilizzo dei brownfields e nel simmetrico impegno a non ricorrere ai greenfields; nel raggiungere una sempre maggiore autonomia energetica e, di conseguenza, una più elevata sostenibilità; nella salvaguardia dello spazio pubblico, segnatamente pedonale, che della qualità urbana europea è un fondamentale punto di forza; nel ricorso a una mobilità che privilegi i mezzi pubblici rispetto a quelli privati e punti dunque a elevate densità abitative, le sole che li rendono possibili ed efficienti; nella formazione infine di un nuovo assetto sociale multietnico. Le due esperienze di HafenCity e IBA Hamburg costituiscono la concreta applicazione di una simile, equilibrata agenda lavorativa. Last but not least, ci sembra importante registrare, soprattutto per la seconda delle due esperienze, il marginale ricorso allo star-system progettuale in favore dell’affermazione di studi forse meno noti, ma comunque in grado di operare a livello internazionale, che, vincendo concorsi gestiti con capacità, professionalità e trasparenza, hanno l’occasione di realizzare opere fortemente sperimentali e anche belle, ma non per questo più di tanto indulgenti in quell’arbitraria spettacolarizzazione formale cui siamo stati abituati negli ultimi decenni: si tratta forse dell’apertura di una stagione architettonica più seria e matura, in grado di delineare un nuovo, creativo, sostenibile futuro?

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1   Cfr. People meet in Architecture, Biennale Architettura 2010, 2 voll., Marsilio, Venezia 2010. 2   Cfr. IBA Hamburg, Projecte und Konzepte, Katalog zur Zwis­ chenpräsentation 2010, Jovis Verlag und IBA Hamburg GmbH, Berlin 2010. 3   Cit. in Eve Blau, Agire nell’atmosfera, in People meet in Architecture, Biennale Architettura 2010, I vol., cit., p. 38. 4   Ibidem.


5   John Gollings, Ivan Rijavec, Now + When Australian Urbanism, in People meet in Architecture, Biennale Architettura 2010, Partecipazioni nazionali / Eventi collaterali, Marsilio, Venezia 2010, II vol., p. 14. 6   Cfr. Livio Sacchi, Il punto sull’IBA, in “Op. Cit., Selezione della critica d’arte contemporanea”, n. 68, gennaio 1987.

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L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo LUCA PANARO

Qualche anno fa, analizzando la ricerca artistica di Franco Vaccari1, andavo scoprendo un modo di fare arte basato sull’utilizzo d’immagini già fatte. Di questo straordinario artista mi colpì in modo particolare un suo racconto, nel quale ricordava di avere osservato con la coda dell’occhio un abituale frequentatore di un antiquario, mentre guardava con una lente d’ingrandimento una stampa antica, «parlava fra sé e, ogni tanto, si rivolgeva agli altri senza distogliere lo sguardo dalla lente. A un certo punto disse: Chissà cosa stava facendo questo tipo dietro all’albero!». Vaccari rimase molto colpito da quel modo di guardare, perché era indirizzato a problematizzare la fotografia. Questo atteggiamento l’ho poi ritrovato in seguito in tutta l’opera di Franco Vaccari e da quella volta probabilmente anche il mio modo di “leggere” l’arte contemporanea è cambiato. Estendendo gli studi notai come la scomparsa dell’autore e l’impiego di materiali, fotografie e video preesistenti, fossero una caratteristica costante di certa arte. Poi la lettura de Il linguaggio dei nuovi media (2001) di Lev Manovich2, mi aprì ulteriormente gli occhi, mi fece comprendere la possibilità di vedere in questa pratica una “forma simbolica” del nostro tempo. Seguendo la teoria dello storico dell’arte Ervin Panofsky3, che battezzò la prospettiva lineare come forma simbolica dell’era moderna, Manovich ha identificato nel database la nuova forma simbolica dell’era

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dei computer. Un nuovo modo di strutturare la nostra esperienza che lo studioso russo ha indirizzato in modo particolare all’analisi delle tecnologie di matrice informatica. Importando questa interessante teoria all’interno del­ l’am­biente artistico contemporaneo, mi sono accorto come questa interpretazione permetta una differente lettura della storia dell’arte del Novecento, che porta a considerare l’introduzione dell’immagine riproducibile come l’avvento di un nuovo modo di strutturare la nostra esperienza visiva, capace di inserire anche in ambito pittorico o scultoreo l’idea di un archivio al quale attingere, oggetti o immagini già pronte per essere riutilizzate. L’atteggiamento che si viene a delineare, non è più quindi assimilabile all’invenzione artistica classica, quella che prevedeva la produzione di un manufatto ex novo, ma è piuttosto la combinazione di vari materiali a caratterizzare il nuovo spazio artistico d’a­ vanguardia. Dopo la lettura di queste poche righe potrà sembrarvi un azzardo, ma seguendo questa strada di ricerca credo si possa rileggere, almeno in parte, la parabola artistica del XX secolo, partendo dai collage di Pablo Picasso e dai readymade di Marcel Duchamp, fino a giungere all’odierna società dell’immagine informatizzata, ordinata in motori di ricerca e comunità virtuali. Il secolo scorso, nelle sue mille sfaccettature e interpretazioni è stato capace di creare una nuova “forma simbolica”, un unico e radicale cambiamento estetico che vede nella possibilità di prelevare da un archivio d’immagini ciò che occorre per produrre un’opera d’arte che sia originale, senza essere necessariamente nuova. Picasso, Duchamp e De Chirico

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Probabilmente tutto è nato con l’invenzione della fotografia, quindi addirittura nell’Ottocento, con l’avvento di un nuovo modo di strutturare la nostra esperienza visiva. Dal giorno della sua invenzione, nel 1839, il mondo è divenuto una raccolta infinita di immagini assimilabile ad un archivio. Si è detto come Manovich ponga l’attenzione su


una delle forme chiave delle attuali tecnologie: il database. Se la prospettiva è stata la “forma simbolica” che ha caratterizzato la storia dell’arte dal Rinascimento all’Impressionismo, l’archivio può essere considerato un nuovo modo di concepire lo spazio, una forma simbolica dell’era moderna, le cui origini possono essere rintracciate già nella prima metà del Novecento, con grande anticipo rispetto all’era digitale. Manovich sostiene come oggi il mondo sia «una raccolta infinita e destrutturata d’immagini, testi e altri record di dati, è perfettamente logico assimilarlo ad un database», così come è possibile, anche se apparentemente azzardato, assimilare all’archivio, digitale o non, tutta una serie di esperienze artistiche compiute nel primo Novecento. Pablo Picasso inaugurò questa nuova “forma simbolica” servendosi del collage, prendendo cioè dalla vita di tutti i giorni ritagli di giornale, spartiti musicali, carta da parati e quant’altro potesse incollare sulla tela. Nel 1912 con l’inserimento di un pezzo di materiale cerato a imitazione di un’im­pagliatura (Natura morta con sedia di paglia), Picasso perfeziona la nuova invenzione del collage, allontanandosi sempre più dai canoni tradizionali della pittura. Il quadro, con la sua cornice fatta di corda, presenta oggetti che non sono più evocati attraverso la finzione della pittura, ma ora esistono semplicemente sulla tela. Per George Braque l’uso del papier collé diventa il modo per ottenere nei suoi disegni degli effetti spaziali in rapporto al soggetto stesso. I fogli di carta o di giornale, incorporati nella superficie del dipinto, vengono a formare altri piani che si intersecano al disegno e al colore. Che l’arte del Novecento abbia adottato concettualmente la logica dell’archivio lo testimonia anche l’altra grande intuizione artistica prodotta da questa prima metà del secolo: il ready-made. Scegliendo prodotti industriali di uso comune, Marcel Duchamp si limita ad indicare come opera d’arte una serie di oggetti già fatti: una ruota di bicicletta (Roue de bicyclette 1913), uno scolabottiglie (Egouttoir 1914), un badile da neve (In Advance of the Broken Arm 1915), un orinatoio in porcellana (Fontaine 1917) e tanti

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altri. L’artista francese può essere visto come una sorta di internauta ante litteram, alla continua ricerca di oggetti di suo interesse, come oggi si fa abitualmente rovistando fra le informazioni multimediali ricercate su Google, YouTube e Facebook. Un discorso analogo potrebbe essere fatto anche per la pittura Metafisica di Giorgio De Chirico; l’artista è coinvolto attivamente in un viaggio temporale, che lo porta a memorizzare tutti i dati del passato e a riproporli in combinazioni inedite. Utilizzando un’efficace formula di Renato Barilli, possiamo dire, a proposito di De Chirico, che è come se l’artista rivisitasse le stanze di un museo ideale, dedicate di volta in volta al Quattrocento, al Cinquecento raffaellesco o tizianesco, fino ad arrivare alla “corruzione dei corpi” di cui si rese colpevole il Seicento, per poi solcare le orme degli artisti del Settecento e Ottocento4. Vista in questa prospettiva la produzione di De Chirico può essere letta come un viaggio all’interno di un archivio storico-visivo dentro al quale navigare senza un ordine prestabilito. Di questo grande artista mi ha sempre colpito in modo particolare il dipinto Interiore metafisico con i biscotti (1916), una sorta di scatola dove spezzando la concatenazione che unisce le cose tra loro si creano nuovi legami spaziali, che vedono convivere nello stesso ambiente, come fosse un archivio, opere differenti attribuibili anche allo stesso De Chirico. Da Lautréamont a Vaccari

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«Bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio». Queste parole del Conte di Lautréamont, pseudonimo del poeta francese Isidore Lucien Ducasse, esprimono bene l’atteggiamento surrealista, una nuova estetica nata dall’accostamento di oggetti fra loro non omogenei. In sostanza, procedendo per libera associazione di idee, i surrealisti univano cose e spazi tra loro apparentemente estranei per ricavarne una sensazione inedita. La bellezza nasce, allora, dal trovare in un grande e immaginario archivio due oggetti reali, veri, esi-


stenti (l’ombrello e la macchina da cucire), che non hanno nulla in comune, costretti a vivere assieme in un luogo ugualmente estraneo a entrambi. Tale situazione genera un’inattesa visione che sorprende per la sua assurdità e perché contraddice le nostre certezze. In area tardo surrealista Joseph Cornell ben rappresenta la logica dell’archivio per quanto riguarda la scultura ma soprattutto la filmografia sperimentale. I celebri The Cornell Box sono scatole dentro le quali l’artista assemblava riviste, frammenti di giocattoli, solidi geometrici, stampe d’arte e altri materiali di recupero. Ma l’opera pionieristica di Cornell comprende anche la sperimentazione cinematografica dove, già con le immagini, e non più solo con gli oggetti, compie gesti di appropriazione da un archivio infinito di dati. Nella più classica tradizione del “found footage” (pratica che consiste nel realizzare film riappropriandosi dei materiali trovati, prelevati, spesso girati da un altro cineasta), Cornell rimonta il 16mm East of Borneo (1931) reintitolandolo Rose Hobart (1936). In seguito sarà Andy Warhol a continuare quest’esplorazione all’interno di una vasta quantità d’informazioni visive preconfezionate. Mentre l’archivio di Duchamp era composto di oggetti, quello di Warhol lo sarà d’immagini. Negli anni Sessanta possiamo già parlare di una società costruita intorno ad un grande archivio mediale, che l’artista utilizza a suo piacimento, ingrandendo, moltiplicando e trasformando in opera d’arte capi di stato (Mao), dive di Hollywood (Marilyn Monroe), pericolosi criminali (Thirteen Most Wanted Men), bibite (Coca Cola Bottles), cibo in scatola (Campbell’s Tomato Soup), detersivi (Brillo Boxes), incidenti stradali (Ambulance Disastrer Two Times), opere d’arte (Botticelli’s Venus) e tante altre immagini già esistenti e mitizzate. Quest’operazione di prelievo fotografico dai mass-media è probabilmente la più seguita dalle generazioni successive di artisti. Bruce Conner, parallelamente ai suoi noti assemblage, realizzava fin dagli anni Cinquanta dei film fatti di spezzoni trovati (A Movie, 1958). In Report (1963-67),

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Conner ripete diverse volte alcune sequenze televisive del­ l’assassinio di Kennedy con differenti colonne sonore. La logica dell’archivio la troviamo anche nella serie Atlas (1964) di Gerhard Richter, un’enorme ricerca iniziata nei primi anni Sessanta che mette a confronto fotografie di vicende private famigliari con immagini della storia pubblica tedesca. Questo progetto, nel corso degli anni, portò ai pannelli su cui Richter raccolse fotografie da Buchenwald e Bergen-Belsen. Tutta l’opera di Christian Boltanski, dagli anni Settanta ad oggi, ruota intorno alla fotografia come strumento di memoria e di accumulo d’immagini provenienti dal passato, spesso quelle utilizzate per i necrologi. Nelle installazioni dell’artista francese, gli archivi composti da ritratti di persone scomparse fanno riflettere sulla dimensione temporale, sul trascorrere del tempo e sulla sua percezione. L’indagine sul materiale visivo prodotto da altri caratterizza anche il lavoro di Franco Vaccari, fin dalla sua memorabile installazione alla Biennale di Venezia del 1972 (Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio). Qualche anno prima aveva esplorato alcune fotografie dell’Ottocento compiendo una specie di reportage all’interno delle immagini (Modena dentro le mura, 1970). Recentemente, invece, l’artista italiano si è avvalso dell’album di famiglia come banca dati visiva da ri-significare. Ne L’album di Debora (2002) esplora le immagini private di una fotomodella, dall’infanzia agli anni più intensi della sua carriera artistica. In Provvista di ricordi per il tempo dell’Alzheimer (2003), mediante fotografie, frammenti di film, riprese televisive e cortometraggi famigliari, è la vita dello stesso artista ad essere indagata e custodita in poco più di venti minuti. Febbre d’archivio

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Continuando su questa linea, negli ultimi decenni del Novecento, si scatena quello che Hal Foster ha definito “An Archival Impulse” 5 e Okwui Enwezor “Archive Fever” 6.


La fotografia, il cinema, la televisione del passato vengono presi d’assalto dagli artisti contemporanei, in loro cresce l’esigenza di confrontarsi con un archivio di esperienze storiche. Il video si presta particolarmente a questo tipo di operazione, spesso mettendo in atto la logica anti-narrativa tipica del cinema d’avanguardia surrealista. Stan Douglas realizza un’installazione mettendo insieme materiale filmico della Edison Company risalente alla fine dell’Ottocento (Ouverture, 1986). Harun Farocki e Andrei Ujica rivisitano la rivoluzione rumena attraverso i filmati televisivi originali girati tra il 21 e il 26 dicembre 1989, compreso l’ultimo discorso di Nicolae Ceaus≤escu, dove il rapido mutamento d’espressione del suo volto lascia intravvedere l’imminente deposizione (Videograms of a Revolution, 1993). Martin Arnold utilizza materiale riguardante i vecchi film hollywoodiani, Paul Pfeiffer rivolge la sua attenzione verso gli spettacoli commerciali recenti, Douglas Gordon si appropria del celebre Psycho di Hitchcock rallentandolo fino ad un ritmo ipnotico (Psycho 24 ore, 1993), Johan Grimonprez raccoglie filmati sui dirottamenti aerei come pretesto per riflettere sui media (Dial H-I-S-T-O-R-Y, 1997) e Walid Raad documenta la storia contemporanea del Libano con film, videotape e fotografie storiche (The Atlas Group Archive, 1989-2004). A partire dagli anni Ottanta l’immagine viene quindi rivista attraverso l’innegabile fascino della sua obsolescenza, la posizione favorita degli artisti sembra essere quella di guardare indietro per dare un senso nuovo alle immagini, per “reinventare il medium”, come sostiene Rosalind Krauss7. Zoe Leonard e Cheryl Dunye, producono in studio un ricco archivio fotografico ricostruendo in modo verosimile l’intera vita di Fae Richards, dal successo come cantante fino alla vecchiaia (The Fae Richards Photo Archive, 1993-96). Tacita Dean, invece, fa riemergere dal passato persone realmente esistite, anche se in qualche modo perdute nel tempo; con sguardo etnografico raccoglie in sette anni di ricerche un centinaio di fotografie di varia epoca, area geografica e soggetto (Floh, 2000). Hans-Peter Feldmann

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certifica la risposta dei media all’11 settembre 2001 attraverso una collezione di cento copertine di quotidiani internazionali usciti il giorno successivo alla caduta delle Twin Towers (9/12 Front Page, 2001). Questo interesse diffuso per l’immagine trovata è particolarmente evidente anche in Joachim Schmid che nel 1989, in occasione del 150° anniversario della nascita della fotografia, dichiarò: «Nessuna nuova fotografia finché le vecchie non siano state utilizzate!». Il suo lavoro di non-fotografo consiste infatti nel raccogliere, selezionare, assemblare e infine mostrare fotografie altrui. Con centinaia di ritratti provenienti dallo stesso laboratorio, tutti tagliati in due parti per impedire il loro riutilizzo commerciale, Schmid ottiene immagini frutto della combinazione di due metà (Photogenetic Draft, 1991). «La convivenza nello stesso viso di giovane e anziano, maschile e femminile, parla una lingua esistenziale, racconta storie legate all’identità e al tempo»8. Il ready-made duchampiano viene portato all’estremo, le immagini sono ormai facilmente prelevabili da un archivio collettivo per essere semplicemente ri-significate, l’autore si occulta, perde il classico ruolo di creatore, diviene un ricercatore di “strutture di significazione”. Sulla violazione del copyright è indicativa la ricerca di Richard Prince. Uno dei lavori più noti dell’artista americano consiste nel rifotografare le pubblicità di Marlboro Country, ingrandirle, incorniciarle ed esporle nelle gallerie e nei musei (Untitled-Cowboy, 1989). Nel rispetto dei diritti d’autore, ma pur sempre decontestualizzate, sono invece le fotografie di cronaca utilizzate da Oliviero Toscani negli anni Novanta per alcune campagne pubblicitarie della Benetton; prelevate direttamente dai quotidiani, queste immagini toccano tematiche scottanti e d’attualità come l’Aids, la mafia, lo sbarco dei clandestini o l’inquinamento. Nel 1990 Toscani fonda “Colors”, un magazine globale con uscite monografiche di taglio sociale, un vero e proprio archivio d’immagini già fatte provenienti da ogni parte del mondo.


Database logic Sono quindi numerosi gli artisti che in qualche opera o in maniera sistematica nella loro ricerca hanno attinto a un archivio visivo accumulato nel tempo. Con appropriazioni al limite della legalità, Sherrie Levine rifotografa le immagini scattate in Alabama da Walker Evans a una famiglia di mezzadri (After Walker Evans, 1980), mentre Michael Mandiberg scannerizza dal catalogo di Levine queste fotografie per caricarle sul web, invitando i visitatori a stampare le immagini e venderle con tanto di certificato d’autenticità e istruzioni d’incorniciatura: AfterSherrieLevine.com (2001). Un altro esempio di prelievo, che attinge a un archivio digitalizzato d’immagini, cioè a un database, è quello compiuto dall’artista tedesco Thomas Ruff, che ha presentato alla Biennale di Venezia del 2004 una serie di paesaggi ottenuti semplicemente scaricando dal web alcuni file compressi, ingranditi e poi mostrati nella bassa definizione che li caratterizza (Jpeg, 2004). Dietro alla digitalizzazione dell’immagine però si nasconde una rivoluzione che va ben oltre il facile accesso ai dati, si cela la possibilità di vedere l’immagine non più come un punto d’arrivo nella visione del mondo, bensì come il punto di partenza per una serie di relazioni che oltrepassano il visibile per giungere alla logica. Un’arguta osservazione a questo proposito la compie Pierre Sorlin quando dice che «i computer lavorano su entità che l’occhio non percepirà mai e grazie ad essi il ragionamento logico prevale sull’osservazione diretta»9. Il passaggio dall’analogico al digitale conferisce quindi all’immagine una nuova linfa, perché la rende improvvisamente condivisibile con altri, pur mantenendo intatta la sua identità analogica. Se così non fosse sarebbe difficile spiegare il successo di molti social network, veri e propri database d’immagini digitali o digitalizzate che attraggono milioni di persone. Questi utenti non guardano l’immagine come finestra prospettica sul mondo, nemmeno come oggetto, ma piuttosto come informazione personalizzabile da condividere con una rete capil-

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lare di contatti, che nei vari passaggi muta di significato stimolando il gioco della relazione. Oggi nell’epoca del web 2.0 i contenuti offerti dalla rete possono essere creati dai vari utenti: un esempio è l’enciclopedia online Wikipedia, le cui voci sono il frutto dell’interazione di una comunità partecipata. Franco Vaccari, più volte citato in questo scritto, con le sue “esposizioni in tempo reale” (1969-2010), ha intuito che gli sarebbe bastato occultarsi come autore per generare un capovolgimento dei normali ruoli legati alla fruizione artistica, creando forme di relazione inaspettate. Nel 1996 ha raccolto in un CD-ROM una ricca documentazione di Atelier d’artista servendosi di internet; l’opera ha preso forma grazie alla collaborazione di volontari invitati ad intervenire a distanza. Fra gli artisti che oggi si stanno muovendo in questa direzione, il gruppo noto come Alterazioni Video mette in discussione il confine convenzionale tra uso legale ed illegale della tecnologia. Nel video Last known address (2007), ha intrapreso un viaggio virtuale attraverso il territorio americano all’interno dell’applicazione Google Earth, seguendo gli ultimi indirizzi conosciuti dei ricercati dalla DEA (Drug Enforcement Administration): una comunità di pericolosi criminali sulla cui testa è stata messa una taglia e i cui nomi sono pubblicati sul sito dell’agenzia americana contro il narcotraffico. Il materiale trovato sul web viene così reinterpretato da Alterazioni Video che, in qualità di nuovi autori, restituiscono ai testi e alle immagini altri possibili significati. Con analoghe modalità operative anche Naomi Vona incentra il suo lavoro sull’analisi di fenomeni mediatici, che la spingono ad osservare il mondo attraverso YouTube. È proprio qui che trova il trailer del tanto discusso film Hungry Bitches, conosciuto dal popolo di internet come “2 girl 1 cup”. Da questa visione nasce l’idea di realizzare un video correlato alle emozioni comuni provate da tutte le persone che volontariamente si sono riprese con la webcam durante la visione del trailer, archiviandole attraverso un montaggio incessante e rapido dei volti che cambiano repentinamente espressione. L’opera video di Vona,


intitolata Gli infedeli mediatici (2009), mostra i volti prima imbarazzati, poi sbigottiti, increduli, e infine disgustati di una comunità virtuale di utenti che non ha resistito alla visione del film. La loro incredulità iniziale, che li ha spinti a guardare nonostante fosse chiara la natura dei contenuti, è stata smentita dalla conferma visiva che quanto stava davanti ai loro occhi era davvero reale10. Da questa radiografia del Novecento, con qualche apertura sui primi dieci anni del nuovo secolo, si evince che l’idea di archivio può essere considerata come una differente modalità di concepire lo spazio, la “forma simbolica” che forse meglio rappresenta gli ultimi cento anni di espressione artistica, una nuova logica che soltanto oggi riusciamo a mettere veramente a fuoco, complice l’avvento del web e delle sue enormi potenzialità ancora tutte da esplorare.

1   L. Panaro, L’occultamento dell’autore. La ricerca artistica di Franco Vaccari, APM Edizioni, Carpi 2007. 2   L. Manovich, The Language of New Media [2001], edizione italiana Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, Milano 2002. 3   E. Panofsky, Die perspektive als “simbolische form” [1927], edizione italiana La prospettiva come “forma simbolica”, Feltrinelli, Milano 1993. 4   R. Barilli, Il ritorno alle origini in L’arte contemporanea, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 213-14. Dello stesso autore si segnala De Chirico e il recupero del museo in Tra presenza e assenza, Bompiani, Milano 1981. 5   H. Foster, An Archival Impulse, “October” n. 110, Fall 2004. 6   O. Enwezor, Archive Fever. Uses of the Document in Contemporary Art, ICP/Steidl, New York/Göttingen 2008. 7   R. Krauss, Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte d’oggi, Bruno Mondadori, Milano 2005. 8   S. Menegoi, I am not a photographer, “Mousse Magazine” n. 2, settembre-ottobre 2007. 9   P. Sorlin, I figli di Nadar. Il secolo dell’immagine analogica [1997], Einaudi, Torino 2001, p. 231. 10   Sulla produzione artistica nell’epoca delle comunità virtuali si consulti il volume Community. La ritualità collettiva prima e dopo il web, a cura di Alberto Fiz e Luca Panaro, Electa, Milano 2010.

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Dieter Rams progettista d’interfacce PIETRO NUNZIANTE

Francoforte rappresenta la prima città in cui, prima del­ l’avvento del nazismo, le teorie moderniste sono sperimentate e messe in pratica su larga scala. Dal 1925 Ernst May, coordinatore dell’ufficio di pianificazione urbanistica, chiama a collaborare alcuni dei più importanti progettisti del­ l’epoca, coinvolgendo nei primi cinque anni architetti del calibro di Gropius, Stam e Meyer, interior designer quali Schuster e Shutte-Lihotzky, e ancora grafici come Baumeinster, Walter Dexel e Robert Michel. A questi personaggi affida le più significative sperimentazioni nel campo della pianificazione urbana e architettonica, prevedendo l’applicazione dei moderni sistemi di prefabbricazione. Al termine della seconda guerra, oltre il 70% del patrimonio edilizio della città risulta distrutto; nonostante la presenza del governo militare americano, che qui sceglie di insediarsi nell’immediato dopoguerra, nel 1949 la città perde il referendum per diventare la prima capitale della Germania Federale contro la modesta Bonn, favorita dal cancelliere tedesco Adenauer. Pur privata del ruolo di motore politico del paese, Francoforte è interessata da un forte sviluppo economico, diventando centro bancario, finanziario e fieristico, oltre che nodo principale del traffico stradale, ferroviario e aereo grazie alla sua posizione geografica. Nello stesso periodo, numerosi intellettuali tedeschi ritornano dalla diaspora causata

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dal nazionalsocialismo; tra questi, i filosofi Adorno, Horkheimer e Pollock – esponenti della cosiddetta Scuola di Francoforte – rifondano un nuovo istituto per la ricerca sociale. Francoforte è anche la città tedesca, in quel tempo, con la maggiore vitalità nel campo della musica e dell’arte. Qui si stabilisce la sede della Braun, destinata a diventare la più rappresentativa industria del design tedesco del dopoguerra. Già nel 1964, la sezione sul disegno industriale curata da Jupp Ernst per i Documenta 3 di Kassel includerà anche una serie di oggetti prodotti da aziende come Braun, Ibm ed Olivetti accanto ad una selezione dei più importanti designer dell’epoca; i Documenta diventano rapidamente la più importante ed influente mostra d’arte europea, e di lì a poco i prodotti Braun saranno inclusi anche nella collezione design del MOMA. Nei primi anni ’60 la Repubblica Federale Tedesca riemerge, dunque, dall’isolamento conseguente alla disfatta bellica e al retaggio nazista. Gli Stati Uniti d’America non sono ora più solo un modello, ma anche un mercato per le esportazioni, soprattutto per le auto tedesche, quelle prodotte dalla Mercedes, da Volkswagen e Porsche; ma è il mercato industriale tedesco nel suo complesso ad espandersi progressivamente nel giro di due decenni, giungendo a comprendere un’ampia gamma di oggetti concepiti secondo il modello di meccanizzazione1 proprio dello stile di vita domestica americano, e realizzati con un’impronta marcatamente funzionalista che si opponeva allo styling dominante. I vecchi Maestri, esuli negli anni Trenta, hanno trovato fortuna e modo di far scuola fuori dai confini della Germania, ma anche il nucleo del secondo Bauhaus – quello di Ulm – ha poi trovato da affermarsi in tutto il mondo, da Maldonado a Krampen, da Aicher a Bonsiepe, da Van Onck a Bonetto. Al punto che viene da domandarsi se, senza le involontarie diaspore, il design tedesco avrebbe avuto eguale capacità di diffondersi in tutto il mondo2.


In questo contesto, Braun diventa leader dell’innovazione industriale; i progressi nel campo dell’elettronica e del­ l’ingegneria realizzati nei decenni precedenti, e soprattutto la loro applicazione alla produzione degli oggetti di uso quotidiano, diventano la base per una sofisticata re-interpretazione degli elettrodomestici, con l’emersione di una serie di nuovi oggetti basati sull’utilizzo della tecnologia dei transistor. La temperie culturale sinora descritta è la stessa in cui diventa egemone la teoria estetica di Adorno, incardinata intorno all’idea di forma e al rapporto dialettico che questa stessa intrattiene con il contenuto. Buona parte dell’influenza della scuola filosofica marxista e post-marxista tedesca si trasferirà nel dibattito teorico critico dell’architettura, del design e della comunicazione visiva, e avrà nella scuola di Ulm un peso crescente. La forma garantisce all’opera un’autonomia dal mondo empirico, un distanziamento che è da subito anche una presa di posizione sul mondo, “L’arte prende posizione nei confronti dell’empiria proprio attraverso la distanza da quella”3. Si può addebitare a questa influenza una delle aporie della riflessione critica sul design tedesco, espressa da Maldonado attraverso una posizione che in modo caustico rigettava l’esperienza Braun con i toni di quello che oggi possiamo considerare come espressione di un idealismo culturale4: Negli anni cinquanta due docenti della Hochschule für Gestaltung, Gugelot e Aicher, danno un decisivo apporto all’impostazione della linea di prodotti della ditta Braun di Francoforte. Da qui si svilupperà il cosiddetto “stile Braun”, caratterizzato dalla ricerca di una conseguente unitarietà stilistica dei suoi prodotti, ovvero del­l’unità nell’unità. Appunto per questo lo stile Braun costituisce un formidabile banco di prova per la concezione della gute Form, come alternativa allo styling. È evidente che la gute Form, atto di dissenso, secondo Bill, nei confronti di una certa industria, si fa atto di consenso, tramutandosi in “stile Braun”. Il neocapitalismo

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tedesco ha eseguito, in questo caso, un’operazione di raffinata astuzia: ha cooptato la gute Form. Sarebbe esagerato, e persino ingiusto, affermare che lo “stile Braun” abusivamente chiamato “stile Ulm” sia qualcosa di simile a uno styling del neocapitalismo tedesco. Ma una cosa è indubbia: esso viene a porre in evidenza il reale limite del dissenso della gute Form5. Il rapporto tra la scuola di Ulm e lo sviluppo del cosiddetto “stile Braun” è diventato un tema controverso della storia del design; dal punto di vista critico l’approdo fattuale dell’impostazione della gute Form fu giudicato da Maldonado uno dei motivi di fallimento delle aspirazioni ideali propugnate da Bill. A questa posizione si deve addebitare probabilmente il ritardo con cui è stato riconosciuto il ruolo dell’esperienza della Braun nel mondo della critica e storiografia del design. Ancora Argan nel 1976 ribadiva, riprendendo Maldonado, che lo stile Braun non è che l’appropriazione indebita del metodo di Ulm da parte del neocapitalismo tedesco. Il disegno industriale è corruttibile a causa della sua congenita intenzionalità verso una società affluent, in cui il benessere viene monopolizzato come un privilegio o dispensato come una provvidenza6. Si può ritenere che alla Braun, diversamente da Ulm, è l’interesse tecnico a prevalere, dunque un’attenzione prevalentemente orientata all’utilità, e in ciò riconoscere quanto Braun proseguì il lavoro iniziato ad Ulm, se è vero che beni d’uso voleva dire attenzione agli strumenti, alle macchine, negli ospedali, nelle stanze dei bambini, in bagno, in cucina, per strada7. Proprio questa attenzione sembra tradursi in operazione concreta, grazie all’impostazione di Gugelot di scomporre complessi di una certa rilevanza in unità che potessero essere prodotte con metodi semplici, dunque, attraverso lo sviluppo di elementi di giunzione, e la definizione delle modalità per il montaggio e assemblaggio dei componenti. Gugelot stesso sosteneva che si dovesse pensare solo a sistemi di mobili e non più a mobili singoli8; oggi diremmo a prodotti che concorrono alla crescita del comfort domestico,


che operano sul piano delle funzioni elementari dell’abitante, oggetti utili allo svolgere funzioni primarie sociali: il lavoro, la cura del corpo, le macchine per la manipolazione e preparazione del cibo. Le posizioni critiche di Maldonado e Argan possono essere contrappuntate da quella più recente ma meno ideologica di Burkhardt quando sostiene che: 
Il grande messaggio della scuola di Ulm è la comunicazione. Comunicazione che ha sempre saputo prendere il tema del comunicare e applicarlo ai problemi di sviluppo culturali e sociologici, questa mi pare la via più interessante che ha perseguito Ulm. 
Darei, come esempio finale la Braun. Se vogliamo non è stato un prodotto di Ulm, ma l’influenza di personaggi ulmiani a dare un concetto di prodotto all’azienda. Era un progetto razionale, un sistema di combinazione di elementi tra di loro, ed ha consentito una razionalizzazione di un altro tipo che fino allora non esisteva. Braun, se vuole, è stato uno dei primi elementi che hanno dimostrato la teoria della scuola di Ulm, non solo attraverso il prodotto, ma anche attraverso la comunicazione9. 
 Dieter Rams occupa un posto singolare nella storia del design contemporaneo; per quaranta anni, dal 1955 fino al 1995, ha disegnato progetti, e coordinato il team per la progettazione di oltre 500 prodotti, gran parte dei quali è entrata in produzione per Braun AG. Probabilmente nessun designer vivente può vantare una produzione tanto vasta in termini quantitativi, ed altrettanto pochi possono competere sul piano dell’innovazione di prodotto. Anche quando si è cimentato nel furniture design, Rams ha lasciato un segno distintivo, un messaggio chiaro, così come dimostrato dai sistemi di arredo per Vitsoe. È anche, forse, colui che più di ogni altro esemplifica un modo di concepire e praticare il design: come attività progettuale strettamente integrata con il processo produttivo industriale10. Se è vero che il design è l’arte del riproducibile11, la

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produzione progettuale di Rams rappresenta una delle esperienze emblematiche del Novecento, sintesi di temi legati alla miniaturizzazione dei componenti prima elettrici, poi elettronici, e alla organizzazione sistemica dell’intero processo produttivo, dalla concezione alla messa in produzione. Dal progetto di oggetti l’esperienza Braun porta al progetto di prodotto, vale a dire all’integrazione di tutte le fasi, dal concept al disegno, alla prototipazione e di seguito alla produzione. Un lavoro collettivo svolto dal design team che è residente all’interno dell’azienda a diretto contatto con gli aspetti d’ingegnerizzazione. Apparecchiature audio, radio, calcolatrici, rasoi elettrici e sistemi di scaffalature modulari, sedute e lampade sono solo alcuni dei prodotti creati da Rams. Non è esagerato affermare che il posto che la sua produzione ha progressivamente assunto nella storia della progettazione industriale non ha ancora terminato di svolgere un’importante funzione: ancora oggi possiamo rilevarne la grande influenza su alcuni dei più noti designer contemporanei come Naoto Fukasawa, Sam Hecht, Jonathan Ive e Jasper Morrison12. La messa in opera di un approccio innovativo basato sulla riduzione tecnica degli aspetti culturali e simbolici degli oggetti, unita ad una posizione funzionalista radicale, sono i caratteri che pervadono in modo costante la produzione progettuale di Rams. Differenziandosi della maggior parte dei protagonisti formatisi all’interno delle avanguardie, tra cui buona parte degli ulmiani, i quali hanno fatto riferimento soprattutto all’universo delle arti visive, Rams affronta i diversi temi con un atteggiamento che possiamo definire riduzionista. I prodotti progettati per Braun compongono nel loro insieme, un vero e proprio atlante di soluzioni inedite, che dimostra il legame tra gli oggetti d’uso quotidiano e il modificarsi dello stile di vita. Rams risolve i temi tecnici e funzionali di nuove categorie merceologiche, costruendo un vero e proprio lessico comprensibile e trasmissibile ai diversi strati dell’elaborazione e della produzione su cui opera. L’involu-


cro dell’oggetto tecnico perde qualunque rimando alle forme del decoro ed esprime in modo essenziale il funzionamento; è così per il celebre SK4 del 1956, meglio noto come Snow White’s Coffin13, il primo pezzo di un nuovo linguaggio che pose Braun sotto i riflettori dell’attenzione pubblica. Significativamente, i progettisti Gugelot e Rams non si erano avvicinati al tema dell’unità radio, concependola come un pesante arredo domestico di rappresentanza, quanto piuttosto come una macchina sonora mobile costruita in base alla funzione tecnica. Ottenendo una migliore performance della qualità audio, avevano sostituito con il metallo e la plastica la scatola di legno smorzante intorno al nucleo tecnico e ristrutturato tutta l’unità lungo un asse di lettura orizzontale. L’unità stereo era priva di tutti gli accessori di lusso del design delle radio tradizionali; i suoi colori neutri, il grigio, il bianco, riflettevano il rifiuto propugnato da parte della scuola di Ulm dell’appariscenza dello stile tedesco precedente, il cosiddetto “nierentisch”. Rams raccoglie il funzionalismo che permea la sua intera attività in quei dieci principi14, che diventano nei fatti un vero e proprio manifesto a-posteriori, elenco delle regole di un’avanguardia tecnica priva dei caratteri e del background delle avanguardie storiche del Novecento e della società ideale a cui queste si riferivano. I principi realistici, o si potrebbe dire i veri e propri comandamenti di Rams, pubblicati a venticinque anni dall’inizio della sua attività, rappresentano all’inizio degli anni Ottanta, il punto di partenza dell’ultima avanguardia del Novecento, quella che oggi con maggior chiarezza vediamo profilarsi e sinteticamente chiamare avanguardia digitale. Questa attinge a piene mani dall’esperienza Braun e dall’alfabeto progettuale di Rams, reinterpretandone le soluzioni, piegandole ai temi del design degli oggetti tecnici digitali. L’intero nuovo corso del design team di Apple, inauguratosi nel 1997 con il rientro di Steve Jobs e la direzione di Ive, ma anche la produzione minimalista di Muji hanno un debito sostanziale verso i progetti di Rams.

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L’idea stessa di un design che si dichiara privo di marchio e di firma, e che realizza prodotti di qualità a prezzi competitivi, mostra un altro aspetto del contributo che Braun, grazie a Rams, ha dato al progresso della progettazione industriale. I prodotti progettati da Rams ci appaiono come frutti di un design anonimo; tra i suoi mille oggetti possiamo facilmente riconoscere una serie d’invenzioni, le quali compongono una vera e propria teoria di cose, oggetti che hanno dato forma al mondo del quotidiano e particolarmente nei primi dieci anni della sua attività hanno fissato dei paradigmi merceologici. Dall’integrazione di radio e riproduttore audio, successivamente si passerà alla sua scomposizione in elementi: amplificatore, lettore, radio, pre-amplificazione, bobine per la registrazione, etc.; ciò rappresenterà il canone per l’organizzazione anche dei futuri sistemi audio e video con l’introduzione dei nuovi componenti che di lì a poco la tecnologia avrebbe fornito, integrando tv, lettori cd-rom e dvd. Rams crea anche il primo modello di sistema microstereo, ben venti anni prima dell’apparizione del Walkman Sony nel 1979. Il TP 1 già combinava di fatto una radio por­ tatile, la T4, con un microregistratore, agganciato mediante due piattine metalliche che permettevano di separare oppure integrare i due apparecchi in un unico oggetto. Viene oggi da chiedersi quale particolare attitudine o approccio nella produzione di Rams sia poi risultata determinante per il suo successo. Non vi è dubbio che la riduzione del design di forma, degli involucri esterni dei prodotti sia il punto centrale del contributo innovativo di Braun; tale aspetto riguarda le superfici tattili, tanto quelle operative che quelle informative. La radio esisteva già e le aziende produttrici di sistemi radiofonici erano numerose nel dopoguerra. Braun è però la prima a produrre questi oggetti privi di quegli orpelli che rimandavano alle radio a forma di mobile d’arredo, dentro il quale si celava la tecnologia dei transistor e delle valvole. Le tecnologie interne erano spesso acquistate direttamente oppure mediante concessione di


brevetti da aziende specializzate. Esempio di questo processo di acquisizione tecnologica e redesign è certamente l’altoparlante elettrostatico LE1 che, impropriamente15, è stato classificato come il primo altoparlante separato dal sistema di amplificazione e accostato con buoni motivi allo schema formale dell’ultima generazione di iMac della Apple. In real­tà, si trattava di una rielaborazione di un brevetto acquisito dall’azienda londinese Quad, specializzata dagli anni Quaranta nello sviluppo di tecnologie per la riproduzione audio e l’alta fedeltà, diffusori piatti sviluppati grazie ad un PET film e commissionati dalla BBC per gli studi audio della radio nel 1948. Già alla fine degli anni Cinquanta, Rams aveva brillantemente implementato il concetto di modularità di sistema nel campo dell’elettronica dell’home entertainment. L’atelier 1, unità di controllo del 1958, aveva altoparlanti separati dalla radio e dall’impianto audio; egli separa progressivamente l’apparecchio ricevente e, due anni dopo, il giradischi dall’amplificatore, consentendo in tal modo le varie combinazioni di elementi distinti. Nei sistemi sviluppati successivamente questo principio sarà ulteriormente variato e avanzato con il risultato finale che ogni modulo risulta di fatto indipendente, collegabile tecnicamente e compatibile esteticamente. Rams innova l’apparenza dell’oggetto attraverso un processo di riduzione formale che lo induce a concentrarsi sul sistema di comandi, sulle pulsantiere, i bottoni, gli attivatori, le scale di lettura delle frequenze, le microforature del metallo e delle plastiche, da cui fare uscire il suono oppure usate per dissipare il calore sviluppato dai transistor. Questo insieme di soluzioni si articola attorno alla progettazione di quelli che oggi identifichiamo come sistemi di interfaccia. In questo senso, il successo di Braun va ascritto principalmente alla demistificazione degli oggetti tecnici e alla ricerca di modi essenziali d’implementazione dei comandi; il design team diretto da Rams mostra un approccio orientato a realizzare oggetti che oggi indichiamo come user friendly.

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Rams non può essere identificato con la Braun e ciò risulta chiaro osservando i suoi progetti di mobili per Vitsoe. Rams ha trovato differenti mezzi d’espressione per differenti campi di lavoro16. I riferimenti al background di cultura architettonica, quali quelli riscontrabili nella parafrasi del celebre motto di Mies Van der Rohe less is more, declinato da Rams in less but better, rappresentano, attraverso uno slittamento semantico, il punto focale di avanzamento dell’idea di progetto moderno, del suo scopo implicito, finalizzato a coniugare rigore e semplicità. Commentando l’organizzazione architettonica della sua casa, in una recente intervista Rams stesso ci svela il centro propulsivo della sua attività: tutto l’arredo è stato creato all’insegna del concetto che una volta ho espresso in questo paradosso: il buon design è il minor design possibile. L’obiettivo di questa riduzione nel design, non è affatto un approccio di ricerca di sterile ascetismo così come con me alcuni miei colleghi progettisti sono stati accusati di fare. È piuttosto il rifiuto del dominio delle cose17.

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1   Siegfried Giedion, L’èra della meccanizzazione, Feltrinelli, Milano 1967. 2   Giovanni Klaus Koenig, Esiste ancora un design tedesco? Ottagono n. 64. 3   Alessandro Alfieri, I paradossi dell’arte nella Teoria estetica di Theodor W. Adorno. Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 10 (2008) [inserito il 5 dicembre 2008], disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/dialegesthai/>, [66 KB], ISSN 1128-5478. 4   Paul Betts, The autority of everyday objects, a cultural history of west german industrial design, University of California Press 2004. 5   Tomàs Maldonado, Disegno industriale, un riesame. Feltrinelli, Milano 1976. 6   Giulio Carlo Argan, Disegno industriale (1976), in Questioni di critica, Editori Riuniti, Roma 1981. 7   Cfr. La scuola di Ulm Una nuova cultura del progetto 19531968, Costa e Nolan, Genova 1987. 8   Rudolf Baresel Bofinger, Hans Gugelot-System Design, catalogo, Monaco 1984.


9   François Burkhardt intervista, RAI http://www.educational. rai.it/lezionididesign/designers/BURKHARDTF.htm. 10   Vanni Pasca, Dieter Rams per De Padova, 1984. 11   Manlio Brusatin, Design come arte, Einaudi, Torino 2005. 12   Cfr. Un designer in azienda, «Abitare», n. 487, 2008. 13   La Bara di Biancaneve era così detta perché usava per la prima volta una scocca in perspex come coperchio trasparente del piatto per i dischi. 14   1) Un buon design è innovativo 2) Un buon design rende un prodotto utile 3) Un buon design è estetico 4) Un buon design ci aiuta a capire un prodotto 5) Un buon design non è invasivo 6) Un buon design è onesto 7) Un buon design è duraturo 8) Un buon design lo è fino all’ultimo dettaglio 9) Un buon design si preoccupa dell’ambiente 10) Un buon design è meno design possibile. 15   Un designer in azienda, cit. 16   Francois Burkhardt, catalogo della mostra su Rams, 1981. 17   Dieter Rams, Weniger aber besser, Jo Klatt, Amburgo 1994.

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Libri, riviste e mostre

C. Olmo, Architettura e Novecento. Diritti, conflitti, valori, con 24 disegni di Louis Hell­ man, Donzelli editore, Roma 2010. Carlo Olmo si chiede: può la storia dell’architettura recare un suo contributo alla discussione sulla storia del Novecento?, facendo riferimento al libro di Eric J. Hobsbawm che in qualche modo ‘segna l’incipit’ della questione. Infatti, l’introduzione di nuove considerazioni storiografiche sul secolo scorso nell’ultimo libro di Hobsbawm [Age of extremes. The short twentieth century 1914-1991, Pantheon Books, New York 1994, trad. it. Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1997], ha reso inevitabili riletture critiche per le diverse specificità storiografiche, che, nel caso della storia dell’architettura, si sono concentrate sulle origini della radicale trasformazione della produzione in età contemporanea. La fine di un’epoca, da Hobsbawm circoscritta in un arco temporale che va dall’attentato di Sarajevo

al collasso dell’Unione Sovietica, aveva consentito all’autore di rileggere in prospettiva storica il Novecento. All’interno del confronto che ha caratterizzato il xx secolo, lo storico inglese di formazione marxista nel suo saggio fa osservare «quanto siano state efficaci le opposte strategie di capitalismo e comunismo nel seppellire il mondo dei nostri antenati, e neppure quanto coscientemente siano state orientate a tale scopo» [p. 21]. La progressiva perdita della memoria storica e la rivoluzionaria mutazione dell’identità collettiva che ne hanno fatto lentamente seguito hanno creato le condizioni per cui il mondo di oggi non fosse più quello di prima, generando «un senso di disagio e di inquietudine» [p. 25]. L’indagine dei limiti e delle prospettive di nuove metodologie di studio per un confronto critico con l’architettura contemporanea è uno dei temi che costruisce il contributo di Olmo. L’autore apre una tematizzazione della rottura per l’architettura del Nove-

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cento, ponendo nuove domande per nuove periodizzazioni, tali da sperimentare metodologie utili alla lettura critica dell’alterazione del secolare rapporto di armonia tra città e campagna, che ha distrutto i caratteri peculiari del­ l’architettura, con la conseguente riduzione dell’aggregato urbano a un’unica periferia. Olmo, piuttosto che elaborare catalogazioni formali di sintesi o denunciare gli effetti generati da tale contesto storico, focalizza l’attenzione sulle possibili chiavi di ricerca storiografica per indagare le motivazioni che hanno generato la trasformazione dell’immagine del­la città e dell’architettura fino alla cronaca corrente. Olmo, storico dell’architettura di formazione ‘atipica’, in questo tanto piccolo quanto complesso lavoro, prosegue coerentemente con il suo approccio metodologico di storia della città in chiave sociale, «con l’evidente finalità di superare tanto i residui dell’impostazione neopositivistica giovannoniana […], quanto un malinteso specialismo che all’affermazione di un autonomo statuto della disciplina storico-architettonica fa corrispondere una sostanziale chiusura rispetto agli altri campi della ricerca storicosociale» [v. la scheda biografica di F. Mangone, Dizionario del­ l’Architettura del xx secolo, a cura di C. Olmo, Umberto Alleman­ di & C., Torino-London 2001, vol. iv, p. 481]. Infatti, già in precedenza Olmo aveva indagato sulle origini del moderno con una ricerca che muoveva da premesse inedite per la storia dell’architettura, fornendo una lettura alternativa del secondo Settecento in linea con al-

cune scuole di storici francesi [cfr. R. Gabetti e C. Olmo, Alle radici dell’architettura contemporanea, Einaudi, Torino 1989]. Qui, come nel libro che si presenta, è la scrittura delle memorie «che nella costruzione del racconto e della previsione, prefigura forme di reciprocità e circolarità che consentono allo storico di parlare di un’urbanistica, come scienza delle relazioni che possono legare spazio, economia e società» [p. 11]. Lo studio analitico è supportato da una bibliografia vasta ed eterogenea, a conferma dell’impostazione multidisciplinare, tale da permettere un allargamento del campo di indagine e, insieme, una ricomposizione per frammenti della città. Architettura e Novecento. Diritti, conflitti, valori, pensato e iniziato in una tarda primavera in cui il tempo e il dolore aiutavano a leggere, a fermarsi e ritornare sui passi dei testi e dei documenti, ad appuntare, certo con il lapis, i margini e inducevano a cercare altri libri e documenti, mette in luce problematiche nuove per la metodologia tradizionalistica che attraversano oggi la storia contemporanea e in particolare la storia del Novecento. Alla base delle riflessioni di Olmo, ricche di antinomie, di riferimenti e di spunti di ricerca sui diversi attori coinvolti nel processo di edificazione, è il nuovo contesto in cui si trova a operare la storiografia che l’enfasi degli anniversari e delle biografie ha radicalizzato, in particolare dopo il 1989. Al di là di un’interpretazione stilistica o di una codificazione sintetica dei molteplici movimenti artistici che si sono svi-


luppati nel corso del secolo, l’autore analizza gli apporti sociali, tecnologici, economici e culturali che hanno influito sulle pratiche dell’architettura e sulla relativa evoluzione. La discontinuità appare così l’esito di una problematizzazione dello spazio che finisce con il negarne la possibile unità e che può rendere completamente metaforico persino un edificio. L’autore è così in grado di indagare in parallelo la grande architettura con la prassi edilizia, i grandi eventi con le microstorie, ovvero il rapporto che oggigiorno si realizza tra le opere delle cosiddette archistar, manifesto dell’era della comunicazione, e una diffusa e articolata trasformazione dell’abitazione privata, che rammenta l’ordinario nelle realtà urbane, rappresentando nel suo insieme l’immagine del quotidiano e partecipando alla discussione sull’innovazione in edilizia. La perdita simbolica del capitale di conoscenze specialistiche dell’architettura che la cronaca sperimenta con la crescente integrazione nei processi di legittimazione dell’opinione pubblica, avviene in una fase storica che vede la ‘memoria’ sostituire valori essenziali di riferimento sociale come il progresso e l’identità, per una società che sta perdendo il senso della distanza e del confine, per radicarsi in territorialità e autorialità spesso quanto meno approssimative ma, al contempo, globalizzanti. Si sviluppa in tal senso una programmazione culturale che favorisce la massificazione del consenso a scapito della permanenza di valori collettivi e le città utilizzano l’anniversario per creare nuove

occasioni di marketing urbano, le storiografie per alimentare un mercato librario che riduce sempre più il tempo di vita di un testo, le istituzioni per rinnovare patti o cercarne di nuovi. La rincorsa all’evento e alla ricorrenza da celebrare crea occasioni per individuare la propria riconoscibilità collettiva, in antitesi ad opere che nella permanenza storica hanno identificato luoghi e comunità. La storia come commemorazione e la memoria come strumento di politiche sociali, culturali e patrimoniali rischiano di far perdere valore all’elaborazione individuale, alla ricostruzione dei fatti e alle procedure di sperimentazione che ogni ricerca storica dovrebbe portare con sé, favorendo un processo di sintesi che ha generato semplificazioni totalizzanti. L’architettura offre così alla riflessione dello storico un documento insieme legato e sconnesso dal contesto, l’espressione quasi toponima di una territorialità, ma nello stesso tempo autonoma e indifferente al luogo, nei suoi linguaggi. Succede quindi che, nel momento in cui la memoria è oggettivamente indebolita da un presente proposto come unica dimensione della vita quotidiana, il Museo, paradigma dell’ordinamento dei tempi della storia, diventa icona di questo possibile tempo senza storia, evidenziando la crisi di un’altra parola chiave che il Novecento si costruisce e poi mette in crisi: patrimonio e la sua sempre più accentuata divaricazione con l’abitare. All’interno di questo complesso sistema sempre più legato al

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mercato, anche l’urbanistica deve ammettere l’indebolimento del significato del piano, ma, dice Olmo, il tentativo di ridurne l’oggetto a bene monetario e astratto, non attribuisce solo nuovi, letterari significati ai luoghi: è una delle ragioni più importanti dello sradicamento del cittadino e della cittadinanza da territori che sono soprattutto intrecci di valori sociali, simbolici, patrimoniali. […] Non tanto perché banalizza la riproducibilità, ma soprattutto perché identifica terra e valore mercantile, perché fa della cartografia amministrativa e della memoria collettiva […] valori evocativi e decontestualizzati. Andando alle radici della cronaca odierna, Olmo constata che sono scomparsi gli attori di quella rappresentazione tradizionale, ovvero il ‘committente curioso’ e ‘l’architetto colto’, e le loro relazioni sociali, mentre è rimasta l’individualizzazione del bene, che incorpora però altri significati: la proprietà, la mobilità individuale, la ritualità, la scansione rigida dei tempi della vita, il rapporto tra società dei consumi e consumo dello spazio. Si concretizza in tal modo un piano istituzionale, con le sue cartografie urbane, i suoi manuali dell’architetto, i suoi disegni tecnici, le sue biblioteche portables, le sue instructiones per i progettisti ridotte a precetti, a costituire la base indispensabile di quella anonima edilizia che segna i paesaggi costruiti del Novecento, dalle periferie senza morfologie e numeri […]: la forma urbis della società dei consumi sarà così istituzionale e procedurale, co-

me lo sono i suoi manuali. Un contesto lavorativo in cui l’autore denuncia una separazione radicale anche tra deontologia degli studi professionali e morale dell’architetto, e come in tutte le strutture dove si rafforza il potere di un singolo, non è un caso che la parola etica si appanni o che gli oligarchi tendano a legittimarsi tra di loro, non più rispetto a valori, formali o sostanziali. In conclusione, alla problematicità interpretativa della consolidata astrazione ambientale dell’attuale architettura, Olmo lascia di fatto aperte le porte per nuove tematizzazioni relative a una rilettura critica e a una ricontestualizzazione storiografica del Novecento, in quanto tutta l’architettura possiede tuttavia il fascino raro di non parlare solo attraverso i suoi oggetti più poveri o attraverso monumenti e landmark, ma anche attraverso la funzione che alla memoria di un muro si può far giocare o, come sottolinea egli stesso alla fine dell’introduzione, la ‘falsazione’ dei suoi lettori. M. V. Daniele Baroni, Un oggetto chia­mato libro. Breve trattato di cultura del progetto, Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano 2009. D’emblée, forse sembrerà strano imbattersi in un libro intitolato Un oggetto chiamato libro, che si presenta infatti come un libro, per così dire, all’antica: con una copertina piacevole al tatto, una bella carta e immagini


di ottima qualità grafica. Nel momento in cui tutta la cultura sembra ora riconvertirsi in un inarrestabile processo di digitalizzazione, compare questo importante libro sul libro come c’è stato consegnato da Gutenberg: Il libro, nella sua peculiarità di «oggetto» di carta, stampato e rilegato, che accompagna da secoli l’essere umano nella sua erudizione, oltre che nello svago del tempo libero. Perché oggi il libro tradizionale potrebbe avere ancora qualcosa da dire, qualcosa che valga la pena leggere lì e non altrove, nei più sbrigativi display che soddisfano all’istante i nostri più svariati desideri con la semplice sollecitazione di un clic? Il volume di Baroni affronta il tema-libro in lungo e in largo: dal suo essere oggetto fisico, prodotto industriale, al carattere tipografico che lo sostanzia, con cenni alla sempre più problematica classificazione dei vari caratteri; dalle parti di cui è fatto, come la copertina o la marca editoriale, alle tendenze che ne hanno determinato la forma, fino alla sua evoluzione in supporto digitale, che lo snaturerebbe e che quindi, non potendo essere considerato libro stricto sensu, esula da questa trattazione. I temi intavolati sono: morfologia del libro, il valore estetico dell’arte editoriale, i caratteri da stampa per l’editoria, la marca editoriale, il frontespizio, la copertina, il paratesto, nor­me editoriali e convenzioni tipografiche, la legatura del libro e il design della confezione, la carta (un supporto di pregio), la rivoluzione digitale, l’eredità del «livre d’artiste», l’illustrazione,

l’iconografia. Insomma, tutto quello che avreste voluto sapere sul libro e che è ora a portata cartacea. La storia del libro è anche la storia dei caratteri tipografici. Questi vengono qui riproposti nella classificazione “funzionale” secondo criteri tassonomici avanzata negli anni cinquanta da Aldo Novarese (maestro tipografo italiano): lapidari, medievali, veneziani, transazionali, bodoniani, scritti, ornati, fantasie, lineari. Si disserta della tardo-ottocentesca, coraggiosa rivoluzione aristocratica di William Morris, quando questi avvia la stamperia Kelscott Press nei dintorni di Londra, e per quelle sue straordinarie edizioni neomedievaliste, egli disegna appositamente alcuni caratteri, ispirandosi ai «veneziani» della seconda metà del Quattrocento. Si continua, lungo la storia, ricordando che a fine Ottocento in Germania viene diffuso dalla fonderia Stempel il carattere lineare Akzidenz Grotesk, che perfeziona i precedenti bastoni ottocenteschi e anticipa di mezzo secolo i più moderni Haas Helvetica. Si menziona poi il Franklin Gothic, disegnato da Morris Benton nel 1905 per la ATF (Americam Type Foinders); la lezione di Edward Johnston, autore del classico manuale tipografico Writing and Illuminating and Lettering, redatto nel 1906, e progettista del Johnston Sans (1916), carattere istituzionale dei trasporti pubblici di Londra; e il sans serif di Eric Gill (del 1927), che ci tramanda così, insieme al Futura di Paul Renner, un carattere estremamente moderno e razionale. In Germania, intanto, imperversano

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i caratteri lineari con precisa aderenza della forma alla funzione che confluiscono nell’Elementare Typographie (1928) di Jan Tschichold, dove si legge: «Per rispondere alle funzioni sociali della tipografia, bisogna […] limitarsi agli elementi di base della tipografia: lettere, cifre, segni, righe di caratteri […] La forma di base del carattere da stampa è senza grazie». Nello stesso periodo, in Inghilterra, si approda al Times New Roman, messo a punto da Stanley Morison (e dal suo staff esecutivo), con cui è stampato l’autorevole quotidiano “Times” per la prima volta nel 1932. Più tardi, è la volta dell’arcinoto Helvetica: Max Miedinger, impegnato in un’attenta (ri-)elaborazione dal 1953 al 1957, aggiorna l’Akzidenz Grotesk, molto usato nell’area germanica, cosicché il carattere viene diffuso in ogni parte del mondo, diventando per decenni sinonimo di alfabeto universale e al tempo stesso, fondamento segnico di quella che va sotto la denominazione di scuola svizzera. Ancora, è descritta l’attività di Adrian Frutiger, progettista dell’altrettanto celebrato Univers, sviluppato in 21 versioni. E non si tralascia l’opera di Novarese, tra i prolifici disegnatori di caratteri del Novecento, come l’Augustea, l’Eurostile, l’E­gizio, il Ritmo, il Garaldus, il Forma, il Magister, il Recta, nonché autore di testi di teoria e divulgazione storica, tra cui Alfabeta (1964), e attivo fino agli anni ottanta. Da questo momento in poi, l’avvento del digitale e il lancio del Mac (1984), dopo il passaggio dal carattere a piombo alla

pellicola fotografica, segnano l’avvio di una nuova era, che presto si trasformerà in una rivoluzione di carattere epocale. Così, Baroni dedica un capitolo alla scrittura digitale, che produce tutta una Free Graphics. La grafica fuori delle regole nell’era digitale, come chi scrive titola nel 2006. È qui, infatti, che prendono campo alcuni dei più influenti progettisti grafici del nostro tempo. Questo è il caso della cecoslovacca Zuzana Licko e dell’olandese Rudy VanderLans, entrambi trapiantati in California, dove realizzano, proprio nel 1984, la prestigiosa rivista di progettazione grafica, “Emigre”, che si configura subito come una sorta di laboratorio sperimentale per l’applicazione della nuova – anzi, “primitiva”, come la definiscono loro – scrittura computerizzata; Emigre è anche il nome della società tipo-digitale fondata poco dopo, che lancia numerosi caratteri del tutto innovativi, nel segno di una nuova grafica. Tra gli altri, è anche il caso di David Carson, forse il più famoso grafico in assoluto. Questi opera una vera e propria rottura col passato, mettendo in scena una frenetica danza di caratteri e testi che divengono immagini, contro tutte le regole della (tipo-) grafia della tradizione, a dispetto della leggibilità e all’insegna d’una comunicazione (iper-)dinamica e immediatamente collegata alla potenza iconica degli strumenti digitali. Il suo lavoro è raccolto in The End of Print, letteralmente “la fine della stampa”, che sarebbe oggi rimpiazzata dai mirabolanti mezzi multimodali. Ma The End of Print è anche il titolo della monografia sul design


grafico più venduta in assoluto: un bestseller che ha fatto vendere oltre 160.000 copie (stampate!), vale a dire “oggetti di carta”, stampati e rilegati; cosa che evidenzia, al contrario, l’attualità della stampa. Certo, un libro digitalizzato, tradotto in .pdf, presenta oggi dei vantaggi nient’affatto trascurabili. Tanto per cominciare, costa molto meno d’un libro cartaceo; si scarica sull’hard-disk o si visualizza su schermo; con un po’ di allenamento, lo si arriva a leggere su display; in ogni caso, lo si può stampare senza difficoltà, aumentando anche il corpo del carattere (la dimensione del testo). In tal modo, naturalmente, non esistono costi di distribuzione né d’immagazzinamento, e si salta a piè pari il segmento negoziante-libraio. Inoltre, è possibile raccogliere, in un solo pendrive o altro supporto elettronico, una quantità sterminata di libri, che su carta occuperebbero lo spazio e il peso di un’intera libreria, e portarsi dietro una sorta di biblioteca personale; cosa molto utile quando ci si sposta per lavoro o anche semplicemente ci si concede un viaggio all’insegna della lettura. Tutto ciò è innegabile: che si tratti di un e-book di ultima generazione (il cosiddetto “libro elettronico”) o d’un computer portatile (ormai leggerissimo), è possibile ottenere, con una spesa e uno spazio davvero contenuti, un’importante mole d’informazioni scritte, l’equivalente cioè d’un numero di libri cartacei tanto esorbitante quanto imprecisato. Ma – per rispondere alla domanda iniziale – mole d’informazioni e piacere della lettura non sono esattamente la stessa

cosa: il libro non è una sequenza di parole in astratto; è un artefatto fisico, un corpo, materia con le sue sollecitazione percettive, che sono parte integrante dell’oggetto libro. Può essere un prezioso oggetto di regalo, un dono; e quando, con altri libri, riempie uno scaffale rivela il suo supremo potere arredativo. Si tiene tra le mani, è possibile sfogliarlo, prima ancora di leggerlo, si guarda, si ammira, apprezzando la grammatura della carta, la sua lucentezza, la sua filigrana; e si annusa anche, immergendosi nell’odore che precede la lettura. Per dirla con Hermann Zapf, maestro tipografo e designer di caratteri «speriamo di riuscire a convincere le giovani generazioni che tenere un libro tra le mani è un piacere unico, toccare la texture della carta e godere della qualità della stampa». La scrittura digitale è un’acquisizione importante, foriera di nuove possibilità e di non quantificabili sviluppi, che stanno già trasformando la (tradizionale) tipografia in un’inedita (neo-)grafia: davvero nulla in contrario. Ma il libro, semplicemente, è un’altra cosa: Non vi è dubbio che in questo settore – quello dell’e-book – ci saranno di continuo nuovi aggiornamenti che porteranno a una evoluzione oggi inimmaginabile. Ma proprio perché l’e-book è strettamente connesso a tecnologie molto avanzate, riteniamo che vada ascritto alla categoria dei «beni per la comunicazione elettronica» e non come emanazione evolutiva della produzione editoriale. In altre parole, i dispositivi elettronici, con la loro straordinaria capacità d’immagazzi-

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namento dati, possono essere molto utili per la consultazione enciclopedica, ma piuttosto insoddisfacenti per il godimento – anche fisico! – non solo di un romanzo, che chiunque preferirebbe leggere su carta, anzi su libro… D. R. D. Sudjic, Il linguaggio delle co­ se, Editori Laterza, Bari 2009.

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Le “cose” cui fa riferimento Deyan Sudjic nel suo brillante saggio sono gli oggetti con i quali la società di oggi riempie i propri spazi fisici e mentali, secondo un processo di accumulazione che sta assumendo un ritmo e una velocità sempre più sostenuti. Come quelle oche che vengono ingozzate a forza finché non gli esplode il fegato per fare il foie gras, la nostra generazione è nata per consumare. Quando si avvicina l’uomo con l’imbuto di metallo, pronto a spingerglielo in gola, le oche vanno nel panico, noi invece lottiamo per conquistarci il nostro turno al trogolo che ci dispensa l’infinito diluvio di oggetti che costituiscono il nostro mondo. C’è chi si accampa davanti ai negozi della Apple per essere il primo a comprare un iPhone. C’è chi è pronto a pagare qualsiasi cifra per collezionare copie di scarpe da ginnastica degli anni Settanta. Nella ricerca delle motivazioni forti che spingono l’uomo al desiderio e all’acquisto ossessivo dei prodotti, Sudjic muove da due linee di pensiero: da una parte l’analisi della cultura visiva, operata in Ways of Seeing da John Berger, e dall’altra

le considerazioni di Roland Barthes e Jean Baudrillard, dei quali viene però rilevata l’incompiutezza sul piano teorico, legata anche alla collocazione cronologica dei due pensatori, che operavano in una società ancora alle soglie del consumismo. Secondo Sudjic, infatti, gli oggetti non sono solo la proiezione di bisogni e sentimenti psicologici, ben strutturati nelle varie tipologie socioculturali: sono piuttosto essi stessi provocatori di necessità e desideri, attraverso il valore aggiunto conferito loro dal design. Non stupirà più allora il titolo apparentemente ossimorico del libro, che lega un concetto come quello del linguaggio al mondo della cultura materiale: gli oggetti ci aiutano a rappresentare la nostra esistenza e a definire ciò che siamo e ciò che ci distingue dagli altri. E il design è diventato il linguaggio con cui diamo forma a quegli oggetti e con cui modelliamo i messaggi che essi portano con sé. Il ruolo dei designer più sofisticati, oltre quello di risolvere problemi formali e funzionali, è quello dei narratori, è di fare un design che parla in modo tale da comunicare quei messaggi. Con l’avanzare del consumismo, abbiamo assistito a due ordini di importanti trasformazioni: in primo luogo, secondo le migliori previsioni di Calkins, pioniere della pubblicità e teorico del consumer engineering, la categoria degli oggetti costruiti per durare una vita (o almeno qualche anno) si è andata riducendo. Abbiamo attraversato un periodo che, come le grandi estinzioni dei dinosauri, ha spazzato via le bestie che vagavano nel


paesaggio della prima epoca industriale. […] Quegli oggetti industriali che sono sopravvissuti hanno un ciclo vitale misurato in mesi, invece che in decenni. Ogni nuova generazione viene soppiantata così velocemente dalla successiva che non c’è mai il tempo perché si sviluppi un rapporto tra il proprietario e l’oggetto. Questi cambiamenti hanno comportato chiaramente anche una trasformazione del ruolo del designer, legata soprattutto al fatto che, come nota l’autore, più artefatti stanno convergendo in un’unica categoria: l’esempio più eclatante ci è fornito dai telefoni cellulari, che assumono in sé molteplici funzioni, connesse all’ascolto radiofonico, alle riprese video, alla navigazione in rete. Inoltre, il design non riguarda più il progetto dei componenti originali che fanno parte di un prodotto: la tecnologia è diventata talmente complessa da far sì che il designer oggi sia chiamato piuttosto a progettare la superficie degli oggetti, cui è richiesto il compito fondamentale di narrare le funzioni, il valore e le modalità d’uso del­ l’oggetto stesso. Tale narrazione può avvenire sfruttando tutti i sensi, attraverso forme, colori, materiali, e il messaggio può essere inviato mediante una comunicazione diretta o indiretta di ciò che l’oggetto rappresenta; in ogni caso il design si conferma un linguaggio talmente collegato alle dinamiche sociali e culturali dell’uomo da fornirci una valida chiave di interpretazione del mondo in cui viviamo, che viene continuamente aggiornata. Lungo questa linea di riflessione, Sudjic definisce il concetto

di archetipo e la sua fondamentale funzione all’interno del linguaggio del design. L’esempio più interessante di oggetto archetipico è la lampada regolabile Anglepois: questa è un artefatto moderno, non pretenzioso, ma che ha molte cose da dire sul design. È una lampada da tavolo che svolge una funzione pratica, quella di dirigere un fascio concentrato di luce chiara su una superficie selezionata che può essere orizzontale o verticale. […] La Anglepois non ha un’unica forma definita. La sua sagoma cambia continuamente quando la si usa […]. Al tempo stesso, ha il fascino delle cose meccaniche, di un prodotto anonimo di ingegneria pratica. […] La Anglepois è funzionale, ma ai suoi utenti offre anche un coinvolgimento emotivo. La sua presenza su una scrivania o su un tavolo da disegno è un segno univoco di concentrazione e di sforzo creativo. Questa lampada rappresenta l’esempio più chiaro di un oggetto che, una volta nato, dà avvio a una nuova categoria di prodotti. Non basta questo per attribuirle valore di archetipo: la caratteristica principale che un oggetto di questo genere possiede è la sua capacità di esprimere attraverso la forma le proprie funzioni e modalità d’uso. Quindi, proseguendo nella teoria di Sudjic, se il design ha un linguaggio per esprimersi, questo si fonda su un lessico fornito dagli oggetti archetipici: l’ar­chetipo infatti fonda la riconoscibilità del codice-linguaggio del design; ogniqualvolta ci accostiamo a un oggetto, abbiamo la possibilità di riconoscerne la funzione proprio grazie al richia-

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mo dell’elemento archetipico. Gli archetipi possono offrire il conforto meno specifico della memoria, e le complesse attrattive legate a un senso di familiarità. Lavorare all’interno di una cornice archetipica permette di dotare il design degli oggetti di una profondità psicologica ed emotiva. […] un design che evoca degli archetipi offre un consolante senso di continuità, introducendo nell’oggetto una storia di ready-made. Evidentemente, i designer hanno poco spesso a che fare con la creazione di oggetti archetipici, anche se nuovi problemi stanno nascendo nella definizione di certi oggetti appartenenti alla categoria del digitale: il cellulare sta, ad esempio, sostituendo tutta una serie di prodotti che possedevano una propria riconoscibilità, e sarebbe quindi necessario individuare un nuovo archetipo, che renda leggibile la molteplice natura di questo prodotto tecnologico. L’epoca del consumismo ha, secondo l’autore, trasformato anche il significato del termine “lusso”. Il fenomeno dello shopping è il risultato di un’enorme e recentissima accelerazione della velocità con cui consumiamo. In passato, il lusso era il sollievo dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza che l’umanità si concedeva. […] Era quel­l’aspetto della natura di un oggetto che ci permetteva di condividere il piacere provato dal designer o dall’artigiano che lo aveva fatto. Appare chiaro come sia difficile oggi definire il concetto di lusso, trovandoci in un sistema di mercato caratterizzato non più dalla scarsità, ma dall’abbondanza dell’offerta. Un

tempo il lavoro fatto a mano, o mediante pratiche e tecniche tradizionali bastava a qualificare un oggetto come oggetto di lusso, ma la serialità su cui si basa la maggior parte della produzione di oggi rende difficile la persistenza di questo principio. Il lusso contemporaneo dipende dalla possibilità di trovare nuove cose difficili da fare. Può consistere nell’usare più materiale di quanto sia strettamente necessario; o nel nascondere le cuciture di un vestito o le saldature sulle giunture dei pannelli di una carrozzeria. […] ci troviamo di fronte alla situazione paradossale per cui degli artefatti prodotti a macchina presentano imperfezioni introdotte appositamente per dare l’impressione della qualità. Oggi possono richiamare l’idea di lusso l’attenzione ai dettagli, o la semplicità delle forme, che non lasciano alcun margine d’errore al produttore, o, ancora, l’esigenza da parte dell’oggetto di un’accurata manutenzione. La stessa abbondanza sovradimensionata dell’offerta, che innesca il consumo di massa di oggetti non più “unici”, ma di fatto largamente diffusi, e che crea una forma di dipendenza nel consumatore che trova nell’acquisto appagamento e sicurezza, determina a livello di élite un atteggiamento di rifiuto, che Sudjic identifica come understatement. Questo è l’incarnazione dell’idea che è maleducato accumulare una ricchezza di tali proporzioni da essere sempre esibita, come per ricordare a chi è meno ricco quanto i propri possedimenti siano maggiori dei suoi. Per gli intenditori, adottare un’apparenza esterio-


re di assoluta semplicità, ma come fatta su misura, fornisce tutti i segnali necessari a indicare le risorse indispensabili ad ottenerla. Ci avviciniamo così a un’altra idea di lusso, inteso come modo di sottrarsi all’incessante marea di beni che minaccia di sommergerci. Parlando di design come linguaggio, non è possibile eludere il tema della moda, che oggi ha allargato a dismisura il suo campo di applicazione. Il cinema, la musica e il mondo dello spettacolo in genere si sono rivelati in questi anni potentissimi veicoli pubblicitari per la moda, e, nel contempo, le hanno fornito un ricco repertorio di spunti creativi, indispensabili a un settore che deve rinnovarsi ogni sei mesi. Nonostante la sua natura così effimera, è innegabile che la moda sia un efficace mezzo di espressione degli individui che, attraverso essa, definiscono la loro appartenenza a un gruppo sociale e la condivisione di certi stili di vita: la moda è, quindi, lo strumento più esplicito di riconoscimento di uno status. L’arte è un modo di guardare il mondo. Ma anche la moda lo è. Può essere il modo più intimo, più personale, più potente di comunicare qualsiasi cosa, dal rango militare all’orientamento sessuale allo status professionale. Può essere democratica o snob, ricca di sfumature creative o sfacciatamente sessualizzata. In questa prospettiva, è evidente la potenza della moda, la quale sta trasformando il modo in cui vengono compresi anche l’arte e il design. La costruzione di automobili, elettrodomestici o computer sta mostrando molte caratteristi-

che della moda – un processo che non dà alcun segno di rallentamento. La moda è la forma più sviluppata di obsolescenza programmata, la forza propulsiva che sta dietro il cambiamento culturale. L’ultima parte del libro è dedicata a un’intensa riflessione sul rapporto tra arte e design, operata a partire dalla distinzione tra l’utile e l’inutile. Se per design intendiamo la progettazione di un’opera, è evidente che, a differenza dell’oggetto d’arte, quello di design è strettamente collegato nella sua fenomenologia alla risoluzione di un problema. Per questo motivo, si riconosce il valore di un’opera di design innanzitutto in rapporto allo sforzo e all’intelligenza necessari alla sua creazione. Per capire pienamente una macchina da scrivere abbiamo bisogno di sapere per quanto tempo è stata in produzione e quanto costava. Per avere un’idea della sua importanza abbiamo bisogno di vedere i disegni per il brevetto, la pubblicità, gli strumenti di produzione, l’imballaggio. Sapere come Jackson Pollock dipingeva i suoi drip paintings è certamente importante. Ma non è una precondizione essenziale per essere toccati dalla sua arte. Evidentemente l’argomento “utilitarista” non può essere l’unico elemento di distinzione tra arte e design: fondamentale a questo scopo è il riconoscimento del design come incarnazione del commercio e non della cultura. Ciò comporta che, a differenza dei prodotti artistici, non è la capacità di sollevare questioni critiche l’elemento che qualifica gli oggetti di design. Ma un dato, luci-

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damente messo in evidenza da Sudjic, accomuna comunque l’og­getto di design a quello d’arte: precisamente nel momento in cui l’oggetto invecchia, acquisisce un’aura che lo distacca dalla serialità all’interno della quale esso è nato, e gli conferisce un valore d’arte. Il saggio di Sudjic alterna interessanti e valide riflessioni sul mondo degli oggetti a una ricchissima esemplificazione, accompagnata da uno stile accattivante, spesso ironico, sempre persuasivo. V. P. Alfonso Gatto, Scritti di Architettura, Aragno Editore, To­ rino 2010.

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Gli artisti debbono affrontare, oggi, il problema più spinoso della vita italiana: la capacità di credere a ideologie precise e la volontà di condurre fino in fondo la lotta contro le pretese di una maggioranza antimoderna. Queste esigenze, rinnegate dalla refrattarietà ideale dei nostri polemisti, costituiscono l’eredità che noi lasceremo alle nostre generazioni, dopo aver sentito inaridire fatalmente la nostra vita in un problema di stile: il più alto ed inevitabile della cultura in questo oscuro periodo della storia del mondo. Queste parole riecheggiano come monito ancora oggi e giungono attuali fino a noi nel necrologio dedicato da Alfonso Gatto ad Edoardo Persico all’indomani della sua morte. Questo j’accuse è tra le prime pagine che colpiscono leggendo il

libro Scritti di Architettura, una preziosa raccolta di osservazioni, critiche, riflessioni, che compongono la rubrica Cronaca dell’Architettura, tenuta da Gatto dal marzo ’37 al novembre ’38, anni caratterizzati dalla vivida collaborazione con la rivista Casabella. A questi si aggiungono altresì contributi estratti da quotidiani, periodici e pubblicazioni monografiche, in un arco temporale di quattro decenni, dal ’36 al ’76, che si amalgamano e al tempo stesso si distinguono, per i temi affrontati nella loro successione, in un quadro preciso e profondamente critico sul fare architettura. Ma Gatto non nasce come critico d’architettura, né tanto meno come architetto. Egli è infatti un poeta, anzi uno dei poeti più autorevoli ed originali del ’900, un intellettuale, un uomo d’arte che al pari di molti del suo tempo, come Montale e Quasimodo, non si è mai laureato. È un uomo, dunque, che sceglie l’arte della poesia come mezzo d’e­ spressione. E nello stesso periodo in cui vengono alla luce le sue prime raccolte, come Isola e Morto ai Paesi, il Nostro raccoglie l’eredità di Persico, da poco deceduto prematuramente, sostituendolo nel ruolo di tribuno sulla rivista milanese e seguendone le orme in un’ideale linea di continuità. Ciò che traspare in prima istanza nello sfogliare i suoi scritti di architettura è una grande capacità di essere dentro le questioni, di farle proprie, per poi sviscerarle con nuova linfa ed attraverso un punto di vista davvero personale. Tale approccio va oltre la stessa tematica architettonica che, al di là della poesia, non è stata il suo unico campo di inda-


gine. Basti pensare ai suoi contributi nella saggistica, nel giornalismo, nella sperimentazione teatrale, nell’attività attoriale. Un uomo del suo tempo, calato nel suo tempo, attivamente presente nell’Italia di quegli anni e al tempo stesso un utopista che combatte in uno scenario che si staglia sullo sfondo di un paese tra le due guerre, le cui vicende politiche non possono non ripercuotersi sul dibattito architettonico dell’epoca. La stampa italiana, afferma Gatto, è una foresta intricatissima ed insolubile di discorsi sull’architettura: tutti consiglieri, rettificatori, suggeritori di quel che dovrebbe essere la nuova architettura rispetto a un modello rabberciato dalle retoriche. Guadagnano in fondo tutti, e perde solo il buon cronista che crede alla realtà della nuova architettura e la indica nei rari esempi in cui, tra mille difficoltà, essa si realizza e si difende da sola. Qual è la nuova architettura di cui parla Gatto se non quella nascente del razionalismo, portatrice agli albori della sua nascita, di una promessa, di un riscatto sociale, spesso di un’utopia, che guardava oltre i propri confini per assurgere a un nuovo modello di vita sociale? Gatto è in prima linea nella ricerca di un nuovo linguaggio da fondare. Le sue parole spaziano dalla città radiosa di Le Corbusier, alla Usonia democratica di Wright, dall’esempio di Gropius, all’esperienza americana di Neutra, giungendo poi al caso italiano. Qui si scontra con il fascismo. E al dibattito architettonico si aggiunge la lotta che muove insieme ad altri intellettuali dell’epoca contro il regime

e che lo porterà ad essere arrestato e rinchiuso nel carcere milanese di San Vittore. Mentre le battaglie in nome di uno svecchiamento del sapere antico trovano spazio sulle pagine di Casabella. Qui Gatto espone le proprie posizioni con una tale maestria nel­ l’uso della parola, con toni ora accesi, ora simpaticamente sarcastici, con una vis polemica che non risparmia nessuno, dai nemici del nuovo, fautori di un monumentalismo dell’architettura essenzialmente come arte di stato di stampo fascista, ai cattivi difensori dell’architettura nuova. Siate sicuri, afferma Gatto, che i cattivi difensori dell’architettura nuova indugiano spesso al bar e nei magazzini di moda, scambiano le loro idee con le signore abbonate alle biblioteche circolanti, credono di inaugurare il mondo a scappellate mattutine e con buona fortuna. Tra riga e riga quasi sempre indoviniamo il gesto di malizia del critico aggiornato. Emblematici d’altro canto sono anche i passi in cui la vis gattiana si staglia contro i nemici del nuovo. Lo sappia una volta per sempre Pensabene, deve occuparsi di architettura e riconoscerla in tutti gli esempi maggiori e minori, italiani e stranieri: e con ciò non crede di sottrarsi alla sua attività rivolta allo spirito e ai bisogni della nazione. Tutt’altro: ma non può essere un libello sciovinista, perché l’Italia non ha bisogno di queste false frontiere spirituali, di questa artificiosa selezione. Pensabene non ci ha ancora detto che cosa vuole, da quali opere farebbe rappresentare la nuova architettura, a quale realtà storica

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concreta, e non retorica, crede di riferirsi; ripete soltanto ciò che non vuole, e continua a pescare nel torbido. Queste le parole di Gatto nell’Elogio del Camaleonte. E ancora, sempre riferendosi a Pensabene, faccia dei nomi particolari di uomini e riviste nel campo particolare della nuova architettura italiana, non si nasconda nella sua regola di uomo che rinunzia anche a capire o ad essere informato pur di mostrare a tutti i costi il conformismo più neutro. O ancora, quando attacca Ugo Ojetti, come riporta a mo’ di corollario nelle ultime pagine del libro Hosea Scelza. Commentando una lettera aperta indirizzata da Ojetti a Giò Ponti, Gatto lo esorta a specificare almeno una volta i suoi sprezzanti giudizi sull’architettura nuova, sottolineando come Ojetti procedesse per assunti che non poteva dimostrare. Afferma in tal senso Gatto, Ojet-

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ti ha sempre così trovato il modo di porre la giustezza della sua causa nell’avversione a discuterla. L’unico suo sforzo sintattico di scrittore è stato quello di aver fatto coincidere la sua esitazione con la prudenza, la sua prudenza con l’omissione abile del vero argomento. È evidente che sulle pagine delle riviste di settore di 80 anni fa si combatteva una vera e propria battaglia, il cui esito era inevitabilmente destinato ad oltrepassare la sfera propria dell’architettura, per sfociare in un tutto che comprendeva le ideologie politiche, sociali, culturali, morali. Ciò conferma l’assunto del Persico, secondo cui un discorso sull’architettura va sempre oltre l’architettura, investe tutta la vita dello spirito e prima di tutto, sino al fondo, la coscienza di chi lo esprime. L. F.


Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 1.  Le «Nuove Iconi» e la «civiltà del consumo» - Architettura utopistica - La sociologia dell’arte dei sociologi - Esperienze della Biennale - Tecnologia e poetiche contemporanee - Nouveau roman e arti figurative - Il Gaudi di Pane (fascicolo esaurito) N. 2.  Design e mass media - Gestalt prima e dopo - L’estetica neonaturalistica di Romanell - Della Pop Art e di una mostra a Vienna - La poetica urbanistica di Lynch - Semantica dell’arte - Architettura come linguaggio (fascicolo esaurito) N. 3.  Architettura e cultura di massa - Alcuni temi dell’Informale - Kunstwollen e intenzionalità in E. Panofsky - Dal pragmatismo alla fenomenologia - Libri, riviste e mostre N. 4.  La critica discorde - S.K. Langer, L’influenza sociale del design - T. Munro, Recenti sviluppi dell’estetica in America - G. Veronesi, Sull’architettura del secolo - L. Vinca Masini, Le mostre dell’estate ’65 - Libri, riviste e mostre N. 5.  I criteri di valutazione dell’arte contemporanea - Una politica culturale per i socialisti - Il visual design - Pareri sulla IX Quadriennale - Libri, riviste e mostre N. 6.  Il disegno di architettura - J.P. Hodin, Esiste un’estetica dell’arte moderna? - Alcune voci dell’urbanistica contemporanea - Breve antologia delle ultime Biennali - Libri, riviste e mostre N. 7.  Note per una semiologia figurativa - W. Hofmann, Gli inizi dell’attività formale - E. Garroni, 33a Biennale di Venezia: «jeu» e «sérieux» - Libri, riviste e mostre N. 8.  Artisticità dei mass media - B. Jessup, Arte e storia - Il design scientifico di Alexander - Incontri di studi urbanistici - Libri, riviste e mostre N. 9.  Il pensiero estetico di Adorno - 4 artisti scelti da Barilli - A. Vivas, Filosofia della cultura, estetica e critica: alcuni problemi - Libri, riviste e mostre

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N. 10.  Il premio IN/ARCH alla nostra rivista - R. Barthes, Semiologia e urbanistica - Nuove idee per la Gescal - Il metodo scientifico nella pianificazione - G. Veronesi, Su alcune mostre dell’estate italiana - Libri, riviste e mostre N. 11.  G. Morpurgo-Tagliabue, L’arte è linguaggio? - Urbanistica e arti visive oggi - Valori ed obiettivi nella pianificazione - Libri, riviste e mostre N. 12.  Tre contributi alla semiologia architettonica - E. Garroni, L’eterogeneità dell’oggetto estetico - V. Corbi, Questioni di estetica empirica - A. Perez, Riflessioni di uno scultore sul tema dello spazio - Libri, riviste e mostre N. 13.  L’«environmental design» e il suo insegnamento - Per una teoria dell’architettura - L’estetica del «pensiero negativo» in Marcuse - Libri, riviste e mostre N. 14.  La prossemica: un nuovo apporto all’architettura? - La poetica del­ l’arte povera - Note sull’Università e la professione - O. Ferrari, Una Biennale rimasta senza giudizio - Libri, riviste e mostre N. 15.  I problemi dell’istruzione artistica - R. Segre, Presenza di Cuba nella cultura architettonica contemporanea - Architettura fra retorica e logica Libri, riviste e mostre N. 16.  Significanti e significati della Rotonda palladiana - G. Dorfles, Valori iconologici e semiotici in architettura - Attualità della retorica - Libri, riviste e mostre N. 17.  Il centro della città (definizioni) - M. Tafuri, Ambiguità del Guarini - Lettura storico-semiologica di Palmanova - Libri, riviste e mostre N. 18.  L’architettura per l’Università - E. Garroni, Semiologia e architettura. Alcuni problemi teorico-applicativi - Recenti contributi allo studio dell’«environmental design» - Libri, riviste e mostre N. 19.  Segni e simboli del tempietto di Bramante - Note sull’immaginario in Filarete - Philip Johnson: la funzione della maschera formale - Biennale/ricerca - Libri, riviste e mostre N. 20.  Utilità storiografica di una dicotomia linguistica - Meaning in Architecture - La cultura di Le Corbusier - New Towns (definizioni) - Libri, riviste e mostre N. 21.  Note per una epistemologia della rappresentazione visiva - G. Bonsiepe, Panorama del disegno industriale - Per una poetica del profondo: Blaue Reiter - Libri, riviste e mostre

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N. 22.  Nomi, luoghi, immagini di città nella «Recherche» di Proust - U. Eco, Analisi componenziale di un segno architettonico - Percezione ed esperienza estetica - Libri, riviste e mostre


N. 23.  La «riduzione» culturale - Libri, riviste e mostre N. 24.  «Arquitectura, historia y teoria de los signos» - Note di terminologia semiotica - Il design: processo e fruizione - Il «silenzio» dell’architettura contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 25.  Note sull’arte concettuale - L. Benevolo, La recente storiografia della città - Lo storicismo e i confini della semiologia - Città-pubblicità: sul caso Las Vegas - Libri, riviste e mostre N. 26.  La «riduzione» culturale nella progettazione architettonica - R. Barilli, Le due anime del concettuale - G. Morpurgo-Tagliabue, Commento alla «riduzione» culturale - L’antidesign - Libri, riviste e mostre N. 27.  Altri aspetti della «riduzione» culturale - Interventi: G. Dorfles, Riduzione ad oggetto, riduzione a progetto - P. Fossati, Riduzione o trasformazione? - T. Llorens, Sul concetto di comunicazione estetica - Libri, riviste e mostre N. 28.  Elementi semiotico-progettuali d’architettura - M. Krampen, Dalla semiologia della comunicazione alla logica degli strumenti - Libri, riviste e mostre N. 29.  Per una lettura semiotica della prospettiva - Elementi di una tendenza dell’architettura italiana - XV Triennale - Libri, riviste e mostre N. 30.  Problemi di semiotica dell’arte contemporanea - B. Zevi, Sei postille su «Il linguaggio moderno dell’architettura» - Alcune opinioni sull’iperrealismo - Libri, riviste e mostre N. 31.  Elementi della progettazione scientifica - Il segno indefinito della semiologia urbanistica - Note sulla cultura a «mosaico» - Arbitrarietà e motivazione del linguaggio architettonico - Libri, riviste e mostre N. 32.  L’eccentrismo, un momento della avanguardia sovietica - U. Eco, Chi ha paura del cannocchiale? - Nota sul segno urbanistico - I segni e le «figure» del Padiglione di Barcellona - Libri, riviste e mostre N. 33.  Architettura come istituzione - Il «ritorno» alla pittura - Università: le parole e le cose - Libri, riviste e mostre N. 34.  Dall’estetica alla semiologia - La teoria di Hjelmslev e l’architettura: alcuni problemi - Il «realismo» di Giuseppe Samonà - Libri, riviste e mostre N. 35.  Attualità dell’iconologia: alcune questioni metodologiche - R. Barilli, Difficoltà di un approccio semiotico alla culturologia - L’editoria architettonica - Libri, riviste e mostre N. 36.  I centri storici nella prospettiva semiologica - Le idee di teatro, oggi - Una riproposta del «multiplo» - Libri, riviste e mostre

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N. 37.  Dialettica del «piacere» e identità dell’architettura - Assenza-presenza: due modelli per l’architettura - La «storia dell’arte» nelle scuole - Libri, riviste e mostre N. 38.  Le ricerche di architettura più attuali ed insolite - Dalla fotografia al videotape - Analisi di un corso di laurea: il Dams - Libri, riviste e mostre N. 39.  La sociologia del gusto di Jean Baudrillard - Le posizioni di […] su alcuni temi della critica architettonica in Italia - Libri, riviste e mostre N. 40.  «Aforismi» sui centri storici - Note sulla simmetria in architettura Bataille e la “svolta” di «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 41.  Dipartimento e «architettura» - La «rappresentazione» tra storia del teatro e semiotica - La critica d’arte in «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 42.  L’idea di pittura in Lévi-Strauss - Sul concetto di gusto - Alcuni contributi alla critica dell’inconscio - Libri, riviste e mostre N. 43.  La post-avanguardia - Luoghi e luoghi comuni della recente critica d’arte - Narciso e «l’altro»: note sul dibattito architettonico - Libri, riviste e mostre N. 44.  Architettura: la «rimozione del nuovo» - Ipotesi per il segno iconico - Storia dell’arte, storia delle cose - Libri, riviste e mostre N. 45.  Topologia e architettura - La casa: norma e «deroga» - Artisti e cinema - Libri, riviste e mostre N. 46.  I quindici anni della nostra rivista - L’Architettura all’Ecole des Beaux-Arts - La Storia dell’arte Einaudi - Una griglia che non sia una grata N. 47.  Architetto e ingegnere - Le scuole di critica d’arte in Italia - L’immaginario nella cultura di massa - Libri, riviste e mostre N. 48.  Prima e dopo il Post-Modernism - L’iconizzazione del mobile - Civiltà del ’700 a Napoli - Libri, riviste e mostre N. 49.  Il restauro architettonico: ricchi apparati e povere idee - F. Menna, La Biennale di Venezia. Gli anni settanta: questi (mi)sconosciuti - Critica d’arte e processi produttivi - Libri, riviste e mostre N. 50.  Fortuna critica della «Tendenza» - R. Bonelli, Storiografia e restauro - La fotografia: indice o icona? - Libri, riviste e mostre N. 51.  Classicismo e razionalismo in J.N.L. Durand - Modelli interpretativi delle tendenze artistiche odierne - Architettura come testo - Libri, riviste e mostre

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N. 52.  L’espressione «Movimento Moderno» - Indagine su Carlo - Note sulla Transavanguardia - Libri, riviste e mostre


N. 53.  Il design tra «radicale» e «commerciale» - Dalla «ruminazione» dei guerrieri greci all’«insonnia» dell’estate romana - Fortuna degli slogans Libri, riviste e mostre N. 54.  Disincantamento e restaurazione - Lutyens fra storia e critica - Il Bauhaus e il teatro tedesco - Libri, riviste e mostre N. 55.  Continuità e Protorazionalismo - Se questo è un quadro allora non è un quadro - Gli oggetti di domani - Design come motto di spirito - Libri, riviste e mostre N. 56.  Dall’America. Warhol e Kosuth - Il design dell’«altra avanguardia» - L’International Style cinquant’anni dopo - Libri, riviste e mostre N. 57.  Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58.  E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59.  Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60.  Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61.  Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62.  Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63.  Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64.  Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65.  Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre N. 66.  Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre N. 67.  Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre

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N. 68.  Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69.  Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70.  Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71.  Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72.  Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73.  Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74.  Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75.  Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76.  I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre N. 77.  Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre N. 78.  L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79.  Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80.  Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81.  Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82.  Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre

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N. 83.  Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre


N. 84.  Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85.  Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86.  Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87.  Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88.  L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89.  Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90.  L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91.  «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92.  Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93.  La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94.  Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95.  Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96.  Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97.  Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98.  Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99.  Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre

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N. 100.  Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101.  Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102.  Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103.  Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104.  La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105.  L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106.  Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107.  Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108.  Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109.  Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110.  Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111.  Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112.  Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113.  Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114.  L’architettura italo-europea (fascicolo monografico)

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N. 115.  L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender


Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre N. 116.  Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117.  Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118.  Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119.  L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120.  Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121.  La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122.  L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123.  Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 124.  Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125.  Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126.  L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127.  Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128.  Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129.  Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 130.  Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 131.  Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132.  Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133.  Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134.  Abitare la razionalità - Per una nuova clas­si­ficazione delle arti - Il design ae­ro­nautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135.  Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136.  Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137.  Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138.  Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 139.  Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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Le pagine dell’ADI Associazione per il disegno industriale a cura di Maria Antonietta Sbordone e Dario Moretti

Narrazioni di design 1. Il Compasso d’Oro La serie denominata “Narrazioni di design”, che appare nelle pagine a cura dell’ADI, formula una prospettiva inedita rispetto all’impostazione metodologica di «Op. cit.»; pur osservandone ed assumendone le premesse teoriche, propone una versione originale delle vicende del design nella forma della testimonianza diretta, raccolta dalla viva voce di designer ed aziende. Con una chiara connotazione storiografica, il racconto riporta in primo piano, attraverso l’esperienza personale, l’impegno di tanti, fatto di quotidiana e appassionata normalità. Il lavoro in studio, gli incontri in azienda, in ADI e nei luoghi deputati, sono al centro di testimonianze dirette sui modi di fare design. In un territorio, espressione di capacità creative ed imprenditoriali, l’innovazione è prima di tutto nei comportamenti; la consapevolezza di essere dentro atmosfere industriali cariche di tensione verso la sperimentazione e il gioco, liberano processi che superano limiti e barriere giungendo a risultati sempre straordinari. Una sorta di ‘storiografia del quotidiano’, il racconto che paradossalmente raggiunge la sua forma più concreta, coincidente con l’interpretazione narrativa personalissima a volte intima, che scava in profondità riparando a distanza e facendo ammenda per aver tanto osato. L’istantaneità contiene in sé l’espressione del significato generale del percorso che si vuole intraprendere, riferendosi ad un aspetto fondante la dinamica del design, il suo farsi ‘fenomenologia del quotidiano’. I designer e gli imprenditori sono invitati a raccontarsi e ad interpretarsi dall’interno delle vicende che hanno originato. Possiamo identificarli come ‘iniziatori’ di un percorso: sono stati loro a tracciare e a fondare un sistema che ha come premesse il pensiero e l’agire incondizionati, caratteristici di un fare che procede per tentativi, per piccoli scarti, con pause e repentini balzi in avanti, finalmente con un prodotto tra le mani. Ogni racconto ha la freschezza e la rapidità del fatto appena accaduto e riassume in sé il significato che la storia, in quanto


‘storia generale’, tende inevitabilmente ad esercitare, ossia strumento di armonizzazione secondo categorie interpretative stabilmente ed univocamente riconosciute. Purtroppo, la storia generale perde le sfaccettature e i dettagli del puzzle magnifico e multiforme che ogni racconto svela; si tratta di testimonianze che muovono dalla formula della confessione a quella della disarmante condivisione di un’esperienza straordinaria, eppure gli evidenti tratti distintivi accomunano molte traiettorie. Un sequel di fatti al culmine di vicende professionali che accadono, e nel loro accadere contraggono un carattere di freschezza, di vivace intraprendenza, perché scaturite in luoghi frequentati sì da addetti ai lavori, ma con grandi capacità di essere dentro la contemporaneità, anzi di guidarla. Non è vero che le cose succedono e basta, dietro ogni storia c’è un sistema che si muove, un comune sentire, dove ogni elemento costruisce un pezzetto secondo quel progetto; si è disposti ad investire e a collaborare in maniera corale nel favorire quella data dinamica evolutiva. Ogni elemento concorre in maniera solidale a costruire e sostenere il progetto, accomunati da un unico obiettivo “fare design”; la sfida è proprio nel riconoscere i tanti elementi che danno vita ad un sistema plurale ed oggi in piena espansione. La fenomenologia del quotidiano quindi può costruirsi a partire da alcuni elementi comuni alle tante vicende che via, via, danno visibilità alla struttura del sistema design; il primo elemento del sistema è il premio “Compasso d’Oro”. Il premio nasce da un’idea di Gio Ponti, istituito nel 1954, per anni organizzato dai magazzini La Rinascente, nel 1964 fu donato all’ADI e rappresenta per il suo significato e per la sua longevità il premio più autorevole ed ambito tra quelli esistenti. “I quasi trecento progetti premiati in oltre cinquanta anni di vita del premio, insieme ai quasi duemila selezionati con la Menzione d’Onore, sono raccolti e custoditi nella Collezione Storica del Premio Compasso d’Oro ADI, la cui gestione è stata affidata alla Fondazio­ ne ADI, costituita all’uopo dall’ADI nel 2001. 

Il premio Compasso d’Oro è assegnato in conformità ad una preselezione effettuata dall’Osservatorio permanente del Design dell’ADI, costituito da una commissione di esperti, designer, critici, storici, giornalisti specializzati, soci dell’ADI o esterni ad essa, impegnati tutti con continuità nel raccogliere, anno dopo anno, informazioni e nel valutare e selezionare i migliori prodotti i quali sono poi pubblicati negli annuari ADI Design Index”. Questo è il récit del premio che si trova sul sito ADI.


Nella prima tornata di intervistati che presentiamo – Italo Lupi, Marc Sadler, Ico Migliore e Anna Bolletta (tutti premiati, come progettisti o come produttori, al XXI Compasso d’Oro del 2008) – emerge dalle loro testimonianze la coincidenza tra la loro percezione e la natura del premio. Esistono altri premi internazionali prestigiosi, come l’IF Product Design Award (International Forum design) tedesco, istituito nel 1953, che copre tutto il product design, funziona come piattaforma per quel che riguarda innovazioni rilevanti nel campo del design, nel sito si legge “a label for good design” e gestisce altri premi, riviste ed eventi. Alla fine degli anni ’50, risale l’Australian International Design Awards, riconosciuto dall’International Council of Societies of Industrial Design (Icsid) che nasce con la precisa volontà di aumentare la competitività dell’industria australiana attraverso il valore aggiunto dal processo creativo del design (il design thinking). L’International Design Excellence Awards (IDEA), partito nel 1980 e promosso dal The Industrial Designers Society of America (IDSA), si focalizza sull’azione di incoraggiamento presso le istituzioni e i privati relativo all’impatto delle eccellenze del design sulla vita e sull’economia. L’altro premio americano, l’International Design Awards (IDA), vede la luce nel 2007 da un gruppo di designers, imprenditori e teorici per dar vita alla promozione di un design visionario e alla scoperta di talenti emergenti nei campi dell’architettura e interior, graphic e fashion design. Tra gli altri vanno ancora citati il Red Dot tedesco, il German Design Award, l’FX International Interior Design Awards inglese. Si tratta di premi molto ambiti, ma anche molto orientati da organizzazioni che sono delle vere e proprie macchine da guerra, con una capacità di creare eventi sulle premiazioni con allestimenti di veri e propri spettacoli, una specie di notte degli Oscar. I partecipanti, naturalmente devono pagare un’iscrizione, e via di seguito; i brand più forti sono molto presenti e mostrano un interesse forte nell’assegnazione dei premi. L’ammissione in realtà non si basa sul lavoro di selezione costante da parte di un osservatorio, ma sulla libera iscrizione dei partecipanti, una specie di bando di gara aperto tra addetti ai lavori, ma con una fee da versare. La loro attrattività è nell’essere alla portata di tutti, veicolati da grande pubblicità e visibilità dovuta evidentemente alle politiche nazionali aggressive che vedono nel posizionamento internazionale un mercato favorevole e dinamico; ele-


menti di cui dovremmo sempre tener conto per aumentare l’appeal di un patrimonio già riconosciuto ma che va sempre raccontato e attualizzato, soprattutto divulgandolo presso le nuove generazioni. Città di Torino, look of the City, Olimpiadi invernali 2006 Allestimento Progetto: Italo Lupi, Ico Migliore, Mara Servetto Committente: Città di Torino Direzione Comunicazione Promozione Turismo

Italo Lupi Al telefono gli chiedo di poter parlare prendendo un po’ di tempo, consentendomi di stare seduta ad un tavolo con una penna e un foglio sul quale scrivere il suo racconto e mi dichiara con soddisfazione la sua approvazione per quanti ancora usano questi strumenti primordiali ma ancora efficaci che sanno selezionare il superfluo e definire le gerarchie. Da buon comunicatore, progettista e direttore di riviste importanti (“Domus” e “Abitare”), sa che le gerarchie derivano da un attento lavoro di estrema sintesi delle notizie che devi dare, senza perdere la “rotondità del progetto, una specie di regia generale della rivista che permette di essere molto differente” e di saper sottolineare le cose davvero importanti. La sua avventura comincia in una Milano piena di stimolanti occasioni… Sono stato un privilegiato, ho cominciato come consulente alla Rinascente, assunsero tre persone oltre me, Mario Bellini e Roberto Orefice (psicoanalista). Consulenti sul design, dalla grafica, al prodotto, agli allestimenti, ecc., a Morello proponemmo un contratto per tre persone e ci andò bene. A quei tempi due erano i riferimenti importanti: a Torino l’Olivetti, e a Milano la Rinascente. Era un centro interessante internazionale, lì ho avuto la possibilità di entrare in contatto con un finlandese, un giapponese, il nostro ufficio era all’ultimo piano affacciava sulle guglie del duomo. La conoscenza del Premio Compasso d’Oro… Era lì, parliamo del ’62, ’63, quando Morello e Borletti alla Rina-


scente (con Armini amministratore delegato) organizzavano il Premio Compasso d’Oro e ci ho lavorato per due anni; allora Enzo Mari e Albe Steiner facevano i libretti neri del Compasso d’Oro, ed è a quelli che mi sono ispirato successivamente per le pubblicazioni ADI per il Premio. Qual è oggi la sua personale percezione del Premio Compasso d’Oro? Conosco il German Award, premio istituzionale, ministeriale che si dà a Francoforte, lo abbiamo ricevuto con Migliore e Servetto per il progetto sulla comunicazione della Torino olimpica e mi sono divertito molto. Prima la percezione era che i premi si davano agli amici, alla stretta cerchia degli addetti ai lavori, è bello quando si riceve un premio indipendente, come quello del Compasso d’Oro. Muove delle critiche al Premio, cambierebbe qualcosa? C’è un po’ di disorientamento, dovuto ad una mancanza di autopromozione, le cose arrivano da sole, è una specie di “Caravella di Colombo”, con una sua indipendenza di giudizio, da salvaguardare sempre. Certo prima le cose erano più semplici, ci si aggirava in una Milano caratterizzata da una classe sociale che aveva fatto la guerra e la Resistenza, gli anni ’60 rappresentavano la vera ricostruzione. Ad esempio all’esposizione di Torino “Italia ’61” collaborarono Gio Ponti, Pierluigi Nervi, Achille Castiglioni, in una maniera corale portando avanti una stessa battaglia. Ero l’assistente di Castiglioni, aveva una tale apertura mentale, facevo la grafica di tutti i suoi allestimenti. Ritornando al Premio Compasso d’Oro… Ritornando al Premio deve portarsi su un livello internazionale, uscire dal giardino italiano. È anche vero che neanche i premi internazionali sono perfetti. Per il Red Dot non è il designer che si autopromuove ma l’azienda produttrice che paga per partecipare, i premi americani ti chiedono il pagamento di un fee prima, durante e dopo… Cosa la convince ancora e che non cambierebbe È positivo tutto il processo di selezione, che i giurati siano lontani da interessi personali e che gli oggetti siano selezionati in maniera


trasparente. Caratteristiche che vanno mantenute e difese; l’ultima cosa che ribadisco è che si ha poca conoscenza all’estero, e che c’è una comunicazione pessima, sembra che il premio viene dato solo a chi è iscritto all’ADI e non è così, le cose vanno dette in maniera chiara!

Ico Migliore Da quando conosce il Compasso d’Oro? Da sempre: all’università ho studiato con Achille Castiglioni, e – diciamo così – “per colpa sua” mi sono trasferito a Milano da Torino, dove sono nato. Si è sempre parlato con lui del Compasso d’Oro come di un premio di grandissima qualità, uno dei tanti che Castiglioni aveva vinto. Io poi, con Mara Servetto con la quale condivido lo studio e il lavoro, mi sono laureato con Guido Jannon, ora scomparso, che era uno dei consulenti di Abet Laminati, autore di un progetto per le nuove texture che aveva vinto il Compasso d’Oro. Un traguardo ambito, quindi, ma in certo qual modo familiare, raggiungibile… È così, ma non ci ho mai pensato in prima persona. Con Mara Servetto abbiamo vinto tre volte il Red Dot, il German Design Award, l’FX International Interior Design Awards inglese… La differenza tra questi premi e il Compasso d’oro sta nel carattere storico di quest’ultimo: nel suo valore profondamente radicato nel design italiano da tanto tempo. Forse gli altri premi presentano aspetti un po’ più commerciali… Che cosa significa “commerciale”? Intanto, che intorno agli altri premi si organizza un battage abbastanza forte, cataloghi, eventi… È quello che bisognerebbe fare anche per il Compasso d’Oro. Da un lato il valore storico, importante, addirittura un po’ “di élite” del Compasso d’Oro secondo me andrebbe mantenuto: selezione forte, qualità delle giurie, qualità nella valutazione dell’innovazione. C’è anche un aspetto legato ai numeri: gli altri premi sono molto più “produttivi”, sono annuali, assegnano molti più riconoscimenti.


Il Compasso d’Oro di Mara Servetto e Ico Migliore: c’è stato un momento in cui avete sentito che il premio era “a portata di mano”? Sempre e mai, in realtà. Uno degli insegnamenti di Castiglioni era che se uno fa le cose per vincere i premi non riesce assolutamente a vincerli; se uno deve far le cose perché ci crede, poi il premio arriva. È quello che succede anche per i concorsi: quelli in cui si credeva sono andati bene, quelli in cui si è fatto di tutto per cercare di vincerli li abbiamo persi. Com’è nato il progetto specifico con cui avete vinto il Compasso d’Oro, quello per le Olimpiadi e per la città di Torino? Quello che mi ha fatto particolarmente piacere è stato che il riconoscimento del Compasso d’Oro è andato esplicitamente ad una caratteristica di questo nostro lavoro: un progetto di sistema, d’approccio ad un progetto urbano, la comunicazione di una città. Il progetto, che dopo il Compasso d’Oro ha ricevuto anche altri premi (per esempio il German Design Award), non si basa su un concetto formale ma di sostanza. Credo che questo sia il valore di innovazione riconosciuto dal Compasso d’Oro rispetto ad altri premi. Un approccio così globale ai progetti è frequente nell’impostazione e nella pratica dei premi di design? No, se devo dirlo trovo curioso piuttosto che sia il Compasso d’Oro ad aver adottato quest’impostazione: trovo che spesso il Compasso d’Oro guardi all’innovazione non del sistema ma del singolo oggetto. Mi ha fatto particolarmente piacere che anche in Italia si adotti questa prospettiva (in Germania per esempio il Red Dot Award ha una sezione specificamente destinata alla comunicazione), adeguata ai nuovi modi di progettare, ai sistemi e ai processi nuovi legati alla città o alle relazioni culturali. Il Compasso d’Oro è sempre stato per tradizione legato all’oggetto, forse perché è nato in stretto collegamento con le aziende. È una caratteristica innata o rispecchia un tratto di cultura del design tipicamente italiano? Entrambe le cose: il Compasso d’Oro è nato per legarsi ai prodotti e alle aziende ma è anche un fatto di cultura italiana. Secondo me oggi abbiamo bisogno di guardare un po’ di più agli aspetti di sistema. Pro-


prio per questo ricevere il Compasso d’oro mi ha fatto molto piacere: lavorare sull’oggetto di per sé è sicuramente interessante, ma a me interessa l’approccio di processo, e questo approccio di processo innovativo è stato premiato. È questo l’aspetto cui bisognerebbe fare attenzione, specialmente oggi che i processi e le relazioni sono sempre più importanti, anche a causa della crisi e delle nuove aperture globali. Il processo, nel caso particolare, ha implicato la collaborazione paritaria con un progettista importante: Italo Lupi, che tipo di rapporto avete instaurato? Ci conosciamo da molti anni e abbiamo elaborato molti progetti insieme, con un ottimo rapporto di stima. Lupi per me è un maestro, un grande professionista, e credo che anche lui si trovi bene a lavorare con noi. Credo che comunque oggi proprio il rapporto del progettista con gli altri sia un altro dei valori importanti: la qualità del sapersi mettere in relazione con gli altri è un valore. I grafici e i designer italiani storicamente hanno entrambi una radice di formazione comune (l’architettura) che favorisce il dialogo. Ma gli sviluppi delle due professioni, anche in Italia, tendono a non coincidere più come in passato… È vero, e occorre fare attenzione alla qualità trasversale del progettista. In questo caso il progetto fondeva elementi di tipo architettonico, legati decisamente alla firmitas, ed elementi di immagine coordinata. Legare queste due componenti è stato per il progetto un fattore caratterizzante di qualità tipicamente italiana. Credo però che nel mondo si stia lavorando molto in questo senso: molte scuole non sono più legate al graphic design inteso come impaginazione ma lo considerano un lavoro sullo spazio. Il senso trasversale del design comunque è certamente un elemento italiano (e penso proprio a Castiglioni, che era designer e architetto). Ed è una qualità da mantenere viva: io insegno alla Facoltà del Design del Politecnico di Milano, ma credo si debba tener sempre presente la qualità spaziale delle nostre città che è sempre intervenuta sui progetti. L’innovazione parte dalle nostre città, dalle piazze… Quindi addirittura non dall’architettura, ma dall’urbanistica… Quasi, il nostro progetto per Torino è quasi un progetto di urbanistica. E sono contento che il progetto sia stato apprezzato anche dalla po-


polazione di Torino, che ha riconosciuto la scelta di fondo di polverizzare sulla città un sistema di comunicazione per i cittadini come un arricchimento culturale della città e della sua comunicazione culturale verso l’esterno. È quasi un progetto di “urbanistica della comunicazione”. Che cosa dovrebbe cambiare, quindi nel meccanismo del Compasso d’Oro? Occorre secondo me dargli maggiore visibilità: ho fatto di recente un progetto in Cina e nel mio curriculum sono stato indicato come vincitore del Red Dot Award e del German Design Award; ma io ho vinto il Compasso d’Oro, e tenevo di più che fosse citato questo premio che non gli altri. Mi sono chiesto come mai fosse stato trascurato e mi sono risposto che la percezione di questi premi è più forte. Mi è dispiaciuto per ragioni sostanziali: i premiati del Compasso d’Oro sono sempre in numero minore rispetto agli altri, e quindi qualitativamente più selezionati. Potrebbe suggerire qualche orientamento per cambiare il meccanismo di selezione? Non conosco bene i meccanismi attuali, a parte l’esistenza di commissioni di selezione. Quello su cui vorrei insistere è la visibilità: il Compasso d’Oro dovrebbe essere più comunicato. Poi, come si è detto, mi piacerebbe che il premio indagasse su situazioni con un valore che va al di là dell’oggetto, di processo e di sistema; e su modi nuovi di interpretare la professione del progetto. Bisognerebbe anche andare un po’ di più verso l’architettura: certi settori dell’architettura sono sempre più vicini al design (l’architettura temporanea, legata a singoli eventi, per esempio). L’attenzione, già presente per i settori degli allestimenti e dei componenti per l’architettura, potrebbe essere allargata al valore delle architetture intese quasi come oggetti e sistemi di comunicazione. Magari, non architetture convenzionali, residenziali, ma architetture funzionali, che implicano un comportamento d’uso, come succede per gli oggetti. Mi interessa perché io faccio anche molta architettura temporanea, e credo che sia un ambito dove la ricerca è molto spiccata. Un ampliamento al design dei servizi è in atto, nel processo di preselezione legato all’ADI Design Index… Certo, ma per quel che mi riguarda personalmente anche tutto


quello che riguarda i servizi deve avere una sua fisicità. Per quanto riguarda personalmente la mia attività professionale, vorrei che il progetto nascesse dall’interno dei processi ma arrivi comunque a fisicizzarsi. Anche l’eccessiva presenza di multimedialità spesso diventa solo un’etichetta, e non si comprende che si tratta di uno strumento di comunicazione che interviene all’interno di un processo che ha una sua fisicità, temporanea o permanente.

Big Libreria Progetto: Marc Sadler Produzione: Caimi Brevetti

Marc Sadler Al telefono Marc mi racconta del suo percorso con voce pacata e con quell’accento francese soft; la distanza che il mezzo di comunicazione frappone mi fa immaginare Marc Sadler nel suo studio, in un pomeriggio milanese, circondato da tutto il suo cospicuo bagaglio di progetti, di oggetti e di pitture. Ho scoperto che dipinge e non è solo una passione ma un sistema espressivo potente che lo caratterizza e nel quale forse trova la sua personale fonte di continuo rinnovamento. Non abbiamo parlato di questo, magari in una prossima narrazione lasceremo che il racconto tocchi altri ambiti che apparentemente non hanno relazione con il design, scoprendo il contrario. Da quando conosci il Compasso d’Oro? (A questa domanda risponde ripercorrendo la sua personale avventura con il design…) Per via di un imprevisto nasco in Austria ma sono francese, il mio personale percorso è segnato da una rigorosa formazione all’ENSAD (Ecole Nationale Supérieure des Arts Décoratifs) a Parigi dove imparo a fare modelli, oltre a progettare e ad appassionarmi di materie plastiche. La borsa di studio vinta per gli States la “Brook Stevens International Design Competition” nel 1967, mi porta lontano dal­ l’Europa, mi permette di lavorare ed entrare nel design system americano, orientato esclusivamente alla produzione industriale e alla


filosofia aziendale: i brief di progetto erano totalmente chiusi, non si poteva in alcun modo deragliare, uscire dai binari. Sei di fronte ad una concezione del design come strumento per la produzione industriale fatta di grandi numeri, era un’altra epoca… Era il periodo in cui si progettava per la grande produzione seriale, 20.000 pezzi per ogni articolo che non portano la tua firma “i senza nome”; prodotti di base, di largo consumo. Importante era il marchio, era questo che attirava il consumatore non il nome del designer. La mia passione per le materie plastiche mi porta a progettare per il settore sportivo dove combino design e grande innovazione tecnologica e dei materiali. L’innovazione arrivava all’improvviso, faceva parte del gioco… Ad esempio negli scarponi da sci, si andavano realizzando delle innovazioni importanti. Il primo scarpone da sci in materiale termoplastico, poi industrializzato dalla Caber (poi Lotto), con la quale avevo instaurato una pluriennale e fruttuosa collaborazione, porta al brevetto dello scarpone con scafo simmetrico, per parecchi anni il più venduto al mondo, parliamo degli anni ’70. Cosa succede al designer dei grandi numeri? Non ho mai perso di vista il design come forma e funzione, ho lavorato sin da principio nel solco del design che definisce il prodotto nella sua completezza. Già dagli anni della formazione quando il design si chiamava esthétique industrielle, proprio in quei settori – design dello sport –, la ricerca di nuovi materiali e tecnologie, molto spinta, concedeva poco spazio alla parte progettuale più innovativa intesa come design del prodotto che interferisce e orienta l’innovazione. Ma riesco a convogliare entrambe le componenti: è il caso del Motorcyclist’s Back Protector disegnato per Dainese, che dal 1998 fa parte della permanente del design al Moma di New York. Quali sono stati i passaggi importanti per far riaffiorare il designer dei grandi numeri senza nome? Succede che mentre collaboro con Boffi, alle sue cucine, mi presenta Piero Gandini della Flos, quest’incontro sarà determinante per me e per il seguito della mia storia.


È proprio da questo incontro tra Sadler e Gandini, come era in uso negli ambienti milanesi dove l’imprenditore interloquiva direttamente con il designer, che prende il via una nuova avventura… Pensiamo ad una nuova lampada, inedita, sopra le righe, non convenzionale: la Drop, una lampada morbida che vince il Premio Compasso d’Oro ADI nel 1995. Il mio primo Compasso d’Oro che è proprio come il primo amore che non si dimentica mai! Cosa porta questo premio ad un designer come te riservato e lontano dai riflettori? Quindici anni fa il primo Compasso significò l’affermazione personale presso un pubblico più ampio: il premio fu accompagnato da un certo tam-tam sui giornali, sulle riviste specializzate, fu un vero successo mediatico, per un prodotto, tra l’altro, che non ha avuto successo commerciale, non era a norma, neanche a tenuta stagna…. Un riconoscimento assegnato alla capacità visionaria di un imprenditore e di un designer. La tua percezione del premio: cosa ti senti di dire? Questi momenti si ricordano e si raccontano ancora con tanto entusiasmo, proprio perché il sentimento è quello di un premio ricevuto senza alcuno sforzo da parte del designer; un bel giorno ti telefonano e ti dicono sai hai vinto il Compasso d’Oro dell’ADI! Significa che hanno fatto un percorso di conoscenza indipendente non sono stati influenzati da nessuno, il premio arriva perché hai fatto un buon prodotto e di valore. E prima che ricevessi il premio? Tra noi si parlava del premio coma una “roba milanese” nel senso che non si conosceva tanto all’esterno del circuito del design italiano, per questo motivo andrebbe fatto uno sforzo per la sua internazionalizzazione. D’altra parte rifletterebbe di più il nostro stesso modo di vivere, i nostri stessi valori… Quali i punti di debolezza? Non ci sono, anzi detiene un certo valore rispetto agli altri premi esteri che sono molto più mirati ed orientati dalle aziende che li sponsorizzano. Inoltre, i criteri di selezione sono importanti, negli


altri premi le giurie non si sa in base a quali criteri decidono l’assegnazione degli awards. Allora è perfetto così come si presenta? La percezione diffusa è che si tratta di un premio “colto”, “elitario” e per questo forse poco a portata di mano, credo che bisognerebbe scendere tra la gente… Suggerisci un processo di democratizzazione? Soprattutto presso i giovani, all’estero si paga una fee per accedere alle iscrizioni, per cui i giovani sono un po’ discriminati a meno di non essere sponsorizzati dalle aziende… credo, inoltre, che un designer che paga una fee è di cattivo gusto, non presuppone una vera selezione basata sul merito. Il problema resta, non ci sono finanziamenti che consentirebbero di proseguire sempre così nella più ampia libertà ed indipendenza di giudizio. Un ultimo pensiero… È bella la cerimonia della premiazione, lascia però poco spazio alla battuta e ai ringraziamenti, ho un piccolo rammarico, non aver potuto esprimere i miei complimenti agli italiani per quanto sono bravi!

Neos Orologio da polso Progetto: Culdesac Produzione: Lorenz

Abba Bolletta, Lorenz Da quando conosce il Compasso d’Oro? Il Compasso d’Oro fa da sempre parte della mia vita: il primo, nel 1960, lo vinse mio nonno, Tullio Bolletta, e io non ero ancora nata. Lo Static, orologio con cui l’azienda lo vinse, è sempre stato sulle scrivanie della nostra famiglia e in bella vista su uno dei tavolini di casa nostra. Per questo mi è impossibile dire quando ho conosciuto il Compasso d’Oro: praticamente ci sono nata insieme. Mio nonno era maestro orologiaio e fu il fondatore dell’azienda,


la Lorenz. La storia di questo premio – che mi ha raccontato Richard Sapper, perché mio nonno non la raccontò a nessuno – parte da una sua telefonata alla Rinascente, organizzatrice del premio nei primi anni della sua istituzione. Mio nonno chiese apertamente come doveva fare per vincere un Compasso d’Oro con i suoi orologi, e furono gli organizzatori di allora a suggerirgli il nome di Sapper. Sapper disegnò lo Static, il primo oggetto in assoluto che progettò come designer autonomo. Dello Static non esistono disegni tecnici: venne fuori da una serie di schizzi e dal lavoro condotto passo per passo al fianco dei maestri orologiai. Un metodo non ortodosso ma efficace, che si è ripetuto con le stesse modalità anche per un progetto recente. Su questa nuova strada – il design – l’azienda proseguì anche negli anni Sessanta, con una serie di orologi da parete disegnati da Albert Leclerc. Un maestro orologiaio, cioè un tecnico raffinato ma non un architetto o un addetto ai lavori del settore artistico o di quello dell’arredamento, negli anni Cinquanta si rende conto che i suoi oggetti in qualche modo fanno parte del nuovo mondo del design che sta crescendo… Mio nonno era attentissimo all’innovazione, ed era un progettista: nel campo dell’orologeria ha disegnato dei movimenti che prima non esistevano, ha inventato un liquido per la sgrassatura dei movimenti che è in uso ancora oggi. Era una persona decisamente illuminata che trovò a Milano, dove si trasferì prima della seconda guerra mondiale, il terreno che cercava: era originario di Marino, presso Roma, dove il design ai tempi non era certo un tema all’ordine del giorno… Che cosa rappresenta per un’azienda il Compasso d’Oro, premio da sempre destinato esplicitamente a produttori e progettisti insieme, ma nel cui contesto risaltano soprattutto i nomi dei designer? Vincere il Compasso d’Oro nel 2008 per noi ha significato una specie di chiusura del cerchio: quando io e mio fratello siamo entrati nell’azienda, alla morte di nostro padre nel 1989, eravamo giovanissimi: mio fratello era ancora all’università, io già avevo lavorato all’estero. Ma mio padre ci aveva sempre detto che, se fossimo entrati nell’azienda, avremmo comunque avuto l’obbligo di dare un contributo di innovazione: “Non ho bisogno di persone che rifacciano


quel che abbiamo fatto noi”, diceva. E quindi vincere il Compasso d’Oro per noi ha significato la conferma che a portare questa innovazione nell’azienda ce l’avevamo fatta… Al di là del valore di comunicazione del premio, che per le aziende solitamente è quello più importante, c’è anche una motivazione più sostanziale… Una motivazione personale di stimolo, di accreditamento del proprio lavoro, soprattutto per un’azienda che non rientra tradizionalmente nell’area del design, o che per lo meno non fa del design il cento per cento della sua produzione. Nel campo dell’orologeria l’innovazione stilistica è molto difficile. Dal punto di vista della cultura professionale qual è l’area cui appartiene Lorenz? Hai parlato di stile, quindi, sotto un certo aspetto, di moda… Io definirei Lorenz più che altro un “marchio contemporaneo”, perché non ha certamente una valenza modaiola: Lorenz è un marchio classico. E anche Neos, disegnato alla fine del 2006, è un prodotto d’avanguardia per il settore dell’orologeria, ma con un forte carattere classico, tipico di Lorenz. In questo senso il Compasso d’Oro ha avuto anche il valore di un riconoscimento a una componente assolutamente non effimera della cultura dell’azienda. In realtà quando abbiamo disegnato Neos non l’abbiamo fatto per vincere un premio, ma per aggiungere al nostro catalogo un prodotto contemporaneo coerente. Quali altri premi internazionali di design conosce? Direi che il più noto e recente è il Red Dot, altro premio che la nostra azienda si è aggiudicata. Poi ce ne sono di minori in Italia, come l’I-Dot, in Germania e a livello internazionale. Qual è la differenza con il Compasso d’Oro? Credo che il Compasso d’Oro, seppure assegnato non solo a designer italiani, sia un premio principalmente dedicato al nostro paese. Bello sarebbe se l’italian design aprisse una categoria per premiare i prodotti internazionali che più si distinguono per le logiche del nostro design.


Altra differenza, importante dal punto di vista delle aziende, è quella dei costi: quelli del Compasso d’Oro sono decisamente più contenuti rispetto ai premi concorrenti. Tuttavia il Red Dot (come anche altri concorsi) garantisce ai prodotti vincitori l’esposizione per almeno un anno in un museo tedesco, integrabile con altre esposizioni a pagamento e prorogabili. I costi lievitano, ma a livello di comunicazione la macchina è davvero ben oliata ed efficiente. Inoltre i prodotti premiati ricevono, a pagamento, alcuni materiali che possono essere utilizzati per la promozione. Che cosa cambierebbe nel meccanismo del premio per renderlo più adatto agli sviluppi del design nel prossimo futuro? Oltre trovare una formula per aprirlo, come ho già detto, anche agli stranieri, mi piacerebbe che fosse sfruttato al meglio nei vari livelli della comunicazione. Quando abbiamo deciso di organizzare un concorso per il disegno di Neos abbiamo chiesto una consulenza a una delle testate più importanti del settore, “Interni”, cui avevamo chiesto di individuare dei designer all’avanguardia ma non troppo noti (non volevamo una star, proprio per favorire la visibilità del marchio in rapporto a quella del designer). L’azione del Compasso d’Oro in favore dell’innovazione, insomma, andrebbe completata con l’aggiunta di un’area destinata a favorire il contatto tra le aziende e i giovani. I giovani mi preoccupano molto: in Italia vedo una tendenza che non mi piace; gli stranieri vengono in Italia per studiare quello che gli italiani hanno da insegnare loro sul design, e sono molto agguerriti. I giovani designer italiani (o i futuri designer, quelli che oggi sono all’università) li vedo davvero un po’ troppo poco aggressivi e poco determinati. Molto concentrati sul loro orticello e poco interessati ad andare all’estero, a vedere quello che succede fuori, a fare lo stesso percorso che oggi fanno in Italia i turchi, gli indiani o i brasiliani. Il Compasso d’Oro, che è l’istituzione super partes del design italiano, anzi, l’unico elemento aggregante del settore, forse potrebbe fare qualcosa in questo senso.



ISSN 0030-3305

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