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numero 141

Circolarità ermeneutica di Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli

Electa Napoli



Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Alessandra de Martini, Emma Labruna, Livio Sacchi Segreteria di redazione: Rosa Losito Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 081/7690783 Amministrazione: 80121 Napoli, Via dei Mille, 16 - Tel. 081/4297440 Un fascicolo separato e 9.00 (compresa IVA) - Estero e 10.00

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Electa Napoli


R. Capozzi, Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura 5 L. Pietroni, Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo 15 L. Panaro, Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano 37 Libri, riviste e mostre 47 Le pagine dell’ADI Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Alessandro Castagnaro, Davide Fabio Colaci, Francesca Lanz, Marina Leoni, Valeria Pagnini, Irene Pasina, Francesca Rimedi, Titti Rinaldi.



Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura RENATO CAPOZZI

Il rapporto tra teoria e prassi è stato oggetto in sede filosofica di un’ampia riflessione che per il contrasto tra le due modalità conoscitive – l’una astratta e l’altra concreta – di volta in volta ha intravisto modi alternativi o oppositivi, gerarchie, mutue dipendenze e subordinazioni logiche. Nel risalimento etimologico la Theo\rêin sta a indicare – da qewrevw (theoréo) “guardo, osservo”, composto da qeva-(théa), “spettacolo contemplazione” e Òravw (horáo), “vedo” – l’osservazione astratta di enti universali da porre a base di qualsivoglia conoscenza mentre la praxis – da pra`xi~ “trattare affari, operare” a sua volta da pràssein “negoziare” e da pràktikos “abile al fare” – rappresenta la verifica nel concreto di tali cognizioni ma è sottoposta ad una relativa provvisorietà in quanto immersa nella realtà fenomenica in incessante divenire. Questi due momenti, distinti ma strettamente correlati, ipostatizzano due attività umane fondamentali: la prima legata al pensiero dei concetti, l’altra all’azione sulla realtà. Per Platone l’attività contemplativa consiste nell’afferrare intuitivamente le forme e costituisce il momento più alto della conoscenza, articolata in scienza teoretica che si appunta sulla comprensione degli oggetti ideali e universali e in scienza pratica che è insita per sua natura nelle azioni. Aristotele si rivolge alla realtà sensibile distinguendo nella praxis varî aspetti complementari: può riguardare il “movimento e la vita”, essere vista

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come enérgheia delle funzioni biologiche, o indagare le “forme di vita” da cui proviene il bios theoretikós come vita dedicata all’osservazione pensante delle cose distinta dalla poiesis da intendersi come produzione tecnica di una certa opera. Lo Stagira definisce una triade gneosologica in cui la Dianoia riguarda la conoscenza per se stessa, la Phrone­ sis la conoscenza applicata al comportamento e la Techné adopera la conoscenza per fare e per produrre. La phronesis o ragionevolezza [S. Latouche, La Sfida di Minerva, 2000] si incarica di realizzare la mediazione tra le determinazioni astratte e le conseguenze operative. Tale passaggio si attua attraverso la poiesis, il fine della produzione che è altro dalla produzione stessa, in cui la “ragione teoretica” vuole intendere e comprendere ciò che è vero e la “ragione pratica” coglie e seleziona i mezzi utili per realizzare un determinato scopo. La ricerca filosofica moderna si è incentrata sulla così detta “filosofia pratica” quale scienza che dirige l’azione libera mediante regole generalissime o come un tendere infinito all’assoluto insieme conoscitivo e produttivo. Habermas [Theorie des kommunikativen Hande­ lns, 1981] a difesa dell’incompiuto “progetto illuminista” contrappone l’agire comunicativo all’agire tecnico stru­ mentale, privilegiando la ragione critica come riflessione sui principî alla ragione strumentale tesa solo alla efficienza di talune azioni per realizzare determinati obiettivi. Per Habermas la “Teoria” deve essere una presa di coscienza del senso della prassi da intendersi come interesse riconoscibile all’interno di un determinato processo conoscitivo che è quindi allo stesso tempo “oggetto” della teoria e suo “riferimento” immanente. La razionalità comunicativa diviene una “forma” della razionalità critica e normativa [Th.W. Adorno, Ästhetische Theorie, 1975] dove la ratio non si riduce alla mera ragione strumentale che presiede all’agire strategico in vista di uno scopo, ma è bensì un agire orientato all’intesa, alla mediazione dialettica inscritta nel “mondo della vita” (Lebenswelt). Assumendo la razionalità come “forma/idea” per Lukács essa costituisce la struttura di senso attraverso la quale l’uomo cerca di


trasformare il caos del flusso vitale (il divenire) in cosmos ordinato (l’arte) che è processo conoscitivo ma in definitiva fallimentare. Gadamer significativamente afferma che l’arte trasmuta il reale [Wahrheit und Methode, 1960] e che non è la prassi che è determinata dalla teorie ma quanto piuttosto è la teoria che continuamente si alimenta con la prassi, essa deve giustificarsi dinanzi al tribunale della prassi e ogni prassi significa in fondo ciò che rinvia al di là di essa [Lob der Theorie, 1980]. Da tali presupposti filosofici riguardo alla polarità teoria-prassi, al ruolo della razionalità, al problema della conoscenza e dell’agire, emerge la possibilità di una loro declinazione in ambito architettonico. Ma l’ipotesi di riduzione [R. De Fusco, La riduzione culturale, 1976] allo specifico architettonico di acquisizioni extradisciplinari deve continuamente sfuggire al pericolo d’indebite traslitterazioni e semplificazioni tradenti e può utilmente produrre travasi e scambi fertili solo se avviene [V. Gregotti, L’architettura del realismo critico, 2004] sul “confine” dei rispettivi ambiti: una péras, che in termini sacrali separa ed unisce “campi di pertinenza” differenti e non confondibili. La Teoria del­ l’Architettura non è quindi una “edulcorazione” della Storia e ancor meno una “trascrizione acritica” di risultanze “altre” ma è propriamente – come nel Teatro nel theomai – “osservazione e contemplazione” o – come in Kant – azione dell’intelletto per conoscere l’intelligibile e conseguentemente visione razionale delle cose stesse [E. Husserl, Ide­ en zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologi­ schen Philosophie, 1913]. Ma le “cose” – der Sachen – dell’architettura, costituenti il suo statuto ontologico e fenomenologico, lo specifico “campo di osservazione” sono tautologicamente le architetture stesse, le opere da cui realizzare il dis-velamento delle regole che le hanno determinate. Forse non è un caso che Kant abbia chiamato Architet­ tonica la struttura del suo sistema filosofico: allo stesso modo non si dà “architettura strutturata” senza regole interne, senza principî di ordinamento, senza costruzione intelligibile. Ogni costruzione teorica deve essere dotata di una

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“struttura ordinata” di tipo nomotetico – basata su norme evidenti – che la renda da un lato comprensibile e trasmissibile e dall’altro verificabile e controllabile nell’applicazione concreta. Ma che cosa si deve intendere in generale per “Teoria dell’Architettura” [A. Rossi, Architettura per i musei, 1966] e/o del progetto? La teoria in architettura, se “inaugurante” [F. Choay, La Règle et le Modèle: sur la théo­ rie de l’architecture et de l’urbanisme, 1980] è un sistema ordinato, logico e razionale di proposizioni, di regole e principî tra loro consistenti per interpretare la realtà ed i fenomeni e al tempo stesso per trasformare il mondo. Ogni Teoria si fissa su un campo di pertinenza, su una classe di fenomeni che studia: la Matematica è teoria sistematica degli oggetti del pensiero (noumeni) e si costruisce su se stessa autologicamente; la Fisica costruisce modelli teorici di cui sperimenta l’efficienza nella natura (Physis); l’Architettura invece, come la Musica, parte dall’osservazione dei fenomeni e dei concetti (tema/ideazione) e su questi costruisce la teoria armonica che ordina induttivamente esperienze e le carica di senso. L’invenzione, nel senso di “trovare in” (in-venio) la “struttura soggiacente” [Barthes], è utilizzata da Pitagora per far corrispondere ai suoni non dissonanti i corrispondenti rapporti numerici o accordi armonici. La teoria, se è tale, è una costruzione intrinsecamente razionale innanzitutto nella sua necessità di offrirsi come corpus definito, compiuto e intelligibile. I modi della “ragione” anche in ambito architettonico sono prevalentemente di due tipi: la ragione contemplativa che fonda le regole del mo­ dus operandi e la ragion pratica, la così detta “ragionevolezza”, che elabora i dati reali e fornisce soluzioni “ragionevoli” alle necessità pratiche e d’uso. La prima conduce al Trattato in cui si dà una definizione di architettura da cui far discendere i principia, la seconda produce il Manuale come classificazione di exempla e di soluzioni efficienti [G. Grassi, La costruzione logica dell’architettura, 1967]. L’una, descrittivo-deduttiva, informa la teoria; l’altra, tassonomico-induttiva, la prassi operante. Entrambe le accezioni del termine “ragione” si incontrano e si confondono nell’opera


contemporaneamente in presentia ed in absentia [R. De Fusco, Note per una semiologia architettonica, 1967]. Ma a questo punto è lecito domandarsi: oltre che nell’astanza [Brandi] e nella sinossi compiuta dell’opera, che relazioni si stabiliscono tra queste due forme di pensiero, sia esso contemplativo o agente? Se la teoria procede per astrazioni e deduzioni e la prassi per accumulazione di esperienze confutanti, dove si possono incontrare e sintetizzare utilmente? Si incontrano certamente nell’opera ma non “discendendo” la teoria e “innalzandosi” la prassi quanto piuttosto, a partire da questo “punto fisso”, generando ambedue le istanze un movimento circolare capace di alimentare alternativamente sia il pensiero che l’azione. L’opera – autentica depositaria della verità ed in cui la teoria, come nella centina per costruire l’arco, ha un ruolo fondamentale ma ausiliario [C. Martì Arìs, La cymbra y el arco, 2005] – in tal modo si propone come una sorta di “medio abduttivo” [C.S. Peirce, Collected papers, 7.218] un “dispositivo” con due occhi osservanti: uno rivolto “ai concetti” e l’altro “alle cose”. Si installa allora tra teoria e prassi e nel progetto – inteso come conoscenza ed interpretazione – un vero e proprio circolo ermeneutico dove il verso della rotazione ricorsiva non è determinato a priori: non vi è sempre la teoria posta a base della prassi ma può accadere che il paradigma divenga l’apparizione di un’opera di cui la teoria si fa émblema. La teoria deduce da queste opere singolari le regole e ne sistematizza gli esiti e, allo stesso modo, la concreta verifica in re fornisce le condizioni di agibilità e verifica degli assunti teorici e delle proposizioni normative che la ragione con­ templante afferma. La teoria quindi è “astratta” nel senso di ab-trahere ovvero di “trarre da”, di “estrarre” [V. Pezza, Scritti per l’architettura della città 1979-2010, 2011] dalla realtà, le ragioni della sua costruzione, dei suoi principia e del suo campo di pertinenza. I due ambiti di teoria e prassi, pur non fatti della stessa materia, si applicano al medesimo oggetto, si nutrono e si controllano vicendevolmente. È per questo motivo che non ha senso nella figura dell’architetto separare questi due momenti coessenziali o squilibrarne il

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peso relativo: non vi può essere Signore dell’Arte senza l’esperienza dell’opera come non vi è costruttore senza riflessione teorica che ne orienti le scelte. Se la riflessione teorica e la pratica del progetto da sempre sono state intimamente connesse, negli ultimi anni si assiste ad una condizione preoccupante e contraddittoria: sono compresenti, soprattutto nella Scuola, figure con un’ampia esperienza professionale e realizzativa, spesso poco sostenuta da un’ade­ guata investigazione teorica e metodologica, e “para-intellettuali” che, travalicando i confini disciplinari, tracimano in una riflessione descrittivo-letteraria slegata dalla immanenza della costruzione. Una condizione “bifronte”: alcuni sviliscono il progetto in un neo “professionismo di trasferimento” dove tutte le scelte sono possibili e prive di qualsiasi ancoraggio a principî descrivibili, mentre altri si dilettano in “sconfinamenti astratti” all’insegna di una “ansia constatativa” [V. Gregotti, Dentro l’architettura, 1991] in cui il reale è assunto come immodificabile solo “perché c’è”. O il sistema delle scelte – il projectus – si riduce al linguaggio, all’imago, soggettivo e sottomesso all’imperio delle mode e delle nuove tecnologie mai messe criticamente in questione o le ricerche speculative si appuntano su questioni marginali e collaterali rinunciando alla possibilità/necessità di costruzione teorica unitaria e condivisa. Vi è una sconfinata fiducia nell’innovazione e nelle soluzioni intercambiabili offerte dalla tecnica in destrutturato “guardare ad altro”, a ciò che è nascosto “dietro alle cose” [von Hofmannsthal] estetizzando i prodotti dell’industria culturale [Th.W. Adorno, Parva Æs­ thetica, 1967]. Sempre meno si prova a tenere assieme serratamente la prassi e la teoria: la tevcnh e la archv. Il progetto decade in clonazioni auto-referenti di poetiche intercambiabili o in vaghe “investigazioni parallele” non inerenti l’architettura in quanto costruzione e modificazione del reale. Se si intende il progetto come “pratica artistica” [V. Gregotti, Contro la fine dell’architettura, 2008] è evidente che la teoria, slegata dall’esperienza degli exempla e riferita ai soli principia diviene invalutabile oggettivamente e inoperante essendo indefinibile il suo campo pertinenziale così


come la prassi, se abbandonata allo sperimentalismo, si fa inintelligibile e intrasmissibile. Una “pratica” può diventare “artistica” solo se riesce a contemperare la ricerca teorica in re con la realtà, con l’esperienza dell’Ergon e se la costruzione nomotetica modifica le sue acquisizioni con l’osservazione critica della costruzione fenomenica non al punto di travolgerne il fondamento ma concorrendo alla costruzione di un punto di vista comune sull’architettura: un corpus che guidi le opzioni (krisiai) che riguardano sia il piano tecnico/formale (progetto) sia le questioni ideative e di natura estetica (composizione). I procedimenti che presiedono al progetto e ne legittimano le scelte sono di natura tecnico-esigenziale ma anche ideativo-compositiva in ordine al senso dei manufatti, ai rapporti interni che si devono stabilire tra le forme, alla natura delle parti e degli elementi, al linguaggio ed infine al carattere come modo dell’apparire della forma. Le regole del mestiere – non leggi e modelli [R. De Fusco, Trattato di Architettura, 2001] da applicare acriticamente – orientano l’agire fabbrile, mentre i principi armonici ed il significato sotteso alle forme guidano l’agire pensante. L’esigenza di un legame positivo tra elaborazione teorica e pratica progettuale è sempre meno avvertita essendo la ricerca teorica oramai non pertinente e quella progettuale determinata sovente da esigenze di mar­ keting e non dal suo ruolo civile. Isolate appaiono quelle linee di pensiero – immuni da polisemie linguistiche e avanguardistiche indotte da ansie formalistiche – che rivolgono il loro interesse non tanto a inedite ipotesi disciplinari quanto allo studio e alla interpretazione dell’architettura e della città esistente. Tali posizioni, marginalizzate dal “consumo incessante” della società globalizzata, si estrinsecano in testi, saggi, manuali o trattati ma anche in progetti e manufatti che ricoprono un valore di exempla per il portato teorico e per il giudizio che incorporano sull’architettura e sulla città contemporanea. Per queste teoresi, ancora alla ricerca di un “futuro del classico” [S. Settis, Futuro del ‘classico’, 2004] – figlie dello sforzo collettivo prodottosi in Italia negli anni Settanta [F. Visconti, R. Capozzi, Architettura Ra­

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zionale >1973_2008>, 2008] volto alla ricerca di un fondamento (Grund) – il centro della riflessione resta la città e la scienza della composizione. Una scienza che in quanto riflessione sul progetto, sulle sue motivazioni, sui nessi da stabilire tra le cose, costituisce la vera teoria, è la premessa di ogni fare architettonico che parte dalla selezione di materiali, dagli elementi e dalle regole sintattiche e che non si risolve nello spontaneismo. Nelle tesi sopra esposte si può riconoscere la necessità di un complessivo metodo – una forma applicativa della teo­ ria – per la costruzione consapevole del progetto in cui si compongono le due sfere della metis (pensiero operante) e del nous (pensiero riflettente, l’intelletto). Il metodo in quanto “percorso verso/attraverso” [A. Monestiroli, Que­ stioni di metodo, 1991], predispone una serie di “tappe” che non si susseguono in termini lineari ma ancora una volta ricorsivi e ciclici. Le tappe di questo nous sono il tema architettonico, o interpretazione essenziale della “funzione splendente” [L. Semerani, Lezioni di Composzione archi­ tettonica, 1987], il luogo e la sua modificazione rispetto alla idea generale di città che ne ha determinato i caratteri, la scelta del tipo in ragione della assunzione tematica e le corrispondenti procedure compositive che selezionano le forme appropriate ad interpretarne la struttura tipologica. Le tappe della metis – le risposte efficienti ai requisiti prestazionali e funzionali – con interessati sovrapposizioni e slittamenti sono la questione della costruzione, come ineludibile vaglio delle forme adoperate e ancora il luogo nella sua condizione particolare e individuale in cui calare e far configgere il manufatto consentendo alla ideazione “apollinea” di farsi concreta. Una mèta di ordine superiore rimane la ricerca dell’espressività che, se sul piano architettonico è un fatto linguistico (parole), diviene questione stilistica generale (langue) sul piano ideale/logico. Quindi nell’opera e nel carattere che essa ostenta è possibile comprendere sia la particolare espressione dell’autore sia il sistema generale ed idealtipico [M. Weber] cui pure si riferisce. La teoria e la prassi, a questo punto, integrandosi compiutamente impon-


gono alle forme esibite e messe in scæna atque in opera un’armonia delle parti passibile di dimostrazione [Summerson, The Classical Language of Architecture, 1963] consentendo loro di essere espressive del valore e “rispondenti” al senso. Vanno di continuo risignificati i concetti di fondo propri dell’architettura tout court come la questione del tipo, della forma (eivdo” / eidos), della figura (eivdwlon/ éidõlon) responsabili della genesi formativa del progetto attraverso il passaggio necessario ed ineludibile della costruzione, sotto l’indirizzo delle procedure compositive adoperate. Una ricerca di regole da offrire alla invenzione proget­ tante che tende ad affinare la capacità di riconoscimento e di interpretazione del tema che di volta in volta viene posto come incipit di ogni progetto dalla collettività e dai suoi rinnovati bisogni. Atto prioritario del comporre è l’ideazio­ ne, l’interpretazione del senso dei manufatti, intimamente connesso alla necessità di far corrispondere le scelte formali linguistiche ad un principio di appropriatezza che fa riconoscere con chiarezza il tema che si vuole rappresentare. Tale riconoscimento si attua attraverso il rimando ad altre opere, ad altri contesti formali e figurali, riannodando i fili con la tradizione e il portato storico dell’architettura. Solo attraverso analogie, nessi, e “sistema di rapporti” [Diderot] con le forme della storia, della costruzione, della memoria e delle persistenze della città è possibile aspirare ad una nova sed antiqua venustas per l’oggi. Diventa fondamentale allenare l’osservazione e “l’immaginazione costruttiva” sugli exempla riuscendo a selezionare e a riconoscere i segni, gli elementi o le parti di cui è costituita una architettura o un luogo urbano. L’identificazione degli elementi esplicita le tensioni ammissibili che devono stabilirsi tra le varie parti per determinare il tutto sintattico. Un processo graduale che interpreta le opere scomponendole in parti discrete per poi cogliere, proprio attraverso questo atto di separazione (analisi), i legami e i rapporti che tenevano insieme tali parti: con l’avvertenza di non assumere il processo di congiunzione delle parti in un tutto come meramente additivo. Non si dà pro-jectus senza una Krisis, senza un giudizio che tenda

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a ripristinare – ricordando Lukács – da un caos, dove i materiali sono indistinti e caotici, un cosmos fatto di rapporti, rimandi, variazioni, connessioni, iati e ripetizioni. La disciplina della composizione, nei due momenti dell’analisi come distinzione e della sintesi come ri-aggregazione normata, deve sottrarsi ad un individualismo senza scopo pur consentendo una espressione soggettiva che – nel suo dichiararsi – diviene scientificamente oggettiva ed enunciabile. L’atto ideativo-conformativo non è un “movimento improvviso” del pensiero ex nihilo ma parte sempre da una serie di dati, di oggetti fisici e del pensiero che, attraverso processi di confronto e comparazione, di “intuizione eidetica” [H. Bergson, L’Évolution créatrice, 1907], rende “conoscibili” e quindi “usabili”. Obiettivo di fondo è costruire una gram­ matica – lo studio degli elementi costitutivi o “atomici” dell’architettura – che attraverso l’individuazione di un insieme di elementi “primi”, di figure e di parti, determini una composizione sintattica – l’ordinamento degli elementi – a partire da regole e/o deroghe chiaramente espresse. Concludendo queste note, senz’altro insufficienti per la costruzione (auspicabile) di una compiuta “teoresi architettonica prassista”, si potrebbe intendere l’architettura come un’arte normata e pratica riflettente e rispondente alle umane necessità in vista di una loro rappresentazione riconoscibile. Ma più chiara è la definizione data da Mies van der Rohe che tiene assieme la speculazione teorica sulla disciplina e la perfezione costruttiva dell’opera: l’architettura è chiarezza costruttiva portata alla sua espressione esatta (…) è la creazione/costruzione di un punto di vista che altri desiderano condividere.

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Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo LUCIA PIETRONI

Da alcuni anni, soprattutto nell’ambito del dibattito sulla sostenibilità ambientale, si è tornati a discutere e riflettere sulla natura come fonte primaria di ispirazione per la risoluzione dei problemi tecnologici e progettuali dell’uomo; come “modello, misura e mentore” nello sviluppo di soluzioni progettuali innovative e realmente sostenibili; come straordinaria banca-dati di espedienti biologici e di innovazioni utili a designer, ingegneri, architetti, da trasferire nella progettazione e produzione dei propri artefatti; come laboratorio di idee per uno sviluppo innovativo e sostenibile. Da sempre l’uomo ha imitato e si è ispirato alla natura per trovare soluzioni efficaci ed efficienti, prima per la sua sopravvivenza sul pianeta, poi per l’accrescimento del comfort e della qualità del proprio habitat e della propria vita. Nell’ideazione e progettazione dei propri artefatti ha imitato continuamente strutture, forme, proporzioni geometriche, colori, ritmi, simmetrie, funzioni degli organismi biologici con differenti finalità. Ma quale è il motivo, oggi, di un rinnovato interesse per la natura? Quali nuovi fattori riaprono il dibattito della cultura del progetto sulla necessità di tornare ad apprendere gli insegnamenti di “madre natura”? Nell’attuale scenario scientifico-culturale emergono due principali fattori che consentono di considerare in modo nuovo l’approccio biomimetico al design1, soprattutto come

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un contributo molto promettente per il raggiungimento degli obiettivi della sostenibilità ambientale. Questi due significativi fattori sono, da un lato il recente sviluppo di nuove conoscenze e di nuovi strumenti scientifici e tecnologici capaci di analizzare, descrivere, e persino riprodurre, aspetti, fenomeni, processi della natura finora inediti ed inesplorati: in particolare lo sviluppo e gli importanti contributi delle nanoscienze e delle nanotecnologie che consentono di comprendere la realtà e di produrre artefatti alla scala nanometrica2; dall’altro l’attuale fase di maturità del dibattito sulla sostenibilità ambientale, caratterizzato da nuove consapevolezze: la necessità di un cambiamento radicale del modello di sviluppo e di una drastica riduzione del consumo di risorse ambientali delle società industriali mature e la constatazione della lentezza e dell’inefficienza dei cambiamenti nella direzione della sostenibilità, nonostante le notevoli risorse finanziarie, tecnologiche e umane, messe in campo3. Pertanto, il quadro culturale di riferimento, che motiva e contestualizza il rinnovato interesse da parte della cultura del design per le innovazioni prodotte dalla natura, è caratterizzato: da un lato, dalle nanoscienze che ci consentono di indagare la natura alla scala nanometrica e scoprire in essa fenomeni e processi nuovi ed estremamente efficienti in termini prestazionali, energetici e di impiego di risorse, che prima non eravamo in grado di leggere e comprendere e che le nanotecnologie possono riprodurre e applicare nello sviluppo di processi e prodotti con caratteristiche inimmaginabili finora; dall’altro lato, dall’attuale fase di maturità del percorso verso la sostenibilità ambientale dei paesi industrializzati che rende sempre più urgente un modello di sviluppo realmente sostenibile, in cui si prenda davvero sul serio il concetto di “sostenibilità forte”, che non si limita al rispetto della carrying capacity del pianeta, ma che comprende il concetto di “rigenerazione” del “capitale naturale” da lasciare alle generazioni future per soddisfare i propri bisogni, non sostituibili con “capitale costruito”, cioè con beni prodotti.


All’interno di questo quadro culturale di riferimento, cercheremo, di seguito, di selezionare ed approfondire alcuni contributi teorici che sottolineano ed evidenziano il crescente interesse per l’approccio biomimetico e per la Biomimesi, in differenti ambiti disciplinari, ed in particolare nel design, in quanto scienza e campo di ricerca particolarmente promettente per contribuire alle necessarie e radicali innovazioni da apportare al nostro sistema di produzione e consumo, all’attuale modello di sviluppo economico e ai nostri stili di vita nell’ottica della sostenibilità ambientale. Verso un modello di sviluppo economico sostenibile, bioispirato e rigenerativo È, in primo luogo, dall’ambito delle discipline economiche che si hanno alcuni importanti contributi teorici su un modello di sviluppo economico sostenibile e “rigenerativo”, basato su modelli biologici, ispirato ai principi e alle strategie evolutive e virtuose della natura e, pertanto, capace di ridurre drasticamente il consumo di risorse ambientali, di ottimizzare l’utilizzo delle risorse ancora disponibili, di mantenere e rigenerare continuamente gli equilibri degli ecosistemi, considerando che la vita dell’uomo dipende dalla vita dei sistemi naturali. Uno dei più significativi contributi è quello di Paul Hakwen, Amory Lovins, Hunter Lovins, che, nel loro famoso libro del 1999, propongono e descrivono un modello di “Capitalismo Naturale”4, ovvero un modello economico che contabilizza e investe in “capitale naturale” e che si fonda sul concetto di “sostenibilità forte”5. Per attuare questo modello di sviluppo economico, come affermano gli autori, sono necessarie quattro radicali trasformazioni, nelle politiche di business delle organizzazioni, per continuare a prosperare e contemporaneamente migliorare le proprie performance ambientali e sociali. Tali trasformazioni, a cui corrispondono altrettante strategie, riguardano: l’incremento drastico della produttività delle risorse disponibili con una mentalità e un approccio sistemi-

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co e lo sviluppo di strategie molto più eco-efficienti6; il cambiamento radicale dei processi produttivi secondo modelli bio-ispirati, che imitino le virtuosità e l’efficienza della natura, chiudendo il ciclo dei materiali, eliminando la produzione di rifiuti e di emissioni e minimizzando l’impiego di energia e di risorse ambientali; la transizione verso un modello di business che dia valore all’offerta continua di servizi piuttosto che alla vendita di prodotti, per fare più e meglio con meno; ed, infine, l’investimento continuo in capitale naturale, che è la base per la futura prosperità e per uno sviluppo realmente sostenibile. Come affermano Hawken e i Lovins, il “Capitalismo Naturale” è alquanto differente dal capitalismo tradizionale che ha sempre trascurato il valore monetario delle risorse naturali e dei servizi forniti dagli ecosistemi, senza i quali non sarebbe possibile alcuna attività economica, oltre che la vita stessa. Il “Capitalismo Naturale”, al contrario, contabilizza le risorse naturali e punta all’efficienza per riuscire a produrre di più con meno. Ridisegna, inoltre, le logiche industriali sulla base di un modello biologico che esclude gli sprechi e la produzione di rifiuti e protegge, rigenera ed estende il capitale naturale esistente. Infatti, secondo gli autori, l’economia non può essere affidabile fino a quando il capitale naturale non sarà incluso nei bilanci. Un’economia sana ha bisogno di un bilancio preciso. È di vitale importanza comportarsi come se al capitale naturale e a quello umano fosse riconosciuto un valore. Inoltre, entro il prossimo secolo la popolazione raddoppierà e la disponibilità pro capite di servizi forniti dagli ecosistemi continua a diminuire a ritmo significativo. Nessuno può prevedere quando la mancanza di una certa risorsa si verificherà, ma la scarsità di capitale naturale è al centro della scena. Infine, Hakwen e i Lovins concludono dicendo che, a prescindere dal futuro in cui si crede, integrare i principi del capitalismo naturale nella pianificazione creerà solide fondamenta per la società, anche se per molti la prospettiva di un sistema economico bio-ispirato, in grado


di eliminare il concetto di rifiuto e di reinvestire nei sistemi viventi, è ancora troppo ottimistica. Un altro contributo fondamentale per un modello economico sostenibile ispirato ai modelli biologici è quello offerto da Gunter Pauli con il suo recente libro intitolato “Blu Economy”7, nel quale descrive la necessità di una transizione dalla “Green Economy alla Blu Economy o Green Economy 2.0”. La Green Economy è il risultato di grandi sforzi compiuti negli ultimi trent’anni in termini di sviluppo di processi e tecnologie pulite, di strumenti metodologici ed operativi per progettare e produrre in modo più sostenibile, ma non è riuscita a raggiungere i risultati auspicati. Oggi è necessario attuare un nuovo modello di sviluppo economico, la “Blu Economy”, un’economia che adotta tecnologie ispirate dal funzionamento della natura e che opera materialmente attraverso le strategie della “biomimesi”. Diversamente dalla “Green Economy”, non richiede alle aziende di investire di più per salvaguardare l’ambiente. Anzi, con minore impiego di capitali è in grado di creare maggiori flussi di reddito e di costruire al tempo stesso capitale sociale. Come afferma Pauli, in natura non esistono disoccupati e neppure rifiuti. Tutti svolgono un compito e gli scarti degli uni diventano materia prima per altri, in un sistema “a cascata” in cui niente viene sprecato. In particolare, la “Blu Economy” deve basarsi sul primo principio della biomimesi, ovvero “il massimo rendimento con il minimo investimento”, in quanto, nell’attuale fase di crisi economico-ambientale, non è più possibile investire ingenti risorse finanziarie per risolvere i problemi ambientali. Infatti è necessario affrontare le problematiche della sostenibilità al di là della semplice conservazione e tutela delle risorse naturali, spingendosi verso la “rigenerazione” del capitale naturale disponibile. C’è bisogno di un’economia che rigenera invece di esaurire, i cui prodotti siano concepiti per collaborare con i cicli vitali e non per distruggerli. Secondo Pauli, l’economia dovrebbe funzionare come la natura, dove non c’è nulla di superfluo e tutto quello che viene prodotto ha una sua funzione. Il

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che significa soddisfare i nostri bisogni con ciò che abbiamo: gli ecosistemi infatti funzionano con le risorse disponibili. Pertanto, gran parte dei problemi che ci affliggono sono già stati risolti dalla natura in modi eleganti, efficienti e, soprattutto, ecologicamente sostenibili. Si tratta di mutuare quelle soluzioni e adattarle alle necessità umane. La natura ha già provvisto a darci tutte le risposte. Non ci resta che cercarle. In sintonia con il concetto di “economia rigenerativa” di Pauli, John Tackara parla di “economia restaurativa”8, ovvero di un’economia che imita le pratiche efficienti della natura, capace di proporre modi di prosperare senza sovraccaricare i sistemi naturali e sociali; un modello di organizzazione socio-economica che parte dal presupposto di lavorare con quello che si possiede ora, dai beni che sono disponibili. Inoltre, nel suo libro “Blu Economy”, Gunter Pauli raccoglie 100 esempi, realizzati, funzionanti e redditizi, di innovazioni ispirate dalla natura, selezionati in collaborazione con la biologa e scienziata Janine Benyus9, uno dei più autorevoli esperti di Biomimesi. Attraverso questi esempi, Pauli intende sostenere e dimostrare la sua tesi, condivisa pienamente dalla Benyus con la quale collabora da molti anni: se da quasi 4 miliardi di anni, ogni cosa in natura si trasforma e viene riutilizzata per produrre qualcos’altro, e lo fa senza generare rifiuti o inquinare, questo è il modello a cui deve ispirarsi il sistema economico se vuol essere davvero sostenibile, duraturo e capace di futuro. Biomimesi: definizione, principi e strumenti

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Come sostiene Janine Benyus, nel suo libro “Biomimicry: Innovation Inspired by Nature”10, diventato un riferimento fondamentale non solo per gli studiosi di Biomimesi, ma per gran parte dei ricercatori e dei progettisti interessati ai temi della sostenibilità ambientale, la Biomimesi è la scienza che studia i sistemi biologici naturali emulandone forme, processi, meccanismi d’azione, strategie, per


risolvere le sfide che incontriamo ogni giorno, per trovare le soluzioni più sostenibili ai problemi progettuali e tecnologici dell’uomo, per replicarne disegni e processi in nuove soluzioni tecnologiche per l’industria e la ricerca. La Biomimesi nasce proprio dalla consapevolezza che la Natura è una banca dati di innovazioni progettuali, un archivio di brevetti disponibili immediatamente, un laboratorio di ricerca e sviluppo a nostra disposizione: la Natura, attraverso un percorso di trial and error, in 3,8 miliardi di anni ha avuto la possibilità di migliorare le proprie capacità di rigenerarsi ed evolvere, che vengono offerte alla cultura del progetto come un enorme bagaglio di soluzioni progettuali a cui ispirarsi. Sicuramente ci vuole una certa umiltà per accettare che un qualsiasi microrganismo – sia come individuo che come gruppo – possa insegnarci qualcosa. Ancor oggi, afferma la Benyus, incontro ingegneri che mi guardano e dicono: Che cosa mai posso imparare da un polipo? E invece più conosciamo queste specie altre e più restiamo ammirati da come queste abbiano risolto i loro problemi, non solo non distruggendo l’ambiente, ma al contrario rigenerandolo e conferendogli valore aggiunto. La Biomimesi, infatti, sta assumendo un ruolo significativo soprattutto di fronte al crescente allarme sulle conseguenze ambientali negative dovute alle scelte finora fatte dall’uomo lungo la strada dello sviluppo. Pertanto, oggi, architetti, ingegneri, designer hanno a disposizione gli “esperimenti” che l’evoluzione naturale ha perfezionato in milioni di anni, basandosi sul principio del “minimo investimento per il massimo rendimento”: gli organismi naturali utilizzano sempre la quantità minima di energia possibile per le loro attività al fine di garantire maggiori prestazioni per la perpetuazione della specie. Secondo la Benyus, infatti, è proprio sulle spalle dei designer che grava l’onere di creare le premesse per una nuova consapevolezza: sono loro che devono immaginarsi nuove tipologie di prodotti, di sistemi, di network di trasporto; in altre parole, sono loro a doversi re-immaginare un mondo più sostenibile e concretamente praticabile e la Natu-

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ra può essere per loro, non solo fonte d’ispirazione formale, ma un utile modello concettuale, strutturale, organizzativo e strategico. Infatti la biologa statunitense ritiene che la Natura abbia un triplice ruolo per i progettisti: è modello, misura e mentore allo stesso tempo. È “modello” in quanto dalla natura possiamo astrarre modelli (formali, strutturali, funzionali, organizzativi e strategici) come ispirazione per soluzioni tecniche; è “misura” in quanto nella natura si possono identificare standard ecologici come riferimenti quantitativi e qualitativi per il progetto; è “mentore” in quanto è guida e maestra nella ricerca della soluzione più efficiente. La Benyus, inoltre, dedica proprio ai designer lo sviluppo di numerosi strumenti metodologici e operativi per permettere il dialogo tra biologi e progettisti, per facilitare l’adozione e l’applicazione di innovazioni biologiche nello sviluppo di nuovi prodotti, processi, sistemi. Ricordiamo, in primo luogo, la definizione di alcuni principi della natura come guida per una progettazione bioispirata: la natura non spreca, non genera rifiuti, utilizza “quanto basta”; utilizza i rifiuti e gli scarti come risorse; adatta la forma alla funzione secondo morfologie a risparmio di materiale ed energia; ottimizza e non massimizza; ha una capacità di apprendimento continuo; costruisce dal basso verso l’alto in modo modulare; è localmente armoniosa; evolve secondo un sistema di cooperazione ed interdipendenza; genera e rigenera condizioni favorevoli alla vita. Poi, la Benyus identifica differenti livelli di analogia a cui può essere praticato un approccio biomimetico alla progettazione: il livello architettonico, che si riferisce alle regole costruttive di strutture realizzate da organismi viventi (come gli alveari, le tane degli animali, la rete del ragno); il livello morfologico-strutturale, che si riferisce alla morfologia delle biostrutture (come le cellule, le ossa, i tessuti biologici, i gusci dei mitili) per ottenere strutture e materiali con specifiche prestazioni; il livello biochimico, che riguarda i meccanismi biochimici (come la mimetizzazione, l’effetto di luminescenza delle lucciole, la


fotosintesi clorofilliana); il livello funzionale, che ha a che fare con le logiche di funzionamento dei sistemi biologici (come le funzioni anti-attrito della pelle degli squali, i meccanismi di termoregolazione degli animali in condizioni ambientali estreme, ecc.); il livello comportamentale, che riguarda le modalità comportamentali degli individui biologici (come la capacità reattiva o protettiva di membrane cellulari imitata per la realizzazione di filtri e dispositivi di depurazione e separazione); il livello dell’organizzazione, che si riferisce alle complesse strategie organizzative dei sistemi biologici (come l’auto-organizzazione, l’auto-riparazione, l’auto-assemblaggio, ecc.)11. Infine, ma non per importanza, la Benyus, insieme alla collega Dayna Baumeister, ha sviluppato anche una metodologia progettuale sistemica, chiamata la “Spirale della vita”, ovvero un processo a step, iterativo e organizzato su una spirale, di semplice comprensione, come strumento e guida utile agli innovatori e ai designer per interrogare il mondo naturale e per “biologizzare” le loro sfide progettuali e tecnologiche12. Recentemente, inoltre, Janine Benyus è stata promotrice del progetto “Ask Nature”, lo sviluppo di uno strumento davvero utile per la progettazione bio-ispirata: una banca dati on-line di innovazioni biologiche efficienti e sostenibili a disposizione dei progettisti, facilmente consultabile, interrogandola per funzioni, e implementabile nel tempo13. Biomimesi e cultura del design Anche nell’ambito della cultura del design emergono importanti contributi teorici che sottolineano ed evidenziano il crescente interesse per gli insegnamenti provenienti dalla biosfera e per l’approccio biomimetico all’innovazione. Tra gli studiosi che, da molti anni, si occupano dei temi del design per la sostenibilità ambientale è sostanzialmente condivisa la consapevolezza che, per trasformare in modo realmente sostenibile il nostro modello di sviluppo, sono necessarie “innovazioni radicali” e non “incrementa-

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li”14, ovvero è necessario procedere “a salti”, come fa la natura, e non linearmente. Come ha affermato più volte Ezio Manzini nei suoi scritti, abbiamo bisogno di una “discontinuità sistemica”, di un cambiamento sistemico che implichi una qualche forma di rottura della continuità rispetto alla situazione data, per tentare di raggiungere gli obiettivi della sostenibilità ambientale15. Inoltre, è altrettanto condivisa la convinzione che è sempre più necessario porre al centro del dibattito il concetto di “sostenibilità forte”, con una particolare attenzione alla qualità, oltre che alla quantità, di capitale naturale disponibile da conservare e rigenerare per le generazioni future. Perciò diventa sempre più importante conoscere e comprendere ulteriormente i sistemi naturali e apprendere le loro strategie evolutive, imparando dalla natura ad operare, progettare e produrre senza spreco, senza rifiuti ed emissioni, ed a trasformare i rifiuti in nuove risorse in un sistema “a cascata” estremamente efficiente. Di seguito tratteggeremo brevemente alcuni significativi contributi, sviluppati nel contesto culturale italiano, che evidenziano come principi, processi e strategie virtuose per la sopravvivenza e l’evoluzione dei sistemi biologici lo siano anche per lo sviluppo di soluzioni progettuali e tecnologiche innovative e sostenibili e sottolineano, pertanto, l’importanza dell’apporto della biomimesi al design per la sostenibilità ambientale. Design ad alto potenziale rigenerativo

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Uno dei principali contributi è quello di Ezio Manzini, che, in alcuni suoi saggi, sostiene che i designer debbano proporre e poi dare forma a soluzioni sostenibili e radicalmente innovative, coerenti con i principi della sostenibilità e caratterizzate da due fondamentali criteri: una “bassa intensità di materiale ed energia”, ovvero soluzioni altamente eco-efficienti e un “alto potenziale rigenerativo”, ovvero soluzioni capaci di agire da fattore rigenerativo delle qualità del contesto (ambientale, sociale, culturale e tecnologico),


in cui si vanno a collocare. Come Manzini, anche Francois Jégou sostiene l’importanza del concetto di “rigenerazione” nell’attuale fase di cambiamento sistemico e di transizione verso la sostenibilità ambientale. Infatti Jégou definisce “la transizione verso la sostenibilità” come un processo sociale d’apprendimento grazie al quale, progressivamente, tra errori e contraddizioni, gli esseri umani impareranno a vivere meglio consumando molto meno e rigenerando la qualità del proprio habitat, vale a dire dell’ecosistema globale e dei contesti di vita locali in cui si trovano a vivere. Secondo Manzini e Jégou, il concetto di “alto potenziale rigenerativo” si riferisce alla capacità della soluzione progettuale di integrarsi nel suo contesto d’uso valorizzando e, nel caso, rigenerando le risorse in esso disponibili. Esprime dunque la dimensione propositiva di una soluzione, la sua capacità di modificare positivamente lo stato delle cose e di generare condizioni favorevoli alla vita. Per essere definito sostenibile, un sistema deve, quindi, essere fortemente integrato nel proprio contesto e deve valorizzare e rigenerare le risorse ambientali e sociali localmente disponibili. Inoltre, Manzini parla anche di “società rigenerativa” ovvero una società e un’economia in cui la creatività e l’intraprendenza dei soggetti, le potenzialità della tecnologia e la capacità organizzativa delle imprese possano diventare agenti della sostenibilità: attori capaci di operare per la rigenerazione delle qualità fisiche e sociali dell’ambiente16. Pertanto, il concetto di “rigenerazione”, mutuato dallo studio dei sistemi biologici e degli ecosistemi, diventa un importante strumento operativo, nell’ambito della cultura del design, per lo sviluppo di proposte realmente sostenibili e radicalmente innovative. Design sistemico Un altro contributo di rilievo è quello di Luigi Bistagnino, che, nel suo recente libro “Design sistemico. Progettare la sostenibilità produttiva e ambientale”17, sostiene che, du-

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rante i suoi 3,8 miliardi di anni di esperienza, la natura ha sviluppato progetti di forma, di processo e di sistema che vale la pena osservare, comprendere ed emulare. Da sempre l’uomo ha tentato di capire e imitare i processi naturali. Attualmente, però, le nuove prospettive di studio e le maggiori conoscenze scientifiche e tecnologiche offrono spunti progettuali capaci di soddisfare sia i requisiti di funzionalità ed efficienza, sia i principi di sostenibilità ambientale. È quindi chiaro, secondo Bistagnino, che la biomimesi può offrire notevoli vantaggi sia in termini di efficienza – perché in natura i processi avvengono a temperatura e pressione ambiente, utilizzando gli elementi chimici più comuni ed in maniera limitata, sia in termini di sostenibilità – perché imitare la natura significa agire in accordo e non in contrasto con essa. Bistagnino, inoltre, sottolinea che ispirarsi alla natura significa ragionare per relazioni e secondo i principi della complessità. Gli elementi stessi che compongono un sistema sono una rete di relazioni inserita in reti più grandi, dove il risultato qualitativo dell’intero sistema è maggiore della somma delle singole parti. In linea con questo approccio sistemico, diventa necessario trasformare l’attuale modello produttivo lineare, che consuma risorse e produce rifiuti ed emissioni, in un modello produttivo sistemico, che preferisce le risorse vicine rispetto a quelle lontane e che attiva, tramite gli output di un sistema che diventano input di un altro, una collaborazione virtuosa tra i processi produttivi (agricoli e industriali), il sistema naturale, il contesto territoriale e la comunità, dando vita così ad una rete relazionale aperta che vitalizza il territorio e lo caratterizza nelle sue precipue qualità. Come afferma Bistagnino, infatti, bisogna riportare nell’equazione progettuale complessiva anche la variabile rappresentata da quelle risorse (scarti, rifiuti) che altrimenti finirebbero per non essere utilizzate. È necessario riacquistare la capacità culturale e pratica di saper delineare e programmare il flusso di materia, che scorre da un sistema a un altro, in una metabolizzazione continua, come avviene in


natura, che diminuisce l’impronta ecologica e genera un notevole flusso economico, mentre attualmente gli scarti dei processi produttivi sono solo un costo. Questo modello economico-produttivo bio-ispirato e il conseguente approccio progettuale, definito da Bistagnino appunto “Design sistemico”, trae ispirazione dai fondamenti della “Scienza Generativa”, basata sul presupposto che, a seguito di una qualunque trasformazione di una risorsa, tutti i sottoprodotti sono studiati per ottenere un valore aggiunto generativo e quindi sono oggetto di attenta valutazione. Pertanto, il “Design sistemico” è la progettazione di sistemi aperti in cui non esistono scarti di produzione né rifiuti, è un approccio progettuale per fare di più con le risorse disponibili, è un modello differente di economia che attiva, in un contesto rigorosamente locale, una rete di relazioni per trasformare gli scarti (out­put) di un sistema produttivo in una risorsa (input) per un altro, generando valore, innovazione e sviluppo sostenibile. Design biomimetico o Hybrid Design Un ulteriore e interessante contributo teorico-metodologico sull’approccio biomimetico al design e sull’intersezione tra l’evoluzione delle conoscenze biologiche e i progressi maturati nell’ambito delle nuove tecnologie, ci viene offerto da Carla Langella, che, nei suoi scritti, ed in particolare nel libro “Hybrid Design”, esplora le inedite prospettive di relazioni tra progetto e biologia, che offrono alla cultura del progetto interessanti possibilità di configurare nuovi e fascinosi scenari di azione e speculazione progettuale18. Secondo la Langella, ciò che distingue oggi la bio-ispirazione da quella del passato è, quindi, la straordinaria opportunità di fare riferimento a nuove conoscenze e strumenti in grado di osservare la natura nei suoi più intimi dettagli, fino alla scala nanometrica, svelandone segreti e principi un tempo criptati. Infatti, i progressi compiuti negli ultimi decenni nelle aree più innovative delle scienze biologiche, come la biologia molecolare e la genetica,

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hanno permesso di svelare le logiche, i principi, i linguaggi e i codici su cui si fonda il progetto della natura. Trasferire tali conoscenze al design, attraverso opportune metodiche, consente di generare nuovi artefatti, materiali o immateriali, nei quali si rispecchino, concettualmente e concretamente, alcune delle qualità rivelate dal mondo naturale. In tale scenario si colloca un nuovo approccio progettuale definito “Hybrid Design”, che non si limita a copiare gli aspetti morfologici della natura ma cerca di trasferire logiche, codici e qualità complesse dei sistemi biologici al design per trovare soluzioni progettuali sostenibili ai problemi dell’uomo e per sviluppare prodotti e servizi innovativi. Infatti, se la bionica, fin dagli anni ’60, si proponeva di estrarre forme, strutture e funzioni dalla natura per crearne delle “copie” il più possibile somiglianti, l’Hybrid Design cerca di approdare a soluzioni progettuali formalmente anche molto differenti rispetto ai sistemi biologici ai quali si ispira, ma simili nei principi generativi, nei meccanismi d’azione, nelle strategie evolutive. La definizione di “Hybrid Design” nasce da un’ispirazione tratta da una nuova tipologia di materiali sintetici, ottenuti in laboratorio mediante l’integrazione di nanotecnologie con protocolli e principi della biologia molecolare. Da quest’ambito, che costituisce uno dei riferimenti più avanzati nella creazione di artefatti bioispirati, l’Hybrid Design trae un approccio di tipo concettuale che prefigura artefatti con caratteristiche intermedie tra natura e tecnologia, la cui stessa genesi ed evoluzione può essere definita ibrida. L’Hybrid Design, dunque guarda con forte intenzione di trasferimento ad ambiti ad alto contenuto scientifico e tecnologico. Tali ambiti costituiscono un riferimento procedurale, metodologico ma anche un bacino di strumenti e tecnologie da poter utilizzare. Nuovi materiali e nuove tecnologie costituiscono gli strumenti attraverso i quali l’Hybrid Design concretizza concetti bio-ispirati in prodotti e sistemi capaci di coniugare le esigenze ambientali di de-materializzazione e riduzione del numero di componenti con le qualità biologiche di multifunzionalità, autonomia, au-


to-organizzazione, auto-adattamento, auto-assemblaggio. Infatti, come sostiene la Langella, adottare nel design codici, principi e logiche tratte dalla biologia significa non solo ispirarsi a come la natura realizza i suoi prodotti, ma soprattutto a come li sviluppa, li fa crescere, li mantiene in vita e li rigenera. Esiste una sostanziale differenza tra il modo di produrre degli uomini e della natura. L’uomo, nel realizzare i propri artefatti, prende le materie prime dalla natura e le trasforma ottenendo dei prodotti che, alla fine della loro vita utile, si tramutano in scarti, emissioni prevalentemente non utilizzabili che si accumulano nell’ambiente danneggiandolo. La natura, invece, preleva materie prime, le trasforma e vi realizza i suoi prodotti che crescono, si riproducono e alla fine della loro vita rientrano nei cicli biologici reintegrandoli, senza produzione di rifiuti. In natura tutto viene riusato o riciclato. Imparare a progettare dalla natura, secondo la Langella, significa anche imparare ad applicare questa ciclicità chiusa propria dei processi biologici, significa realizzare artefatti compatibili con i cicli biologici che regolano la vita degli uomini e con l’ambiente naturale in un’ottica “zero emission o from cradle to cradle”19. Design bio-ispirato Un ultimo contributo determinante, nell’attuale dibattito sull’importanza e l’utilità dei principi e degli strumenti della Biomimesi per il design, è il recente libro Il progetto del­ la Natura di Giuseppe Salvia, Valentina Rognoli e Marinella Levi20. In questo volume, gli autori sostengono che la natura è fonte di ispirazione per i progettisti non solo da un punto di vista formale ed emozionale, quanto come modello da imitare in termini di equilibrio, vantaggio, evoluzione e progresso, ovvero come modello strategico per uno sviluppo sostenibile. Secondo loro, il corredo di espedienti che potenzialmente potrebbe essere di interesse per il progettista è illimitato, in quanto da ciascun organismo è possibile considerare aspetti differenti di volta

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in volta utili ad uno specifico fine. L’aspetto principale che caratterizza tutte le creature viventi è senz’altro il principio del minimo investimento per il massimo rendimento. Gli organismi naturali tentano, infatti, di consumare la quantità minima di energia possibile per le proprie attività, al fine di garantire maggiori prestazioni per la perpetuazione della specie. Appare chiaro dunque come l’uomo possa ricavare proficui suggerimenti per la progettazione, realizzazione e ottimizzazione delle proprie strutture e artefatti, mantenendo al contempo un vantaggioso rapporto tra costi e benefici, ad esempio attraverso un consumo energetico opportunamente ridotto al minimo. Pertanto, di fronte alle attuali problematiche energetiche e ambientali, il crescente interesse per la Biomimesi e per un design bioispirato è quanto mai significativo e di grande utilità per la necessaria transizione verso la sostenibilità ambientale. Inoltre, come evidenziato dagli autori, da pochi anni, si è assistito, da un lato, alla capacità di analisi e comprensione della realtà, arrivando anche a livello nanometrico, e, dall’altro, alla capacità di produzione di artefatti sulla stessa ridottissima scala. Ciò ha contribuito all’individuazione di alcuni importanti fattori e leggi costitutive della Natura, la quale agisce su diversi livelli, tutti fondamentali e decisivi per il successo generale dell’organismo e dello specifico espediente. La conoscenza degli elementi di costruzione basilare del progetto della Natura consente, infatti, la riproduzione dei processi virtuosi in natura, come la replicazione e l’auto-assemblaggio, attualmente sotto studio e dall’immenso valore nei prossimi decenni (ad esempio, proteine in grado di assemblarsi e configurarsi secondo istruzioni “interne” che abbattono il consumo di energia e consentono un’elevata versatilità); oppure l’imitazione di processi naturali come l’autoriparazione e la rigenerazione, che, se correttamente replicati, potrebbero comportare l’allungamento della vita di molti prodotti fino anche alla loro sostituzione automatica o alla produzione su larga scala a fronte di costi energetici estremamente ridotti. Molti di questi principi, processi, strategie ispirati dalla


natura e utili al design, insieme a numerosi esempi di innovazioni biologiche relative a materiali e strutture, processi produttivi e meccanismi d’azione, sono descritti e raccolti in questo interessante volume, proprio per dimostrare e sottolineare il prezioso contributo della Biomimesi, e delle recenti e nuove conoscenze scientifiche, allo sviluppo di processi e prodotti bio-ispirati, migliori a livello prestazionale e più sostenibili. Riflessioni conclusive Come si è cercato di evidenziare, dal recente dibattito della cultura del progetto emerge, anche se con declinazioni e con prospettive di sviluppo differenti, la condivisione dell’idea che, nell’attuale fase di maturità del dibattito sulla sostenibilità ambientale e alla luce dei recenti sviluppi e delle enormi potenzialità delle nanoscienze e delle nanotecnologie, l’approccio biomimetico o bio-ispirato al design è molto promettente e destinato in futuro ad offrire un contributo ancora più significativo e determinante. Infatti, il numero di espedienti biologici utili per il design è potenzialmente illimitato. Pertanto, da un lato, gli scienziati e i biologi dovrebbero continuare ad incrementare le banche dati di innovazioni bio-ispirate e renderle il più possibile accessibili a chi può trasferirle e applicarle in soluzioni progettuali e tecnologiche ai problemi dell’uomo, e, dall’altro lato, i progettisti dovrebbero imparare ad interrogare la banca dati della natura con metodo e sistematicità, chiedendosi sempre in primo luogo: Come ha risolto questo problema la natura? Con quale espediente, con quale processo, con quale strategia? Ed infine, a conclusione di questa breve riflessione, possiamo fare un’ultima considerazione. Per ottenere risultati apprezzabili in termini di sostenibilità ambientale dalla progettazione bio-ispirate, sarebbe veramente auspicabile: formare gruppi interdisciplinari di progetto; guardare e interrogare la natura in modo nuovo e con nuovi strumenti scientifici e culturali; e, soprattutto, integrare efficacemente i

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principi e gli strumenti della Biomimesi con gli strumenti e le strategie più consolidate di Design per la sostenibilità. In tal modo, molto probabilmente, la Biomimesi potrà in futuro fornire alla cultura del design un contributo non solo promettente, ma realmente strategico per lo sviluppo di soluzioni progettuali sostenibili e innovative, “ecologicamente responsabili e socialmente rispondenti, rivoluzionarie e radicali nel senso più vero dei termini”, come avrebbe affermato Victor Papanek21 e di “vero design”, come avrebbe detto Giovanni Klaus Koenig, ovvero capaci di “forti interazioni tra scoperta scientifica, applicazione tecnologica, buon disegno ed effetto sociale positivo”22.

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1   La “Biomimesi” (Bios, vita + Mimesis, imitazione) è “la scienza che studia i processi biologici naturali per trovare le soluzioni più sostenibili per i problemi progettuali e tecnologici dell’uomo”. Si tratta di un ambito disciplinare relativamente recente (ha poco più di trent’anni di storia), ma negli ultimi anni ha assunto un particolare rilievo nel dibattito scientifico, soprattutto sui temi della sostenibilità ambientale, a livello internazionale e nazionale. Già nel 1958 l’ingegnere aeronautico Jack Steele aveva coniato il termine “Bionica” (Biologia + Tecnica o Biologia + Elettronica) per intendere una “scienza dei sistemi il cui funzionamento è basato su quello dei sistemi naturali”. Rispetto agli sviluppi della “Bionica”, molto proficui soprattutto negli anni ’70 e ’80, la “Biomimesi” o “Biomimetica” non si limita ad imitare le forme e le strutture degli organismi viventi, ma trae spunto e ispirazione dalle strategie e dalle logiche che sono alla base del successo evolutivo dei sistemi biologici. Il termine “Biomimetica” o “Biomimesi” è utilizzato, per la prima volta, nel 1968 dal fisico Otto Schmitt ed è definito come “una disciplina che simula le strutture biologiche per realizzare prodotti più efficienti”. Nel 1974 il termine “Bio­ mimesi” compare nel dizionario di lingua inglese Merriam-Webster così definito “lo studio della formazione, della struttura o della funzione di sostanze e materiali biologicamente prodotti e di meccanismi e processi biologici soprattutto per lo scopo di sintesi di prodotti simili, tramite meccanismi artificiali che simulano quelli naturali”. Negli anni ’80 e ’90 la “Biomimesi” inizia ad essere insegnata all’università e in centri di ricerca di diversi paesi del mondo: in Inghilterra, dove il Prof. Julian Vincent fonda il Centre of Biomimetics dell’Università di Reading e dell’Università di Bath; in Germania, dove il Prof. Thomas Speck istituisce corsi di Biomimesi all’Università di Friburgo; negli USA, dove nascono numerosi centri di ricerca, formazione e consulenza, come il CBID-Centre for Biologically Inspired Design al Georgia Institute of Technology o il Biomimicry Guild e il Biomimicry In­


stitute fondati dalla biologa Janine Benyus nel Montana; più recentemente sono sorti centri di ricerca e di studio sulla Biomimesi anche in Cina. 2   Le “Nanoscienze” comprendono tutti i nuovi approcci alla ricerca che studiano i fenomeni e la manipolazione di materiali su scala atomica e molecolare, dove le proprietà differiscono notevolmente da quelle osservate su scale maggiori. La creazione di materiali, sistemi e dispositivi attraverso il controllo della materia su scala nanometrica (un nanometro è un miliardesimo di metro, ovvero una dimensione inferiore decine di migliaia di volte allo spessore di un capello umano) è ciò che correntemente si intende con il termine di “Nanotecnologie”. La dimensione nanometrica del materiale manipolato dischiude orizzonti applicativi impensabili in passato, perché le proprietà osservabili a tale dimensione si prestano ad essere utilizzate, anche su scala diversa, per sviluppare processi e prodotti caratterizzati da nuove funzioni e prestazioni, in un numero tendenzialmente illimitato di settori. Pertanto oggi siamo in grado di prendere ispirazione dalla natura non solo per gli aspetti morfologico-strutturali, ma anche per i modelli strategici e organizzativi, efficienti e sostenibili. Cfr. Comitato Nazionale per la Bioetica-Presidenza del Consiglio dei Ministri, Nanoscien­ ze e Nanotecnologie, Roma, 9 giugno 2006; The Royal Society & The Royal Academy of Engineering, Nanoscience and nanotechnologies: opportunities and uncertainties, UK, 29 July 2004; E. Borsella, Na­ noscienze e Nanotecnologie. Dalla ricerca alle applicazioni, ENEA editore, Roma 2008. 3   Tra i teorici e gli studiosi della transizione verso la sostenibilità ambientale emerge con forza la consapevolezza che per risolvere gli attuali problemi economici, energetici e ambientali non è sufficiente lo sviluppo di efficienti tecnologie pulite e di processi e prodotti più sostenibili o di strategie ambientali di business, ma è necessario ed indispensabile un radicale cambiamento dell’attuale sistema di produzione e consumo, del modello di sviluppo economico e dei nostri stili di vita, perseguibile soprattutto attraverso innovazioni radicali e non incrementali. I tempi e i modi con cui si stanno percorrendo le strade verso la sostenibilità ambientale sono troppo lenti ed inefficienti. Si ha la consapevolezza che dovremmo ridurre i nostri consumi di risorse naturali di circa il 90% rispetto agli attuali, ma ogni anno stiamo consumando il 20% in più di risorse rispetto a quelle che la natura è in grado di rigenerare. Cfr. W. Sachs, Planet Dialectis. Explorations in Environment and Development, Zed Books, Londra-New York 1999 (trad. it. Ambiente e giustizia sociale. I limiti della globalizzazione, Editori Riuniti, Roma 2002); P. Hawken, A. Lovins, H. Lovins, Na­ tural Capitalism. Creating the Next Industrial Revolution, Little Brown & Co., Boston-New York-Londra 1999 (trad. it. Capitalismo Naturale. La prossima rivoluzione industriale, Edizione Ambiente, Milano, 2001); W. McDonough, M. Braungart, Cradle to Cradle. Remaking the Way We Make Things, North Point, New York 2002 (trad. it. Dalla culla alla culla. Come conciliare tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo, Blu edizioni, Torino 2003); E. Manzini, F.

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Jégou, Quotidiano sostenibile. Scenari di vita urbana, Edizione Ambiente, Milano 2003; J. Thackara, In the Bubble. Designing in the Complex World, MIT Press, Cambridge 2005 (trad. it. In the bubble. Design per un futuro sostenibile, Umberto Allemandi & C., Torino 2008); E. Manzini, C. Vezzoli, Design per la sostenibilità ambien­ tale, Zanichelli, Milano 2007; G. Pauli, The Blue Economy. 10 Years, 100 Innovations, 100 Million Jobs, Paradigm Publications, Taos 2010 (trad. it. Blu Economy: 10 anni, 100 innovazioni. 100 milioni di lavori, Edizione Ambiente, Milano 2010). 4   Cfr. P. Hawken, A. Lovins, H. Lovins, op. cit. 5   Per “sostenibilità forte” si intende la non sostituibilità del “capitale naturale” con il “capitale prodotto dall’uomo” per garantire alle generazioni future la possibilità di soddisfare i propri bisogni. Il “capitale naturale” include non solo tutte le risorse naturali, ma anche i processi biofisici e le relazioni tra componenti dell’ecosfera che garantiscono le condizioni indispensabili alla vita. Attualmente il ritmo di impoverimento delle risorse naturali e l’accelerazione del cambiamento globale portano a valutare che gli stock di capitale naturale attualmente disponibili siano già inadeguati per la stabilità ecologica a lungo termine. Molti studiosi ed esperti ritengono, dunque, che, in queste condizioni, la “sostenibilità forte” sia una condizione necessaria per uno sviluppo ecologicamente sostenibile. Questa condizione può realizzarsi solo se ogni generazione eredita una quantità di sistemi biofisici non inferiore a quella ereditata dalla generazione precedente. Cfr. M. Bresso, Per un’economia ecologica, NIS, Roma 1993; W. Sachs, Planet Dialectis. Explorations in Environment and Development, Zed Books, Londra-New York, 1999 (trad. it. Ambiente e giustizia so­ ciale. I limiti della globalizzazione, Editori Riuniti, Roma 2002); N. Marchettini, E. Tiezzi, Che cos’è lo sviluppo sostenibile? Le basi scientifiche e i guasti del pensiero unico, Donzelli Editore, Roma 1999; M. Bonaiuti, La teoria bioeconomica. La nuova economia di N. Georgescu-Roegen, Carocci, Roma 2003. 6   Per un approfondimento sulla produttività e sull’efficienza delle risorse, cfr. G. Pauli, Breakthroughs. What Business Can Offer So­ ciety, Epsilon Press Limited, UK 1996 (trad. it. Svolte epocali. Il busi­ ness per un futuro migliore, Baldini&Castoldi, Milano 1997); E. von Weizsächer, A. Lovins, H. Lovins, Factor Four: Doubling Wealth, Halving Resource Use, Earthscan Ltd., UK 1998 (trad. it. Fattore 4. Come ridurre l’impatto ambientale moltiplicando per quattro l’effi­ cienza della produzione, Edizioni Ambiente, Milano 1998); F. Schmidt-Bleek, P. Weaver, Factor 10: manifesto for a sustainable pla­ net, Greenleaf Publishing, UK 1998; E. von Weizsächer (et al.), Factor Five: Transforming the Global Economy through 80% Impro­ vements in Resource Productivity, Earthscan Ltd., UK 2009. 7   Cfr. G. Pauli, The Blue Economy. 10 Years, 100 Innovations, 100 Million Jobs, cit. 8   J. Thackara, From doomsday machine to clean growth eco­ nomy, Conferenza a “Sustain/ability festival”, “Treviso Design per un futuro sostenibile”, Treviso, 2-4 dicembre 2010.


9   Janine Benyus, biologa statunitense – come già accennato – che ha fondato, nel 1998, Biomimicry Guild, una società di consulenza per imprese, centri di ricerca, progettisti che intendono sviluppare progetti, prodotti, processi bio-ispirati, e, nel 2005, Biomimicry Insti­ tute, un’associazione no-profit la cui mission è la promozione e la divulgazione delle conoscenze sulla Biomimesi. Considerata da molti uno dei principali studiosi dell’approccio biomimetico al design, la Benyus ha sviluppato numerosi strumenti metodologici ed operativi a supporto di una progettazione bio-ispirata. 10   J. Benyus, Biomimicry: Innovation Inspired by Nature, Perennial, USA 2002 (prima edizione, 1997). 11   L’auto-organizzazione, l’auto-riparazione, l’auto-assemblaggio sono strategie, osservabili in natura, considerate molto utili e promettenti per lo sviluppo di una progettazione sostenibile. Rappresentano alcune delle capacità di un sistema biologico di integrare le perturbazioni esterne per aumentare la propria efficacia di adattamento all’ambiente e quindi di evoluzione. Gli organismi naturali, per sopravvivere al mutare delle condizioni, interne ed esterne, tendono a modificare se stessi (riorganizzandosi, rigenerando loro parti che hanno subito lesioni, assemblandosi modularmente e spontaneamente in condizioni che tendono all’equilibrio, ecc.), in modo da utilizzare le proprie risorse nella maniera più efficiente possibile. Inoltre, non è un caso che l’auto-organizzazione, l’auto-riparazione e l’auto-assemblaggio siano mec­canismi d’azione e processi organizzativi alla base di molte delle innovazioni, di processo e di prodotto, sviluppate dalle nanotecnologie, con la finalità, in molti casi, di migliorare la loro efficienza energetica e le loro prestazioni ambientali. 12   I principali step del processo iterativo a spirale sono: identificare, tradurre, osservare, sintetizzare, applicare, valutare. Per un ulteriore approfondimento sul metodo della “Spirale della vita”, cfr. il sito del Biomimicry Institute all’indirizzo www.biomimicryinstitute.org. 13   Per la banca dati on-line “Ask Nature” si veda: www.asknature. org. 14   Per una definizione di “innovazione radicale” e “innovazione incrementale”, cfr. C. Freeman, C. Perez, Structural Crises of Adjustment: Business Cycles and Investment Behaviour, in G. Dosi (a cura di), Technical Change and Economic Theory, Pinter, Londra 1988. 15   Per una definizione del concetto di “discontinuità sistemica”, cfr. E. Manzini, M. Susani, Solid Side. The search for consistency in a changing world, V + K Publishing, Netherlands 1995; E. Manzini, C. Vezzoli, Lo sviluppo dei prodotti sostenibili, Maggiori Editore, Rimini 1998; E. Manzini, C. Vezzoli, Design per la sostenibilità am­ bientale, Zanichelli, Milano 2007. 16   Cfr. E. Manzini, F. Jégou, op. cit. Per approfondire il concetto di “soluzioni sostenibili ad alto potenziale rigenerativo”, cfr. anche E. Manzini, Context-based well-being and the concept of regenerative solutions, in «The Journal of Sustainable Product design», Vol. 2, N 3-4, UK, 2004.

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17   L. Bistagnino, Design Sistemico. Progettare la sostenibilità produttiva e ambientale, editore Slow Food, Bra (Cn) 2009. 18   C. Langella, Hybrid design. Progettare tra tecnologia e natu­ ra, Franco Angeli, Milano 2007; C. Langella, Biomimetica e design, in Sala M. (a cura di), I percorsi della progettazione per la sostenibi­ lità ambientale: un confronto sull’evoluzione della didattica e della ricerca del settore nelle Università italiane, Convegno nazionale ABITA, Alinea, Firenze 2004; C. Langella, Design biomimetico. Strate­ gie progettuali sostenibili ispirate dalla natura, in «Abitare la Terra», n. 15/2006. 19   Per un approfondimento dell’approccio “from cradle to crad­ le” si veda in particolare: W. McDonough, M. Braungart, op. cit. 20   G. Salvia, V. Rognoli, M. Levi, Il Progetto della Natura. Gli strumenti della biomimesi per il design, Franco Angeli, Milano 2009. 21   V. Papanek, Design for the Real World: Human Ecology and Social Change, Pantheon Books, New York 1971 (trad. it. Progettare per il mondo reale, Mondadori, Milano 1973). In questo libro, Victor Papanek afferma: “La progettazione se vuole essere ecologicamente responsabile e socialmente rispondente, deve essere rivoluzionaria e radicale nel senso più vero dei termini. Deve votarsi al ‘principio del minimo sforzo’ adottato dalla natura, in altre parole al massimo della varietà con il minimo delle invenzioni, ovvero ad ottenere il massimo con il minimo. Ciò significa consumare meno, usare di più, riciclare i materiali”. 22   G.K. Koenig, Design: rivoluzione, evoluzione o involuzione?, in «Ottagono», n. 68, 1983, p. 24.

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Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano LUCA PANARO

Louis-Jacques-Mandé Daguerre e William Henry Fox Talbot, con l’invenzione della fotografia del 1839, hanno accentuato nell’uomo la pratica innata del voyeurismo, permettendoci di fissare quella realtà che già da qualche tempo si poteva “spiare” all’interno di una camera oscura. Più di un secolo dopo, George Orwell ha invece ipotizzato per quella pratica – fino a quel momento vissuta con una certa leggerezza – un’applicazione tanto terribile quanto profetica; un mondo interamente controllato da un Grande Fratello1, capace di privare il singolo della libertà d’azione. «Sui soldi, sui francobolli, sulle copertine dei libri, sulle bandiere, sui cartelloni e sui pacchetti di sigarette… da per tutto. Gli occhi avrebbero guardato sempre e la voce avrebbe risuonato sempre. Da sveglio o mentre si dormiva, mentre si mangiava o beveva, dentro casa o fuori, nel bagno, a letto… non c’era modo di sfuggire. Nulla si possedeva di proprio se non pochi centimetri cubi dentro il cranio»2. Il 1984 immaginato da Orwell è quindi un mondo interamente controllato dai moderni strumenti di video-sorveglianza, una realtà dove ogni parete diventa trasparente per permettere al grande voyeur di controllare ogni movimento di Winston e Julia, i protagonisti del romanzo, che lottano disperatamente per conservare un granello di umanità. Un’analoga riflessione sulla società dei mass media la incontriamo nel pensiero di Marshall McLuhan. Il sociologo canadese ha infatti intuito

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come il mezzo fotografico fosse lo strumento ideale per vedere la realtà come «un bordello senza muri»3, un luogo ormai completamente privo di ogni segreto, dove tutti possono spiare tutti. La concretizzazione di questa felice immagine di McLuhan può essere ritrovata in un noto film di Andy Warhol: The Chelsea Girls. Girato nel 1966 sui clienti vissuti nel famoso albergo di New York, il film mostra le stanze di un hotel come se queste fossero state private dei muri che solitamente difendono la privacy. La pellicola si presenta come una doppia proiezione di due stanze d’albergo, con differenti personaggi catturati dall’occhio indiscreto della telecamera. La vita privata dei clienti del Chelsea Girls Hotel, così come quella di Winston e Julia, protagonisti del romanzo di Orwell, è completamente annullata per diventare di dominio pubblico. Nella società trasparente4, dove un ruolo decisivo è esercitato dai mass media, la stessa sorte subita da Winston e Julia è riservata, seppure per altri motivi, all’ignaro protagonista del film The Truman Show (Peter Weir, 1998); un uomo la cui vita è in diretta 24 ore su 24 in una popolare trasmissione televisiva. Film emblematico, anticipatore di molti Reality Show e spaccato quanto mai veritiero di una società che ha scelto la strada dell’annullamento della propria privacy5. «Non si sa dove arrivi la vera vita, quella che Al Gore chiama life or nonfiction e fin dove l’intricata giungla delle storie immaginarie»6. In questo modo Italo Calvino, nel lontano 1983, commentava Duluth di Gore Vidal, il romanzo dello scrittore statunitense che mostra la vita reale cortocircuitata con le immagini di una trasmissione televisiva. Quel voyeurismo iniziato nell’Ottocento con l’invenzione di Daguerre e Talbot, quella predisposizione all’abbattimento dei “muri” che la fotografia pare abbia iscritta nel proprio DNA, trova, infatti, all’inizio del nuovo millennio, un’applicazione globalizzata nei Reality Show7. Potremmo dire un’applicazione nuova, una mutazione dall’atto morboso del singolo, dalla perversione del voyeur, alla normalizzazione di questo comportamento, legittimato dai mass media e condiviso da milioni di telespettatori. I Reality Show,


infatti, presuppongono un consolidato e determinante ruolo dei mass media nella nostra vita, capaci non tanto di rendere la società più trasparente, cioè più comprensibile, ma al contrario di mostrarla per quello che è, vale a dire più caotica, sfumata, vaga. Proprio questo caos, reso tangibile dalla rappresentazione senza veli della realtà, diventa la caratteristica del nostro tempo. Gli scienziati ci vengono in aiuto puntando le proprie ricerche su logiche matematiche polivalenti che, già dagli anni Sessanta, hanno rotto i ponti con la tradizionale logica binaria. Una di queste è la Fuzzy Logic8, in grado di valutare asserzioni parzialmente vere o parzialmente false, superando il sistema booleano 0-1, basato su enunciati del tipo “vero o falso”. Senza entrare troppo nello specifico, basti pensare alla logica Fuzzy come ad una filosofia capace di costruire un’immagine del mondo più vicina al reale di quella ricreata dalla scienza tradizionale. Una logica in grado di ammettere che il mondo non è uno ma plurimo. Queste molteplici realtà, allo stesso tempo vere e false, vengono oggi più che mai evidenziate dalla diffusione di media come la fotografia, in grado di mettere a nudo il mondo in cui viviamo, mostrandocelo dunque “senza muri”, così come profetizzato da McLuhan e mostrato nei Rea­lity Show, non solo quelli televisivi. Reality Show fotografici Intorno agli anni settanta, in concomitanza con il crescente interesse per il mezzo fotografico, alcuni artisti produssero le prime opere che videro nell’espediente del Reality Show una nuova strada di ricerca. L’accorgimento di cui stiamo parlando consiste nell’utilizzo della fotografia come strumento in grado di spettacolarizzare la realtà, coinvolgendo aspiranti Grande Fratello, curiosi di osservare 24 ore su 24 la vita altrui, oppure di esporre la propria allo sguardo indiscreto di sconosciuti. Una formula utilizzata con una certa frequenza da alcuni artisti negli anni Settanta, ma che, con l’avvicinarsi al nuovo millennio, trova un massiccio con­senso ed una più esplicita applicazione. È bene precisare che l’accor-

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gimento del Reality Show in fotografia è per i vari artisti di cui ora parleremo soltanto un’idea, e quindi come tale va considerata, senza però dimenticare l’importanza che questa assume per l’affermazione di una tendenza ben precisa. Osservando il panorama artistico internazionale degli ultimi quarant’anni notiamo due differenti regole di abbattimento di quei “muri” che la fotografia è in grado di compiere. Nel primo caso possiamo parlare di autentiche documentazioni della realtà, di fotografi che puntano l’obiettivo sulla vita privata di amici e parenti, fatta di ambienti domestici, trasgressioni o semplici attimi di vita sociale. Il secondo atteggiamento, invece, consiste in vere e proprie azioni performative, dove il soggetto delle immagini, spesso lo stesso autore, si esibisce in comportamenti di una banale quotidianità. In entrambi i casi questo eccesso di realtà parte dalla consapevolezza di indagare le molteplici identità del reale, non esclusa la sua stessa spettacolarizzazione. Pioniere indiscusso del primo approccio alla spettacolarizzazione del quotidiano è il fotografo statunitense Larry Clark, regista di Kids e del più recente film Ken Park, caposcuola ideale di una serie di autori che negli anni Novanta hanno utilizzato la fotografia come una sorta di diario per immagini, mostrando tutta la cruda e a volte imbarazzante realtà delle scene rappresentate. Le fotografie della famosa serie Tulsa, realizzate da Clark tra il 1968 e il 1971 nella cittadina dell’Oklahoma teatro della sua giovinezza, raccontano una storia di adolescenti alle prese con droga, sesso, alcool e Aids; qui l’autore si muove senza finzioni documentando una realtà che ben conosce e che sembra non voler tradire. Queste immagini hanno ispirato un’intera generazione di registi internazionali, come Martin Scorsese e Francis Ford Coppola che, a loro volta, hanno portato sugli schermi una nuova cultura underground che forse partiva proprio da Tulsa. Clark, con l’autenticità del suo sguardo, ci mostra fotografie molto intime e franche che indagano sul mondo dei giovani con una particolare attenzione al loro modo di affrontare il passaggio sociale all’età adulta. Negli stessi anni, anche se con modalità differenti, hanno dimo-


strato un particolare interesse per la documentazione fotografica di una stretta cerchia famigliare o di conoscenze, importanti autori come lo statunitense Robert Mapplethorpe, nella serie di Polaroid dei primissimi anni Settanta, oppure l’insospettabile artista giapponese Nobuyoshi Araki, nello splendido e toccante progetto intitolato Sentimental Journey/Winter Journey iniziato nel 1971 e terminato nel 1990 alla morte della moglie. La seconda modalità di spettacolarizzazione del quotidiano è rappresentata dal lavoro di Sophie Calle. Le opere dell’artista francese sono di natura autobiografica, sfruttano la logica del diario, del pedinamento fotografico, della partecipazione, della casualità e anticipano le attuali problematiche relative alla violazione del privato. Nel gennaio del 1980 Sophie Calle seguì uno sconosciuto per le strade di Parigi, lo fotografò e prese nota dei suoi spostamenti, lo perse fra la folla per poi ritrovarlo all’improvviso, lo seguì a Venezia, fino a quando il gioco s’interruppe (Suite véni­ tienne). Nel febbraio del 1981 si fece assumere per tre settimane in un albergo di Venezia. Durante le pulizie alle dodici camere a lei assegnate, documentò con immagini e testi le abitudini degli ospiti, violando così la loro intimità (L’Hôtel). Sempre nel 1981, in aprile, certificò la propria giornata chiedendo alla madre di essere pedinata da un investigatore privato incaricato di portarle le prove fotografiche della propria esistenza (La filature). Quest’opera permise all’artista di ottenere due sguardi differenti sulla propria vita: quello “esterno”, dato dalle immagini riprese dal detective, e quello “interno”, prodotto da un’auto-documentazione. Nel primo caso l’immagine è “rubata”, nell’altro, invece, è prelevata consapevolmente. Inoltre, ad un certo punto dell’inseguimento, si venne a creare un affascinante cortocircuito fra realtà e finzione; nel momento in cui Sophie Calle si accorse di essere pedinata alterò il suo normale comportamento in funzione dell’osservatore. Vent’anni dopo fu nuovamente spiata seguendo la stessa regola: questa volta però ad ingaggiare il detective fu il suo gallerista Emmanuel Perrotin (Vingt ans après)9. I meccanismi attiva-

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ti da queste ed altre opere di Sophie Calle ci rimandano al voyeurismo partecipato tipico degli attuali Reality televisivi, dove si espongono senza vergogna azioni o comportamenti appartenenti alla sfera privata, a volte anche banali, come anticipato dagli artisti inglesi Gilbert&George nella nota serie Photo-Piece del 1971. Prima e dopo il Duemila

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Se negli anni Settanta e Ottanta si svilupparono le prime ricerche fotografiche realizzate secondo l’espediente del Reality Show, sarà solamente dagli anni Novanta (un decennio prima dell’effettiva esplosione del fenomeno televisivo) che queste troveranno larga applicazione nelle immagini di numerosi artisti contemporanei. Proprio all’inizio del decennio si colloca infatti la ricerca della francese Orlan che, seguendo la strada performativa, procede ad eliminare fotograficamente le pareti della sala operatoria rendendo così pubblica l’alterazione chirurgica del proprio corpo. I molteplici interventi di chirurgia plastica subiti, fotografati e video-ripresi da Orlan, si pongono veramente come opera anticipatrice degli odierni Reality Show, poiché esposizioni di una realtà spettacolarizzata. Sarà proprio una trasmissione televisiva italiana, Bisturi, che nel 2004 adotterà la formula vincente utilizzata da Orlan, provocando feroci critiche (ma anche un incremento dell’audience) per avere mostrato in diretta televisiva un intervento di chirurgia estetica su di una paziente poco prosperosa. A percorrere invece la strada indicata da Larry Clark è la celebre fotografa Nan Goldin: già attiva sul finire degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, raggiunge il successo internazionale soltanto negli anni Novanta, diventando un punto di riferimento per gli artisti delle generazioni successive. Le sue immagini mostrano gli eccessi dell’alcool, della droga, dell’amore e del sesso, ma anche scene di una disarmante domestica intimità. Sulla stessa lunghezza d’onda è la ricerca del tedesco Wolfgang Tillmans, i cui soggetti sono ragazzi colti nella quotidianità delle loro case, oppure


fotografati in effusioni erotiche, o ancora negli ambienti della loro vita collettiva: i locali notturni, le strade delle grandi metropoli occidentali. Ancora una volta è la realtà a trasformarsi in spettacolo, come accade in alcune fotografie dell’olandese Bertien van Manen (Männen, 1995) e degli statunitensi Ed Templeton e Ryan McGinley, che hanno basato buona parte della loro ricerca su questo approccio. Per quanto riguarda Richard Billingham, invece, possiamo parlare di veri e propri Reality Show fotografici nella fortunata serie Rays a Laugh (1996). L’artista inglese, usando sia il mezzo video che quello fotografico, ha seguito per sette anni la difficile vita condotta dai suoi genitori; i continui litigi durante la cena tra la madre, con il corpo ricoperto di tatuaggi, e il padre alcolizzato, che sembra subire impassibile lo scorrere degli eventi. Le sue immagini ci mostrano uno spettacolo interpretato da una famiglia operaia, in cui Billingham agisce tanto da spettatore estraneo (nel ruolo di artista) quanto da attore fortemente coinvolto (come membro di quella stessa famiglia). Una realtà crudele, che ci appare tragicomica nella sua mostruosa normalità. Le fotografie del­l’artista provocano molte contraddizioni, sono umane, ma allo stesso tempo crude e sconcertanti, al limite tra realtà e finzione. Ma ciò che più sorprende alle soglie del Duemila è la diffusione di questa modalità operativa nel mondo della moda, come si può osservare dalle immagini dei fotografi Juergen Teller e Terry Richardson. Il modo di lavorare di Teller si discosta decisamente dai tradizionali canoni della fotografia di moda; infatti, il suo stile è diretto e aperto, una sorta di dialogo tra la modella e il fotografo. Nella serie Go-sees (1999), l’autore tedesco raccoglie immagini uscite da brevi sedute fotografiche con ragazze in cerca di un futuro nel mondo della moda. Per realizzare questo progetto, Teller ha lavorato per un anno nel suo studio di Londra fotografando le modelle così come si presentavano nel momento del casting. Ogni giorno una giovane aspirante ha bussato alla porta del fotografo in Lad­ broke Grove, West London, nella speranza di diventare una grande star; Teller invece fotografa ogni ragazza sulla soglia

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della porta dello studio oppure appena fuori sulla strada. Questa ricerca si concentra non tanto sull’aspetto formale, quanto sull’oggetto fotografato; le immagini ottenute, tut­ t’al­tro che patinate, costituiscono una critica ai vezzi del mondo della moda e ai suoi ideali di bellezza. Le immagini più interessanti sono proprio quelle dedicate alle ragazze meno abituate a questo lavoro, che si mostrano al naturale, senza trucco, con i capelli in disordine, partecipi quindi dello spettacolo ma senza discostarsi troppo dalla realtà. Altre “immagini che chiunque potrebbe realizzare” sono quelle riprese da Terry Richardson. Il fotografo statunitense, celebre anche in Italia grazie alle scandalose campagne pubblicitarie della maison veneta Sisley, si è sempre dichiarato estimatore della fotografia di Larry Clark e Nan Goldin: questo lo rende vicino per propensione alla spettacolarizzazione del quotidiano. Richardson fotografa gente comune sorpresa a baciarsi, a praticare sesso, oppure ad aggirarsi per locali di infima categoria, a fare le boccacce come in una banale foto ricordo, a sollevarsi la maglietta per mostrare un piercing, un tatuaggio o il seno rifatto. Le sue immagini sono spesso realizzate su commissione per testate come “i-D”, “Vogue”, “Harper’s Bazaar”, oppure per le campagne pubblicitarie di Levi’s, Hugo Boss e Anna Molinari. Ma l’esaltazione della poetica di Richardson, priva di quella maniera dopotutto ammorbidita che adotta nelle fotografie su commissione, si manifesta quando si mette in gioco in prima persona, essendo spesso soggetto delle sue opere, in un’estrema operazione di auto-rappresentazione condita da una buona dose d’ironia, come accade in Kibosh (2004), quello che lui stesso definisce come il più importante libro della sua carriera10. Conclusioni

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Prima di cinema, televisione e web la fotografia ha introdotto la possibilità di realizzare uno spettacolo di fronte all’obiettivo e di tramandarlo ai posteri come documento credibile e veritiero. Anche semplici immagini riprese fra


amici possono essere interpretate come una sorta di Reality Show fotografico: la genuinità della scena rappresentata è innegabile, ma al tempo stesso questa viene spettacolarizzata dai protagonisti stessi dell’evento che, nella consapevolezza di essere osservati (fra le pagine di un album di famiglia così come nella casa del Grande Fratello), trasformano la quotidianità in uno spettacolo. Negli ultimi decenni questo atteggiamento sembra essere il comune denominatore di molti autori internazionali, il cui obiettivo è spesso puntato sulla quotidianità del proprio mondo. Si è visto come quest’attitudine a fissare con la fotografia la propria esperienza di vita, è particolarmente manifesta negli autori statunitensi, trovando però consensi anche fra gli artisti europei. Non sarà invece passata inosservata la completa assenza di un contributo italiano; questo non per la esterofilia di chi scrive, ma per la mancata predisposizione dei nostri connazionali a un’indagine fotografica così intima. Questa forma di pudicizia, che in Italia sembra aver segnato la ricerca artistica attuale, è stata in qualche modo superata con l’avvento dei social network; anche nel nostro paese si sono moltiplicati spazi online per la condivisione di fotografie e video della propria realtà quotidiana, dove «l’immagine non può più immaginare il reale, poiché coincide con esso»11. Questo Reality Show perpetuo per Jean Baudrillard ha un importante antenato: «qualsiasi oggetto, individuo o situazione è oggi un ready-made virtuale, nella misura in cui di essi si può dire quanto Duchamp dice in fondo del portabottiglie: esiste, l’ho incontrato»12. È così che ciascuno è invitato a presentarsi tale e quale, a recitare la propria vita in diretta sullo schermo televisivo. Così come il readymade recita la sua parte in diretta nella teca del museo, allo stesso modo la fotografia, oggi veicolata da internet, offre all’uomo la possibilità di mostrare se stesso, senza filtri, trasformando in spettacolo ciò che appartiene alla sfera privata. Come si nota osservando le opere fotografiche prodotte da molti artisti degli ultimi decenni, «lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini»13.

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Cfr. G. Orwell, 1984 [1950], Mondadori, Milano 2001.   Ivi, p. 30. 3   Cfr. M. McLuhan, La fotografia. Il bordello senza muri, in Gli strumenti del comunicare [1964], EST, Milano 1999. 4   G. Vattimo, La società trasparente [1989], Garzanti, Milano 2000. 5   Il primo e più noto Reality Show televisivo è Big Brother (1999). Ideato dall’autore olandese John de Mol, si ispira al progetto scientifico Biosphere, un esperimento americano teso a ricreare in un ambiente chiuso le condizioni di sopravvivenza di un gruppo umano. 6   I. Calvino, Vidal e il suo doppio in G. Vidal, Duluth, Fazi Editore, Roma 2007, p. 7. 7   L’espressione Reality Show è un ossimoro, poiché fa convivere in modo paradossale due termini contraddittori: lo Show non può essere Reality. Viene però da credere che nella nostra società, quella dei mass media, questo ossimoro si sia annullato, modificando così il rapporto fra i due termini: ora anche lo spettacolo può essere realtà. 8   B. Kosko, Il fuzzy-pensiero [1993], Baldini & Castoldi, Milano 1999. 9   Nel romanzo di Paul Auster intitolato Leviatano, si riconoscono alcuni aspetti della personalità e del lavoro di Sophie Calle, utilizzati dallo scrittore per costruire il personaggio letterario di Maria: «Secondo alcuni era una fotografa, secondo altri una concettualista, mentre altri ancora la consideravano una scrittrice, ma nessuna di queste definizioni era esatta, e alla fin fine non credo che si presti a essere etichettata in alcuna maniera. Il suo modo di lavorare era troppo folle, troppo stravagante, troppo personale per poter essere associato a qualsiasi mezzo espressivo o disciplina. Le venivano in mente delle idee, lavorava a dei progetti, e venivano fuori dei risultati concreti che potevano essere esibiti nelle gallerie, ma quest’attività non nasceva tanto dal desiderio di fare arte quanto da quello di assecondare le sue ossessioni, di vivere la sua vita esattamente come voleva». P. Auster, Leviatano [1992], Einaudi, Torino 2003, pp. 73-74. 10   La stampa italiana, all’uscita di Kibosh (edito da Damiani), ha dimostrato di avere ancora preoccupanti tabù iconografici in merito alle fotografie di Terry Richardson, rifiutandosi di pubblicare quelle immagini ritenute troppo “scandalose” in quanto vicine all’immaginario pornografico. A dimostrazione di come si fatichi ancora ad accettare la trasposizione diretta del reale che la fotografia da sempre offre, soprattutto nella rappresentazione sessuale. Ha ragione Terry Richardson quando afferma: «chi studia le immagini criticamente, e sotto il profilo della comunicazione, non deve certamente farsi condizionare dalle regole dei benpensanti; deve cercare invece di guardare con occhio lucido e attento qualsiasi articolazione della creatività umana». 11   J. Baudrillard, Il delitto perfetto [1995], Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 8. 12   Ivi, p. 34. 13   G. Debord, La società dello spettacolo [1967], Baldini&Ca­ stoldi, Milano 2008, p. 54. 1 2

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Libri, riviste e mostre

N. Valentin, Moshe Safdie, KAP­ PA, Roma 2010. Moshe Safdie (1938) rientra tra gli autori contemporanei che hanno caratterizzato uno dei filoni più interessanti sviluppati nella seconda metà del secolo scorso, ma poco studiati dalla storiografia contemporanea e da quella italiana in particolar modo. Il lavoro di Nilda Valentin può essere considerato tra i primi di carattere monografico realizzati in Italia. Il nostro autore – di origine israeliana ma formatosi in Canada e in particolare a Montreal – almeno nella sua produzione iniziale va incluso in quella poetica definita megastrutturalista, che dopo la crisi del movimento moderno segue “la grande utopia”, e che si sviluppa a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, su scala internazionale. Come è stato sostenuto in realtà non è possibile parlare dell’idea megastrutturale come di un’unica poetica organicamente strutturata, ed è quindi preferibile parlare di movimento nel quale confluirono le istanze più diverse. Reyner Banham uno

dei sostenitore di queste idee, individua i centri propulsori di tali ricerche nell’architettura giap­ponese (in particolare nel gruppo Metabolism), nella scuo­ la francese (Urbanisme spatial e l’architecture mobile di Yona Friedman), nella situazione italiana (Tafuri e la discussione sulla “città-territorio”), nel grup­ po inglese Archigram ed ancora in sviluppi canadesi e americani. Progetti che, almeno a livello formale e strutturale, si concretizzano nell’uso della modularità, cioè nella progettazione di sistemi modulari tridimensionali che si sviluppano nello spazio e ne costituiscono appunto una geometria ordinatrice. Sistemi modulari che hanno un’estendibilità e una capacità di crescita potenzialmente illimitata, grazie appunto al principio aggregativo, e sono dunque adatti a essere ampliati a seconda delle necessità di crescita della città. Ralph Wicoxon nella sua Megastructure Bi­ bliography lega la megastruttura attorno a quattro punti fondamentali: una struttura composta da unità modulari, capace

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di ampliabilità illimitata, contenente sotto-unità strutturali prefabbricate che possono essere agganciate o incastrate, essa deve avere vita assai più lunga rispetto alle unità minori. Si tratta di una nuova forma di edilizia in grado di riprodurre, in un ambiente ad alta densità urbana, i rapporti umani e i comfort della casa singola e di piccoli centri. Moshe Safdie già agli inizi degli anni ’60 a seguito di un viaggio nel nord America fu profondamente colpito dallo spreco di terreno e risorse nelle periferie. Era chiaro che nemmeno l’alternativa delle abitazioni su più piani poteva essere funzionale, poiché le persone si trovavano allontanate dal suolo, private di una reale intimità domestica. Con la sua tesi voleva introdurre un’alternativa, creando quella che con­ siderava una nuova forma di edilizia in grado di riprodurre, in un ambiente ad alta densità urbana, i rapporti umani e i comfort della casa singola e di piccoli centri. Il sistema abitativo che concepì nella sua tesi si basava su tre diverse idee architettoniche: una struttura urbana tridimensionale integrata, un metodo costruttivo basato sull’uso di più moduli tridimensionali (scatole) e un altro sistema che poteva essere adattato ad un’ampia gamma di condizioni ambientali. Safdie sviluppò diversi sistemi costruttivi, ognuno con la propria struttura e geometria, da utilizzare per dare alloggio a una comunità di cinquemila abitanti. Il primo (il modulo ripetitivo singolo), non portante, era costituito da unità modulari prefabbricate che venivano poste all’interno di una struttura

di sostegno. Nel secondo (costruzione con muri portanti) gli stessi moduli venivano assemblati e disposti in modo da sostenere la costruzione. Il terzo sistema (modulo portante) ricorreva a pareti prefabbricate sistemate a reticolo. In generale, questi tennero tutti conto – per fornire e incorporare i comfort che sembravano spesso mancare nelle case nordamericane – di flessibilità, riconoscibilità, riservatezza, senso di appartenenza alla comunità e uno spazio esterno di proprietà. I moduli, o scatole, venivano assemblati seguendo varie configurazioni, crean­ do cosi una varietà di tipologie abitative contenenti una o più camere da letto. Grazie alla flessibilità della disposizione dei moduli, era possibile progettare un complesso abitativo senza avere due case uguali. Ogni singola unità abitativa poteva essere riconoscibile come tale dall’esterno, dando man forte alle caratteristiche originali del complesso architettonico in generale. Senza dubbio questa ricerca di Safdie è stata quella più originale e sperimentale, forse quella più nota, quella che Nilda Valentin nella struttura del suo volume, suddiviso in quattro parti oltre ad un intrigante e chiarificatrice intervista al nostro architetto, definisce Lo spazio dell’abitare, a cui seguono I luoghi della Memoria, Stanze urbane, L’Architettura co­ me Assemblaggio. Se la parte più sperimentale è stata quella trattata, legata allo studio e ai processi evolutivi per lo sviluppo della cellula abitativa come elemento di aggregazione spaziale dinamico e libero, fino a coinvolgere la grande scala urbana, non possiamo trascurare quel­l’o­rientamento,


maggiormente legato allo storicismo, che ha assunto l’autore con suoi progetti ed opere in anni più maturi, in particolare a Gerusalemme e in Canada, che la Valentin include nella seconda parte dal titolo i Luoghi della memoria ossia lo sviluppo di un’architettura “timeless­ness” in simbiosi con la storia e la cultura del luo­ go, un progetto senza tempo pur se innovativo e moderno. Ma è proprio quell’aspetto che ha coinvolto il Nostro nella polemica zeviana in merito all’integrazione dell’architettura nel luogo. Aspetto trattato da Safdie nell’intervista alla Valentin: Bruno Zevi ha criticato il mio lavoro a Gerusalemme perché lo considerava eccessivamente nostalgico, ritenendo che era stato sottomesso, oppresso dalla questione dell’armonia tra l’antico e il nuovo. Zevi insisteva sul fatto che, nel cercare di creare edifici che appartengono e appaiono come se fossero stati sempre lì in città quali Gerusalemme, ma anche in Quebec o a Cordoba, io stavo sacrificando una freschezza che poteva essere ottenuta attraverso un approccio non sentimentale alla vita contemporanea. In altre parole, a suo dire stavo subordinando la vita contemporanea e la sua giusta espressione alla nozione sentimentale di “appartenenza”. In retrospettiva resto ambivalente su questo tema. […. ] Tuttora mi sembra che questa subordinazione abbia prodotto anche un aumentato senso della scala umana, un ambiente più umano. Questa è forse una conclusione pericolosa, dato che potrebbe confermare nozioni di tecnici postmoderni che suggeriscono la

regressione come un modo per ottenere un ambiente umano. Se prendiamo il caso d’Israele, direi che Tel Aviv possiede vitalità culturale ed energia in un ambiente ragionevolmente brut­ to, mentre Gerusalemme possiede bellezza ma è culturalmente stantia e regressiva. La gioventù mondana sta migrando a Tel Aviv, dimostrando così il paradosso della proposizione di Zevi. Anche Pasquale Belfiore, nella sua essenziale prefazione, sottolinea alcuni punti fondativi della polemica zeviana e tra l’altro sostiene a proposito del Safdie «storicista»: fu un punto di flesso nella biografia professionale e culturale, ma anche una vicenda più complessa d’una semplice delusione per un tradimento, vero o presunto che fosse, nei confronti del verbo modernista. Nella terza parte del volume urban rooms la Valentin tratta attraverso la lettura di otto opere – che vanno dal Que­ bec Museum of Civilization in Canada (1981-87) al Lester B. Pearson International Airport di Toronto (1997, ancora in via di completamento) – il tema dei grandi spazi collettivi, quelli da considerare come collegamento tra Architettura e Città. Infine nell’ultima parte, quella dell’Ar­ chitettura come assemblaggio, l’A. ritiene di includere tutte quelle opere nelle quali Saf­die trasforma il momento del­ l’aggregazione delle varie funzioni programmatiche in un oc­ casione per sperimentare nuove forme plastiche, che intenzionalmente mirano a differenziare le varie attività e a connotare il progetto, con diversi significati che si caricano di rimandi

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non solo storico-architettonici ma anche filosofici, scientifici, spesso astronomici. Così analizza e descrive i progetti del Explo­ ration Place Science Center and Cildren’s Museum del Kansas, del Telfair Museum of art in Geor­ gia, chiudendo il volume con l’ardito, articolato e interessante progetto del Yad Vashem Holo­ caust History Museum di Gerusalemme. In conclusione possiamo sostenere che il contributo di Nilda Valentin assume un rilievo notevole non solo per le numerose opere trattate, (sotto forma di schede analizza 42 progetti), articolate nella struttura del volume, non solo per l’apparato iconografico con disegni, immagini e foto talvolta inediti e di grande interesse ma anche per aver colto significativi passaggi culturali ed epocali che Moshe Safdie ha attraversato, fatti emergere nell’interessante intervista, e soprattutto perché il volume può segnare l’avvio di ulteriori approfondimenti storiografici per un architetto che nella sua produzione ha avuto ed ha a suo credito una ricerca e una sperimentazione architettonica dalla avanzata originalità. A. C. F. Carmagnola, Design. La fab­ brica del desiderio, Lupetti Editori di Comunicazione, Mi­ lano 2009.

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Il testo, introdotto da una presentazione di Gillo Dorfles, è suddiviso in tre parti autonome ma allo stesso tempo fortemente collegate: scenario, esempi e conclusioni. Si tratta di una raccolta

di interventi, sviluppati nell’arco di un decennio e rivisti per l’occasione e di nuovi scritti, a chiudere una attenta ed esauriente bibliografia. In copertina e in quarta di copertina risaltano due oggetti molto diversi tra loro per funzione ed epoca ma accomunati dalla medesima pulizia di forme: una lampada ad olio e un paio di forbici, protagonisti del primo intervento. La lampada, un progetto di Erik Magnussen del 2001, è un cilindro diviso in due parti una opaca e l’altra trasparente, esempio della purezza dei popoli del nord europa; le forbici da bonsai, di autore anonimo e immutate nei secoli, sono elementari nella struttura ed essenziali nelle linee. I due oggetti sono caratterizzati dalla economia di materiale e forma, ogni elemento in aggiunta o in sottrazione provocherebbe un danno irreparabile, ciò che essi hanno in comune indica il carattere distintivo del design. Ma che cosa è dunque il design?, si e ci chiede Carmagnola, la buona forma progettata in vista della vita buona, si può rispondere a colpo sicuro. Ma non basta. (…) l’oggetto di design riuscito è esemplare. Molte le domande che l’autore pone, vari i mondi che tocca nelle sue argomentazioni da quello filosofico all’economico, dal letterario all’artistico; ad illustrare pochissime immagini (solo di auto e moto) e due piccoli schemi semplici e chiarissimi. Le questioni affrontate sono spesso annose ed in continua evoluzione, tra queste il teorema secondo il quale gli oggetti non hanno solo un uso funzionale ma anche simbolico e le relazioni tra arte e design, un rapporto complesso in perenne


oscillazione tra la voglia di emancipazione e la consapevolezza di un legame indissolubile. Vengono indagati anche il tema della bellezza come valore che è rappresentata e codificata da un sottosistema della società e della cultura che si chiama “arte”, la tesi della democratizzazione e del modello-ikea, del design cioè che riguarda oggetti a buon prezzo governati da una economia possibile. È svolta, inoltre, un’a­ cuta analisi sulla estensione della scena del design che conduce ad una forma di inflazione del design stesso e alla progettazione non più dell’oggetto ma del suo desiderio. La prima parte del testo, densa di riferimenti e citazioni, è un insieme di teorie enunciate che trovano poi applicazione nella sezione centrale del libro dall’impronta più pragmatica. In questa seconda parte l’esempio non è in realtà considerato un dato oggettivo; è, infatti, visto come dimostrazione di una affermazione ma anche come possibile elemento di contrapposizione, mezzo per scardinare le evidenze e per risalire ai sistemi che nel nostro caso generano oggetti. L’autore propone degli esempi ritenendoli quindi punti di partenza, spunti per considerazioni generali che non vogliono essere delle dimostrazioni di regole. I casi selezionati sono i più vari: una mostra sul legame tra moto, arte e design, diventa l’occasione per sottolineare le relazioni tra forma e struttura e la indispensabilità di elementi minimi come il bullone che nel tempo ha assunto ruoli differenti: accettato dal funzionalismo, nascosto in seguito e ipervisibile nel contemporaneo quando la struttura diventa un nuovo

tipo di ornamento. Viene analizzato anche il fenomeno del collezionismo e della sua democratizzazione che lo rende alla portata di tutti abbassandolo di livello: non più per pochi o nei musei ma con sede anche nelle edicole che non vendono infatti ormai solo riviste e libri ma gli oggetti più diversi; non si collezionano più gli originali ma le riproduzioni la cui scala cambia la natura di ciò che attira lo sguardo facendo diventare prioritari alcuni particolari rispetto ad altri. Ed è ancora il mondo meccanico a suggerire nuove riflessioni: a proposito di una Ferrari infatti, l’autore parla di deposito di fiction, il modello è un richiamo ad uno stile del passato e al mondo artigianale e della tradizione; condensazione di figure e storia, richiama, in veste di simulacro, una intera epoca. Altro esempio di memoria finzionale è la nuova Fiat 500, una bellezza intramontabile in cui sono state limate le imperfezioni e in cui si assiste ad un progresso, una riapparizione dopo una pausa, un fantasma, un classico che ritorna e che con la sua ri-produzione sottolinea la sua classicità. È studiato il caso dei Droog, autori di un design riflessivo e concettuale a cui si aggiunge il piacere che i prodotti procurano. Il gruppo è composto da personalità molto eterogenee e le produzioni sono molto differenti tra loro: a volte riguardano l’oggetto a volte lo spazio e le sue installazioni. Sono individuate alcune grandi tendenze nel loro lavoro: care, tech, play, trick dove care è l’aspetto pratico del prendersi cura di, tech è quello tecnologico, play riguarda la forma ludica e trick è l’aspetto critico nella fruizione e

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nella progettazione. Il trickster è una figura classica presente nella letteratura e nella storia, è l’ingannatore e l’oggetto trick per eccellenza è stato presentato nell’installazione di Droog al Salone del Mobile di Milano nel 2005: è un finto libretto di assegni al cui interno un testo invita il visitatore a riflettere sul contemporaneo valore del design. Il progettista dunque chiede al consumatore di individuare le qualità dell’oggetto, compie una operazione riflessiva evidenziando come, solo secondariamente, la sua è una realizzazione di cose. Il dato rilevante infatti è legato alle domande circa il senso del sistema che li produce e il ruolo che hanno i diversi attori. Il libretto d’assegni è un oggetto-trick perché non vende niente, è immateriale e concettuale. Una valutazione viene fatta anche sul ruolo del Salone che si è trasformato da momento di presentazione di prodotti ad evento allargato al­ l’intera città, e anche sul ruolo del Fuori Salone che, nato come momento informale, sta diventando sempre più istituzionalizzato. Si assiste alla spettacolarizzazione del mondo del design e anche l’istituzione museo si trasforma da luogo di conservazione in sede di eventi; il tempo immobile della collezione permanente è affiancato dalla rotazione della scenografia della fiction, l’oggetto che era muto ma eloquente nella sua apparizione viene per così dire costretto a parlare. Carmagnola studia anche il fenomeno del retrò e delle sue radici ed emerge una delle caratteristiche del moderno e cioè la sua discontinuità che viene negata proprio dal retrò. Risalta anche la diffe-

renza tra moderno e contemporaneo, se il moderno si rappresenta come discontinuità e direzionalità, il contemporaneo si vede piuttosto come il tempo, l’epoca o il dominio in cui tutti i tempi convivono insieme, si sovrappongono e si appiattiscono. Nel contemporaneo crolla l’associazione tra forma e struttura, nel retrò domina la ri-produzione cioè la seconda volta, l’hardware innovativo e il passato formale rivisitato possono coesistere. Viene anche analizzato il caso Muji, regno del bianco, del cartone e della plastica, del contenitore come emblema e in cui tutti gli oggetti tendono alla sintesi, alla sottrazione, alla pacatezza, è una azienda caratterizzata dall’anonimato dove l’anonimato è tutt’altra cosa del­l’a­nonimità. I prodotti sono semplici, senza marchio, accessibili e nascono per dare la risposta che l’occidente si aspetta, corrispondono all’idea che il mondo occidentale ha di quello orientale. La terza parte del libro costituisce la conclusione con la elaborazione di cinque tesi frutto di una possibile teoria critica del design. Nella prima vengono evidenziate le relazioni tra design ed estetica in una epoca in cui il design si arricchisce di componenti simboliche per cui la forma è veicolo di significati. Simbolico e funzionale non sono più in opposizione ma in integrazione, il simbolico entra in gioco nel valore di scambio e nell’economia diventando un valore di mercato. Vengono individuate alcune componenti del design; occorre distinguerne almeno tre principali: il sistema-design, il design come attività progettuale, il suo prodotto. Il sistema è un


punto di sperimentazione del­l’e­ co­nomia dell’immaginario e oggetto di critica del­l’e­conomia politica; l’attività progettuale ha l’obiettivo di passare dalla progettazione dell’oggetto alla progettazione del gusto; il prodotto va interpretato nelle sue tendenze stilistiche ed estetiche, nel suo ruolo di veicolo e di cristallizzazione del desiderio. Si aggiunge una quarta componente: la fruizione che rimanda al concetto dl compiacersi e di servirsi, alla componente estetica e funzionale. La fruizione incrocia il gusto che oggi si esprime con il muoversi intuitivamente ma contemporaneamente, con l’a­derire alla conformità. Nel paragrafo di chiusura vengono tracciate tre posizioni: gli apologetici che considerano l’universo del consumo come un mondo dove aumenta il potere di scelta, gli apo­ calittici per i quali non c’è nulla di utilizzabile e di recuperabile nella merce e i critici che non danno per scontate le promesse della merce e instaurano un gioco con i prodotti della società della comunicazione. Con l’auspicio finale di una diffusione dell’edu­ cazione estetica che dovrebbe insegnare a orientarsi senza respingere a priori e senza accogliere indiscriminatamente. T. R. F. Drugman, Lo specchio dei desi­ deri. Antologia sul museo, a cura di Mariella Brenna, CLUEB, Bologna 2010. A quasi dieci anni dalla scomparsa di Fredi Drugman CLUEB pubblica Lo specchio dei deside­

ri. Antologia sul museo; il volume, a cura di Mariella Brenna, raccoglie una selezione di scritti eterogenei di Drugman, saggi, articoli e lezioni (tra cui “Musei della cultura materiale” tenuta a Brera nel 1996 e per la prima volta pubblicata qui) volti a restituire un quadro vivido e completo dei tempi più cari all’autore. Come sottolinea Mario Turci nella prefazione del libro, se, per chi ha conosciuto e seguito le riflessioni di Fredi, i motivi più evidenti della pubblicazione dei suoi scritti sul museo sono nel ribadirne la forma provocatoria, anticipatrice e in qualche modo visionaria, per chi non ne ha conosciuto la presenza nella vita, nei convegni e nella professione, il libro ha lo scopo di offrire nuovamente al dibattito la centralità della sua visione del museo quale presidio sociale e di cittadinanza democratica. A questo obiettivo esplicito, estremamente attuale e dalle chiare finalità didattico-divulgative, esse stesse da sempre care all’autore, se ne aggiunge un altro, non meno centrale ed efficacemente perseguito, di ricordo e omaggio a una delle figure che maggiormente hanno contribuito alla definizione e affermazione della disciplina museografica e dell’architettura degli interni e allestimento alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano e, più in generale nel panorama italiano, nell’ultimo trentennio. La struttura del libro è chiara e ben articolata; i saggi contenuti sono frutto di una raccolta dei testi più significativi in relazione agli obiettivi della pubblicazione selezionati tra l’abbondante materiale di archivio, spesso fram-

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mentario, conservato nello studio professionale di Fredi Drugman, nel suo ufficio presso il Dipartimento di Progettazione dell’Architettura, nella biblioteca del Dipartimento e in quella Centrale di Architettura del Politecnico e nel Centro di Documentazione di Museologia e Museografia presso la sede italiana di ICOM al museo “Leonardo da Vinci” di Milano. I testi sono stati riportati in maniera integrale senza interventi redazionali, raggruppati tematicamente e organizzati cronologicamente a strutturare il prologo e le tre distinte parti del libro che testimoniano l’ampiezza e la ricchezza della ricerca di Drug­ man nel campo museale che dagli anni Ottanta in poi, sempre e comunque, viene visto come soggetto da indagare e come campo sperimentale, ove continuare ad applicare la didattica e la ricerca. La prima parte, “Il museo diffuso”, dedicata a una tra le più fertili visioni di Drugman, la seconda, “Musei per il sapere”, che esplora i temi e i problemi legati al progetto per i musei della scienza, e la terza, “Culture in mostra”, centrata sulla disciplina dell’allestimento, restituiscono un impegno e una serie di proposte di sviluppo culturale e civile che, come sottolinea Gianni Ottolini, al di là dello sconforto per l’incapacità di ascolto delle istituzioni responsabili, costituiscono un giacimento disponibile di visioni per il futuro cui si può ancora attingere. Chi si dovesse avvicinare per la prima volta al lavoro di Fredi Drugman attraverso Lo specchio dei desideri non può non rimanere colpito dalla passione con cui

egli portava avanti la sua attività di ricerca e dall’estrema attualità delle sue idee, ritrovandovi domande, provocazioni e temi che sono ancora oggi al centro del dibattito europeo intorno ai musei contemporanei: il ruolo del museo, il rapporto tra oggetto, museo e allestimento, la relazione con il visitatore, la responsabilità dell’allestitore e dell’ordinatore, la relazione del museo con la città, il territorio e scuola, il suo ruolo sociale e culturale, … un caleidoscopio di suggestioni formulate da un acrobata, giocoliere e visionario che ancora oggi sa stimolare e innescare feconde riflessioni. Drugman, scrive Luca Basso Peressut, ha sviluppato una linea di sicura e personale originalità, che questi saggi ben testimoniano, legata innanzitutto all’importanza dell’architettura, rivendicando “alla sapienza dell’architetto” un ruolo di regia nella complessa messa in opera dei musei e dei loro allestimenti. Una figura, quella di Fredi Drugman, che emerge dalle pagine di questo libro in modo chiaro e sfaccettato, tanto attraverso queste sue ricerche teoriche, progettuali e didattiche, quanto dagli “appunti per un ritratto” di amici, colleghi e collaboratori che costituisco la quarta parte del libro e sua conclusione. Forte era in lui il senso del ruolo, del mestiere di architetto e del progetto di architettura, che egli intendeva come responsabilità civile e sociale, una convinzione che Drugman ha saputo riportare tanto nei suoi progetti e nella sua ricerca quanto nella appassionata didattica al cui centro era, come ci ricorda ancora Gianni Ottolini, il


valore formativo di personalità. Ritorna spesso nelle testimonianze il riferimento a quel­l’attitudine al progettuale che ha contraddistinto costantemente il suo carattere, il suo particolare modo di stare al mondo, anche al di là del mestiere, al di là del suo ruolo di docente. Proprio da questa attitudine al progetto, che Drugman ha fatto sua dalla formazione con Albini e che ha cercato di applicare in ogni campo della sua ampia attività, ci pare scaturire la forza delle sue visioni, la loro capacità di alimentare tuttora progetti e ricerche in seno a quel “gruppo” che con lui intraprese un’avventura intellettuale che ancora oggi, ci ricorda Basso, pur in sua assenza, prosegue. In conclusione significativa e degna di una specifica riflessione ci sembra anche la scelta di pubblicare Lo specchio dei desideri all’interno della collana “Museo Poli: Luoghi per il sapere” fondata nel 1994 dallo stesso Drugman per le edizioni CLUEB, come ricorda Maria Gregorio curatrice della collana, in riferimento all’amato Politecnico ma anche e soprattutto per tradurre in parola l’idea di una “polis” idea­ le, grande quanto il mondo, punteggiata di innumerevoli musei, dei quali ciascuno di noi si deve sentire proprietario e referente privilegiato e nata dal sogno di sollecitare anche in Italia il diffondersi di una “cultura del museo”. “MuseoPoli” porta avanti ancora oggi con il patrocinio di ICOM Italia questa missione attraverso la pubblicazione di selezionati volumi tra cui anche questo “progetto di carta”, il cui fine ultimo come dichiara Mariella Brenna, è quel-

lo di servire se non altro a ribadire che la cultura non è culto, ma è, come lui diceva, coltura, è sapere coltivare il sapere. F. L. P. Balmas, A. Capasso (a cura di), ABO. Arte e le teorie di turno. Omaggio ad Achille Bonito Oliva, Electa, Milano 2011. Per gli ottant’anni di Achille Bonito Oliva una scrittura corale sulla figura e l’opera del controverso critico non poteva che tradursi in un forum sui temi, le finalità, le patologie e le prospettive, se possibili, dell’arte contemporanea al tempo di una cultura che, non potendone più accreditare l’universalità e l’eternità, la vede protesa verso una presunta liberazione […] che finisce per risolversi in ambiguità (Vattimo). Il risultato è una summa articolata, densa, di altissimo profilo argomentativo, le cui premesse sono in realtà già contenute nel­ l’Ideologia del traditore, il manifesto dove lo stesso ABO dispiegava tutte le presunte qualità del postmodernismo (complessità, la­birinticità, prospettivismo, eclettismo, relativismo, sincretismo, decostruzionismo o decostruttivismo, nichilismo, anti-illuminismo o meglio antimodernismo) mettendole al servizio di una lettura provocatoria ma adeguata del presente, trasformando così il tempo storico in tempo critico e ipotizzando un futuro praticabile per l’arte nella convinzione che soltanto la critica […] potrà fare in modo

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che i valori qualitativi, di cui l’arte è sempre stata garante, scompaiano in una cultura che sarà certamente […] quantitativa. Di qui la centralità del critico come attore di comportamen­ to, la sua partecipazione diretta al territorio dell’arte, che è caratteristica ineludibile di ABO in quanto esegeta, poeta, curatore o “guaritore” sempre strenuamente proclamatosi portatore sano del valore perlocutorio dell’arte (Capasso). Ciò che interessa davvero di una simile querelle è che esisterebbe, ancora!, un problema etico al di là di quello puramente estetico-filosofico che sottende ad esempio l’impianto critico di un Argan (come nota Cacciari), e questo problema riguarda l’intenzionalità di valore che informa l’intero processo creativo, quella intenzione di valore che consiste proprio nel manifestare contenuti, interessi, passioni della soggettività creatrice. L’Arte – che di fondo resterebbe ex-pressione – non rappresenta allora principi formali astratti ma coincidenza di verità e realtà, finzione e dramma esistenziale (come in Caravaggio e Tiziano): Argan avrebbe colto in ciò il senso vero del MODERNO! L’antinaturalismo non sarebbe allora opposizione alla natura ma rivalutazione dell’immaginazione costruttiva: il soggetto non comprende soltanto con la mente, ma anche sentendo, avvertendo, immaginando. Arte bella significa epifania della forma perfettamente risolta nel logos delle sue proporzioni, manifestazione della verità che insiste in una sfera comune con la religione e la filosofia. Contro il rischio di intellettualizzazione

insito nella lettura artistica di matrice hegeliana (affermazione dell’io come soggetto di ogni forma di creatività) e contro qualsiasi “teologia dell’arte” (alla Benjamin), Argan ha ricondotto l’essenza ultima dell’arte al trapasso […] tra l’idea assoluta del Vero e la sua manifestazione, il suo apparire. Non c’è Verum che non si incarni, non c’è Logos che non si manifesti este­ ticamente come nell’icona del Crocifisso dove avviene il passaggio dal divino al mortale! Cacciari indica quindi in Argan l’istanza etica dell’operazione critica come opposizione alla seduzione del puro gesto, al velleitarismo e all’esasperazione ludica che grava sui fenomeni artistici contemporanei: un evidente richiamo contro la mistificazione dell’arte e del critico, contro quel movimento oscillatorio […] che converte la cultura in controcultura e uno sputo in acqua benedetta (Castro Florez). Nella traccia di una simile deriva persino il museo appare istituzione in bilico tra narcisismo e impressione di futilità, discorso per iniziati e necessità di intrattenere le masse […], apoteosi del­ l’arte come territorio inoperoso, soggetto al dominio corruttore del détournement ovvero a quelle tecniche di evasione, mistificazione e spostamento delle aspettative normative della cultura che servono l’obiettivo di smantellare le modalità comunicative consolidate permettendo all’arte di reinventare la nullità, l’insignificanza e il nonsenso là dove, invece, essa consisterebbe nel lasciare aperta […] la via del senso, fuggendo sia dal dogmatismo che dalla piccolezza.


La critica attuale, secondo Wolfe, avrebbe soppiantato l’arte con la trasformazione del curatore in una figura poliedrica capace di subordinare a lui tutto quanto e Baudrillard rincara questa posizione radiografando un’arte iconoclastica che non consiste più nel creare immagini quanto nel produrne un’abbondanza in cui non c’è niente da vedere. Tutto scivola nel dé­ tournement, vita messa in scena da idioti, impero dell’ipervisibile dove lo stupore si cristallizza nella forma piuttosto che nel senso che vi si annida. Celant, in linea con gli accenti posti sul détournement e le strategie di manipolazione dei codici, dichiara impossibile ignorare il parallelo con l’invenzione (di sé e del­ l’opera) messa in atto da Warhol: la caduta del soggetto a favore del prodotto e il passaggio dal personale all’impersonale in una forma d’arte che, in diretta eredità dal processo di “cosificazione” di Duchamp, vive di immagini collettive, popolari, neutrali ed indifferenti le quali, spostando l’attenzione dall’eccezionalità dell’individualità creativa alla produzione uniforme, frantumano l’aura dell’unicum a favore dell’irreale, dell’artificiale, del puramente immaginario: come evidente nella serie dei Big Elec­ tric Chair, l’artista si fa registratore di assenza, […] fantasma che documenta la transizione del tempo concretizzato in istanti fotografici, […] automa o cadavere vivente che si muove in tutte le direzioni, assecondando questo continuo processo di morte e rinascita dell’immagine. Diventato così inquinatore e distruttore, il demiurgo cinico di

Warhol addita l’estremo strappo avvenuto nel secolo scorso quando all’arte viene attribuito valore di scambio piuttosto che compito estetico o morale. La sfida diventa ora rendere definitiva ed assoluta la certezza che tutto sia arte ed il metodo adottato per farlo è quello della dialettica tra relativizzazione e assolutizzazione: così finisce che il rapporto tra la banalità del marchio pubblicitario e la potenza del bene ideale maturi, ad esempio, nel prodigio della Last Supper, la ‘grande opera’ dove, finalmente, si compie il millenario dialogo tra dentro e fuori, tra essere e apparire, tra finito e infinito e il corpo glorioso si fissa in un’energia contemporanea, mettendo in relazione la figura di Cristo con la figura industriale per riscattare l’effimero in un superessere. In questa logica, rileva Andrea Cortellessa, lo stesso Manuale di volo di ABO fornisce chiavi di lettura lapidarie al fenomeno del­ l’arte contemporanea considerata nel suo peculiare materialismo che non orienta, non indirizza, non istruisce, […] non redime né educa. Il critico, sterile ed opportunista don Giovanni della conoscenza, non ha stile perché li ha tutti, da usare, simulare e dissimulare a seconda delle circostanze […], privo di qualsiasi vocazione […], stabilisce volta per volta rapporti, stringe allean­ ze, promuove ostilità in modo che l’onnipotenza del suo linguaggio possa riconoscere tutti gli altri e, nel vuoto della sua identità cancellata, riassumere e vedere quella trasformista e instabile, cangiante e imprevedibile dell’arte al suo intorno. Sedotto mortalmente dalla Gorgo-

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ne, come un novello Perseo, egli ha incontrato il mondo seppur terribile di Medusa attraverso l’immagine e ora deve superarlo di slancio, trionfando come già Giuditta su Oloferne, in un’a­ nalogia incrociata (chiasmo) di maschile/femminile. Per il ‘critico militare’ la missione diventa così la narrazione dello stato conflittuale della vita, un compito demiurgico di intuizione che, specifica Fazia, serve a spingere la vita verso una condizione di impossibilità la cui visione apre di colpo l’idea di casualità e imponderabilità, tra artificialità, creatività, […] soggettività ed epocalità secondo quel principio di interferenza che gli permette di […] assemblare e convocare presenze e assenze […], ridurre passato e presente, storia e cronaca, pensiero e analisi, lingua e fantasie in stati e movimenti interpretativi di un’ampiezza fantasmagorica e allegorica mai vista, […] di strana e vorticosa pertinenza immaginativa. Achille Bonito Oliva, e con lui il golem dell’intellettuale-artista, pratica un sapere esclusivo ed impareggiabile, […] chiude e schiude l’arte alla sua leggenda totale quando le cose si liberano dai loro impianti creaturali, rea­ li o immaginari, e si ricreano dentro le loro stesse avarie vuote, caotiche e senza più destino. Sia che si tratti di ‘interpretazione’ o di ‘creazione’ non resiste comunque alcun problema mora­ le in questo processo di trasferimento dell’idea al mondo immanente delle cose perché, come osserva Jan Hoet, l’arte è sempre finzione, […] fa finta di vertere su una determinata realtà e funziona come una forma

estetica senza per questo agire effettivamente in un determinato modo, azione pionieristica, ‘odisseica’ (Giorello), che si nutre del solo fare restando sostanzialmente indifferente alle ricadute di valore. Atteggiamento certamente cinico ma necessario al superamento dei limiti e propedeutico alla formazione di una ultra-coscienza finalmente laterale, sdoppiata (Marramao), in grado di trascendere tutti i linguaggi e preparare quella inespungibilità dell’eccesso e del campo di tensione [in cui] possiamo rovesciare […] il detto dell’Ecclesiaste (Vanitas vani­ tatum) nel principio Todo es plenitud. D’altra parte, intesi sotto un profilo socio-economico (Mendini) la densità, l’affollamento di segni e la ridondanza del linguaggio costituiscono anche i requisiti primi della confusione: ed ecco che, nel (poco) spazio lasciato vacuo fra l’arte e il conformismo si estende la terra desolata del kitsch [che] si rivela durante la promozione della civiltà borghese nel momento in cui essa assume il carattere di affluenza, cioè di eccesso dei mezzi sui bisogni, espressione di uno specifico «rap­ porto quotidiano dell’uomo con l’ambiente» in cui la Natura è un errore superato dalla Storia e tutto si fa artificiale, anzi: artificio globale, opaco e alienante in un tempo vuoto di senso da riempire di nulla! Di un simile tradi­ mento della verità oggettuale e psicologica del reale è ancora il critico a farsi carico, come annota l’amico di ABO (e intellettuale) Umberto Silva quando tenta di circoscriverne il ruolo e la natura molteplice, ambivalente di


fronte all’opera d’arte e alla vita stessa: artista di artisti, fatto della loro stessa materia mercuriale, Achille non è fedele a niente e a nessuno, nemmeno a se stesso: la sua è incessante trasformazione. […] Ha fede Achille, non fedeltà. […] Non spiega il mondo ma lo piega, conferendo uno statuto a un caos altrimenti destinato alla dimenticanza. E se Leibniz si interrogava sul «perché qualcosa e non il nulla?», ABO aderisce in pieno alla risposta originale secondo cui «il qualcosa è più difficile a farsi» e, nell’arte contemporanea, «è difficilissimo, al limite dell’impossibile». Ad un diverso “qualcosa” si interessa Renato De Fusco che, scevro da fascinazioni eccentriche e fedele al ben noto atteggiamento “riduzionistico” in grado di sistematizzare contenuti complessi altrimenti soggetti all’arbitrio dell’interpretazione, indaga con metodo il «qualcos’altro» insito nella teoria e nella pratica del design con l’intento di neutralizzarne le contraddizioni svelandone motivi di crisi e vie di uscita. In stretta relazione con le avanguardie artistiche del Novecento, si tratterebbe qui di conciliare il mondo della tecnica con quello dello spirito, […] la sfera del­ l’utile con quella del futile rivalutando al contempo quella cultura degli -ismi che, attraverso la sua ricchezza di trovate, ha incassato almeno il merito di aver agitato il problema dell’arte che, se fosse dipeso dallo “strapotere dell’esistente”, sarebbe stato definitivamente accantonato. Eppure anche così, di fronte all’ipertrofia inventiva della ricerca artistica contem-

poranea, l’architettura e il design, benché anch’essi confinati in una sfera sovrastrutturale per mancanza di una adeguata committenza […], appaiono estremamente lenti, impacciati ed indecisi, alle prese con una confusa mancanza di ispirazione che, mentre per la prima può risolversi in extremis nel ricorso agli stili storici, per il secondo necessita invece di un richiamo ad un referente, a valori condivisi dalla maggioranza, ad un codice linguistico-formale comune, ad una maggiore accessibilità tanto culturale quanto economica. In altre parole, la questione del design si dimostra radicalmente diversa dal dibattito sull’architettura implicando un atteggiamento critico calibrato su una triplice riduzione: l’isolamento degli oggetti domestici dal resto del panorama produttivo, con il relativo rispetto delle loro peculiarità merceologiche specifiche; la lettura dell’oggetto nel quadro del fattore gusto, esente da quei condizionamenti tecnici che ne dirottano la valutazione su componenti accessorie svincolandola dalla sintonia tra cultura del pubblico e cultura del design; una ritrovata costante formale tale che dall’insieme di tanti mobili singoli […] si possa ricostruire, opportunamente ridisegnandoli, un solido legame. Premesse che, con coerenza, non possono che confluire nel ridimensionamento del design dall’epica inapplicabile di grande progetto pedagogico ed utopistico a strumento di miglioramento ordinario della qualità della vita. Un obiettivo condiviso per altre vie da chi, come Paul Virilio, diagnosticando per la so-

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cietà contemporanea una devastante ipertrofia dell’apparenza, auspica una rinnovata etica della percezione capace di correggere questa patologia indotta dall’eccesso di industrializzazione del­ l’immagine che ci ha spinti sul punto di perdere lo statuto di testimone oculare della realtà sensibile a beneficio di statuti tecnici, di protesi che degenerano facilmente in una sorta di standardizzazione, in un «disordine visivo» dove, forse, non siamo davvero liberi di scegliere ciò che vediamo. La deriva tecnico-scientifica innescata dall’inflazione di tecnologie connesse allo sguardo (dai software dedicati fino ai proiettori Omnimax e alle microchirurgie oculari) allarma circa la «probabilità di un trattamento neurotecnico del­ l’imagerie mentale e oculare». Nelle nuove forme di comunicazione visiva, dunque, l’ibridazione e la velocizzazione del linguaggio ‘di sorgente’ forzano l’autonomia percettiva individuale oltre la misura della comprensione trasformando gli stimoli sensoriali in comandi per fare la guerra alla libertà di coscienza. Ne discende che l’intero dibattito critico fin qui annodato intorno alla sommersione della verità effettuale della cosa a favore di parole ed immagini nella materia dell’arte matura la sola conclusione possibile – di fondo pessimista – che nel rapporto deviato tra il pubblico e la creazione artistica la figura di un ABO, così come quella generica del media­ tore, prenda corpo non per rispondere alle esigenze spietate di un mercato che richiede sempre più flessibilità ma perché curatori ed artisti vivono en-

trambi un eguale “stato di perplessità”, una condizione di incertezza e trasformazione che, è questa la speranza, costringerà gli uni e gli altri a formulare continuamente nuovi problemi. A individuare nuovi, impertinenti stratagemmi creativi (Zuliani). F. R. S. Vitale, L’estetica dell’archi­ tettura e altri scritti, edizione critica a cura di C. Lenza, Editrice Compositori, Bologna 2010. L’elegante collana Trattati per l’architettura moderna di Editrice Compositori dedica un volume a una selezione di scritti di Salvatore Vitale, proposti nell’edizione critica di Cettina Lenza. Importante figura di intellettuale italiano, Vitale, grazie a una solida formazione, interviene sulle più svariate tematiche culturali nel corso di una lunga carriera professionale, che inizia nel 1910, con i primi incarichi amministrativi nel Ministero della Pubblica Istruzione, e arriva fino al secondo dopoguerra. I testi qui riuniti mirano a ricostruire il pensiero di Vitale sul­ l’architettura, tema centrale nella riflessione dello studioso, a ragione definito da Renato De Fusco nella prefazione come “uno dei primi estetologi dell’architettura italiani”. La riedizione di Estetica dell’architettura. Saggio sullo sviluppo dello spirito co­ struttivo, apparso per la prima volta nel 1928, e di Attualità del­ l’architettura. Ricostruzione ur­ banistica e composizione spazia­


le, del 1947, è quindi seguita da una selezione di scritti inediti sulle arti figurative. Questi ultimi, se da un lato consentono di precisare la concezione teorica e l’impostazione metodologica del­ ­l’autore, dall’altro, diventano l’oc­ casione, nell’introduzione di Cet­ tina Lenza, per gettare uno sguardo sulla vasta produzione di Vitale rimasta inedita, confermando la molteplicità di interessi del­ l’autore. Il volume si apre con la prefazione di De Fusco, che con grande equilibrio e discrezione, riesce a intrecciare osservazioni critiche e ricordi personali, in una trama di vicende intellettuali e umane che lo vede coinvolto in prima persona. Il tutto all’interno di un rapido sguardo sul volume, dal quale emergono sia i punti di interesse dei testi originali in esso riproposti, sia il rigore del lavoro critico di Cettina Lenza. Punti di interesse che, in effetti, sono molto numerosi e messi in evidenza dall’introduzione e dagli apparati (note e bibliografia), redatti dalla curatrice a partire da uno scrupoloso studio filologico. Il sopralluogo in diversi archivi e biblioteche e la consultazione della documentazione conservata presso la famiglia Vitale ha permesso la ricostruzione delle vicende editoriali dei diversi scritti, così come la loro ricezione da parte della critica, nel caso dei due testi pubblicati. Emergono, in questo modo, figure di intellettuali e architetti, tematiche filosofiche e architettoniche, politiche editoriali e problematiche socio-economiche, attraverso le quali il caso specifico di Salvatore Vitale diventa emblematico del dibattito cultu-

rale italiano della prima metà del Novecento. Tratto caratterizzante della figura di Vitale è il rapporto con il maestro Benedetto Croce. Rapporto che in alcuni casi ha visto maestro e allievo fronteggiarsi su posizioni opposte, come nel caso della critica avanzata da Croce nei confronti dell’Estetica del­ l’architettura, della quale non condivide alcune prese di posizione. In primo luogo, il rapporto tra l’architettura e le altre arti, che secondo Croce sono racchiudibili all’interno di un’unica concezione estetica, viene ribaltato da Vitale, che delinea, invece, i contorni di un’estetica peculiare dell’architettura. In secondo luogo, il concetto di stile, che per Croce deve essere volto ad evidenziare l’individualità dell’artista, mentre per il suo allievo può essere esteso a epoche o correnti. Del resto lo stesso Vitale, nella sua Estetica, non esita a mettere in dubbio alcuni capisaldi della teoria del proprio maestro, laddove quest’ultimo propone, ad esempio, il superamento della distinzione tra le arti imitative, ossia pittura, scultura e poesia, e le arti non imitative, vale a dire musica e architettura. Tuttavia, come osserva Cettina Lenza, “non pochi dei limiti imputati in ambito critico-estetico al volume di Vitale si ribaltano in motivi di interesse per gli architetti”. Plinio Marconi, Edoardo Persico, Marcello Piacentini e Gustavo Giovannoni, sono solo alcuni dei critici d’arte e architetti che hanno mostrato vivo apprezzamento per il testo di Vitale del 1928. D’altra parte, Vitale tocca i temi più scottanti del coevo dibattito sull’architettura, co-

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me la ricerca di unitarietà nella concezione estetica, il rapporto con l’industria e la tecnica, l’uso dei più recenti materiali da costruzione, attraverso un ampio numero di riferimenti, che spaziano dalla filosofia all’architettura, dal mondo antico alla contemporaneità, alla quale dedica particolare attenzione nella stesura finale del saggio, aggiornata rispetto ad un primo nucleo originario del 1926. Nel secondo dopoguerra Vitale è attivamente coinvolto nel dibattito che si sviluppa intorno alla ricostruzione, come dimostrano sia i numerosi articoli pubblicati su vari periodici, sia il volume Attualità dell’architettura. Ricostruzione urbanistica e com­ posizione spaziale. Il titolo e il sottotitolo indicano già in modo chiaro le intenzioni di Vitale di fornire risposte concrete alle questioni pratiche e teoriche del secondo dopoguerra, come del resto confermano anche i diversi capitoli, dove compaiono termini centrali nel dibattito architettonico coevo e dei decenni successivi, come “nuovo stile”, “paesaggio”, “tendenze dell’architettura contemporanea”, “la casa del­ l’uo­mo”, “tecnica e cosmopolitismo”, “decongestionamento urbano” e altri. Il testo, sin dal momento della presentazione all’editore, dimostra una non sempre riuscita integrazione tra questioni prettamente filosofiche, in parte riviste rispetto a quanto affermato nel­l’E­ stetica, e riferimenti alla pubblicistica architettonica, con un elevato numero di esempi che, se da un lato manifestano il tentativo dell’autore di avvicinarsi il più possibile alle più cogenti que-

stioni urbanistiche e architettoniche legate alla ricostruzione, dal­ l’altro rischiano di rendere la trattazione un poco dispersiva. Il testo presenta, tuttavia, numerosi punti di interesse che non sfuggono a Carlo Ludovico Ragghianti, consultato dall’editore Franco Laterza, cui Vitale aveva proposto di pubblicare il manoscritto. Dopo la pubblicazione, il volume non mancherà di suscitare l’attenzione della critica, che non sempre si esprimerà in modo favorevole. Di particolare interesse, la polemica con Bruno Zevi – cui Cettina Lenza dedica alcune pagine dell’introduzione – non tanto per i toni sempre più accesi dei due interlocutori, quanto per gli interessanti nodi critici sollevati. La terza e ultima parte del volume presenta una selezione di scritti inediti di Vitale, il primo dei quali è la trascrizione di un capitolo tratto da La nascita del paesaggio. Natura e arte, scritto una prima volta nel 1928 e aggiornato nel secondo dopoguerra; il secondo è estrapolato da un manoscritto risalente alla fine degli anni Cinquanta dal titolo La formazione dell’opera d’arte. Lu­ce, chiaroscuro e colore; l’ultimo è costituito dalla trascrizione di due capitoli del volume In­ troduzione alla storia delle arti figurative, non datato. Anche per questi tre inediti, documenti originali, come lettere, carte e taccuini, consentono di ricostruire le vicende editoriali dei testi, la loro proposta da parte di Vitale agli editori e le ragioni del rifiuto da parte di questi ultimi. Lo scritto sul paesaggio presenta punti di interesse in particolare per il taglio interpretativo


dell’autore, che propone una lettura della storia e teoria della pittura attaverso la chiave di lettura del paesaggio, in cui riecheggiano le riflessioni coeve sorte intorno alle prime leggi sulla tutela paesaggisitica. Una concezione estetica della natura unita al­ l’esortazione al rispetto della natura stessa, “da noi stessi violentata e pervertita, che ci si mostra, perciò, sotto i suoi aspetti più mostruosi e ripugnanti, mentre è solo rispondendo al nostro amore che potrà mostrarsi a noi sotto il suo vero aspetto, come eterna bellezza capace di ispirare la divina e rinnovata creazione del­ l’arte”. Il secondo inedito, La forma­ zione dell’opera d’arte, nonostante il tentativo di pubblicazione da parte di Vitale, con due editori diversi, resta nella sua versione manoscritta. Il tentativo di leggere l’arte attraverso elementi quali la luce e il chiaroscuro implica immediatamente un rimando all’architettura, evidenziato, tra l’altro, dallo stesso Vitale. Restano ancora evidenti in questo testo, da un lato, il riferimento al maestro Benedetto Croce come termine di paragone imprescindibile, dall’altro, una visione del­ l’arte, e dell’architettura in particolare, basata sulle sue specifiche caratteristiche spaziali. Infine, il testo che, nelle parole di Cettina Lenza, risulta essere “il più maturo nell’ambito della produzione di scritti sull’arte di Vitale”, ossia l’Introduzione alla storia delle arti figurative. In esso si conferma la distanza presa da Vitale nei confronti di alcuni punti del pensiero di Croce, già emersi negli scritti precedenti, in particolare nell’Estetica. Nello

specifico, la possibilità, prospettata da Vitale – e in direzione contraria rispetto ai capisaldi crociani – “di saldare teoria e storia mediante un piano intermedio tra il carattere assoluto e universale dell’arte e la molteplicità e individualità delle singole opere, grazie al ricorso a categorie estetiche”. Sicuramente questo punto di vista rappresenta uno dei numerosi elementi di orginalità del pensiero di Vitale, che gli valsero gli apprezzamenti dei contemporanei e di chi, tuttora, si interessa al ruolo della critica d’arte. M. L. G. Brooker, S. Stone, Proget­ tare l’architettura di interni, Zanichelli, Milano 2010. Graeme Brooker e Sally Stone sono coautori di diversi testi ed entrambi lavorano a Manchester, il primo come interior designer e docente presso la Manchester Metropolitan University, mentre la Stone dirige il College of Continuity in Architecture presso la Manchester School of Architecture. Il volume Progettare l’ar­ chitettura di interni nasce a partire dalle loro esperienze professionali e si propone come uno strumento di studio e conoscenza non solo per gli studenti di architettura e design, ma anche per professionisti del settore o semplici appassionati: così si legge sulla quarta di copertina che riassume il libro. E in effetti l’intento è quello di analizzare il processo di progettazione di uno spazio interno e di fornire uno schema di «principi base» che il progettista deve prendere in con-

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siderazione nello sviluppo del suo lavoro. Il compito è arduo, data la vastità del tema e delle problematiche a esso correlate, ma gli autori razionalizzano al massimo il processo progettuale e tentano di definire in modo oggettivo e schematico tutte le variabili individuate. L’attenzione viene posta principalmente alle questioni che riguardano la forma e la struttura dell’edificio, come chiarisce meglio il titolo originale Basic Inte­ rior Design: Form & Structure. Il libro si presenta come una raccolta di casi studio funzionali alla definizione di ciascuno dei concetti chiave individuati dagli autori. Brooker e Stone propongono quindi l’individuazione di una strada da seguire nella progettazione d’interni nella scelta di un metodo basato sul processo piuttosto che sulla funzione [attraverso la] lettura minuziosa e approfondita dello stato di fatto e dello spazio di progetto di una serie di interventi eterogenei per complessità ed epoca. Si parte dal concetto che l’architettura di interni contemporanea deve intervenire, nella maggior parte dei casi, in architetture esistenti. Per questo motivo la sezione introduttiva del libro si focalizza sulla definizione delle nozioni di Architettura di Interni, Interior Design e Riuso Strategi­ co degli Edifici, cercando di chiarire i diversi livelli di confronto con l’edificio o lo spazio che quelle comportano. Secondo gli autori, Architettura di Interni e Interior Design sono entrambi processi che affrontano la manipolazione del volume tridimensionale e si differenziano principalmente per la

tipologia e la grandezza di intervento sulla struttura dell’edificio. L’Architettura di Interni, infatti, fa da ponte tra l’Interior Design e l’Architettura, [occupandosi] esclusivamente del riadattamento di edifici preesistenti e affrontando spesso complessi problemi strutturali, ambientali e manutentivi. Il termine Interior Design, invece, individua una pratica interdisciplinare che si occupa della creazione di ambienti interni che articolino l’identità e l’atmosfera attraverso la manipolazione del volume spaziale, la disposizione di elementi specifici come gli arredi e la finitura di superfici. Brooker e Stone stabiliscono, poi, che il termine si riferisce a «progetti che richiedono modifiche strutturali limitate, se non nulle, all’edificio esistente». Affermazione forse un po’ azzardata, di cui si rendono conto gli stessi autori, che infatti correggono il tiro sottolineando che «su questo punto le eccezioni sono numerose». Altro discorso, infine, è quello dell’Allestimento di Interni, ovvero l’arte di organizzare gli spazi o gli ambienti interni in modo da conferire loro un particolare carattere che si adatti all’architettura esistente, [confrontandosi con] problemi come le caratteristiche delle superfici, la decorazione, gli arredi, i tessuti d’arredo, l’illuminazione e la scelta dei materiali. Subito di seguito, nella sezione denominata Riuso e Redesign, vengono esaminati vari approcci alla creazione dello spazio attraverso la descrizione di alcune possibilità di intervento come la Conservazione, il Restauro, la Ristrutturazione, il Riadattamen-


to, la Combinazione e ciò che gli autori definiscono la «Funzione Futura», ovvero la necessità di conoscere e considerare in fase di progettazione le necessità dei futuri utenti. Questa prima, densissima parte vorrebbe quindi dare delle definizioni standard grazie alle quali sia possibile assumere un diverso punto di vista nell’analisi di un progetto di interni. La semplificazione del problema è portata al limite ma, d’altra parte, è apprezzabile il tentativo, constatando che lo spazio a disposizione di questa spiegazione è limitato e, oltretutto, irrigidito dalla scelta grafica di presentare una scheda riassuntiva per ogni termine. Ci si addentra poi nel racconto e nella spiegazione di questioni più tecniche strettamente connesse al lavoro progettuale, ovvero il confronto con l’Edificio preesi­ stente e la lettura dei Metodi di organizzazione dello spazio. Un edificio può essere letto a partire dal disegno della Pianta, oppure di una Sezione, o di un Alzato o, ancora, dalla Forma Tridimensionalmente data contestualmente dalle tre dimensioni sopra citate. Di un edificio, è importante conoscere la Storia, valutare il Contesto e l’Ambiente in cui è collocato. L’Analisi del sistema strutturale, a muri portanti o a scheletro, ci racconta anche il ritmo spaziale, la forma e l’equilibrio di un interno. La struttura a muri portanti dà luogo a un ambiente chiuso, o meglio a quello che Adolf Loos ha definito Raum­ plan, la progettazione di stanze che, non più vincolate ad un piano uguale per tutte, stanno a livelli diversi […] correlandosi

in un tutto armonico e inscindibile che sfrutta al massimo il blocco edilizio. La struttura a scheletro invece determina il plan libre di Le Corbusier, nucleo fondamentale dei cinque punti dell’architettura. I due metodi di organizzazione spaziale vengono messi a confronto attraverso la lettura di sei casi studio ciascuno, secondo le categorie di Simmetria, Asimmetria, Equilibrio, Ritmo, Addizione e Playstation, ovvero un particolare approccio alla progettazione in cui il progettista costruisce una narrazione composta da una serie di esperienze non correlate ma che riguardano lo stesso tema, ognuna delle quali è conclusa in se stessa e spesso dotata di un punto di inizio e di conclusione, in modo non dissimile da quanto avviene nei videogiochi. Possiamo dire che in questa prima parte il testo propone la lettura del preesistente, e la definizione e catalogazione di concetti base. Nella seconda parte, invece, gli autori passano alla analisi e alla definizione dello spazio interno. Il progetto di interni può dialogare con la struttura dell’edificio (è il caso degli Interni Interagenti) oppure ne prende le distanze (è il caso degli Interni Autonomi). Con l’ausilio di schemi planimetrici e tridimensionali, vengono individuati tre atteggiamenti progettuali per gli interni interagenti e tre per gli interni autonomi. I primi tre sono l’Elaborazione, ovvero quando la lettura dell’edificio porta il progettista a riconoscere il carattere dell’originale e a servirsene come spunto per il riadattamento; l’Inserimento, cioè il progetto di un singolo elemento

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forte da inserire nello spazio preesistente; l’Installazione, in cui edificio ed elementi progettati coesistono indipendentemente. Per gli Interni Autonomi vengono individuate, invece, le categorie di Dissimulazione, cioè la creazione di un nuovo rivestimento per coprire le superfici dello spazio originale attribuendogli l’aspetto di un ambiente completamente nuovo; Assemblaggio, ossia interni anonimi che si limitano a contenere una serie di elementi connessi tra loro mentre l’ambiente circostante è trattato in modo neutro; Combinazione, ovvero un approccio che integra la Dissimulazione e l’Assemblaggio, in cui l’esistente è trattato come una scatola. Secondo Brooker e Stone quest’ultimo approccio è tipico di buona parte del design attuale dei punti vendita, in cui il progettista sviluppa un concept applicabile a livello nazionale o persino internazionale, e il progetto deve essere sufficientemente flessibile da adattarsi a molti spazi e luoghi diversi. L’ultima parte è dedicata all’analisi di Elementi che organizzano lo spazio, che danno carattere, definiscono le qualità e le caratteristiche dell’edificio. In alcuni casi è un Oggetto che, disposto nello spazio, genera un punto focale, un’articolazione che favorisce il movimento e la disposizione delle funzioni. Oppure è un Piano, che sia muro, pavimento o soffitto, a organizzare lo spazio e a controllare i limiti visivi e fisici. In alcuni progetti, invece, è la Sequenza, o circolazione, negli spazi dell’edificio che caratterizza l’interno. La Luce, naturale o artificiale, ri-

vela lo spazio e suggerisce percorsi e interpretazioni. O ancora, l’attenzione all’Ingresso, il progetto della soglia, come spazio che segna la differenza tra interno o esterno, o un passaggio tra ambienti diversi e sottolinea l’esperienza del cambiamento. E, infine, la scelta della Texture, intesa sia come materiale che come colore, conferisce «personalità allo spazio e stabilisce una relazione diretta tra le persone che lo occupano e l’edificio stesso». Giunti alla fine del libro l’impressione è che si sia partiti dai massimi sistemi per arrivare al dettaglio di progetto attraverso una sequenza di immagini, in alcuni momenti molto rapida, tagliando, condensando e sintetizzando per cercare di raccontare un processo che, nella realtà, richiede tempo, riflessione ed elaborazione. Leggendo l’indice del testo comunque si riconosce agli autori la capacità di sintesi e di scelta, la conoscenza, anche pratica, del lavoro progettuale e l’attenzione alle problematiche del progetto contemporaneo, con uno sguardo e un’interpretazione personale interessanti. I. P. Il nuovo Museo del Novecento, Milano 2010. Conservare, promuovere e mostrare la cultura artistica del ventesimo secolo è un compito di grande responsabilità, soprattutto quando la scelta delle opere avviene in un bacino di circa quattromila pezzi di proprietà delle Civiche Raccolte d’Arte milanesi. Solo quattrocento, per il mo-


mento, hanno trovato spazio in questo nuovo organismo imploso all’interno del Palazzo dell’Arengario. Milano con il Museo del Novecento riscopre le opere che per un lungo periodo sono state il nucleo fondativo di un’avanguardia internazionale, rivelando un periodo storico in cui la città si nutriva della propria capacità di rinnovamento e trasformazione. Il Comune libera finalmente le sue collezioni più significative riempiendo, con grande misura, quella enigmatica assenza di lavori acquistati e donati nel tempo da artisti, eredi, fondazioni e collezionisti, che nell’arte hanno sempre creduto conservando e investendo in una realtà di totale discontinuità istituzionale. Paradossalmente il Museo del Novecento sembra essere sempre esistito, si configura come una realtà preesistente diffusa e parcellizzata nei magazzini polverosi e nelle case borghesi di una élite culturale (minoritaria) pronta a ricostruire una propria identità attraverso l’arte e la vitalità espressa dalle avanguardie. L’Arengario di piazza Duomo, contenitore storico d’eccezione, è stato il luogo di raccolta prescelto per questo epicentro della vita culturale di una città che da troppo tempo ha ceduto all’iniziativa privata (per disinteresse o per necessità) la spinta culturale di una realtà sopita e spesso di bassa forza propulsiva. Sapientemente svuotato dei suoi volumi interni, l’edifico preserva le sue facciate esistenti così sedimentate nella memoria di una piazza che con questo progetto concluse il processo di rinnovamento urbano del suo centro storico.

L’Arengario, progettato nel 1937 dagli architetti Portaluppi, Muzio, Magistretti e Griffini in sostituzione della manica lunga di Palazzo Reale, ritrova oggi una dignità che per anni gli era stata negata attraverso una sconsiderata occupazione da parte di polverosi uffici comunali. Italo Rota, anima brillante di un reale rinnovamento culturale dell’architettura italiana, ha raccolto la sfida di progettare un museo con grande forza critica. Partendo dall’immagine che questo nuovo luogo urbano può giocare rispetto a Piazza del Duomo, ricostruisce una sorta di metabolismo interno che proietta al di fuori del suo involucro una visione dinamica e multiforme delle attività spaziali del museo. Flussi, movimenti verticali, colori, riflessi, trasparenze, opere d’arte (vedi il grande neon di Lucio Fontana), si caratterizzano come un sistema di pulsioni interne complesse che travalicano la rigidità di un involucro pesante per restituire una porosità dello spazio interno. Proprio dalle molteplici occasioni di accessibilità, dal mezzanino della metropolitana e dai due ingressi su Piazzetta Reale e su Piazza Diaz, si schiude un percorso di risalita verticale che si trasforma in una dinamica ascensione verso la città. È un cammino evidente, che inizia a svilupparsi verticalmente all’interno della torre dell’Arengario con un passo e un ritmo quasi terapeutico. Attraverso questa rampa elicoidale comincia una esperienza interna costruita trasversalmente tra le opere e la visione di una Milano e dei suoi scorci più ammiccanti. In una verticalità morbida co-

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lor verde acqua prende forma la promenade museale che, con Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo (1901), costituisce l’incipit di questo museo. Una visione aperta a tutti senza il costo del biglietto, che rappresenta in modo emblematico l’ultimo quadro dell’Ottocento e forse il primo del Novecento, rinnovando il valore simbolico della storica marcia dei contadini piemontesi in sciopero. Seguendo un desiderio di racconto cronologico, i progettisti Fabio Fornasari e Italo Rota, hanno costruito un lavoro di ricerca che ha sciolto nel percorso una moltitudine di visioni allestitive mai stucchevoli, senza allontanarsi dalle pratiche consolidate di un itinerario divulgativo comprensibile al grande pubblico. Attraverso le scelte del comitato scientifico e della responsabile del museo Marina Pugliese, le opere ricostruiscono una possibile teoria degli insiemi che dal Futurismo al Novecento, dall’Arte Povera allo Spazialismo, evidenziano in modo accattivante personalità di spicco come Boccioni, Carrà, Sironi, Fontana e molti altri. È un percorso chiaro (nel­ l’ordinamento e nella spazialità) che ritaglia e rispetta un’articolazione di superfici molto misurate. Riesce a dare senso anche a stanze di piccole dimensioni (quasi domestiche e quasi borghesi) con pareti di tessuto tattili su cui posizionare le opere, rifuggendo l’idea di uno spazio neutro e dando nuovamente corpo e profondità a dipinti che nel colore e nella propria espressione figurativa hanno spesso cambiato il modo di esperire l’arte. I colori beige e i viola dei tessuti, il bianco delle

pareti e il corian traslucido dei dispositivi allestitivi, mantengono un carattere misurato dell’ambiente museale. La sala delle colonne, unica parte dell’intervento mantenuta quasi come in origine, spezza la propria monumentalità con dei piani allestitivi reversibili, contrapposti a una verticalità luminosa costruita in un clima di totale rispetto e cura dei dettagli. La lucidità dei marmi e dei materiali sintetici sospende per un attimo la natura retorica della sala, restituendo l’atmosfera di uno spazio unico ma non autoreferenziale. É il futurismo che trova in questa sala lo spazio del proprio racconto con una collezione di Umberto Boccioni unica al mondo, tra dipinti, sculture e disegni (ventuno in tutto). Scorrono con dinamismo su una parete di tessuto ocra che piega e rallenta, che apre e segna la presenza della celebre Forme uniche della continuità nello spazio, posizionata strategicamente nel centro dei flussi di passaggio come un vero e proprio dispositivo di misurazione del movimento. Seguono poi i Futuristi, con Depero, Funi, Severini, Sironi e Ardengo Soffici, per poi proseguire con Morandi, De Chirico, le sculture di Arturo Martini e i lavori meno conosciuti di Felice Casorati, restituendo una complessità di un percorso artistico e spaziale ricco di sequenze multiformi ed efficaci. La grande capacità di fluidificare questi cinquemila metri quadri di esposizione nella complessità di un edificio tradizionale sembra nascere da una esigenza di interpretare la logica allestitiva come un dispositivo possibile, non gerarchizzato in senso stretto, ma


ricco di espedienti e possibili variazioni sul tema. Una visione costruita a posteriori su una collezione preesistente, un sistema complesso, come affermano i progettisti stessi, che esiste solo in relazione al nostro corpo come parte integrante della installazione stessa, trasformando il Museo del Novecento da architettura in una installazione. Nascono così degli interstizi come occasioni di sosta, piccole nicchie di buio e di luce che potenziano e costruiscono relazioni inedite con il percorso espositivo e con le opere, passerelle aeree accidentalmente pa­noramiche e spazi di risalita accelerati da scale mobili (an­ ch’esse ironicamente emblema di una storicizzata meccanica novecentesca). L’attivazione di que­ste opere attraverso gli spazi del museo sembra essere l’obiettivo necessario a scatenare quella sensazione fisica ed empatica nei confronti del visitatore. Come afferma lo stesso Italo Rota, la conquista del visitatore non è un dato sicuro, non è affatto certo che la gente abbia ancora voglia di andare nei musei. Si concretizza così un percorso seducente che racconta e non museifica, che non inanella i luoghi comuni dell’arte del mostrare ma attraverso espedienti d’effetto svela e rivela le molteplici nature di opere e di artisti. Il museo ci rende conto di come l’ingegnere elettrotecnico Me­lotti non sia solo l’artista dei teatrini, raggruppando le sue sculture su un grande tavolo dalle mille gambe, o come Lucio Fontana attraverso la sua luce bianca al neon possa reggere il confronto con la facciata del Duomo e

come il linguaggio austero di Sironi parli ancora con forza alla dimensione metropolitana del nostro paesaggio urbano. Un cammino che cresce e culmina nella sala più alta della torre dell’Arengario, dove i Concetti Spaziali di Lucio Fontana in olio e tecnica mista si trasformano in una teoria di tagli e buchi protetti da una luce opaca e da un atmosfera dark che funge da filtro visuale alla magica Struttura al Neon (1951). L’opera da questa sala sembra possa essere sfiorata con una mano, invertendo quella lontananza visiva che dalla piazza alimenta la curiosità dei passanti, anche quelli più distratti. La restante parte del Museo del Novecento si lega alla più tradizionale ala del secondo piano di Palazzo Reale, la cosiddetta manica lunga, ospitando l’arte cinetica e programmata, le nuove figurazioni dell’Arte Povera fino ad arrivare ai Piccoli Miracoli di Marino Marini. Anche questa parte del percorso espositivo mantiene un’articolazione di stanze e sale più ampie, soglie e passaggi, incrociando spazi di relazione e scenografiche aperture sulla fabbrica del Duomo e sulla sala delle Cariatidi del Palazzo stesso, sfumando e confondendo il rapporto tra interno ed esterno in una variazione spaziale che produce un effetto mnemonico incisivo. È un museo che piega il suo allestimento all’architettura esistente e che al contempo flette la rigidità del suo contenitore alle scelte espositive, disseminando spazi di informazione e formazione, piccoli archivi, book-shop e ristoranti di alta gamma all’interno di un collage di frammenti interni. Il Museo del Novecento

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si configura come una vera architettura per adulti, come sostiene Italo Rota, che non produce facciate e che si rivela sistemica e relazionale perché complessa nei suoi interni, nella sua mancanza di semplificazioni tra contenuto e contenitore. D. F. C. G. Iacchetti, Oggetti disob­ bedien­ti, Mondadori Electa S.p.A., Milano 2009.

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Il libro descrive, attraverso un bell’apparato iconografico e letture critiche correlate, i quattordici progetti del designer Giulio Iacchetti, selezionati in occasione della mostra “Oggetti disobbedienti”, realizzata nel 2009 a cura di Francesca Picchi. La mostra ha inaugurato il ciclo dedicato al giovane design italiano nello spazio del CreativeSet del Triennale Design Museum, aprendo significative linee di riflessione nel campo del design. I progetti presentati costituiscono una piccola, ma significativa, parte della produzione del designer, caratterizzata dall’intento di provocare l’osservatore mediante una forte componente ironica, e di risvegliare in lui un senso critico, che gli consenta di interrogarsi sulle regole e leggi dell’esistente, mettendole in discussione, e ricordando che possono essere modificate. Lungo questa linea di riflessione, Giulio Iacchetti dà forma alle contraddizioni del nostro tempo, le traduce in oggetti che, perdendo talvolta la loro funzione primaria, assumono l’obiettivo più forte di essere parte di un messaggio, di

essere generatori di senso. A questo proposito, il designer sostiene: Anche attraverso il design è possibile insinuare dubbi. Il dubbio appartiene alla tensione che guida il mio approccio al progetto: proporre un pensiero, lasciare un segno. […] Questi oggetti non cambieranno le sorti del pianeta, ma sono pur sempre portatori di un valore immateriale che trascende la mera oggettualità. A ragione, quindi, Giulio Iacchetti viene definito un designer concettuale, perché si concentra sulle idee più che sugli oggetti che le cristallizzano. In questo modo, puntando instancabilmente l’attenzione sulla comunicazione, e annullando qualsiasi atteggiamento autoreferenziale, il designer rende possibile e operativo il dialogo di diverse intelligenze, che chiama a raccolta avviando numerose iniziative collettive e progetti corali. Nascono in questa prospettiva gli “oggetti disobbedienti”: si tratta di oggetti che si ribellano alla cultura del consumo cui appartengono, relativizzano ciò che appare come una solida certezza, creano scompiglio, e forniscono così il pretesto per guardare oltre la dimensione attuale, aprendo a nuove riflessioni. Nella Prefazione al catalogo della mostra Silvana Annicchiarico, direttore del Triennale Design Museum, ricorda che l’oggetto disobbediente per antonomasia è Pinocchio: il burattino che non solo disobbedisce al suo creatore Geppetto, ma che rifiuta la condanna ontologica a essere solo un pezzo di legno e rivendica una propria autonoma identità. […] Gli oggetti


“disobbedienti” che Giulio Iacchetti ha selezionato per questa mostra hanno qualcosa di “pinocchiesco”: a volte sono feroci provocazioni monellesche […], altre volte mettono in discussione la forma del mondo così com’è. I temi su cui Giulio Iacchetti invita a riflettere sono numerosi e attuali: vengono affrontati problemi sociali – la cattiva distribuzione della ricchezza, la questione della tolleranza, l’inospitalità della città nei confronti dei senza-tetto –, problemi culturali – tra i quali la religione, il tema della memoria –, problemi ambientali, come l’utilizzo consapevole dell’acqua. Uno dei progetti più forti, a mio avviso, tra quelli presentati, è il Pantheon game, un “simbolo multireligioso da parete” composto da dodici cubi incorniciati, ciascuno dei quali può ruotare all’interno della propria posizione. Giocando con le sei facce dei cubi, è possibile ottenere diversi simboli religiosi o politici, inclusi un accostamento di facce bianche che rappresentano l’ateismo, e un’ultima combinazione, in cui la casualità della successione delle facce corrisponde a uno stato di confusione spirituale. Nel commentare quest’opera, Elio Franzini mette bene in evidenza la capacità dell’oggetto di esplicitare una forte problematica che appartiene alla società contemporanea: la perdita di riconoscibilità dei simboli e delle ideologie che essi sottendono. Nel “gioco linguistico” di Iacchetti sono presentati i simboli delle grandi dimensioni sacre e ideologiche della nostra storia: esse, tuttavia, sono “a pezzi” e dob-

biamo ricostruirle con incertezza e fatica, consapevoli che è più facile il caos. Infatti, se guardiamo alle combinazioni, poche ci portano a un risultato sensato – a un simbolo riconoscibile, con una sua storia e una sua identità – mentre, giocando a caso, si costruiscono frammenti privi di nessi, segni senza significato. Il tentativo di ritrovare un ordine richiede di saper giocare un gioco più difficile, in cui mettiamo attenzione, libero arbitrio e volontà costruttiva. Analoga complessità di significato presenta Odnom, un mappamondo da tavolo alla cui base uno specchio inclinato riflette la parte del mondo a Sud dell’equatore. L’immagine riprodotta non distorce la lettura dei termini geo­ grafici, poiché questi sono scritti al contrario, e diventano quindi perfettamente leggibili una volta riflessi dallo specchio. L’oggetto sembra chiedere una riflessione sull’attenzione generalmente posta ai paesi che appartengono all’emisfero Sud del mondo, quasi giocando con l’espressione “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”: in questo modo la nuova visibilità dei paesi si traduce in una nuova percezione della realtà, che comporta l’abbattimento delle barriere tra Nord e Sud, per riportare finalmente nel nostro orizzonte le popolazioni meno forti e privilegiate. Perché è necessario ricordare che le “regole del gioco” non sono date naturalmente, non sono convenzioni, ma scelte. Il mappamondo tradizionale – scrive Kizito Sesana – ci ha abituato a tenere persone e interi paesi nell’ombra: li ha fatti diventare invisibili. Nel libro The invisible man – scritto

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da Ralph Ellison agli inizi degli anni cinquanta – lo scrittore afroamericano racconta, appunto, l’esperienza di “invisibilità”. Il nero americano è invisibile perché non è visto come persona, ma come stereotipo. […] Le cose stanno forse cambiando, e lo specchio posto alla base del mappamondo di Giulio Iacchetti riflette e aiuta a riflettere. Un altro oggetto ricco di valenze e spunti di riflessione è Ai piedi della Memoria, un progetto realizzato in occasione del concorso per il premio Ossigeno ita­ liano 2008, indetto dalla rivista “Abitare”. Si tratta di un brillante progetto di segnaletica stradale alternativa, che consente di segnare, attraverso uno stencil composto dalla sagoma di due piedi e una freccia, alcuni luoghi della città, in prossimità dei quali si sono verificati eventi significativi: l’oggetto punta sulla consuetudine che hanno i passanti di guardare a terra mentre camminano, e li invita ad alzare lo sguardo, e a soffermarsi per ricordare ciò che è accaduto in quel luogo. Antonio Bocola, nel rileggere il progetto, parla significativamente di una rete emozionale, anzi “segnaletica emozionale”, che unisce luoghi, persone e storie di questa città. […] “Se qualcuno è morto per la mia libertà voglio conoscerne il nome…” diceva una copertina di un libro di storie partigiane, e a Milano ci sono numerose targhe che ricordano i nostri caduti, ma rimangono trascurate e inosservate […]. Ai piedi della Memoria sono solo una mano di vernice contro l’oblio della memoria.

Decisamente ironici sono i progetti Lingotto e Vespa Table: il primo è una vaschetta per il ghiaccio che conferisce all’acqua, una volta solidificata, la tipica forma del lingotto d’oro, invitando a considerare questo elemento nella sua rarità e nel suo valore; il secondo è un tavolino da caffè realizzato con materiali riciclati, composto da un piano e una base circolari ricavati da vecchie ante, per i quali passa una cinghia che si stringe attorno a una pila di libri di Bruno Vespa. Il progetto è stato realizzato in occasione della mostra “Madeathome”, a cura di atcasa/Corriere della Sera.it, ed è un divertente esempio di oggetto ready-made. Il tavolino condanna spiritosamente l’abitudine di esporre i libri piuttosto che leggerli. Come scrive Tommaso Labranca, in troppi sacralizzano l’oggettolibro, come strumento magico che veicola cultura e sensibilità, con il semplice possesso. Pos­ sesso e non lettura, perché non è necessario leggere i libri. […] La funzione di mero supporto – che Iacchetti assegna al libro nel suo tavolino – non è quindi blasfema, in quanto corrisponde all’intenzione dello stesso prolifico scrivano abruzzese. […] Il libro dà quindi origine a qualcosa, non necessariamente cultura o conoscenza. Magari un tavolo. Uno dei motivi più interessanti della “disobbedienza” di questi oggetti è legato al concetto di “democratizzazione” del design, e al conseguente rapporto tra cultura e mercato. La sfida di Giulio Iacchetti di progettare oggetti che siano comprensibili a tutti, e non solo all’èlite culturale ed econo-


mica, prende forma nel primo progetto collettivo italiano per la grande distribuzione, ideato e coordinato dal designer stesso e proposto alla Coop. L’iniziativa ha termine con la mostra del Salone del Mobile 2005, durante la quale in un supermercato Coop vengono esposti venti prototipi di oggetti per la pulizia della casa e per il bucato. Sulla base di una votazione da parte del pubblico, undici dei venti progetti presentati vengono selezionati per la vendita sugli scaffali dei supermercati Coop dal febbraio 2008, portando così a concreta realizzazione l’aspirazione di un design per tutti. In merito, Beppe Finessi scrive: Giulio Iacchetti ovvero chi ha capito che il fare progetto oggi richiede altro, non più e non solo il saper fare disegnare (bene s’intende) sedie e letti, borse e telefoni, posate e altro ancora: bisogna avere la capacità di immaginare i contesti in

cui collocare i propri sforzi, tratteggiare spazi che prima non c’erano. […] Mesi di riflessioni, sperimentazioni, risultati, discussioni, verifiche, prototipi, presentazioni, altre verifiche, altri prototipi, fino alla produzione vera e propria e alla commercializzazione di una collezione di oggetti di raffinato product design, tra invenzione e accelerazioni tipologiche, ricche di soluzioni che migliorano di un po’ la vita di tutti i giorni. Gli oggetti disobbedienti di Iacchetti si distraggono così dalle loro funzioni di oggetti e conquistano un’indipendenza pericolosa, come può esserlo l’immaginazione che travalica la realtà quotidiana e ci mostra altri mondi possibili: si tratta di mondi in questo caso forse meno funzionali, ma che è necessario esplorare come nuovi territori. V. P.

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Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 41.  Dipartimento e «architettura» - La «rappresentazione» tra storia del teatro e semiotica - La critica d’arte in «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 42.  L’idea di pittura in Lévi-Strauss - Sul concetto di gusto - Alcuni contributi alla critica dell’inconscio - Libri, riviste e mostre N. 43.  La post-avanguardia - Luoghi e luoghi comuni della recente critica d’arte - Narciso e «l’altro»: note sul dibattito architettonico - Libri, riviste e mostre N. 44.  Architettura: la «rimozione del nuovo» - Ipotesi per il segno iconico - Storia dell’arte, storia delle cose - Libri, riviste e mostre N. 45.  Topologia e architettura - La casa: norma e «deroga» - Artisti e cinema - Libri, riviste e mostre N. 46.  I quindici anni della nostra rivista - L’Architettura all’Ecole des Beaux-Arts - La Storia dell’arte Einaudi - Una griglia che non sia una grata N. 47.  Architetto e ingegnere - Le scuole di critica d’arte in Italia - L’immaginario nella cultura di massa - Libri, riviste e mostre N. 48.  Prima e dopo il Post-Modernism - L’iconizzazione del mobile - Civiltà del ’700 a Napoli - Libri, riviste e mostre N. 49.  Il restauro architettonico: ricchi apparati e povere idee - F. Menna, La Biennale di Venezia. Gli anni settanta: questi (mi)sconosciuti - Critica d’arte e processi produttivi - Libri, riviste e mostre N. 50.  Fortuna critica della «Tendenza» - R. Bonelli, Storiografia e restauro - La fotografia: indice o icona? - Libri, riviste e mostre

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N. 51.  Classicismo e razionalismo in J.N.L. Durand - Modelli interpretativi delle tendenze artistiche odierne - Architettura come testo - Libri, riviste e mostre


N. 52.  L’espressione «Movimento Moderno» - Indagine su Carlo - Note sulla Transavanguardia - Libri, riviste e mostre N. 53.  Il design tra «radicale» e «commerciale» - Dalla «ruminazione» dei guerrieri greci all’«insonnia» dell’estate romana - Fortuna degli slogans Libri, riviste e mostre N. 54.  Disincantamento e restaurazione - Lutyens fra storia e critica - Il Bauhaus e il teatro tedesco - Libri, riviste e mostre N. 55.  Continuità e Protorazionalismo - Se questo è un quadro allora non è un quadro - Gli oggetti di domani - Design come motto di spirito - Libri, riviste e mostre N. 56.  Dall’America. Warhol e Kosuth - Il design dell’«altra avanguardia» - L’International Style cinquant’anni dopo - Libri, riviste e mostre N. 57.  Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58.  E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59.  Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60.  Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61.  Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62.  Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63.  Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64.  Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65.  Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre N. 66.  Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre

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N. 67.  Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre N. 68.  Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69.  Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70.  Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71.  Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72.  Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73.  Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74.  Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75.  Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76.  I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre N. 77.  Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre N. 78.  L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79.  Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80.  Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81.  Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre

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N. 82.  Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre


N. 83.  Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre N. 84.  Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85.  Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86.  Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87.  Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88.  L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89.  Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90.  L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91.  «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92.  Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93.  La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94.  Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95.  Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96.  Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97.  Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98.  Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre

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N. 99.  Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre N. 100.  Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101.  Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102.  Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103.  Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104.  La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105.  L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106.  Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107.  Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108.  Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109.  Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110.  Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111.  Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112.  Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre

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N. 113.  Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre


N. 114.  L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115.  L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre N. 116.  Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117.  Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118.  Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119.  L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120.  Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121.  La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122.  L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123.  Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 124.  Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125.  Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126.  L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127.  Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI

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N. 128.  Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129.  Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130.  Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 131.  Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132.  Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133.  Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134.  Abitare la razionalità - Per una nuova clas­si­ficazione delle arti - Il design ae­ro­nautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135.  Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136.  Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137.  Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138.  Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 139.  Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI


Le pagine dell’ADI Associazione per il disegno industriale a cura di Maria Antonietta Sbordone e Dario Moretti

Narrazioni di design 2. Il Compasso d’Oro a Roma Il Compasso d’Oro da quest’anno cambia

L’impulso alle attività dell’ADI ha contribuito alla revisione della partecipazione delle aziende e dei designer alla selezione dell’ADI Design Index e poi all’assegnazione del Compasso d’Oro. La partecipazione alla selezione avviene da sempre attraverso l’ADI Design Index, la pubblicazione annuale di ADI che raccoglie il miglior design italiano messo in produzione, selezionato dall’Osservatorio permanente del Design ADI. La selezione comprende prodotti o sistemi di prodotto, valutati nell’ambito delle diverse merceologie, a cui si aggiungono la ricerca teorica, storica, critica e la ricerca di processo o per l’impresa applicate al design. Si tratta di una selezione incentrata sul prodotto di design. La candidatura avviene mediante presentazione del prodotto da parte dell’impresa o del committente, del designer o del progettista che ha rea­ lizzato il prodotto/sistema o servizio. I prodotti in produzione nell’anno solare interessato dalla se-


lezione corrispondono all’anno precedente la pubblicazione di ADI Design Index. Una novità è la sezione denominata Targa Gio­ vani, con candidatura mediante apposita scheda, dedicata alla selezione di progetti o di autoproduzioni realizzati nell’ambito delle università e scuole da giovani studenti, per promuoverne il talento italiano. L’avvenuta selezione e pubblicazione sull’ADI Design Index costituisce preselezione per la partecipazione al Premio Compasso d’Oro ADI. Quest’ultimo viene assegnato ogni tre anni da una giuria internazionale, appositamente incaricata da ADI e Fondazione ADI, che lavora sulla base della selezione pubblicata sugli ADI Design Index annuali. Per la selezione Targa Giovani saranno assegnati due premi con le stesse modalità del Compasso. La metodologia di continua rilevazione della qualità attuata dall’Osservatorio nel percorso di selezione verso il Premio Compasso d’Oro e Tar­ ga Giovani costituisce un unicum nel panorama nazionale e internazionale. Pur rispettando la tradizione del Premio viene inserita una rilevante novità, ovvero il versamento delle spese di segreteria, per cui la candidatura del prodotto risulterà validata e sarà proposta all’esame delle diverse commissioni, procedura che non si applica alla Targa Giovani. Un’ulteriore novità riguarda la presentazione della scheda di candidatura di prodotti, servizi e progetti per ADI Design Index, che presuppone l’impegno ulteriore da parte del proponente la


candidatura, qualora il proprio prodotto sia selezionato dal­l’Osservatorio per la pubblicazione, a contribuire alle spese di stampa, presentazione e diffusione del volume. Anche qui sono esenti i progetti selezionati della categoria appartenente alla Targa Giovani. Inoltre, il versamento dei diritti di stampa, ad avvenuta selezione del prodotto da parte dell’Osservatorio e pubblicazione sul volume, comprende l’utilizzo del marchio ADI Design Index, senza costi aggiuntivi, in tutte le forme di comunicazione, in abbinamento al prodotto selezionato, secondo le modalità previste dal relativo Contratto di licenza, in virtù del fatto che ADI Design Index è un marchio registrato. Le fortune del Compasso d’Oro

Il XXII premio Compasso d’Oro ADI quest’anno ha anche una sede e una cornice molto speciali: le manifestazioni relative al concorso si svolgono a Roma e non si limitano come di consueto alla mostra dei prodotti concorrenti e alla premiazione finale, ma offrono un programma molto più ricco e interessante, inseriti come sono nel quadro di una manifestazione dedicata all’identità del Made in Italy. La mostra Unicità d’Italia, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica, è realizzata dalla Fondazione Valore Italia in collaborazione con ADI e con Fondazione ADI. L’evento è promosso dal ministero dello Sviluppo Economico,


propone un punto di vista insolito e originale, individuando nel Made in Italy uno dei più forti e significativi fattori che dal 1961 ad oggi hanno contribuito a rafforzare il sentimento di identità nazionale. Attraverso gli oggetti della Collezione storica del Compasso d’Oro e i prodotti selezionati per l’assegnazione della XXII edizione del Premio, il percorso espositivo, arricchito da video e testimonianze che inquadrano i momenti storici, racconta il saper fare italiano negli ultimi cinquant’anni. Il made In Italy nelle CelebrazIonI per I 150 annI dell’unItà d’ItalIa

L’eccellenza produttiva italiana degli ultimi cinquant’anni è così al centro di una manifestazione che fa parte del programma ufficiale della Presidenza del Consiglio dei Ministri per le Celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. L’evento, sostenuto dal ministero dello Sviluppo Economico e realizzato dalla Fondazione Valore Italia in collaborazione con ADI e Fondazione ADI, tratta il fenomeno del Made in Italy come un elemento di coesione sociale che ha contribuito a rafforzare il sentimento di identità nazionale. L’iniziativa si sviluppa in due mostre, autonome ma complementari, che si tengono in due prestigiose sedi della capitale. Al Palazzo delle Esposizioni la Collezione Storica del Premio Compasso d’Oro accompagna


il visitatore attraverso un complesso sistema di immagini, ricordi, sperimentazioni e innovazioni produttive, che raccontano l’Italia e la sua capacità di produrre eccellenza dal 1961 ad oggi. Al Museo MACRO al Testaccio si guarda al futuro: in mostra circa trecento prodotti selezionati nell’ultimo triennio dall’Osservatorio permanente del Design per concorrere al Premio Compasso d’Oro ADI e un susseguirsi di eventi volti ad individuare gli scenari futuri e le azioni necessarie per consentire alla produzione italiana di mantenere, rinnovare e proiettare nel mondo le sue caratteristiche di unicità. L’evento Unicità d’Italia comprende anche i lavori di selezione finale e, per la prima volta a Roma, la cerimonia di assegnazione del XXII Premio Compasso d’Oro, che dal 1954 rappresenta il più importante riconoscimento internazionale al prodotto, al merito e alla ricerca nell’ambito del design industriale. “È la nostra unicità il principale fattore di unità”, ha dichiarato il presidente di Fondazione Valore Italia Massimo Arlechino, “ed è su questo aspetto che la mostra intende porre l’accento. L’unicità della nostra eccellenza produttiva, il Made in Italy, ha contribuito a rafforzare il nostro sentimento di identità nazionale”. “È significativo che sia proprio il design, attraverso i prodotti premiati con il Compasso d’Oro, il fulcro del racconto di questi ultimi cinquant’anni”, ha affermato Luisa Bocchietto, presidente na-


zionale ADI. “Il design è testimonianza del nostro modo di progettare, produrre, comunicare ed è componente della nostra identità nazionale”. ConversazIone Con luIsa boCChIetto

A Roma, dalla fine di maggio, va in scena il Com­ passo d’Oro. Quali le riflessioni di fronte ad un evento che individua nel design una delle appar­ tenenze fondative dell’identità italiana? “Con le mostre Unicità d’Italia, celebriamo il nostro paese attraverso il design. Dopo avere festeggiato il primo Centenario dell’Unità d’Italia nel 1961, di fatto, stiamo riflettendo su quanto avvenuto negli ultimi cinquant’anni. Se ci domandiamo cosa ci sia stato di eclatante in questo periodo per la costruzione della nostra identità, se ci chiediamo che cosa abbia contribuito alla valorizzazione della nostra immagine nel mondo, immediatamente pensiamo alla moda e al design”. In mostra si presenterà la storia integrale del de­ sign italiano e il premio che in qualche modo l’ha sostenuto. Quali sono le considerazioni più im­ mediate? “La Collezione storica del Compasso d’Oro ADI, nata nel tempo con l’apporto critico delle giurie che si sono succedute negli anni e costituita dai prodotti che si sono aggiudicati il premio, rappresenta uno spaccato straordinario della vita del nostro paese. Attraverso quei soli pezzi premiati,


oggi esposti per la prima volta in modo integrale, è possibile raccontare l’evoluzione del gusto e dei costumi, l’innovazione tecnologica, la scoperta collettiva del tempo libero, la complessità dei rapporti economici, la crescita dell’industria manifatturiera; in sostanza è possibile descrivere il cambiamento avvenuto”. Un cambiamento che viene da lontano, da quel “comune sentire” che ha dato vita ad un’econo­ mia flessibile fatta soprattutto dalle PMI, aperta all’innovazione pur nel mantenimento di partico­ lari punti fissi… “Nel nostro paese la cultura del design resta inscindibile dal modo di vivere e si radica nella tradizione manifatturiera; il lifestyle peculiare italiano contribuisce a costruire quel concetto di Made in Italy che non trova equivalenti negli altri paesi. “Il Made in Italy comprende un fascino attrattivo più forte del semplice marchio di provenienza produttiva; si porta con sé un’atmosfera tutta particolare che rimanda al cibo, al gusto, al clima, al fascino dei luoghi, al saper fare artigiano, al piacere di vivere, alla bellezza in generale”. Una specie di Lovemark dell’intero paese, un’at­ trazione che potrebbe avere anche significativi risvolti nell’economia della conoscenza rivolta però al settore del turismo raffinato e colto. “Questo marchio indistinto ed evocativo si trasferisce sul paese, con una ricaduta positiva per


tutte le attività produttive e per l’immagine da esportare, creando un alone di qualità permanente intorno alla nostra produzione. Moda, design, cibo, monumenti e bellezza rappresentano la nostra ‘risorsa naturale’, il nostro petrolio e diventano la nostra bandiera distintiva nel mondo”. Il design in quanto risorsa fondata sulla conoscen­ za va comunque sostenuto, continuamente alimen­ tato e mantenuto il più possibile indipendente. “Molti commentatori vorrebbero dare il design italiano per morto – lo fanno a cadenza sistematica. Si sa che il titolo apocalittico fa sempre il suo effetto. Spesso non viene rilevato quanto del design degli ultimi anni – che consideriamo ormai patrimonio comune, compresa l’affermazione delle star internazionali – sia debitore alla grande disponibilità delle aziende italiane. Per contro a dispetto di una situazione di crescita economica davvero ai limiti della competitività, il design, per l’Italia, continua ad essere uno dei motori dell’economia. Questo avviene grazie ad uno sforzo straordinario d’imprenditori, progettisti, grafici, esperti che lavorano con competenza e passione”. La capacità performativa dell’identità italiana si è esercitata in vari ambiti in modo disinvolto e sicuro. “L’Italia non è un paese ricco di risorse estrattive pronte per l’uso; è un paese che trasforma, dotato di grande capacità creativa. La bellezza, la capacità di crearla, riconoscerla, raccontarla, è il no-


stro patrimonio. Questa capacità ha prodotto sensibilità eccezionali, opere d’arte e intere città che sono esse stesse dei capolavori. Questa sensibilità ha prodotto un gusto diffuso e quasi inconsapevole connaturato nelle persone, la disposizione a distribuire su ogni cosa – cibo, abiti, mobili e automobili, utensili e sistemi – la stessa cifra di eleganza e la stessa maestria nell’utilizzare tecnica e innovazione, facendole apparire come naturali”. I settori, tra gli altri, che hanno diffuso nel mondo la qualità del prodotto industriale come espres­ sione della creatività applicata all’industria sono senza dubbia la moda e il design. Quando si è fatto il primo passo in modo consapevole? “È dopo la guerra che nasce la storia del design italiano; storia collegata fin dall’inizio all’ADI, creata in quegli anni. L’ADI, attraverso la promozione del Premio Compasso d’Oro, ha contribuito fattivamente, da allora, all’evoluzione del design e alla sua storicizzazione”. Il design e il Compasso d’Oro fuori da Milano… “La nostra presenza a Roma ha un significato preciso per il design italiano: esprime la volontà di avvicinamento dei progettisti e delle imprese al mondo delle Istituzioni. Per l’ADI significa mettere a disposizione il lavoro di questi ultimi cinquant’anni per contribuire al racconto di una storia che parla delle nostre qualità per il futuro. Il nostro racconto è un atto di fiducia, che tutto in modo nuovo, sia possibile”.


UNICITÀ D’ITALIA Made in Italy e identità nazionale. 1961/2011 Cinquant’anni di saper fare italiano raccontati attraverso il Premio Compasso d’Oro ADI 31 maggio - 25 settembre 2011 Palazzo delle Esposizioni Via Nazionale 194, Roma MACRO Future - La Pelanda p.zza Orazio Giustiniani 4, Roma

L’esperienza dei designer Francesco Trabucco

e il

Compasso

d’Oro:

Il “designer dell’aria” Francesco Trabucco inizia la sua personale avventura nell’industrial design con una forte propensione all’innovazione tecnologica. I suoi esordi sono tutti per apparecchi che aspirano l’aria (per Alfatec) – il Bidone Acquadry del 1980 – che muovono l’aria (per Vortice), che la condizionano, i termoventilatori, con un’attenzione alle apparecchiature per la collettività (asciugamani-distributori di detergente automatici), ai ventilatori da terra rotanti, agli aspiratori da toilette. In pratica per tutte quelle apparecchiature ad alto contenuto di innovazione tecnologica che richiedono, so-


prattutto, immaginazione per rinnovarne l’utilizzo. Nella sua casa milanese tra libri e piante dalle dimensioni tropicali mi racconta delle vicende che lo hanno portato al suo primo compasso d’Oro: “Quando, appena usciti dall’università, con una tesi vincemmo il primo Compasso d’Oro, tutti ci coccolavano e c’era la troupe della RAI che voleva intervistare i giovani talenti del design. Fu Sergio Asti a sollecitare la nostra partecipazione… Era soltanto il 1969!” Di quale progetto si tratta? “Si trattava del progetto di un sistema di orientamento grafico per la città di Milano (elaborato con Sergio Romano e Alessandro Ubertazzi). L’ADI allora era una specie di confraternita di architetti che avevano inventato il premio Compasso d’Oro. Era eccitante perché si potevano incontrare Giulio Castelli, Marco Zanuso, Enzo Mari… Un ADI crocevia o enclave che dir si voglia, dove però circolavano anche Roberto Mango ed Edoardo Vittoria”. Quale clima si respirava e cosa prospettava l’ADI ai neo-laureandi? “Gli anni Settanta erano carichi di ideologie politiche, il clima era quello di una vera e propria politicizzazione della vita quotidiana; Enzo Mari prendeva posizioni sull’autocostruzione che deri-


vava da un approccio della scuola americana in quanto Pop Art. Superstudio, Alchimia (Branzi, Deganello, Mendini, Guerriero…), Memphis, erano la nuova avanguardia del design post-industriale o (per alcuni) pre-industriale”. Un fermento che secondo te ha una matrice ame­ ricana… “Bob Venturi in Learning from Las Vegas* rappresenta la radice di un tale rinnovamento. Vanno ricordate le avanguardie europee, vedi gli inglesi con il brutalismo degli Archigram con i loro robot urbani. Un fermento straordinario dal quale il disegno industriale usciva spogliato del suo potere di rappresentanza intellettuale e appariva connivente con il sistema di produzione industriale: è il caso di Marco Zanuso”. Una matrice, quella ideologica del design, che nel tempo ha perso la sua carica… “Allora non era così: si veniva un po’ tutti tacciati di essere più o meno conniventi con il sistema industriale. Io ero un po’ distratto dall’urbanistica ‘fatta con i pastori’, ricordo Enzo Mari accusato di ‘operaismo religioso’…”

* Trad. it. di Maurizio Sabini: Robert Venturi, Denise Scott Brown, Steven Izenour, Imparare da Las Vegas. Il simbolismo di­ menticato della forma architettonica, a c. di Manuel Orazi, Macerata, Quodlibet, 2010.


Ritornando al Compasso d’Oro… “Il Bidone Aspiratutto nasce dall’incontro con Attilio Pagani, che mi cercò attraverso la segretaria di Marco Zanuso. Nello studio allora, oltre me, c’erano Richard Sapper, Federica Zanuso, Gessy Marsh… “Dunque la segretaria, Angela, mi segnalò ad Attilio. Era il 1973: non c’era un’azienda che produceva apparecchiature aspirapolvere (Hoover, forse, ma era solo streamline, un design aerodinamico). Un vero aspirapolvere essenziale non c’era; un ‘secchio della spazzatura con il motore’ con un’immagine military look, naturalmente ‘di sinistra’, con un lettering da ricalco, quello di Le Corbusier per intenderci, era quello che ci voleva. “Nell’83, con una versione aggiornata, otteniamo il Compasso d’Oro per tutta l’‘epopea del bidone’. Nell’86 arriva il Compasso alla produzione Vortice, e parallelamente vinco il premio Gute Industrieform, sempre facendo l’architetto con uno studio che contava venti persone e un laboratorio modelli che era la mia ‘sala giochi’”. Contro le mode la tua visione “operaista” del de­ sign ti porta alla Triennale… Raccontaci dell’edi­ zione Le case della Triennale, allestita a Milano e a Parigi nel 1983, durante la XVII Triennale di Milano, di cui sei stato il curatore. “Contro la visione modaiola e radical chic


di tanti che si aggiravano per Milano, col noto fenomeno delle cosiddette ‘vestali del design’, con i ‘grandi’ che si permettevano il lusso di fingere finché potevano, fui tacciato di troppo professionalismo. La presunta carenza di intellettualismo, un’etichetta che mi fu appiccicata addosso, resistette fino all’83, anno in cui fui nominato curatore, insieme con Franco Raggi, della XVII edizione della Triennale. Due fronti contrapposti: eravamo all’inizio degli anni Novanta, gli anni dell’‘edonismo reganiano’, degli yuppies, del secondo boom economico che in pratica traghettava ancora l’idea di una cultura tutta all’insegna della produzione industriale”. Un’altra occasione con presupposti che orienta­ no in una direzione nuova è rappresentata dalla progettazione nel 1992 della Sezione italiana del­ la XVIII Triennale, La vita tra cose e natura: il progetto e la sfida ambientale. “L’invenzione del ‘fitotrone’ significò un’accelerazione sul concetto di natura come esito dell’impatto di un processo artificiale consapevole senza dover rinunciare alla cultura industriale. Piuttosto segnava l’inizio di un’epoca di rinnovata capacità di progettare la crescita incentrata sullo sviluppo di tecnologie sostenibili. Una curiosità: alla Triennale, quando fu esposto il fitotrone, qualcuno dell’entourage di Steven Spielberg notò il banco dove c’erano tutte le tecnologie e ci fu


richiesto per il film A.I. Intelligenza artificiale. Purtroppo il banco andò distrutto e rifarlo costava davvero troppo!” Procedi a grandi passi verso la concezione di un design avanzato che appartiene alla sfera science based… Come si arricchisce il Premio Compasso d’Oro? “Con i ‘pezzi di ricambio per il corpo umano’ la ricerca scientifica al servizio dell’uomo si orienta alla progettazione di protesi avanzate. Erano anche gli anni della fitostimolina, una proteina che favorisce la coltura delle cellule della pelle. Si amplia l’orizzonte del design, la ricerca per Zanussi, l’incontro università-industria, l’idea sempre più diffusa del ‘design endemico’ che contamina ambiti molto diversificati, significa per l’ADI e per il premio cogliere la sfida di una maggiore apertura verso l’esterno, di non rimanere vincolati ai confini geografici, di abbandonare una visione localistica… Che senso ha oggi parlare di design italiano? Diventa una pura distinzione socio-politica (o meglio geo-politica). Ha senso invece parlare di un premio che viene assegnato in base alla continua ricerca su temi o scenari previsionali, e che questa sia l’esito della promozione continua delle aziende che dovrebbero sostenere e garantire il Compasso d’Oro.


­ vations Design and Engineering Awards
 Widget Station, EMTRACE Technologies 2007
 Premio 
Livinluce Enermotive, Innovation & Design Award 2007, 
Serie Microrapid, termoventilatori da parete, Vortice



ISSN 0030-3305

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