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settembre 2011
numero 142
Nescio quid: riflessi del sublime nell’archi tettura contemporanea Continuando ad in terpretare l’arte d’oggi Le cose che contano Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli
Electa Napoli
Selezione della critica d’arte contemporanea
rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Alessandra de Martini, Emma Labruna, Livio Sacchi Segreteria di redazione: Rosa Losito Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 081/7690783 Amministrazione: 80121 Napoli, Via dei Mille, 16 - Tel. 081/4297440 Un fascicolo separato e 9.00 (compresa IVA) - Estero e 10.00
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Electa Napoli
P. Gregory,
Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea O. Scotto di Vettimo, Continuando ad interpretare l’arte d’oggi P. Nunziante, Le cose che contano Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Pasquale Belfiore, Alessandro Castagnaro, Francesca Lanz, Irene Pasina, Massimo Visone.
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Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea PAOLA GREGORY
La drammatica iconoclastia di Libeskind, “l’architettura della morte improvvisa” di Coop Himmelblau, la “visione rovesciata” di Eisenman, l’engagement dégagé di tante architetture di Gehry, ma anche la perturbante semplicità di Zumthor, il muto silenzio del Vietnam Veterans Memorial di Maya Lin, la “estetica del miracolo” di Nouvel, il “nulla” o “quasi nulla” del Blur Building di Diller & Scofidio: diverse sono le espressioni che sembrano richiamare, in tempi recenti, una dimensione che potremmo definire “sublime” in architettura, quel nescio quid che fin dai tempi antichi eccedeva la validità normativa dei canoni di gusto, rifiutando di lasciarsi cristallizzare nella chiusura della forma in sé stessa e costringersi nel conformismo di regole e costrutti mentali. Quando la grandezza o l’assenza di limiti minaccia di mandare in frantumi la comprensione della forma; quando l’idea del bello si vede brutalmente esclusa da particolari dissonanze, sproporzioni, deformità, che suscitano tuttavia un’impressione struggente; quando i punti di riferimento stabiliti per dar senso e ordine al mondo sensibile ci vengono a mancare, appare difficile comprendere ciò che stupendoci ci attrae, perché è proprio del sublime colpire e destituire l’immaginazione e l’intelligenza con l’acutezza dolorosa di un piacere fugace, inimmaginabile e impensabile.
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Effetto di un’esperienza che investe il soggetto, folgorandolo e sospendendolo nelle sue acquisizioni abituali, e allo stesso tempo veicolo privilegiato di tale esperienza, il sublime mette in moto uno scambio continuo fra il soggetto e l’oggetto, l’io e l’altro, il dentro e il fuori, il finito e l’infinito, il sensibile e l’intelligibile. è l’evento che accade e il suo accadimento – sottolinea Baldine Saint Girons – richiede la metamorfosi o la “sublimazione” almeno provvisoria di tutto ciò con cui entra in contatto. Si tratta dunque di una “causalità circolare” in cui i termini piuttosto che definirsi in una reciproca opposizione dialettica si aprono a una dipendenza differenziata, a una dinamica interrelazionale che si sviluppa – è essenziale ricordarlo – “in una lotta ingaggiata contro la paura e in una meditazione sulle origini e sulle ragioni di uno smarrimento”1. Non a caso, dunque, il sublime sorge sempre in periodi di crisi: così fu tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C. quando il passaggio dal politeismo al monoteismo e dal regime repubblicano all’Impero costrinsero a esercitare la libertà nella solitudine; così fu alla fine del XVII e nel XVIII secolo, quando il crollo dell’ordine geocentrico e antropocentrico con la rivoluzione copernicana e galileiana propagò l’angoscia dell’infinito e la trasposizione nel mondo fisico di valori fino ad allora attribuiti al mondo soprannaturale; così fu ancora nella seconda metà del XX secolo quando gli orrori della guerra con le tragedie dell’Olocausto e della bomba atomica indussero a un ripensamento radicale delle verità e convinzioni che avevano nutrito l’esperienza del moderno. Perché il sublime possa emergere occorre infatti che qualcosa minacci le certezze del nostro io: destabilizzando il mondo circostante e spezzando la dimensione quotidiana, ci dissocia dal punto di vista abituale e, rendendoci sensibili a una causalità superiore, spinge l’io a interrogarsi. Ciò produce un’esultanza la cui energia dipende dall’intensità del nostro turbamento: lo stupore fa vacillare il soggetto innescando la molla più efficace delle ricerca e dell’azione. Di qui si genera quel movimento che porta l’io a elevarsi,
superarsi, “sublimizzarsi”. Come si evince dall’etimologia originaria del latino sublimis, da sub-limis o limus (obliquo) “che porta trasversalmente verso l’alto”, o in alcune varianti da non trascurare da sub-limen (limite, soglia), propriamente ciò “che giunge fin sotto la soglia più alta”, ma anche da sub-limo (fango) a indicare qualcosa di profondo, nascosto, rimosso dalla banalità della superficie, il sublime sin dalle origini longiniane, presenta nella polarità irrisolta fra hýpsos (altezza) e báthos (profondità) il suo aspetto dinamico, piuttosto che la posizione acquisita: situandosi sull’asse di una verticalità in cui il punto più alto e quello più basso si congiungono, suggerisce il movimento (sempre obliquo) che consente di uscire dal sé, premessa indispensabile al l’incrocio di mondi diversi, in cui è possibile pensare l’abisso insormontabile che separa il sensibile dal soprasensibile, lasciando apparire, nel frammento visibile che si apre, l’inap propriabile alla nostra portata. Dal sublime longiniano al perturbante della contempo raneità L’“inafferrabile che ci afferra” fu la felice locuzione usata dallo Pseudo-Longino2 per rappresentare l’esperienza folgorante del sublime: distaccandosi dalla tradizione retorica greco-romana, il suo Perì hýpsous definisce sublime un discorso non tanto perché possegga la qualità stilistica della sublimità (l’ardita sobrietà) ma perché mostra, attraverso la sua intensità e subitaneità, il sublime in statu nascendi3. Sono l’immaginazione visionaria (la phantasía) del poeta tragico (o dell’oratore) – ovvero la sua audacia e l’ardimento del linguaggio accanto alla magnanimità, “eco della grandezza d’animo” (IX, 2-3) – e, insieme, l’esperienza del pathós proprio del testimone – cioè l’urto, lo shock, la “presa” che si genera ad opera della parola – a divenire cruciali. “Davanti a ciò che è veramente sublime – afferma Longino (VII, 2) – la nostra anima si solleva e, presa da un’orgogliosa esaltazione, si riempie di una gioia superba, come se essa stessa avesse generato ciò che ha ascoltato”4.
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In qualità di testimone, l’io oltrepassa la propria posizione, si appropria dell’inappropriabile e si identifica con la fonte; ma di nuovo, questa appropriazione presuppone un’espropriazione, una destituzione dell’io che partecipa, con un processo di autosuperamento, alla rifondazione di nuovi possibili modelli. Ecco perché – sebbene resti fondamentale l’interesse stilistico (il sublime, dichiara Longino “è l’apice e la dignità dell’arte del dire”, I, 3), il suo hýpsos anticipa una transizione dal semplice genus dicendi (o scribendi) verso un genus vivendi, ovvero verso una caratterizzazione anche psicologica del sublime. è questa a contrassegnare l’interpretazione di Boileau che, con la sua traduzione francese del trattato longiniano5, sposta l’accento dal produttore al fruitore, generando nel ’700 quell’idea del sublime come teoria del sentimento e dell’emozione: un’estetica del pathein, quale “psicologia delle passioni”, che soprattutto Edmund Burke affermerà nel suo più elevato grado di destabilizzazione, essendo l’essere umano non più ‘semplicemente’ trasportato in un altrove sublime, ma ghermito e trascinato dalle sue passioni, “ferito e inciso nel vivo dalla presa di coscienza del terribile”6. Rispetto a Longino, Burke pone quindi l’accento piuttosto che sulla “grandezza della concezione” – ciò che è stato definito come sublime ideale – sulla “grandiloquenza del pathos”, da cui quel sublime patetico che rende possibile la trasmutazione e l’avvicinamento estetico al dolore e alla morte: “più che a un colpo di fulmine, l’esperienza del sublime somiglia – come sottolinea Saint Girons – a una catastrofe che sospende l’identità del soggetto e del mondo”7. “La passione causata da ciò che è grande in natura – dichiara infatti Burke nella parte seconda del suo Enquiry – è lo stupore [ovvero] quello stato d’animo in cui, ogni moto sospeso, regna un certo grado di orrore. […] Di qui nasce il grande potere del sublime, che, lungi dall’essere prodotto dei nostri ragionamenti, li previene e ci spinge innanzi con una forza irresistibile”8. Non più interessato alla forza espressiva di un oratore,
ma al “sublime naturale” – che affonda le sue origini, ricordiamolo, nella rivoluzione scientifica seicentesca e nei viaggi che consentono l’esperienza di una natura illimitata e informe che “eccita la mente” – Burke, coagulando spunti della riflessione precedente, introduce formalmente la distinzione fra il bello (ormai privato del suo tradizionale rapporto al buono e al vero) e il sublime, collegando quest’ultimo al terrore, la “passione per eccellenza” che espropriandoci dei nostri riferimenti ci espone a una radicale insicurezza. è dunque l’ignoranza e non la luce della ragione a renderci ammirati dello spettacolo del mondo: con il sublime si sottolinea l’elemento di sopraffazione e depotenziamento dell’io, la minaccia all’autoconservazione. Se il bello, stabilito dall’estetica classica attraverso i canoni della proporzione e dell’armonia, seduce e si lega all’amore e al piacere (pleasure) rendendo gli uomini propensi alla socialità, il sublime provoca al contrario uno shock, un piacere misto a dolore, ciò che Burke definisce “diletto” (delight), un “piacere relativo”, un “dilettoso orrore” (delightful horror), che mette l’uomo dinanzi e “in solitudine – come sottolinea Remo Bodei – al pensiero tormentoso dell’irrecuperabilità della vita che scorre via e della propria ineluttabile morte”9, “regina di tutti i terrori”10. Sublime è dunque “Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ovvero tutto ciò che è terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore [ossia] ciò che produce la più forte emozione che l’animo può sentire”11, come la potenza “terribile maestà” e la vastità, insieme a tutto ciò che – in forma derivata e allegorica – indica il prodotto irrappresentabile dell’assenza e della privazione: l’oscurità, in quanto privazione della luce, sacrificio del mondo chiaro delle forme e della visione sensibile; il silenzio, in quanto privazione del suono; il vuoto, in quanto privazione di materia e di oggetti; la solitudine, in quanto privazione di socialità; l’infinità in quanto privazione di limiti e soprattutto la morte, in quanto privazione di tutto12. Se dunque il terrore è il “principio dominante”, perché
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evoca una minaccia alla conservazione del soggetto, il diletto può nascere solo a patto di mantenere una distanza di sicurezza: sublime è perciò il “brivido di tale annientamento”, “la paura del nulla appena tenuta a freno, l’agghiacciante dissimmetria – scrive Bodei – tra i poteri dell’individuo e quelli del mondo”13. Burke dunque, a differenza del Longino, orienta il sublime non al potenziamento dell’io, bensì verso il momento della sua perdita e, in questo trasporto, la stessa arte “sarà ciò che, posta fra gli estremi del bello e del sublime, ‘gioca’ il depotenziamento dell’io fino a quel limite di sopravvivenza della soggettività che è il limite stesso della sua possibilità di esistenza”14. Alla fine del secolo, la Critica del Giudizio di Immanuel Kant15 sarà la risposta più rigorosa a questo esito del sublime: la sua esperienza diviene infatti quella di “un momentaneo impedimento, seguito da una più forte effusione”. I due poli di oscillazione della riflessione sul sublime diventano, perciò, tempi di un unico movimento in cui alla vertigine dell’io fa seguito una sua riaffermazione: il “piacere negativo” (vicino al “piacere relativo” di Burke) che l’animo avverte davanti all’infinito è, da un lato, il senso di inadeguatezza dell’immaginazione a rappresentarlo, dall’altro è “la voce della ragione” che sola può comprenderlo. Sublime è allora questa tensione: non un oggetto ma uno “stato d’animo”, essendo la sublimità non nella natura, ma nell’animo nostro. Sia il bello che il sublime sono infatti per Kant espressioni del “giudizio riflettente” che implica, davanti a un dato sensibile, un’affettività e un coinvolgimento dell’interiorità del soggetto che “sente” se stesso: ma dove il bello, connesso a una contemplazione statica, indica l’accordo fra le facoltà dell’immaginazione e quelle dell’intelletto, il sublime – sia “matematico” (legato all’estensione infinita della natura) che “dinamico” (suscitato dalla sua potenza virtualmente distruttiva) – segna al contrario un conflitto insanabile fra immaginazione e ragione, inducendo quel movimento dell’animo che, trascesa “ogni misura dei sensi” e dunque ogni limite dell’immaginazione, tende verso la ra-
gione e le sue idee. Ciò che interessa Kant è dunque la scoperta, attraverso il sublime, della nostra natura soprasensibile: “Il vero sublime – scrive nella CdG – non può essere contenuto in alcuna forma sensibile, ma riguarda solo le idee della ragione [che abbiamo in noi, come le idee di Dio o della libertà] le quali, sebbene nessuna esibizione possa essere loro adeguata […] sono svegliate ed evocate nell’animo nostro16”. Ridestando la nostra interiorità e mettendola in contatto con il soprasensibile, il sublime kantiano ricongiunge il “sentimento morale” al giudizio estetico (disgiunti invece nel gradevole e nel bello) per cui “il cielo stellato sopra di noi” diviene simbolo della “legge morale che è in noi”. Per questo Kant, sottolinea Giuseppe Sertoli, torna, al di là di Burke, alle “nobili passioni” di Longino, “offrendo un recupero dell’umanesimo primosettecentesco dopo e contro quello che vorremmo chiamare l’antiumanesimo di Burke e di tante forme della cultura e dell’arte del secondo settecento”17 e dei secoli successivi. Tuttavia una recente rilettura, soprattutto francese, della terza Critica kantiana ad opera di Derrida, di Lacoue-Labarthe, di Nancy e di Lyotard ha inteso, al contrario, sottolineare nell’estetica del sublime la forza dirompente della problematizzazione del luogo canonico del pensiero: “il luogo cioè della rappresentazione e di una messa in crisi, insieme, della soggettività, attraverso il disastro dell’immaginazione, il disastro cioè della ‘messa in forma’. L’informale dell’avanguardia pittorica non sarebbe per Lyotard che l’esplicitazione artistica di ciò che egli chiama la presentazione non dell’impresentabile – che in alcun modo può essere presentato – ma del fatto che ci sia dell’impresentabile”18. Il sublime kantiano, scrive infatti Jean-François Lyotard, “non accoglie l’oggetto secondo la sua forma, secondo la sua finalità interna soggettiva [poiché] il suo ambito autentico consiste in una finalità propria dello spirito, che è indifferente a quello delle forme. […] È in seguito alla sua assenza di forma, o meglio è in quanto considerato senza le sue forme (posto che ne possegga) che l’oggetto […] dà
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occasione alla ragione pratica di rafforzare il suo ascendente sul soggetto, di estendere il suo potere”19. La ragione, infatti, “la facoltà delle Idee pure, sembra avere tutto l’interesse alla disorganicità del dato e allo scacco dell’intelletto e dell’immaginazione. Nella lacuna che si apre, essa può in effetti rendere quasi intuibile al soggetto l’Idea della sua vera destinazione, che è morale20”. Una “estetica del peggio” – la definisce Lyotard – che punta non sul brutto ma sull’amorfo, poiché è nell’eccedenza di ogni messa in forma – in quella che definisce la logica del sacrificio – che “la legge della ragione pratica soverchia con tutto il suo peso quella dell’immaginazione produttiva”. In questo consiste la superiorità del sublime sul bello: portando l’accento sulle basi emotive dei nostri conflitti e sul valore dei nostri limiti, che continuamente si riproducono, il sublime rende evidente lo scarto e il contenzioso incomponibile fra ragione e immaginazione che non ha soluzione, ma che – scrive Lyotard nelle sue Leçons sur l’Ana lytique du sublime – “può essere sentito come tale, come contenzioso. Questo è il sentimento sublime. E questo sentimento fa della ‘grandezza bruta della natura’ un segno della ragione, nello stesso tempo in cui resta un fenomeno dell’esperienza21”. Con il suo dissidio, il suo aspetto perturbante e il suo richiamo all’amorfo, “il sublime – sottolinea Bodei – può tuttavia aiutarci a capire aspetti del nostro conflittuale e ambiguo rapporto con il mondo [perché], rifiutando la perfezione delle forme, tende a rendere visibile l’invisibile e presente l’impossibile, ciò che si sottrae alla rappresentazione, quel che eccede la sensibilità, ma che non può mostrarsi se non in forme sensibili”22. Così Lyotard – come gli altri intellettuali francesi menzionati – tende a riallineare Kant a una tradizione del sublime che lo pensa come “eccesso”, a differenza dell’estetica di Hegel che lo pensa come difetto del bello. Ed è proprio questa dimensione a costituire la caratteristica più significativa del sublime: “Il sublime non solo si situa sul versante dell’eccesso, è l’eccesso e ‘ovunque rifugge dalla mediocrità’, come aveva già sottolineato con forza Burke”23.
Relativamente al mondo dell’architettura, perciò, il costrutto appare sempre orientarsi verso un carattere extra-dimensionale, attraverso un processo di metaforizzazione in atto che rende l’architettura scena di altri contenuti. Una ricerca del “più” che tende ad affrancare l’architettura dalle ‘luminose ragioni’ dell’armonia, dai rigori tecnici, statici e funzionali: ora basandosi su una linea di pensiero risalente a Burke e agli ambigui rapporti del sublime con il pittoresco e con “l’estetica del brutto”, che, attraverso gli sviluppi del Romanticismo e della teoria dell’Einfühlung, giungono al l’espressionismo e all’organicismo, sino all’informale, al deforme o all’informe attuale; ora, al contrario, orientandosi verso l’interpretazione kantiana di un’assenza di forma – dall’astrazione del suprematismo all’espressionismo astratto, sino al minimalismo e alla “estetica della sparizione” – per operare, attraverso l’eliminazione di ogni repertorio di natura esplicitamente iconografica, verso una estrema concisione espressiva, verso una riduzione costruttiva tesa a raggiungere, nella ricerca di una “sensazione pura” scaturita dalla “semplice presentazione”, uno stato di sospensione che, nella “sublimazione” della materia, sorprende la nostra immaginazione sul limite della sua dissoluzione24. Si tratta in ogni caso di esprimere l’inesprimibile, la “crisi”, se non lo scacco, della ragione davanti all’irrappresentabile, facendo affiorare – senza mai poterlo afferrare – un substrato che non si lascia “mettere in forma”: quell’elemento latente, quel fondo oscuro e ineffabile presente in alcune ‘figure’ del sublime moderno – come nel “dionisiaco” di Nietzsche, nel “perturbante” di Freud, nello “shock metropolitano” di Benjamin, nel “negativo” di Adorno – a indicare non più la ricerca di una conciliazione degli opposti, bensì (nel superamento della logica dell’identità aristotelica e della dialettica hegeliana) l’esperienza di una alterità, di una negatività non addomesticata, di un altrove, rimosso ed escluso, che riappare improvviso nell’esteriorità – come frattura-divisione o raddoppio-pluralità – annidata ormai nella medesima soggettività.
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Impossibile sarebbe ripercorrere la portata di tali pensieri che hanno sottolineato alcuni aspetti della modernità particolarmente vicini alla nostra attuale sensibilità. Basti qui, solo, ricordare che i luoghi del sublime subiscono una delocalizzazione e un mutamento spazio-temporale: il senso di inquietudine, spaesamento, alienazione e angoscia dell’uomo moderno, sempre più smarrito in un’eccitazione cosmica di cui gli sfuggono le cause, non si lega più agli spazi naturali, ma alla realtà metamorfica e mondana delle nuove metropoli, caratterizzate dalle folle brulicanti e dalle inedite proporzioni degli spazi urbani (Benjamin), dove in luogo dell’aspirazione all’infinito (in una accezione qui prevalente di assoluto ed eterno) subentra – come scriveva Baudelaire – l’esigenza di “estrarre l’eterno dall’effimero”, liberando la forza inaudita del presente, la sua profonda poesia. Tratto del sublime diviene allora la capacità di “innalzare al livello di un’apparizione iconica ciò che nel cuore stesso della notte rimane silenzioso e segreto: è il conflitto dell’essere umano espropriato da se stesso, lacerato fra due esperienze contraddittorie e animato da un desiderio di avventura appassionato e tale da devastare il desiderio di salvezza”25. Traslato nell’architettura, si tratta di un sentimento che, sorto dall’insicurezza di fondo della nuova classe borghese che “ancora non si sentiva al sicuro a casa propria”, dischiude una diversa concezione dell’abitare e dimorare, tesa fra la ricerca di una sicurezza materiale e il “diletto dell’orrore”, in una polarità mai pacificata tra necessità del nomadismo e nostalgia della stabilità. Cosciente di non poter più contare sull’abitudine e sulla permanenza del mondo, nella raggiunta consapevolezza della natura transitoria di ogni certezza ottocentesca, l’individuo si lascia trasportare in un andamento oscillante che diviene “eterno ritorno [inteso] non come tornare indietro – ma ripetersi oltrepassando”26. È questo, senza dubbio, il senso del perturbante (unheimlich) di Sigmund Freud, radicato per etimologia e utilizzo nella sfera domestica (dello heimlich, da heim, casa) e collegato al desiderio di morte, al desiderio impossibile di far
ritorno all’utero materno. Definito, infatti, come “un che di familiare alla vita psichica […] estraniatosi soltanto a causa del processo di rimozione”, “qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che è invece affiorato”27, il perturbante diviene, nell’analisi di Anthony Vidler28 motivo di riflessione trasversale su molte ricerche dell’architettura contemporanea “che pongono, implicitamente o esplicitamente, la questione dello spaesamento nella cultura moderna”. Attraverso illuminanti incursioni nell’architettura di Coop Himmelblau (Wolf D. Prix e Helmut Swiczinsky), James Stirling, Bernard Tschumi, Peter Eisenman, Rem Koolhaas/ OMA, John. Hejduk, fino al “bio-perturbante” o “tecnoperturbante” di Elisabeth Diller e Ricardo Scofidio, lo unheimlich, come ritorno non intenzionale del rimosso, condensa “il tentativo di destabilizzare le convenzioni dell’architettura tradizionale, facendo riferimento alle teorie critiche dello straniamento, dell’indeterminazione linguistica e della rappresentazione usate come veicoli della sperimentazione architettonica di avanguardia”29. Riconsiderando alcuni contributi dell’architettura “moderna” e utilizzando con ironia gli stessi strumenti del razionalismo (quali la trasparenza dell’edificio o la griglia urbana) questi architetti, ci dice Vidler, ne hanno svelato l’irrazionalità delle viscere o l’incoerenza della matrice, giungendo verso una forma di post-urbanesimo tutt’altro che acquietante, articolato su spazi frammentari-disgiunti-dislocati-sovrapposti-stratificati e per questo potenzialmente più inclusivi verso i molti soggetti-oggetti tradizionalmente esclusi dal nostro orizzonte sociale e culturale. Esito, per molti degli architetti richiamati, della svolta post-strutturalista, si delinea di fatto un perturbante postmoderno, prodotto della rilettura di Freud a opera di Jacques Lacan e Jacques Derrida al cui nome, soprattutto, si lega gran parte della forza innovatrice della riflessione architettonica degli anni Ottanta del XX secolo caratterizzata, nella destabilizzazione della purezza formale e nella rigorosa iconoclastia, dal tema della differenza – propriamente différance30 – come differimento del significato e dissemi-
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nazione del senso nelle diverse interpretazioni-fruizioni del l’opera pensata come testo. Si tratta, evidentemente, di inserire nell’architettura livelli multipli di significazione per svelare, attraverso pause inespresse, labilità-assenze-mancanze, i conflitti, gli scarti e le deviazioni rispetto a una tradizione dominante che, nella pretesa di attingere a un unico centro e principio, aveva impedito di scorgere lo spazio della dispersione, della discontinuità, delle autonomie, delle dipendenze differenziate. Di qui l’importanza di tecniche progettuali particolari tese a smentire codici e significati condivisi per generare, attraverso “il pensiero della differenza” – a partire da Georges Bataille fino a Derrida e a Gilles Deleuze – relazioni mai oppositive, piuttosto di tipo trasformazionale, ambivalenti, eccessive, insolite e perturbanti. Relazioni che caratterizzano tanto il decostruzionismo/ decostruttivismo quanto le ricerche, precedentemente richiamate, sul deforme e l’informe attuale dove a divenire centrale è il tema della piega deleuziana31, quale campo flui do, denso, disomogeneo, continuamente diversificato: “cam po verso l’infinito” in cui non c’è l’Essere in sé ma una pluralità di forze in relazione fra loro. In tutti i casi “il pensiero della differenza” permette di istituire immediati paralleli con l’estetica del sublime, anche nelle sue interpretazioni storiche fin qui delineate. Nelle deformazioni-distorsioni-interruzioni che alterano la regolarità delle forme, nelle spirali e labirinti tesi a provocare straniamento e instabilità, nelle piegature e capovolgimenti che impediscono una lettura orizzontale dello spazio, nelle oscillazioni e vibrazioni atte a introdurre il passaggio di un movimento, tornano alcuni dei caratteri fondamentali del sublime naturale: la destabilizzazione provocata dalla radicale perdita di riferimenti agisce come l’oscurità che ci espropria dei nostri poteri visivi, esponendoci a una totale insicurezza; la componente di indeterminatezza, sfuggendo a qualsiasi rappresentazione esauriente, evoca qualcosa di assente, mancante, oscuro, inquietante, che sfida continuamente i confini, mentre la struttura della percezione va in
frantumi sprofondando il soggetto nel caos. Ma è proprio da questo caos che può – in alcuni casi – emergere alla fine il piacere, grazie a quell’incipiente nuovo ordine che Joyce chiamava chaosmos: elementi che sembravano rifiutare qualsiasi coesistenza finiscono per mettersi insieme. “Ciò che […] ci sarebbe apparso inesperibile, inimmaginabile, ingodibile, il sublime ce lo rende presente, trascinando il nostro pensiero verso il suo limite o il suo punto estremo: quel punto in cui tutto si disgela e in cui però tutto potrebbe anche stringersi in altri modi”32. Riflessioni transitorie Se lo specifico del sublime consiste nello “squarciare il velame protettivo delle nostre certezze, nell’aprire una finestra sul caos e nel destabilizzare ogni specie d’identità”33; ovvero, se in campo artistico, lo si può leggere come il tentativo di neutralizzare, in un confronto sempre più serrato dal ’700 in poi, “l’ipoteca metafisica imposta dal bello alla cultura occidentale”34, appare evidente la sua sintonizzazione con molte esperienze artistiche e architettoniche contemporanee, sostenute – nella crisi dei modelli astratti e totalizzanti – da un orientamento verso l’interrogazione e la messa in discussione della forma, con la ripresa di aspetti a lungo emarginati dall’estetica tradizionale: dalla dismisura/sproporzione/disarmonia/dissonanza, sino alle sperimentazioni più radicali dell’informe, della non-forma, dell’assenza di forma. Nella mancanza di certezze, che è innanzitutto perdita di una visione antropocentrica, il sublime opera infatti come “forza eversiva” delle norme codificate in una disseminazione del soggetto che, ripensato nella sua inerenza al mondo, si trasforma sino alla soglia del limite dell’altro da sé: l’altro può essere la natura, come nel sublime naturale di Burke e Kant, oggi dilatata allo spazio siderale aperto dalle sonde spaziali o dai primi passi dell’uomo sulla Luna; la realtà “intramondana” del metamorfico e agitato mare del l’attualità, ma anche lo “spazio globale” postmoderno o
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multinazionale, l’iperspazio della “grande rete comunicazionale […] nella quale – scrive Fredric Jameson – ci troviamo impigliati in quanto soggetti individuali”35. è questo perdersi nei recessi dell’universo, nelle reti globali complesse, come nell’angosciosa voragine dell’esistenza, a costituire un potente viatico al sublime oggi. Privilegiando, nel superamento dell’esattezza e chiusura della forma in se stessa, ora la poetica dell’assenza, della mancanza e persino del dissidio, ora la ricerca dell’indistinto, del vago e dell’indefinito, ora l’esaltazione di una formasenza-forma, il sublime evidenzia sempre la nostra implicazione nella vertigine di un infinito dispiegarsi del mondo, il movimento inafferrabile che ci afferra tale che “all’esperienza del sentirsi ghermiti s’accompagni sempre l’esperienza del sentirsi smarriti”36. Come scriveva Barnett Newman, esponente di spicco dell’espressionismo astratto, in The Sublime is Now, si tratta di riaffermare, attraverso il sublime, “il desiderio dell’uomo […] per tutto ciò che riguarda le emozioni assolute”37, in un confronto con lo spettatore che non è più frontale e meramente visivo, ma fisiopsicologico e pulsionale, che investe la sua motilità e la sua scala corporea. Da questa “impregnazione” si dischiude quel processo di sublimazione a indicare la “logica del passaggio” che il sublime mette in atto: quell’“accoppiamento sconvolgente che fa sorgere il significante nel reale e inversamente il reale nel significante”; quella “fusione provvisoria”38 o folgorazione – non a caso richiamata dal Longino – dell’istantaneo che irrompe per infrangere le maglie del discorso. Si tratterà allora, nell’arte come nell’architettura, di superare tutte le concezioni convenzionali, passive e puramente ricettive dell’opera, lavorando nell’ottica di uno sfon damento dei limiti (non solo fisici, ma anche metaforici) di ogni espressione artistica, sino a modificare le strutture stesse necessarie alla sua comprensione, poiché “l’elemento nuovo sconvolge [sempre] la struttura, l’ordine e finanche il tenore di ciò che credevamo acquisito”. “Né il sublime, né la sublimazione – sottolinea infatti Saint Girons –
potrebbero appartenere a un mondo di valori definiti o definibili una volta per tutte. La posta che essi mettono in gioco è una metamorfosi del soggetto pronta a estrarre da significanti d’elezione un vigore inventivo e un eroismo del tutto inediti. Ma, affinché tali significanti possano emergere, [occorre] stabilire un vuoto nel luogo del sublime […] da cui la catena dei significanti prende ad articolarsi e a disarticolarsi”39, facendo risuonare nell’immanenza del hic et nunc l’indeterminabile, il soprasensibile, l’escluso: quell’impresentabile in statu nascendi che tuttavia si presenta, mostrando il carattere situante ma mai situabile del sublime.
1 B. Saint Girons, Fiat Lux. Una filosofia del sublime, trad. it., Palermo 2003, p. 14. 2 Pseudo-Longino, Perì hýpsous, trad. it. Il Sublime, a cura di G. Lombardo, Palermo 1992 (2°ed.). Pur essendo stato composto nell’antichità classica, probabilmente a metà del I sec. d.C., questo piccolo trattato di un anonimo – attribuito per errore al retore e filosofo neoplatonico Longino Cassio – fu conosciuto soltanto nell’età moderna. Pubblicato per la prima volta nel 1554 a Basilea da Francesco Robortello, fu poi reso noto al vasto pubblico europeo dalla traduzione francese di Boileau (1674) che, scegliendo di tradurre il greco to hýpsos con le sublime, impose nelle lingue moderne l’uso di questo termine. (Nel prosieguo del testo per brevità, nel riferirci al suo autore, useremo semplicemente la dizione “Longino”). 3 Per molte delle riflessioni contenute in questo testo, si rimanda alla lucida e approfondita esposizione di B. Saint Girons, Fiat Lux cit. e Id., Il sublime, trad. it., Bologna 2006. 4 Ivi, trad. it., p. 34. 5 N. Boileau, Préface al Traité du Sublime ou du Merveilleux dans le Discours (1674), ora in Id., Œuvres Complètes, Paris 1858. 6 B. Saint Girons, Il sublime cit., p. 123. 7 B. Saint Girons, Fiat Lux cit., p. 352. 8 E. Burke, A Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful (1757, 1759), trad. it. Inchiesta sul Bello e il Sublime, a cura di G. Sertoli e G. Miglietta, Palermo 1985, p. 85. 9 R. Bodei, Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia, Milano 2008, p. 42. 10 E. Burke, op. cit., trad. it., p. 71. 11 Ibidem 12 Cfr. R. Bodei, Paesaggi cit., p. 45. 13 R. Bodei, Le forme del bello, Bologna 1995, p. 86. 14 G. Sertoli, Presentazione, in E. Burke, op. cit., trad. it., p. 31.
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15 I. Kant, Critica del Giudizio, trad. it., a cura di A. Gargiulo, (riv. da V. Verra), Introduzione di P. D’Angelo, Roma-Bari 1997. 16 I. Kant, op. cit., par. 23, p. 161. 17 G. Sertoli, Presentazione cit., p. 33. 18 F. Sossi, Ipotesi sul sublime, in “aut aut”, n. 231, maggio-giugno 1989, pp. 25-31, p. 30. Il riferimento è a: J.-F. Lyotard, Le sublime et l’avant-garde, conferenza del 1983, in L’inhumain. Causeries sur le temps, Paris 1988. Relativamente al pensiero di Lyotard sul sublime, cfr. inoltre: “Anima minima” in Moralités postmodernes, Paris 1993 (trad. it, Anima minima. Sul bello e il sublime, Parma 1995). 19 J.-F. Lyotard, L’interesse del sublime, in “aut aut” cit., pp. 3356, pp. 51-52 (i corsivi sono nostri). 20 Ivi, p. 53. 21 J.-F. Lyotard, Leçons sur l’Analytique du Sublime, Paris 1991, pp. 285-86. 22 R. Bodei, Paesaggi cit., p. 52. 23 B. Saint Girons, Fiat Lux cit., p. 108. Il riferimento è all’Enquiry di Burke, trad. it., p. 104. 24 Particolarmente importante ai fini di una ricercata “immaterialità” del sublime, fu la grande mostra Les Immatériaux, curata da J. L. Lyotard nel 1985 al Centre Pompidou. Questa esposizione fu molto influente per le implicazioni indotte sul nuovo rapporto “materialitàimmaterialità” nell’architettura, a partire dalla ricerca di Jean Nouvel. 25 B. Saint Girons, Il sublime cit., p. 171. 26 Il riferimento è a: M. Cacciari, Metropolis. Saggi sulla grande città di Sombart, Endell, Scheffler e Simmel, Roma 1973, p. 33. 27 S. Freud, Das Unheimliche, 1919; trad. it., Il perturbante, in Opere, vol. IX, Torino 1977, pp. 77-118, p. 102. 28 A. Vidler, The Architectural Uncanny. Essays in the Modern Unhomely, Cambridge (Mass.) – London 1992, trad. it. Il perturbante dell’architettura. Saggi sul disagio nell’età contemporanea, Torino 2006. 29 Ivi, p. IX. 30 La sostituzione grafica della “a” con la “e” è apportata da Derrida, per sottolineare la non pronunciabilità di una parola che è assenza, origine non piena: différance conserva infatti i due sensi del verbo latino differre come disseminazione (essere non identico) e differire (rinviare a) che rende il senso dell’impossibilità a ricoprire la différance con una qualche identità. Nella differenza non c’è mai identità, ma solo movimento. Cfr. in particolare: J. Derrida, La scrittura e la differenza, trad. it., Torino 1971 (ed. or. 1967); Id., Della Grammatologia, trad. it., Milano 1969, (ed. or. 1967); Id. La disseminazione, trad. it., Milano 1989 (ed. or. 1972); Id., Margini della filosofia, trad. it., Torino 1997 (ed. or. 1972). 31 Il riferimento è evidentemente a: G. Deleuze, Le pli. Leibniz et le Baroque, Paris 1988, trad. it., Torino 1990. 32 B. Saint Girons, Il sublime cit., p. 136. 33 Ibidem.
34 Il riferimento è a: L. Russo, Dal Bello al Sublime, in Da Longino a Longino. I luoghi del Sublime, a cura di L. Russo, Palermo 1987. Sugli sviluppi recenti del dibattito italiano sul sublime, cfr.: F. Solitario, Itinerari del sublime, Milano 1994 (2° ed.), e per l’arte, M. Carboni, Il sublime è ora. Saggio sulle estetiche contemporanee, Roma 2003 (4° ed.). 35 F. Jameson, Postmodernismo ovvero La logica culturale del tardo capitalismo, trad. it., Roma 2007, p. 60. 36 B. Saint Girons, Il sublime cit., p. 231. 37 B. Newman, The Sublime is now (1948), in Id. Selected Writings and Interviews, New York 1990, p. 170. 38 B. Saint Girons, Il sublime cit., p. 222. 39 Ivi, rispettivamente, p. 216 e p. 214 (i corsivi sono nostri).
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Continuando ad interpretare l’arte d’oggi OLGA SCOTTO DI VETTIMO
Nathalie Heinich in Triple jeu de l’art contemporain1, un testo del 1998, definisce l’arte contemporanea un “genere” dell’arte e non un momento storico dell’evoluzione artistica, delimitando, così, una categoria non direttamente corrispondente al soddisfacimento di una mera esigenza di periodizzazione. In un recente saggio di approfondimento sul tema, la sociologa dell’arte torna di nuovo sull’argomento affermando che: “la specificità della situazione attuale, rispetto ai dibattiti del secolo scorso, sta nel fatto che non esistono più un unico “mondo” dell’arte […] e un’unica definizione di che cosa sono, o devono essere, le arti plastiche. […] L’arte contemporanea si basa dunque sulla sperimentazione di ogni forma di rottura con ciò che precede, considerando positiva la trasgressione associata a un sovvertimento critico, e negativa quella legata alla moda e alla ricerca di originalità a ogni costo o di notorietà a buon mercato. […] La difficoltà ad accettare l’arte contemporanea è tanto maggiore quanto più marcata è la tendenza di quest’ultima a operare uno spostamento del valore artistico, che non sta più nell’oggetto proposto ma nell’insieme delle mediazioni possibili tra l’artista e lo spettatore: racconti sulla fabbricazione dell’opera, leggende biografiche, tracce di performance, reti relazionali, groviglio di interpretazioni, pareti di musei chiamate a integrare oggetti che le violentano, tutto ciò contribuisce a
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creare l’opera tanto quanto la materialità dell’oggetto, se non di più”2. La studiosa francese, dunque, individua come specificità dell’arte contemporanea la comparsa di elementi nuovi e imprescindibili che non riguardano più l’opera in sé, ma un complesso insieme di ‘ingerenze’ che producono ‘informazioni’ capitali ed essenziali, non sempre dipendenti dall’opera, ma che afferiscono a un sistema, a un campo più ampio di senso. Secondo questa prospettiva, l’opera, l’artista e lo spettatore contribuiscono solo in parte al compiersi effettivo del senso stesso. Di questo insieme si era occupata, seppure in altro modo, Angela Vettese che nel primo capitolo di Ma questo è un quadro? Il valore dell’arte contemporanea3 aveva riflettuto su quelli che lei stessa definiva “gli attori della legittimazione culturale”, individuando una pluralità di figure concorrenti tutte, a diverso titolo, all’attuale composizione di un sempre più articolato sistema di sensi e significati, che per semplificare definiamo “arte contemporanea”. Se la critica d’arte oggi procede di preferenza volgendo l’attenzione a grandi temi di convergenza tra i linguaggi e le specificità del singolo artista, è perché, pur senza una chiara consapevolezza, si ritiene imprescindibile un’indagine teorica che consideri una numerosa serie di coordinate, di elementi e di intersezioni più che la semplice individuazione di una “corrente” artistica storicizzabile che possa essere ricondotta a un movimento tout court. Prendendo in prestito la classificazione dei diversi attori cui fa riferimento il testo citato (gli artisti stessi, i musei “come centri di validazione”, le università, le mostre “come palestre e vetrine”, i curatori, i premi e il mercato, nelle diverse declinazioni di collezionisti, mercanti e galleristi) si può affermare che essi impongano, ciascuno nel proprio ambito di competenza, una idea diversa dell’arte contemporanea, costituendo e proponendo un’offerta molteplice che rappresenta esplicitamente i vari interessi di valore che questi stessi attori esprimono. In tal modo, non appare sufficiente procedere a una ricognizione ontologica sull’arte contemporanea oggi, tentando di ricondurla nell’ambito di
categorie storicizzate appartenenti ancora al moderno e al postmoderno. In un’epoca di fluidità ‘post post moderna’, dunque di transizione tra il superamento del pensiero debole e l’individuazione di nuovi saldi fondamenti teorici e nominali, è possibile e necessario invece proporre una lettura del contemporaneo attraverso la lente della parzialità e della partigianeria dei singoli soggetti coinvolti. D’altra parte, “mentre l’arte del passato di avvaleva di un «codice multiplo», quella contemporanea si fonda su tanti codici singoli e specializzati. La caduta del codice multiplo è, a nostro avviso, la principale causa della scarsa comprensione dell’arte d’oggi. […] Insomma, il codice multiplo dell’arte del passato consisteva in tanti strati di conoscenze tali che ogni singola opera, per questo o quel motivo, dal più ingenuo al più sofisticato, poteva essere compresa dal maggior numero di persone di qualunque livello di informazione culturale. […] E queste manifestazioni di tanti codici e messaggi specializzati hanno richiesto per la comprensione di ogni tendenza dell’arte contemporanea una particolare chiave di lettura accessibile solo ad una élite in grado, di volta in volta, di acquisirla non senza fatica ed equivoci”4. La scomparsa del “codice multiplo”, che viene riferita all’arte di tutto il Novecento, non solo inibisce la decodificazione dell’opera per il singolo, rendendo incerto il significato e favorendo l’affermazione di figure critiche di mediazione tra l’opera e il fruitore, ma si porta dietro, a mio avviso, la possibilità per i diversi attori del sistema dell’arte5 (come da definizione di Lawrence Alloway) di esprimere – o imporre – una propria idea di arte contemporanea, che, di volta in volta, muterà di prospettiva a seconda che tale idea venga espressa (o imposta) dal mercato, dal museo, dalla critica e così via, continuando per sistemi codificanti. L’interrogativo di fondo vuole ipotizzare, dunque, la possibilità di rifondare un’epistemologia dell’arte contemporanea partendo da un punto di vista critico-interpretativo che non si riferisca all’opera o all’artista, ma che consideri l’opera e l’artista parti integranti di un sistema di cui essi
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non sono che un punto di vista, strabico ma esperito. “Il lavoro critico, che è certo più possibile di ieri, non può che muovere proprio da queste irrinunciabili acquisizioni: dal l’abbandono della pretesa di disciplinamento del sistema dell’arte e dalla consapevolezza della discontinuità che corre fra le opere e il testo critico”6. Ma quanto più la mediazione critica tra opera e pubblico si fa urgente per sopperire al venire meno di quel pluralismo di significato certamente garantito dal “codice multiplo”, tanto più si assiste a una “indifferenza per l’arte contemporanea” e a un’assenza di commento critico nei luoghi dove questa viene normalmente presentata. A un linguaggio artistico spesso impermeabile e bisognoso di accompagnamento teorico non pare sempre seguire una consapevolezza reale della funzione della critica e le occasioni espositive nei luoghi pubblici e privati vengono ridotte – degradate, se guardate da alcuni punti di vista – a occasioni di mondanità e svago, abitate da un pubblico di non addetti ai lavori privato di corretti e sufficienti supporti interpretativi in grado di assicurare il ‘successo ermeneutico’ dell’intera operazione artistica. Nel passaggio, quindi, dal materialismo della modernità e dalla fallimentare soluzione offerta dall’immaterialismo postmoderno all’epoca attuale, l’ipermaterialismo (o, forse, meglio sarebbe coniare e riempire di contenuti il termine “ipermodernismo”) si presenta come una vasta area di crisi del pensiero7 in cui, se sono possibili alcune classificazioni, più discutibili si mostrano scelte volte a operare forzate sintesi per ricondurre l’espressività creativa a ambiti definitori precipui. Per tale via, dunque, si potrebbe soddisfare l’urgenza di sistemazione storica non più nell’individuazione e rifondazione di movimenti (gli “ismi” che hanno attraversato il Novecento), ma operando una narrazione dei ‘punti di vista’ che orientano, plasmano e sottendono l’arte contemporanea. Un’operazione critica di siffatta portata complessiva sfuggirebbe all’analisi del singolo artista o all’individuazione dei linguaggi attraverso la tecnica, come pure è stato ed è ancora possibile compiere. Pertanto, per potersi interroga-
re su quale (e cosa) sia l’arte contemporanea oggi, si propone di operare un radicale spostamento e moltiplicazione funzionale del punto di vista e di procedere sostituendo alle classificazioni nominali dei movimenti i dibattiti teorici che investono, invero, la pluralità di attori che agiscono nel nostro sistema di riferimento. Innanzitutto, dunque, il curatore, il quale a differenza del ruolo che svolgeva il critico all’epoca delle avanguardie, individua il suo fine nel “costruire un proprio discorso teorico, con l’aiuto delle opere prescelte e degli artisti selezionati. Ne consegue una visibilità sempre più glamour, almeno negli ambienti dell’avanguardia, e un prestigio che aumenta la sua vera ricchezza professionale, il capitale relazionale: la rete di rapporti con le gallerie, collezionisti, sponsor, amministrazioni, direttori di musei e soprattutto con gli artisti medesimi”8, incrementata spesso da un rapporto privilegiato con la comunicazione mainstream e specifica, nazionale e territoriale. Questa rete di relazioni, trasformate in alleanze, consente al curatore ‘indipendente’ di indirizzare le proprie scelte, legittimate e sostenute dall’ampio consenso del suo ingranaggio sistemico di riferimento. Più volte si è riflettuto, anche a chiare lettere, sul nuovo ruolo del curatore e sulla nozione di autorità “curatoriale”, per la quale i curatori sono diventati essi stessi autori9 (e non necessariamente nella variante, pure molto diffusa, di artista-curatore). Tuttavia la messa in crisi del suo ruolo si presta a continue riflessioni e slittamenti, spesso rintracciabili anche nei postulati titolativi di esposizioni d’arte internazionali. Per esempio la 50a Biennale di Venezia del 2003, curata da Francesco Bonami, affermava “la dittatura dello spettatore”, restituendo un’immagine di autarchia egemonica da parte del pubblico/spettatore; mentre con il Padiglione Italia dell’edizione della Biennale 2011 Vittorio Sgarbi mette tra parentesi qualsiasi specialismo settoriale a favore di una democratica indistinzione intellettuale dei saperi: “L’Arte non è cosa nostra”, per l’appunto. Il museo contemporaneo senza dubbio non è più solo il luogo di conservazione delle collezioni, ma imprescindibil-
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mente (e, forse, soprattutto) “luogo di produzione”, nel senso indicato da Alessandra Mottola Molfino10, con le molteplici e inevitabili conseguenze per il nuovo profilo semantico e con il nuovo ruolo che il museo è investito ad assumere: “la committenza può essere occasione per ridefinire il rapporto tra mercato e museo, assumendo quest’ultimo una posizione di forza nella negoziazione che riguarda la scelta dell’artista per l’incarico per l’opera, riconoscendo alle gallerie un ruolo di mediatore, ma riducendone di fatto i margini di ingerenza. E non solo, assumendo un ruolo di primo piano che supera l’identità del museo come collezionista pubblico, volto cioè ad acquisire senza entrare nel merito della produzione, il museo si ritaglia un profilo diverso da quello tradizionale e da quello iperconsumistico assunto dai luoghi dell’arte di ultima generazione. […] Il museo committente o il «museo atelier», come scopritore di talenti […], potrebbe invertire questa rotta, proponendosi come motore del sistema dell’arte, in grado di fornire linee guida e di promuovere gli artisti non per ragioni legate al mercato, ma per scelte dettate da un criterio di qualità autonomamente definito. In una parola, l’ingresso nel modo dell’arte come soggetto forte e autorevole può costituire per il museo la possibilità di orientarne le strategie e di incidere sul mercato. […] Con la consapevolezza, però, di incarnare un’ambiguità: la storicizzazione in tempo reale dell’arte in una modalità sincronica al suo stesso farsi, che azzera la distanza critica necessaria per legittimarne l’ingresso nel museo”11. Il museo, infatti, prima ancora di essere uno spazio espositivo è uno spazio critico, un vero e proprio “centro di validazione” dell’arte, in cui l’opera viene al tempo stesso valorizzata (esteticamente, considerando nella sua interezza la complessità di questo avverbio) e neutralizzata. Tale insita dicotomia tende a rendere inoffensiva l’arte, soprattutto qualora il museo preferisca esibire se stesso facendosi opera d’arte e proponendo un modello competitivo che subentra a quello tradizionale (un esempio su tutti è il Museo Guggenheim di Bilbao, progettato dall’architetto Frank O. Gehry). Certamente il museo d’arte contemporanea non si
limita più a espletare funzioni proprie di un modello ormai anacronistico, ma dialoga con un mercato di cui contribuisce spesso a consacrare operazioni e assume, pertanto, un ruolo sempre più riconosciuto nella determinazione di tendenze e nella fortuna perpetua della memoria dell’artista (e non solo dell’opera in sé). Nel sistema di riferimento, il museo contemporaneo presenta, inoltre, una sfaccettatura di indeterminatezza “perché sempre più spesso l’arte tende a scavalcare la mediazione dell’architettura per negoziare direttamente il suo spazio nella società e nella città (arte pubblica, intercambiabilità di artisti e architetti in molti progetti, occupazione di “spazi dismessi”, musei “aperti”, etc.)”12. Un articolato e capillare meccanismo di concorsi e premi (assieme a quello delle acquisizioni) costituisce senza dubbio la più diffusa modalità per la formazione/incremento delle collezioni, consacrando, nel caso del museo contemporaneo, la sua qualificante vocazione ad eccellere nelle vesti di committente/mecenate e promotore/collezionista (in molti casi soprattutto a sostegno delle più giovani generazioni di artisti). La formazione di importanti collezioni d’arte musealizzate (si pensi ai recenti e antitetici esempi del MAXXI di Roma e della Metropolitana dell’Arte di Napoli) ha in parte potuto arginare e contenere il determinarsi di quelli che De Fusco ha definito “artifici di poetica”, codici immaginati dall’artista e dal critico per sopperire all’assenza di domanda da parte di una ben individuabile com mittenza, come sarebbe accaduto, ad esempio, per l’Arte Povera e poi per la Transavanguardia: “se, infatti, la committenza tradizionale precedeva la produzione di opere, ora l’artista prima produce e poi offre l’opera sul mercato attraverso la mediazione di gallerie e di fiere internazionali”13. Il mercato dell’arte contemporanea è animato da un sottoinsieme di soggetti, tutti partecipi a vario titolo alla definizione di un diverso livello di affermazione dell’arte nel sistema. Le vicende legate alle operazioni commerciali di speculatori/collezionisti, di galleristi/mercanti non rispondono sempre a individuabili determinazioni di gusto e, tan-
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to meno, di reale affermazione del valore artistico dell’opera o della ricerca. Il mercato è e rimane un complesso palcoscenico di azione, prevalentemente distinto tra un mercato primario (afferente alle opere immesse per la prima volta sul mercato) e un mercato secondario (di continua circolazione, dunque, del prodotto artistico), entrambi comunque alla ricerca di legittimazioni autorevoli che provengono da pubblicazioni scientifiche e dalla consacrazione finale del l’opera all’interno di prestigiose collezioni, preferibilmente museali. Esiste, però, un’importante eccezione, se non forse un’inversione di tendenza, anche rispetto ad alcune note speculazioni che hanno interessato il mercato internazionale dell’arte dalla metà degli anni Novanta (quando, ad esempio, lo squalo in formaldeide14 di Damien Hirst venne prima acquistato da Charles Saatchi, poi venduto per 12 milioni di dollari nel 2004 dal gallerista newyorkese Larry Gagosian a Steve Cohen, ricchissimo hedge-fund manager del Connecticut, per entrare, infine, nella collezione del MoMA di New York). Parallelamente alla sovrastruttura economica globalizzata del sistema dell’arte (che intuisce e percepisce l’opera esclusivamente come prodotto di speculazione finanziaria) resiste infatti una sacca di attenzione all’opera come prodotto artistico, quindi ‘diversamente commercializzabile’, che non si può risolvere o ridurre alla mera creazione di un branding di successo. Pertanto, se si esclude quella mediaticamente valida ma assai ristretta fetta di mercato alto, direttamente dipendente dalle leggi della finanza (e della comunicazione) e che sempre indirizza e consacra la fortuna del singolo artista, il nostro sistema di riferimento consente l’emersione di una pluralità indistinta e molteplice di linguaggi e tendenze, pronte ad essere assorbite, accolte e valorizzate dal pubblico e dalla fitta rete del mercato basso. Una simile realtà si complica per la presenza di un pubblico che, anche se non specializzato, è sempre più ricettivo e stimolato e, quindi, sempre esposto alle più diverse sollecitazioni dell’offerta artistica. Ciò avviene soprattutto laddove quest’ultima non si evidenzia solo come formulazione linguistica del singolo autore, ma si palesa come esperienza
di un collettivo di artisti, che propone e indirizza una pratica dell’arte e non più un linguaggio. Nel processo di democratizzazione che viene dal basso e che porta alla nascita di collettivi artistici spesso operanti al fianco delle istituzioni, l’artista si fa curatore-promotore-organizzatore, contribuendo a disarticolare possibili schematismi analitici a favore di un rinnovamento del modo di pensare all’arte. Il contemporaneo appare, dunque, come il luogo privilegiato delle contraddizioni, dove al fianco dei poteri forti e dei grandi capitali si affaccia l’idea nichilista della decadenza, della sperimentazione anarchica, della latitanza della critica, dell’effimero, dell’incertezza e della labilità dei confini, dell’instabilità, del marketing, del patinato, della frantumazione culturale e della globalizzazione dei saperi. In realtà, all’interno del sistema dell’arte, i suoi attori costruiscono un enorme laboratorio di esperienze, in cui convivono opposizioni e dicotomiche fragilità. L’arte contemporanea oggi è, prima di tutto, in sintonia con l’inafferrabilità e le improvvise accelerate temporali; è incessante fucina, luogo di produzione che sfugge al conio di nuove proposte definitorie che richiederebbero in prima istanza una sua iscrizione a precedenti modelli culturali di riferimento. L’oggi dell’arte può essere, dunque, indifferentemente un luogo, un’idea, un progetto, un’esperienza, la cui identità è verificabile solo se riferita all’intero di quel sistema dell’arte che ne intende legittimare l’esistenza. In tal modo l’opera stessa (intesa come produzione materiale) diviene attore del sistema a pari dignità degli altri, quindi si presta ad essere elemento forse ancora necessario ma non più sufficiente per l’esistenza di una catena di produzione culturale che si autoalimenta e che cura, valorizza, promuove, colleziona, fruisce, acquista, conserva e, soprattutto, produce l’immaterialità della cultura.
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1 N. Heinich, Le triple jeu de l’art contemporain. Sociologie des arts plastiques, Les Éditions de Minuit, Paris 1998. 2 N. Heinich, Per porre fine alla polemica sull’arte contemporanea, in Del contemporaneo. Saggi su arte e tempo, a cura di F. Ferrari, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 54; 64-65. 3 A. Vettese, Ma questo è un quadro? Il valore dell’arte contemporanea, Carocci, Roma 2005. 4 R. De Fusco, Storia dell’arte contemporanea, Editori Laterza, Roma-Bari, VII ed. 2010 (I ed. 1983), pp. VII-VIII. 5 L. Alloway, Network: the Art World Described as a System, in “Artforum”, settembre 1972. 6 A. Trimarco, Confluenze. Arte e critica di fine secolo, Guerini Studio, Milano 1990, p. 80. 7 Cfr. A. Trimarco, Galassia. Avanguardia e postmodernità, Editori Riuniti, Roma, 2006 (in particolare pp. 79-91 per la riflessione sui temi Avanguardia, neoavanguardia, galassia postmoderna e pp. 93101 per La destinazione della critica d’arte oggi). 8 A. Vettese, op. cit., p. 36. 9 Cfr. J.C. Welchman, L’arte e le istituzioni: riempire (e cancellare) dei vuoti, in Le funzioni del museo. Arte, museo, pubblico nella contemporaneità, a cura di S. Chiodi, Le Lettere, Firenze 2009, pp. 13-37 (in particolare pp. 22-24). 10 A. Mottola Molfino, L’etica dei musei, Allemandi & C., Torino 2004, p. 145. 11 A. Polveroni, This is contemporary!, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 73-74. 12 P. Ciorra, No building no party? La prossima generazione dei musei, in Museums next generation. Il futuro dei musei, a cura di P. Ciorra e D. Tchou, catalogo della mostra, Electa, Milano 2006, pp. 11-13. 13 L. Moscato Esposito, Immagini. Corso di Estetica, Pontificia Università Teologica dell’Italia Meridionale, Sezione San Luigi, Napoli 2004, p. 101. 14 D. Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, 1991, vetro, acciaio, silicone, squalo, 5% soluzione di formaldeide, cm 213,4 × 640,1 × 213,4, New York, MoMA; cfr. D. Thompson, Lo squalo da 12 milioni di dollari, Arnoldo Mondadori, Milano 2009.
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Le cose che contano PIETRO NUNZIANTE
Già nelle prime pagine di Spazio, tempo ed architettura, Giedion riconosce che l’arredamento della vita quo tidiana, gli oggetti senza rilievo che sono il risultato della produzione in serie – cucchiai, bottiglie, bicchieri, tutte le cose che guardiamo ora per ora senza vederle – sono diventate parte della nostra natura. Esse si sono intrecciate nelle nostre vite, senza che noi ce ne accor gessimo1. Giedion esprime il nucleo dell’indagine che lo porterà negli anni seguenti, durante il suo secondo soggiorno negli Stati Uniti, alla scrittura del più importante testo sulla storia ed evoluzione del progetto in epoca industriale. Ci riferiamo qui a: Mechanization Takes Command: A Contribution to Anonymous History, pubblicato a New York nel 1948; testo che può essere considerato come fondativo per la storia del design, il cui titolo diventerà in italiano: L’era della meccanizzazione, traduzione che riteniamo impropria e parziale. In primo luogo perché il testo di Giedion non si riferisce ad un periodo storico circoscritto, bensì ad un processo, quello dell’affermazione graduale dei principi che la meccanizzazione genera nell’organizzazione delle attività produttive e della vita quotidiana, così come nella trasformazione dei modi della creatività che attraversa diverse epoche.
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Lo studio di Giedion prende in esame fatti avvenuti nell’arco di un millennio, fatti eterogenei, ma a cui applica una stessa attenzione, uno sguardo che giunge a configurare un’inedita fenomenologia della meccanizzazione. Sotto questa luce la costruzione dei motori e quella degli utensili, quella del mobilio come la configurazione dell’ambiente domestico appaiono frutto di un unico insieme di processi. La traduzione del titolo in italiano omette l’approccio diacronico dell’analisi: l’autore svolge un percorso a partire da alcuni casi studio emblematici, disinteressandosi di fornire un quadro dello sviluppo complessivo del sistema industriale entro cui si colloca l’indagine storica. In secondo luogo, nel titolo in italiano, è omesso del tutto il predicato, quello che sostanzia i principali interrogativi di Giedion: Takes Command vuol dire alla lettera: prende il comando. In discussione è dunque anche l’idea di controllo: per controllare la meccanizzazione è necessaria una conoscenza senza precedenti degli strumenti di produzione. In questo modo, il titolo del suo lavoro suggerisce il quesito: se sia la meccanizzazione a prendere il comando, o piuttosto l’essere umano a mantenere il controllo sulla macchina. Giedion non è certamente il solo a dare voce a questa preoccupazione, che chiaramente risente della temperie culturale prodotta dalla seconda guerra mondiale, e della conseguente crisi del mito del progresso. Filosofi, come Ellul e Marcuse avrebbero discusso della tecnologia come qualcosa di autonomo, che non è più esclusivamente sotto il controllo umano. Lo sforzo principale di Giedion, pur senza mai esplicitarlo in modo definitivo, appare proprio quello di affrontare la meccanizzazione come problema da orientare eticamente. La meccanizzazione è una fonte di energia come l’ac qua, il fuoco e la luce. È una forza cieca, priva in se stes sa di orientamento e senza segno positivo o negativo. Come per le forze della natura tutto dipende da come
l’uomo la utilizza e da come se ne difende. Che l’uomo abbia creato la meccanizzazione traendola dalla propria interiorità, ne aumenta la pericolosità perché essa agisce dall’intimo in modo più incontrollato che le forze della natura, agisce cioè sui sensi e sulla struttura spirituale del suo inventore. Poiché la meccanizzazione agisce sempre in una forma ognora diversa su di noi, tutto si limita a questa domanda: in che modo possiamo inserir la nella nostra vita?2 Il principale quesito che ne scaturisce è: può la meccanizzazione prendere il comando della vita? Mechanization Takes Command è un testo da cui apprendiamo che i problemi tecnici hanno soluzioni tecniche, ma che queste soluzioni possono generare nuovi e più grandi problemi3. La fortuna del saggio di Giedion deve fare i conti ancora oggi con ciò che Banham sostenne nel 1970 e che oggi quarant’anni dopo assume il carattere di vera e propria profezia: il vero difetto del libro sta però nel modo in cui è stato recepito. Tenuto in soggezione dall’immensa repu tazione dell’autore, il mondo architettonico ha accolto Mechanization Takes Command come una relazione au torevole e conclusiva, e non come un inizio sperimentale in un settore di ricerca che offriva pressoché infiniti spunti per studi successivi. Ad oltre venti anni dalla sua apparizione, esso non è stato né commentato, né appro fondito, né demolito. “Giedion – si è detto una volta – ha lasciato poco da aggiungere”4. L’avvertenza dell’autore sopra riportata e il sottotitolo contributo ad una storia anonima aprono la tradizione moderna ad un nuovo piano d’indagine. Assumono importanza tutte quelle scoperte e invenzioni, che prive di un movimento intellettuale coeso di riferimento, hanno rivoluzionato la cultura materiale del produrre. Aspetti ed esperienze, che erano state fino al documen tato studio di Giedion5 viste come disgiunte, acquistano un nuovo spessore, grazie alla messa a fuoco dei loro rapporti di connessione. Nel loro complesso le cose modeste,
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di cui si parlerà, hanno sconvolto il nostro sistema di vita fin dalle fondamenta. Queste piccole cose quotidiane si accumulano sino a formare energie che afferrano tutti quanti si muovono nella cerchia della nostra civiltà. Il formarsi delle condizioni di vita quotidiane è altrettanto importante delle esplosioni storiche, perché la loro so stanza infiammabile si è andata accumulando nella vita anonima6. Il punto di svolta storico, che è anche la chiave d’accesso alla linea principale della ricerca di Giedion, è collocato nella seconda metà dell’ottocento negli Stati Uniti: il perio do in cui in America le industrie complesse abbandona rono il lavoro a mano e si rivolsero alla produzione mec canica è unico, senza parallelo altrove nel mondo7. Qui gli ingegneri meccanici diventano i fautori di un’epocale innovazione: attraverso un’innumerevole quantità d’azioni operative stimolate dalle domande dell’industria in rapida trasformazione, l’industria che diveniva industria evoluta comincia ad essere organizzata scientificamente. Gli uffici dei brevetti forniscono a Giedion il materiale su cui lavorare; è qui che documenta in modo preciso il fenomeno della meccanizzazione, e il progressivo sviluppo della produzione industriale. La manifestazione dei processi di meccanizzazione si sviluppa nell’agricoltura, nella macellazione, nella produzione del pane e dei biscotti, nell’invenzione di nuovi oggetti d’uso tecnico, e ancora nella fattura dei mobili e nella meccanizzazione specializzata delle unità funzionali della casa: la cucina e il bagno. Ed è ancora qui che vedono la luce i principali elettrodomestici, qui che si diffondono più rapidamente l’aspirapolvere, la lavastoviglie, la lavatrice. Il mezzo principale per la piena meccanizzazione è il modello della linea di montaggio o assemblyline, nella quale un intero impianto è trasformato in un organismo sincronizzato. Dal suo primo apparire, nel diciottesimo secolo, alla successiva e decisiva elaborazione tra le due guerre mondiali, essa è un fenomeno americano.
Baudrillard nell’introdurre il suo saggio8 sul sistema degli oggetti, parte dalla distinzione tra motore antico e motore moderno, derivando queste categorie dalle definizioni fornite da Simondon sugli oggetti tecnici: egli assume il ca rattere astratto del motore antico, riferendosi a come ogni parte interviene in un dato momento nel ciclo di lavoro, rimanendo poi inattiva; e sottolinea invece il carattere con creto del motore moderno nel quale le parti svolgono la loro funzione in modo indivisibile e simultaneo. Dunque il modello di un motore concreto moderno è qualcosa di molto prossimo all’idea di organismo, di organismo vivente, perché sono questi che ci forniscono un modello di movimento ininterrotto dove tutte le parti collaborano simultanea mente. Ed è appunto dal movimento e dalle sue rappresentazioni grafiche che Giedion parte per spiegare le premesse della meccanizzazione e di come questa sia in relazione con le concezioni razionali del pensiero. La mano, con l’addestramento, può arrivare ad una certa prontezza automatica ma le rimane però preclusa l’attività ininterrotta. Essa deve sempre prendere, affer rare, tener fermo: ma non può compiere i suoi movimen ti in rotazione continua. Ed è questo appunto che realiz za la meccanizzazione: la rotazione senza fine. Sulla dif ferenza che esiste fra camminare e rotolare, fra ruota e gamba si basa appunto qualsiasi procedimento di mec canizzazione9. Sempre attenta agli effetti della meccanizzazione sul mondo organico, sulla vita e sui corpi, la prospettiva critica di Giedion supera la mera documentazione storica, mettendo a nudo le radici di molte contraddizioni alla base della nostra attuale crisi globale, crisi della concezione della vita e dell’umanità rispetto ai meccanismi economici e al gusto dominante. Ciò che preme maggiormente all’autore è riportare questo insieme di trasformazioni ad un’idea dello sviluppo che metta al centro l’uomo e i caratteri della civilizzazione. È proprio qui che s’incontrano i ragionamenti e le intuizioni più avanzate; quelle che ancora oggi rappresenta-
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no interrogativi decisivi: ed è per questo che noi ci ponia mo, fin da principio, questa domanda: che cosa accade quando la meccanizzazione si trova posta di fronte alla sostanza organica? E concludiamo con una indagine sul l’atteggiamento della nostra civiltà verso il nostro orga nismo10. Giedion affronta i problemi della meccanizzazione della produzione del cibo con la consapevolezza di tendere verso un’epoca che abbandoni il punto di vista dell’inter vento nella struttura di animali e piante, dell’intervento nella natura: l’uomo quale demiurgo11.
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Esiste una corrispondenza cronologica tra lo sviluppo di nuovi dispositivi tecnici e la necessità che impegna scienza e arte nella visualizzazione del funzionamento interno delle cose. Cominciamo col concetto di movimento che è alla base di tutta la meccanizzazione. Ad esso segue la mano e la necessità di sostituirla e la meccanizzazione quale fenomeno12. Giedion analizza il movimento a partire dalle visualizzazioni grafiche di Marey, il quale inventa sempre nuovi “appareils inscripteurs” che gli consentono di rappresentare il linguaggio dei fenomeni. Pochi anni ancora e si sarebbe servito della fotografia inventando la cronofotografia che anticiperà la nascita dell’invenzione del cinema. Giedion afferma che il movimento sottoscrive la maggior parte, se non tutte, le idee del pensiero scientifico moderno. Il movimento, quest’elemento perpetuamente mutevole che non conosce interruzioni, risulta sempre più essere la chiave del nostro pensiero: esso sta alla base del con cetto di funzione e delle variabili nella matematica supe riore; e nella fisica, l’essenza del fenomeno viene sempre più riconosciuta nel processo del movimento: suono, lu ce, calore, idrodinamica, aerodinamica, fino a che, in questo secolo, anche la materia si dissolve nel movimen to e i fisici debbono riconoscere che i loro atomi consisto no di un nucleo attorno al quale gli elettroni roteano in orbite, con una velocità che supera perfino quella dei pianeti13.
Questa posizione crea un legame profondo tra universi formali distinti, quello dello spazio e quello degli oggetti, quello della fotografia e quello della radiografia. La nascita della cinematografia sconvolge e determina la riformulazione dello statuto delle arti, l’inclusione del tempo, della frui zione e della funzione nel progetto diventa qualcosa di concreto e reale. Grazie all’invenzione di nuovi apparati in grado di rappresentare il fenomeno del movimento ci siamo avvicinati alla comprensione più piena del funzionamento stesso del pensiero, la fotografia che noi credevamo dovu ta ad una mera manipolazione meccanica è invece frutto del “trasferimento meccanico” di una nostra facoltà per cettiva14. L’approccio alla storia anonima di Giedion eserciterà un’influenza decisa sulle concezioni di McLuhan15: già dal 1943 vi è una documentata corrispondenza tra i due, i testi di Giedion saranno il motivo d’ispirazione principale per i seminari multi-disciplinari attorno ai quali si costituì la cosiddetta scuola di Toronto negli anni cinquanta, McLuhan estese il paradigma di Giedion della storia anonima dall’era meccanica a quella della galassia elettrica16. Il debito di McLuhan è anche metodologico: egli desume dalla fenomenologia di Giedion una serie di concetti che declinerà più tardi in funzione dell’analisi dei mass media. Ma Giedion mantenne un certo scetticismo nei confronti del concetto di comunicazione, ponendo sovente la domanda: comunicazione di che? Implicitamente criticando l’idea che il medium possa essere il messaggio. Nello stesso tempo McLuhan cominciò a distaccarsi dall’approccio analitico di Giedion che dal suo punto di vista appariva troppo legato alla produzione visiva. Ma l’importanza del contributo di Giedion risiede anche in aspetti di natura metodologica, di metodo storicocritico. In questo senso appare chiaro che siamo di fronte ad una storia che ha cambiato sensibilmente il proprio bagaglio di riferimento e si pone in modo attivo sulla linea dell’orizzonte dei saperi produttivi: decisive sono la visio
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ne complessiva e quella simultanea. Tutto questo ci al lontana, talvolta da una visione ininterrotta. Ma è sol tanto con la visione sintetica di periodi diversi, e nello stesso periodo di diversi campi, che riusciamo a pene trare nello sviluppo intimo. Una libertà ulteriore deve essere conquistata dallo storico, se gli sta a cuore con templare la storia sotto forme di costellazioni. Egli si riserva il diritto di studiare scrupolosamente aspetti sin goli e concetti frammentari e di lasciarne altri inosser vati17. Tra la tipologia e lo stile Giedion privilegia l’approccio analitico proprio della tipologia e, pur sostenendo l’estromissione della categoria dello stile dalla operatività moderna18, ne riconosce implicitamente la necessità: La storia dello stile tratta un tema dividendolo in sezioni orizzon tali mentre la tipologia lo divide in sezioni verticali. Am bedue sono necessarie per vedere le cose nello spazio sto rico19. A partire da queste considerazioni è necessario ripartire da le cose che contano nella storia dello sviluppo dei sistemi tecnici e degli esiti concreti di questi nel presente. Lo studio delle variazioni dei processi di meccanizzazione, e, aggiungiamo noi oggi, d’automazione e d’informatizzazione, è sicuramente uno dei compiti fondamentali che Giedion ha lasciato alla cultura architettonica. Siamo convinti che gli attuali tentativi di fare una storia del design a partire dalla sua costitutiva pluralità sono condivisibili solo parzialmente. Per la storia del design sono nuovamente centrali, per metodo e per profondità, quegli studi che affrontano da vicino la storia dell’industria e il contributo creativo e intellettuale che progettisti, inventori e sperimentatori le hanno fornito. In questo quadro ci sembra che l’unità della storia progettuale contemporanea vada ricostruita, e che non è possibile sostenere una storia basata su narrazioni specializzate, su una sommatoria di storie parziali.
Il rapporto tra corpo e sistemi tecnici, o per dire meglio tecnicizzazione dei sistemi sociali, nutre il dibattito teorico e filosofico contemporaneo; il paradigma biopolitico declinato dai pensatori radicali trova un terreno concreto nell’analisi dell’affermarsi del modello informatico come modello comunicativo e produttivo planetario. La definizione del concetto di macchina e simultaneamente quello d’organismo hanno rappresentato i due cardini. Pietre angolari attorno a cui si è svolta tutta la riflessione della teoria progettuale moderna, i limiti entro cui è racchiuso, a nostro parere, l’orizzonte decisivo anche per il futuro dell’uomo. La nascita di una nuova concezione della cultura materiale contemporanea implica l’abbandono di un’idea di storia basata esclusivamente sulla soggettività progettuale e di mercato. Ci sembra necessario soffermarsi nuovamente sull’orizzonte ampio dell’evoluzione delle forme tecniche. La storia è un insieme multiforme e disomogeneo di fatti, di cose ordinabili secondo ragioni e principi alternativi, talvolta divergenti, ma essa svolge una funzione che non può essere ridotta ad uso degli storici. Piuttosto che la storia per gli storici c’interessa guardare a quella utile al progetto di futuro. Contemporaneamente la storia diventa utile al progetto di futuro solo quando si trasforma in teoria; una storia sbilanciata esclusivamente sulle pratiche rischia di diventare come l’albero di fico di cui parla Alberti: paradossalmente inglobata (dallo stesso Giedion) nelle mura del discorso modernista per accrescerne la compattezza, finisce per sgretolare l’edificio20. Filosofi, sociologi e storici21 della tecnologia hanno a lungo riflettuto sui diversi modi in cui la tecnologia ha modificato la vita quotidiana, sul piano della vita sociale, e simultaneamente di quella individuale. Oggigiorno non vi è riflessione filosofica o politica che possa prescindere dal l’analisi dell’impatto delle tecnologie sui sistemi sociali; le tecniche che erano meccaniche prima, automatiche poi, informatiche e digitali oggigiorno, hanno di continuo un ri-
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verbero sulla cultura e sulla vita sociale. Il terreno proprio in cui le tecniche si trasformano in fatti è il luogo precipuo del progetto, sia esso quello dello spazio costruito, come pure quello degli oggetti, degli artefatti che lo riempiono22 e ne condizionano il funzionamento trasformando il comportamento di utenti e destinatari. Solo attraverso un’analisi di questi impatti possiamo cercare di comprendere in che misura disporci verso nuove rivoluzioni, e quanto queste potranno esssere condotte a scopi progressivi condivisi.
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1 S. Giedion, Spazio, Tempo ed Architettura, Hoepli, Milano 1954 (1941). 2 S. Giedion, L’era della meccanizzazione, Feltrinelli, Milano 1967, pp. 7 e segg. 3 Cfr. D. Deriu, Montage and modern architecture: Giedion’s implicit manifesto, in «Architectural Theory Review», volume 12, 2007. 4 R. Banham, Ambiente e tecnica nell’architettura moderna, Laterza, Bari 1978 (1969). 5 T. Maldonado, Memoria e conoscenza Sulle sorti del sapere nella prospettiva digitale, Feltrinelli, Milano 2005. 6 S. Giedion, op. cit., (1967), p. 12. 7 Cfr. S. Giedion, Spazio, Tempo ed Architettura, Hoepli 1954 (1941). 8 J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, Bompiani, 2004 (1968). 9 S. Giedion, L’era della meccanizzazione, cit., p. 59. 10 Ivi, p. 15. 11 Ivi, pp. 230 e segg. 12 Ivi, p. 9. 13 Ivi, p. 36. 14 G. Dorfles, Il divenire delle arti, Einaudi, Torino 1959. 15 M. Darroch, Interdisciplinary Vocabularies at the University of Toronto’s Culture and Communications Seminar, 1953-1955, Media in Transition 6: stone and papyrus, storage and transmission, Massachusetts Institute of Technology, 24-26 April 2009. 16 Ibidem. 17 S. Giedion, op. cit., p. 19. 18 Cfr. S. Giedion, Breviario di architettura, Garzanti, Milano 1961. C’è un termine che noi, a proposito dell’odierna architettu ra, preferiamo evitare. È un termine che apparve in primo piano nel XIX secolo e fu maltrattato a morte. È la parola “stile”. (…) Se noi imprigioniamo l’architettura nel concetto di “stile”, diamo
via libera alle concezioni formalistiche. Queste hanno sulla storia dell’arte pressappoco lo stesso effetto che ha, su un giardino fiori to, un rullo compressore. 19 S. Giedion, L’era della meccanizzazione, cit., p. 11. 20 A. Payne, Rudolf Wittkower, Bollati Boringhieri, Milano 2011 (1994). 21 Cfr. J. Ellul, Il sistema tecnico, Jaca Book, Milano 2009. 22 R. Godsmith, Cose dentro cose, Bruno Mondadori, Milano 2008.
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Libri, riviste e mostre
P. Gregory, Teorie di architettura contemporanea. Percorsi del Postmodernismo, Carocci editore, Roma 2010. Un nuovo libro di teoria del l’architettura va sempre salutato con favore e accolto con prudenza. Il favore è d’obbligo per la scarsità sempre maggiore di contributi dati alle stampe in questo settore. Il trentennio di feconda produzione italiana con i contributi di Zevi, Benevolo, De Fusco, Tafuri, Samonà, Rossi, Aymonino, Gregotti, Grassi e pochi altri è finito da un pezzo, almeno dalla metà degli anni Novanta. Da allora, solo sporadiche ma profonde arature del nostro campo teorico condotte con piglio sempre più profetico da Benevolo e con immutato rigore scientifico da De Fusco cui si deve anche la positiva proposta, unica del genere, d’un Trattato di Architettura edito per Laterza nel 2001. Non si leggono al momento né ulteriori, rimarchevoli risultati, né si individua una continuità di studi condotti da gruppi di ricerca strutturati come scuola. Le nuove gene-
razioni di ricercatori preferiscono impegnarsi con libri di storia, massimamente con le monografie di architetti celebri. Sono libri editorialmente convenienti per la sostenuta domanda internazionale del genere (Hadid, Gehry, Eisenman, Holl, Koolhaas hanno vento in poppa, commercialmente parlando); sono convenienti per gli autori perché – con le dovute eccezioni – si confezionano con una certa facilità e velocità, soprattutto da quando il repertorio di immagini è diventato prevalente sul testo. La prudenza con la quale accogliere un nuovo libro di teoria (o di teorie) dell’architettura, si diceva, è sempre consigliabile perché questa è materia storiografica speciale riservata solo a coloro che hanno qualcosa di veramente nuovo da proporre alla comunità dei cultori della disciplina architettonica. Un libro di storia si può salvare, per così dire, anche solo per un inedito apparato iconografico; uno di critica, se veramente tale, difficilmente lascia indifferenti; uno di teoria corre un rischio ben maggiore, l’inutilità, se non ha
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nerbo scientifico e novità argomentativa. A mitigare – di poco, ma in modo molto significativo – questa diagnosi severa quanto veritiera interviene ora il saggio, atteso, di Paola Gregory che già nei precedenti contributi sul paesaggio e soprattutto sulle teorie del l’architettura per un volume del l’Istituto della Enciclopedia Italiana, aveva mostrato una particolare attitudine a misurarsi con alcuni argomenti teorico-operativi dell’architettura contemporanea. Ora allarga lo sguardo all’intero panorama del pensiero teorico dell’età postmodernista e ce ne propone una lettura d’insieme che il recensore giudica molto positivamente come tenterà di argomentare in tre punti. Intanto, il titolo. Teorie e non teoria di architettura. La posizione dell’A. è molto chiara, quasi assertoria. Il termine teoria non rimanda perciò a una codifica zione generalizzabile, riassumi bile in principi e norme che possano tradursi in una sorta di precettistica (dottrina), né ad una trattazione tutta riflessiva ed epistemologica del discorso: piuttosto il pensiero teorico sembra sostenersi sempre più della reciproca implicazione con l’attività “poetica”, intendendo con questa la teoria delle scelte possibili che si offrono all’auto re di un testo, ovvero gli ele menti e le regole, le soluzioni strutturali e distributive, i rife rimenti formali, iconografici, storici, critici, che l’architetto utilizza nell’argomentare il proprio discorso e/o produrre le sue opere. Le teorie dell’architettura, viene ribadito con le parole di Gregotti, sono un modo
di essere del progetto… fonda mento, scelta e strumento del l’agire concreto, non distingui bile dal suo esito. Due sono i passaggi fondamentali che giustificano la scelta del plurale in luogo del singolare: la constatazione che il pensiero teorico e l’attività poetica sono sempre più intimamente connessi e la definizione di teoria come modo di essere del progetto. È sufficiente ciò per azzardare (coraggiosamente) la rinunzia al più tradizionale uso del singolare per il termine teoria? Si direbbe di sì, se prevalesse la convinzione che lo statuto unitario della modernità s’è estinto per sempre e la condizione plurale del postmodernismo è destinata a strutturarsi su tempi di lunga durata. Si direbbe di no, se la questione è posta in termini (appunto) teorici. Com’è noto, la teoria per essere tale deve avere un suo carattere di assolutezza e validità universale, sottraendosi proprio alla mutevolezza del dato storico, cioè, ai tanti e infiniti modi con i quali si manifesta il progetto contemporaneo. Nella nostra recente tradizione di studi, le componenti che ora vengono riproposte come teorie del l’architettura, sono state sempre considerate e definite -ismi figurativi, poetiche, declinazioni diverse – d’un singolo architetto o di un gruppo, poco importa accertarlo – d’un unico apparato teorico composto, ovviamente, di pensieri diversi sull’architettura, da Vitruvio alla decostruzione, per semplificare in modo sbrigativo ma non scorretto. Al momento, non ci sono argomenti decisivi a favore dell’una o del l’altra ipotesi. Le assolute novità epistemologiche che manifesta il
progetto contemporaneo attraverso tutte le sue componenti, sembrano dare credito a linee interpretative oggi in sospetto di eresia. (Fin troppo scontata l’osservazione, tutta a vantaggio della scelta del plurale per il termine teoria, che spesso le eresie sono diventate esse stesse nuove forme di religione). Secondo punto di analisi, la definizione del campo di indagine e la struttura del libro. La prima, ce la fornisce il sottotitolo del saggio Percorsi del postmodernismo. Sono i tre decenni di “inquietudine teorica” – parte del titolo d’un bel saggio di Moneo del 2005, qui citato – che a partire dalla metà degli anni Settanta del XX secolo hanno descritto la costitutiva “ambiguità struttu rale” dell’epoca attuale. In architettura, questa fase di elaborazione teorica ha assestato il colpo decisivo alle residue certezze della modernità, ai “principi” del Movimento Moderno, in parti colare la connessione ragioneprogresso, la concezione del nuovo come valore, il prevalere del processo tecnico e/o la sua coincidenza con il processo pro gettuale, la tendenziale identifi cazione dell’architettura con l’oggetto isolato, la dipendenza della forma dalla funzione. Si parla, ovviamente, di crisi, crisi di sistemi, di valori, di statuti, di metodi. Con una raffinata scelta critica – il Michel de Montaigne degli Essais che alla fine del Cinquecento già sosteneva che “tutto crolla intorno a noi” – si dà avvio al labirintico viaggio nel postmodernismo, chiuso simbolicamente dopo 250 pagine ancora da Montaigne traguardato da Starobinski. Viaggio labirintico perché
è la stessa materia del postmodernismo che ne determina il carattere, ma senza la vertigine dello smarrimento propria di questa esperienza, perché la Gregory sa bene come orientare di volta in volta il navigatore della ricerca e porre ordine – espressione molto poco postmoderna, proposta dal recensore e non sappiamo quanto gradita all’A. – ai non lineari percorsi della ricerca contemporanea. Sicché, proprio la chiarezza della struttura del libro è uno dei punti di forza del saggio. Sei capitoli dentro i quali sono classificati le idee, i protagonisti, le opere, i libri, i saggi, i manifesti, le mostre, insomma, come ama spesso ripetere l’A., le “cose” dell’architettura che vengono proposte con quest’ordine. Si comincia con i filosofi che inquadrano la condizione postmoderna, Lyotard e Vattimo doverosamente tra questi; si prosegue con il gruppo storico del neostoricismo dei Jencks, Smith, Portoghesi, Venturi, Rossi e Stirling, una sorta di viaggio a ritroso in un’e poca quando il postmodernismo aveva molto poco di filosofico e molta costruzione/sperimentazione/irrisione di rigorosi codici e irriverenti immagini; si rende omaggio al minimalismo con Siza e Holl appena prima di entrare nel tabernacolo della decostruzione con Eisenman, Tschumi, Koolhaas e Libeskind e relativi pensieri; si integra con il capitolo dell’informe e dei biomorfismi con Gehry, van Berkel e Lynn; si chiude con l’ecologia dell’artificiale di Piano e Ito. I nomi citati sono quelli che compaiono nei titoli dei paragrafi, ma si rassicurino i cultori degli indici dei nomi sempre a caccia di imperdo-
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nabili omissioni e scandalose sopravalutazioni: i protagonisti degli ultimi trent’anni di architettura ci sono tutti, ognuno con il peso che gli compete, compresa la Zaha Hadid che, ad avviso della Gregory, non ha meritato un apposito paragrafo. Scelta condivisibile, perché stiamo parlando di produzione teorica e su questo fronte la pur brava Hadid non ha fornito contributi da antologia. Quanto al peso d’ogni singola teoria dentro il quadro generale, prevale nettamente il pensiero della decostruzione che occupa circa un quarto dell’intero volume con le oltre sessanta pagine dedicate. Il metro quantitativo ha sempre in questi casi evidenza di opzione critica e non fa eccezione lo spazio, e quindi il ruolo, che l’A. ha dedicato ai padri fondatori Derrida, Johnson e Wigley e alla cospicua schiera di filosofi e architetti che, parafrasando Wigley, hanno psicanalizzato l’architettura. Scelta ancora una volta condivisibile perché la decostruzione è la componente più strutturata e intellettualmente vivace della galassia del postmodernismo. In Italia e in ambito architettonico, il compito di illustrarla è stato svolto con lusinghieri risultati dapprima da Bianca Bottero che già nel 1991 curò un saggio sulla Decostruzione in architettura e in filosofia, poi da Claudio Roseti cui si deve nel 1997, con il suo La decostruzione e il decostruttivismo. Pensiero e forma dell’architettura, la prima sistematica ricognizione sul l’argomento e infine, da Francesco Vitale che nel 2008 ha curato un’antologia di contributi sulla “scrittura dello spazio” in Jacques Derrida. Adesso l’architet-
tura. Per Franco Purini, il rapporto con il pensiero della decostruzione e con Eisenman in particolare, è stato ed è carattere distintivo della sua attività progettuale e di ricerca. Per la Gregory, temi e linguaggio della decostruzione, oltre che nel citato volume dell’Istituto dell’Enciclopedia Ita liana, già emergevano con evidenza nei suoi due saggi su La dimensione paesaggistica del l’architettura nel progetto contemporaneo del 1998 per Laterza e su Territori della complessità. New Scapes del 2003 per Testo e Immagine. Ora sono ampiamente ripresi e riproposti sia nella loro autonoma declinazione che nel rapporto con le altre teorie di architettura contemporanea. Il risultato di questa riscrittura è molto convincente e la Gregory si conferma personalità di studiosa tra le più dotate tra le nuove generazioni. Terzo punto di analisi, la tesi del saggio. La Gregory sposa appieno i principi più noti e condivisi espressi sul postmodernismo, in filosofia come in architettura: indeterminatezza, sfiducia nei linguaggi universali, crisi delle grandi narrazioni, emersione e (invasiva, aggiunge il recensore) affermazione del relativismo, interferenze e contaminazione di linguaggi. Dalla ragione dogmatica di una storiografia che celebrava la stabilità e la durevolezza d’un pensiero compiuto, alla ragione scettica di una storiografia che descrive il rapido mutamento e la durata effimera di oggetti che trasmettono idee. In tal senso, questo è il primo libro di teoria dell’architettura costruito, prevalentemente, come antologia ragionata di eventi storici (autori e
opere) dai quali desumere idee. E poi ancora, con diretto riferimento alla questione della teoria/e: La condanna delle metateorie, quali sistemi generali in grado di rappresentare o spiegare le cose, apre il nostro orizzonte di senso ad una serie di pratiche culturali di rottura, come la frammentazione, la dissocia zione e l’ibridazione, portando a difendere programmatica mente i valori della plurivocità, del diverso e del difforme, per questo sarebbe difficile, per non dire aporetico, cercare defini zioni univoche o uniformi del postmodernismo, il cui signifi cato eventuale risiede proprio nell’ineluttabile e continua me tamorfosi che, nella difesa del l’alterità, lo caratterizza in sen so epistemologico quanto feno menologico. Scrittura impegnativa, ma di senso molto chiaro, compresa qualche prudente e formalmente elegante presa di distanza che di tanto in tanto affiora per autori, opere o idee portanti del postmodernismo. Una distanza che forse avremmo preferito maggiore proprio sull’istanza del relativismo che pervade la decostruzione e che sembra transitare senza limiti e condizioni particolari in architettura che, giova ricordarlo, è attività concreta cui poco si addice un pensiero che naviga libero e quasi anarchico tra frammentazioni e rinunzie di codici. L’indeterminatezza dei processi propria del postmodernismo, ad esempio, è un carattere che può ben alimentare una riflessione in ambito storico-filosofico, ma sarebbe una prospettiva non auspicabile in architettura, laddove i processi sono filiere molto precise di compiti, risultati
e impegni di diversa natura. Del resto, postmodernismo e decostruzione sono già da tempo sotto osservazione. L’interpretazione come libertà dai fatti è pensiero che anche un filosofo come Ferraris ha di recente revocato in dubbio, a beneficio di un nascente New Realism. Con l’interpretazione, ha detto, si può negare tutto, compreso le peggiori tragedie della storia. Su un piano meno drammatico, anche l’architettura, con la sola dittatura della interpretazione, rischia di pagare un prezzo troppo alto. Ma è circostanza che la Gregory conosce bene per la lunga e qualificata frequentazione del tema e dunque lo spettro del nichilismo che agita la prospettiva filosofica, qui non ha cittadinanza perché il saggio è costantemente sostenuto da energia positiva. La riassume la citazione più bella del volume, una frase di Libeskind: Se ben progettato un edificio ha il po tere di illuminare, persino di guarire. Bisogna credere, così commentata dall’A. Bisogna credere, per sublimare l’indici bile vuoto e il silenzio inespri mibile – la folgorazione forse – di un atto di fede. La strada che da Derrida ri-conduce a Edoardo Persico è più larga e diritta di quanto si creda. Per concludere, le rituali scelte di gusto del recensore. Il capitolo che si fa leggere con maggiore piacere: L’evidenza fenomenologica dell’architettura. Il capitolo che si fa leggere con maggiore impegno/fatica: La condizione post-moderna e (a pari merito), Il pensiero della decostruzione. Il paragrafo più bello: Alvaro Siza, una questione di misura. L’autore che avrei valoriz-
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zato di più: Rafael Moneo. L’autore che avrei trascurato di più: Rem Koolhaas. La scelta più coraggiosa: Renzo Piano (sul quale permane l’ostracismo dei due terzi dell’accademia italiana). P. B. G. D’Amato, Architettura: una storia a ritroso. Dal decostrut tivismo al Classicismo, Bru no Mondadori, Milano-Torino 2010.
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Il più recente volume di Gabriella D’Amato è un manuale di storia dell’architettura il quale ha in sé una grande novità, quella di una lettura a ritroso, oltre a quella di presentare alcune opere molto recenti e finora quasi del tutto inedite. Un’opera di storiografia affrontata e trattata in modo originale. In ogni storiografia c’è una dose di soggettività, se non altro la ritroviamo nel modo di raccontare, nello scrivere, nel ricercare degli artifici storiografici che altro non sono che degli strumenti che aiutano l’autore a fare la propria storia, a descrivere e analizzare nonché ad affrontare delle letture critiche ed analitiche di opere d’architettura o della produzione realizzata nell’arco temporale preso in considerazione. Le discipline a cui ricorriamo per impostare tale nostra storia sono la metodologia e la ricerca filologica. La prima è una disciplina che si propone di ricostruire e interpretare l’opera di architettura mediante la critica ed analisi del documento e delle testimonianze; la metodologia, invece, spesso o quasi sempre fa ri-
corso all’ausilio di artifici storiografici come strumenti soggettivi ma essenziali e caratterizzanti per trattare in maniera particolare e talvolta anche innovativa la storia delle opere di architettura. In passato grandi storici o trattatisti hanno ricercato e trovato artifici storiografici originali per fornire il loro contributo inedito ed efficace alla letteratura artistica. Come il famoso trattato di Giorgio Vasari, autore de Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori da Cimabue in sino ai nostri giorni pubblicato nel 1550 e riedito con aggiunte nel 1568, che ha rappresentato uno dei capisaldi della storiografia artistica e che ha utilizzato lo studio delle vite degli artisti come artificio storiografico. O quello di Henri Focillon La vita delle forme, nel quale va ricercato un «sistema estetico» in quanto le sue frammentarie indicazioni trovano i loro presupposti nella lettura dei «maestri» del formalismo europeo e, soprattutto, nel contatto diretto con il mondo concreto dell’arte orientale ed occidentale, sino all’esame minuzioso di alcune «arti minori», di particolari tecniche pittoriche inerenti al disegno o all’acquaforte. Oppure penso a Heinrich Wolf flin nei Concetti fondamentali della storia dell’arte, che attraverso cinque coppie di dicotomie pone in rapporto e confronto lo stile dell’arte del Cinquecento e del Seicento ed evidenzia un cambiamento nella natura della visione artistica tra i due periodi. Penso ancora a Renato De Fusco che nel suo volume Mille anni di architettura in Europa di Laterza, imposta la sua storiogra-
fia secondo una genealogia legata alle forme: “forma che genera forma”. E l’elenco degli artifici storiografici adottati dai maggiori autori potrebbe continuare a lungo. Ma in questi testi ed anche nella precedente produzione bibliografica della D’Amato – che va dal Protorazionalismo ad Atmosfere d’Europa, dalla Storia del design alla Storia dell’arredamento per citarne solo alcuni – viene sempre rispettata la cronologia intesa come uno dei capisaldi della storiografia. L’A., proveniente dalla scuola defuschiana, che come noto ha impostato sempre i suoi studi su una metodologia rigorosa ma originale al tempo stesso, ribalta completamente questa sua lettura. Allora viene spontaneo un interrogativo: trattare una storia dell’architettura a ritroso rappresenta solo un metodo per essere originale, e magari per distinguere questo libro dalle tante storie dell’architettura già pubblicate? Mi si potrebbe obiettare che già Bruno Zevi con la sua Controstoria e Storia dell’architettura – il suo ultimo volume pubblicato nel 1998 ma che rappresenta un lavoro durato oltre trent’anni – adotta un analogo artificio. Ma in sostanza ad uno schema rigoroso della nostra Autrice si contrappone Zevi che invece sostiene che Critica e architettura sono positive solo se negano: combattono consuetudini, nor me e regole per affermare il va lore originale della ricerca arti stica. Ma la D’Amato con l’elegante prosa letteraria che le è consona nella sua introduzione motiva la
sua scelta parafrasando il famoso Sogno di Jung che dichiara deci sivo per la formulazione della dottrina degli archetipi, per immaginare, in analogia, la storia dell’architettura come una casa da esplorare partendo dal piano più alto per arrivare giù fino alle fondamenta. Tut tavia, proprio la natura fram mentaria di un processo asso ciativo, più che una storia, sug gerisce in prima istanza una molteplicità di storie racconta te secondo una cronologia che parte da un evento di oggi per procedere con dei flashback e con dei liberi collegamenti fino all’evento-causa custodito nel passato. Così la D’Amato attraverso cinque diverse parti – Esuberanza tecnologica ed enfasi estetica, Il gioco degli inganni, Le metamorfosi della facciata, Memorie di lunga durata del Novecento e Atmosfere dei luoghi – affronta le architetture più originali e innovative, talvolta frutto di bizzarie progettate grazie alle incommensurabili risorse del software, sino a risalire ai loro modelli legati in alcuni casi ad un rigoroso Classicismo. Così dimostra che in ogni tendenza più attuale, in ogni autore più noto, la ricerca ha matrici che hanno generato nel corso della storia queste forme, ora minimali, ora legate apparentemente solo alla alta tecnologia, ora al decostruttivismo ora anche al più sfrenato gusto kitsch. Infatti, sfogliando il volume, corredato da un ricco apparato iconografico, si rileva che il tanto discusso Ponte della Costituzione di Santiago Calatrava sul Canal Grande a Venezia ha le proprie origini, attraverso il ponte di Ale-
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sandro III di Parigi del 18961900, nel famoso Ponte Vecchio di Firenze realizzato nel 1333. Oppure, in riferimento al decostruttivismo, schegge fluttuanti, volumi accartocciati come fogli di carta da cestinare, grattacieli che rinunciano a puntare alle nuvole per contorcersi e afflo sciarsi al suolo, lo strabiliante Museo Guggenheim di Bilbao realizzato da Frank Gehry nel 1997 ha dei forti legami con la Sagrada Familia progettata da Antoni Gaudì a Barcellona. Come accade anche per il padiglione del Vetro d’Arte (2001-2006) di Toledo, nell’Ohio, dello studio SANAA di Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa che da imprevedibile ap parenza non foss’altro per l’uso poco tradizionale con cui i due architetti trattano le superfici trasparenti trova anche e soprattutto nell’allestimento un prece dente nel padiglione dell’Espo sizione del Vetro progettato a Stoccarda da Mies van der Ro he nel 1929. Ma il libro non è solo frutto di una metodologia innovativa. Esso contiene anche una attenta ricerca filologica che emerge particolarmente nell’analisi dell’architettura più recente trattata dal la D’Amato e anche nelle schede critiche elaborate con chiarezza ed efficace sintesi da Gemma Belli, autrice anche di una utile bibliografia aggiornata divisa per i cinque capitoli che costituiscono il volume. In definitiva ritengo il lavoro, nonostante dei dovuti tagli selettivi fatti nell’individuare opere ed autori trattati, metodologicamente originale e innovativo e concordo con la D’Amato quando sostiene che questa storia
a’rebours è dedicata in primo luogo a quegli studenti che, per la fretta di conoscere l’architet tura del presente, fossero tenta ti di tralasciare l’eredità del passato. Essa è altresì dedicata a quanti, sedotti dall’architet tura del passato, ritengono che non possa essere confrontata con quella del presente. È infine dedicata a quanti vogliono in traprendere un percorso insoli to per scoprire che l’oggi è con tenuto nel suo ieri, anche se talvolta, volutamente, lo igno rano. A. C. G. Freda, La collina della primavera. L’architettura moderna di Tel Aviv, FrancoAngeli editore, Milano 2011. «The White City of Tel Aviv can be seen as an outstanding example in a large scale of the innovative town-planning ideas of the first part of the 20th century. The architecture is a synthetic representation of some of the most significant trends of Modern Movement in architecture, as it developed in Europe. The White City is also an outstanding example of the implementation of these trends taking into account local cultural traditions and climatic conditions». Con queste motivazioni l’unesco propose Tel Aviv come Sito Patrimonio dell’Umanità nel 2003, in quanto alla città fu riconosciuto il primato della più notevole concentrazione di architetture riferibili alla sintassi propria del Movimento Moderno conservate nella loro integrità e autenticità.
Tel Aviv, letteralmente la ‘collina della primavera’ venne fondata l’11 aprile del 1909, ma la sua lettura storiografica va al di là dell’architettura e diviene metafora dello stato ebraico nascente. A questo episodio Gianluigi Freda (Lagonegro, 1976) dedica una tesi di dottorato (xxii ciclo) dal titolo L’architettura moderna di Tel Aviv presso l’Università degli Studi di Napoli Federico ii, tutor Antonio Franco Mariniello. Le 136 pagine del lavoro mettono in luce le caratteristiche peculiari dell’architettura di Tel Aviv attraverso l’analisi degli aspetti compositivi e culturali che ne sono all’origine. Tale lavoro è poi confluito nella pubblicazione, tanto interessante quanto maneggevole, che viene qui segnalata, per la collana Serie di architettura e design. Strumenti della Franco Angeli, con il patrocinio del l’Ufficio culturale dell’Ambasciata di Israele in Italia. Può talvolta risultare imbarazzante la recensione di un volume in cui paiono ambigue le specificità di settori disciplinari diversi alla base della sua elaborazione, ma è pur vero che altrettante volte gli interessi ‘autocelebrativi’ dell’architettura, come li definisce Carlo Olmo [Architettura e Novecento. Diritti, conflitti, valori, Roma 2010] e le intuizioni presenti nelle monografie analizzate all’interno di competenze di stampo progettuale hanno anticipato studi storiografici e indirizzato l’attenzione su tematiche e soggetti elusi da studiosi coevi. Situazioni a dire il vero in cui si sfiorano necessariamente anche temi che non appartengono alla disciplina architettonica, ma riguardano, come in questo caso
specifico, la complessità e la ricchezza intellettuale del mondo ebraico e del Sionismo in particolare e i relativi rapporti culturali e artistici che ne sono scaturiti. Su tale aspetto si sofferma Luca Zevi nell’Introduzione, osservando che «non v’è chi non individuerà, nelle pagine che seguono, un talento teorico e ‘filosofico’. Un talento, sia detto a puro titolo di lode, tenuto qui a freno dall’urgenza di offrire un contributo di conoscenza prima e più che di interpretazione”, grazie alla campagna fotografica restituita dallo stesso Freda nella sezione che chiude il suo contributo. Ma, aggiunge Zevi, «nondimeno però il lettore troverà, ‘distrattamente’ sparsi nel testo, spunti interpretativi di grande profondità che non mancheremo di vedere sviluppati […] negli anni a venire». Riprendendo parte dell’epigrafe che apre la selezione operata dall’autore di quasi quaranta delle oltre trecento opere che compongono lo straordinario patrimonio architettonico della città moderna, nel 1929 Albert Londres, ricco della sua esperienza di viaggiatore e cronista, afferma con sagacia nel Juif errant est arrivé: «Si possono fare delle buone profezie senza riuscire a fare un buon preventivo». Com’è noto, chi volesse ripercorrere, pur sinteticamente, le vicende dell’architettura e del l’urbanistica del Movimento Moderno, trarrebbe di certo utili spunti dalle polemiche sull’Arte di Stato, riconsiderando i significati attribuiti da architetti e critici ai termini ‘classico’, ‘moderno’ e ‘razionale’. Negli anni in cui si faceva ricorrente il ritorno all’ordine, l’architettura moderna ap-
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pariva nel migliore dei casi marginale e nel peggiore una pericolosa minaccia che bisognava sopprimere. Tacciata di eversione rispetto al programma politico dominante, l’architettura moderna era sottoposta all’accusa di essere straniera, ovvero priva di radici culturali nazionali. Avviene così che in Germania sia ritratta come un’importazione ‘orientale’ ed eversiva del sistema politico ancor prima della salita al potere del partito nazionalsocialista – celebre è un fotomontaggio anonimo del 1927 del Weissenhofsiedlung di Stoccarda agghindato alla maniera di un villaggio arabo – mentre nell’Unione Sovietica la si rifiutava come un prodotto del mondo occidentale, ponendo fine alle opere d’avanguardia del Costruttivismo. In Italia, in particolare, nel 1928, l’attività del sindacato fascista, volta a fascistizzare la categoria e a inquadrare la disomogenea classe degli architetti italiani, è quasi conclusa e si avvia la strada utile a segnalare il rapporto privilegiato che si instaura nel fascismo tra architettura e politica, con il fine di valorizzare, con senso di modernità, gli elementi estetici tradizionali verso uno stile di regime. All’interno della scuola romana è esemplificativo l’atteggiamento di Gustavo Giovannoni, che, come osserva Paolo Nicoloso, «continuerà a impersonare la figura del paladino della continuità con la tradizione. Giudicherà antiarchitettoniche le teorie degli architetti moderni, bandirà i testi di Le Corbusier dalla biblioteca della scuola […], proporrà di togliere punti dalla votazione finale a Francesco Fariello perché ha pre-
sentato un progetto di scuola ispirato a Gropius» [La formazione dell’architetto, in Storia dell’architettura italiana. Il primo Novecento, a cura di G. Ciucci e G. Muratore, Milano 2004, p. 70] e contesterà, ovviamente, la richiesta dell’architettura razionalista di identificarsi con l’architettura del fascismo. Sulla scia dell’epurazione del l’architettura moderna, considerata priva di identità nazionale da parte dei movimenti politici conservatori, è interessante notare quanto il Movimento Moderno venga accolto positivamente dalla comunità ebraica nell’insediamento urbano di Tel Aviv nella sua prima espansione, restituendo agli ebrei tornati dalla Diaspora una città inaspettata e moderna afferma giustamente Freda, moderna come la normalità e la democrazia che rincorreva il Sionismo sin dalla fine dell’Ottocento. La città doveva essere quanto più lontana possibile dal l’immagine dello shtetl, il villaggio degli ebrei dell’Europa orientale, caratterizzato dal rumore, dal disordine, dalla sporcizia e dal provincialismo. Infatti, di staccandosi da Jaffa, città ara ba tradizionale, Tel Aviv cerca, oltre le proprie radici di villag gio palestinese, la sua moderni tà di città ebraica, quella mo dernità che lo Stato avrebbe poi conquistato con la sua costitu zione ed i coloni fondatori sono i pionieri di un’enorme espan sione che essa, nel giro di pochi anni, subisce, sottolinea l’autore, passando in 27 anni da 300 a 150.000 abitanti. Eugenio Gentili Tedeschi aveva osservato che, cita Freda, nel la Diaspora la città ebraica non
esiste, anzi, la Diaspora stessa è un modo per affermare l’indif ferenza ai cambiamenti dello spazio: l’essere dispersi in uno spazio senza misura, indefinito, non è un limite all’affermarsi di una identità che non si riflette in una concezione nazionale, un’idea evidentemente assente nel momento formativo della Diaspora, indicativa di un’uni tà etnica e di un’unità insedia tiva in un determinato luogo. Avviene, come già altre volte nella storia, che lo stile moderno viene risemantizzato in funzione di un’esigenza di costituzione e di rinnovamento. Gli architetti ebrei che avevano lavorato in Europa presso realtà fortemente stimolate dal movimento moderno, trovarono felicemente asilo sulla ‘collina della primavera’, prima di trasformarla nella celebre White City: Joseph Neufel e Carl Rubin lavorarono a Berlino nel l’ufficio di Erich Mendelsohn; Richard Kauffman fu un amico prossimo del maestro espressionista; Arieh Sharon studiò alla Bauhaus; Sam Barkai e Shlomo Bernstein lavorarono nello studio di Le Corbusier; mentre Ze’ev Rechter, che aveva studiato a Parigi, fu profondamente influenzato dal maestro svizzero. Un nutrito numero di architetti che non ha mancato di lasciare a Tel Aviv opere di rilievo come la Kruskal House, dove le terrazze, conce pite come stanze, svuotano la massività dell’edificio, mentre le lastre aggettanti delle tettoie caratterizzano l’intera costru zione; la Engel House, la prima casa su pilotis della città; e l’Esther Cinema uno degli edifici più belli della Zina Dizengoff Circle.
Come, in Europa, l’architettura moderna cercò di reagire al conservatorismo nazionalista me diante forme più mediterranee, allo stesso modo gli allievi del Movimento Moderno giunti a Tel Aviv avvertirono l’urgenza di me diare il codice astratto del contemporaneo con le esigenze locali, producendo nello stato ebraico forme alternative al modernismo [cfr. A. Nitzan-Shiftan, Contested Zionism-Alternative Modernism: Erich Mendelsohn and the Tel Aviv Chug in Mandate Palestine, in «Architectural History. Journal of the Society of Architectural Historiens of Great Britain», vol. 39, 1996, pp. 147-180]. In tal senso, il Chug, il circolo degli architetti della città, si propose alcuni obiettivi, quali: la negazione del modello di vita acquisito durante la Diaspora a favore della costituzione di una casa nazionale; la negazione del modello borghese a favore della società agricola; la negazione dei modelli tradizionali arabi a favore di un proprio codice espressivo, sintetizza Freda, che aggiunge come in realtà, con trariamente a quanto si potreb be credere, la tradizione co struttiva orientale non fu rifiu tata ideologicamente, ma per certi versi rappresentò anche una fonte di ispirazione, come le opere più tarde di Mendelsohn, Weizmann House a Tel Aviv e altre ancora a Gerusalemme, e che portò a quello che verrà poi definito situated modernism. A questo proposito, Fulvio Irace ha sottolineato con particolare enfasi quanto «anticipando il ‘razionalismo tropicale’ brasiliano, il ‘razionalismo mediterraneo’ di Tel Aviv smontò quella rigidità a
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cui l’aveva inchiodato lo stereotipo del moderno» [Tel Aviv capitale di un sogno razionale, nel l’inserto Domenica de «Il Sole 24 ore», n. 13, 27 marzo 2011, p. 24]. M. V. B. Bogoni, M. Lucchini (a cura di), Architettura, Contesto, Cultura. Intersezioni d’arte nel progetto, Alinea, Firenze 2011.
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Nella pratica e nella disciplina della progettazione convergono elementi formali, significati e approcci propri di altre forme artistiche e culturali, come pittura, scultura, fotografia ma anche filosofia, poesia, danza, musica e molte altre ancora, ciascuna delle quali può arricchire con le sue tecniche, le sue regole e gli strumenti specifici del proprio linguaggio, l’ideazione, la realizzazione e l’interpretazione del progetto architettonico contribuendo a caricarlo di senso e ad ampliarne il significato. L’immagine dell’architettura come un ice berg, che si compone di una parte visibile e di una invisibile, di solito più grande della pri ma, in cui si condensano molti significati comprensibili grazie alla messa in campo di più pun ti di vista fra cui quelli offerti dall’arte è alla base di Architettura Contesto e Cultura, antologia di saggi teorici curata da Barbara Bogoni e Marco Lucchini per Alinea. Il testo raccoglie dieci saggi, dieci “contributi liberi”, che riflettono con diversi approcci sul tema della complessità del progetto architettonico, proponendo letture e analisi che si rap-
portano con altre discipline sulla base della convinzione che tutte le sinergie possibili tra i molti campi dell’operare artistico […] possono introdurre nella pro gettazione architettonica frut tuose contaminazioni in grado di arricchire il contenuto se mantico del progetto. Nel riflettere sul rapporto tra progettazione e altri linguaggi e indagare i reciproci contributi tra architettura e altre forme artistiche, il libro si inserisce in un filone ben preciso di analisi che vanta una lunga tradizione; la peculiarità di questa antologia tuttavia è quella di intersecare questo approccio alla lettura e all’analisi del progetto con una specifica attenzione al rapporto tra architettura e contesto con un’attenzione particolare alla città e all’architettura contemporanea, alle sue forme, i suoi significati, processi, strumenti e tecniche. L’idea alla base di questa ricerca nasce da alcune riflessioni del professor Alberto Ferrari riassunte nel saggio Composizione per Contaminazione. Qui Ferrari propone di utilizzare la Contaminazione – di cui considera il significato proprio derivato dalla letteratura e cioè “fusione tra due testi per ottenerne un terzo” – come metodo compositivo, dato che, egli stesso concorda, l’architettura può essere letta come un testo intendendo per “testo” un insieme di segni concreti con nessi fra loro da una struttura morfologica e sintattica dotata di significato. Avvalendosi di strumenti propri dell’ambito letterario quindi utilizza le categorie di contaminazione per sovrapposizione, per intarsio e per accostamento per la lettura di di-
versi interventi architettonici in relazione al loro rapporto con il contesto in cui si inseriscono. In particolare ciò che l’autore delinea dunque non è tanto un metodo compositivo, quanto, piuttosto, una chiave interpretativa della composizione architettonica e, nello specifico, del suo complesso ma ineludibile rapporto con i diversi layer storici cui si aggiunge; approccio, il suo, fondato sulla convinzione che il progetto architettonico necessiti, di fronte all’alterità, l’eterogeneità che la città contemporanea continua mente produce, di diventare in contro di diversità, di comples sità e di contraddizioni, che si possono soltanto porre in rela zione, favorendo l’emergere di possibili significati. Questa è la preziosa idea di Alberto Ferrari che Barbara Bogoni e Marco Lucchini hanno raccolto e arricchito di sfumature e contenuti e di cui questa pubblicazione è il risultato. I curatori hanno raccolto l’invito di Ferrari a leggere l’architettura con occhi e strumenti nuovi, a esplorare diversi punti di vista con cui guardare al progetto e sperimentare approcci basati sulle affinità tra architettura e altre forme artistiche, ma che, proprio in virtù delle diversità degli strumenti specifici di ciascuna disciplina, siano in grado di ampliare lo sguardo e favorire l’emergere di nuove parti sommerse dell’iceberg. Questo stesso invito è stato quindi rivolto da Bogoni e Lucchini anche ad altri ricercatori e studiosi che nei loro contributi sono stati chiamati a leggere il rapporto tra Architettura, Contesto e Cultura da una prospettiva differente. Aprono la raccolta il già citato saggio
del professor Alberto Ferrari e il breve testo di Juan Ramírez Guedes che introduce l’altro tema centrale della pubblicazione, interrogandosi intorno alle relazioni tra abitare e sua rappresentazione, tra chiarezza ed evanescenza, complessità e contraddizione come condizioni dell’architettura contemporanea. I saggi che compongono questa pubblicazione, pur nella loro estrema eterogeneità, sperimentano tutti possibili percorsi di analisi del progetto architettonico intersecati con i percorsi di analisi di altre discipline artistiche e sperimentati attraverso la lettura esemplificativa di alcuni casi studio. Marco Lucchini prosegue la comparazione proposta da Ferrari tra testo e architettura proponendo degli appunti per una riflessione sulle interrelazioni di poesia, letteratura e linguaggio con la teoria dell’architettura, centina del progetto. Alcuni saggi, come quello di Adam Nadolyn e di Elena Montanari guardano specificatamente al contesto urbano e, in particolare, il contributo di Montanari adotta la metafora della danza per leggerne e descriverne la condizione contemporanea. La musica invece, altra disciplina “dinamica” come la danza, viene utilizzata come metodo interpretativo da Barbara Bogoni che nel suo saggio tratta di forme del movimento, delle analogie e sinergie interpretati ve che spesso rappresentano efficaci chiavi di lettura se non utili strumenti di progetto, in architettura e in musica. Nel suo contributo, come in quello precedentemente menzionato di Elena Montanari, più che in altri saggi di questa raccolta, è pre-
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ponderante l’attenzione al tema del costruire nel costruito: uno specifico approccio fondato sulla condivisa convinzione che per l’architettura contemporanea sia prioritario trovare un modo per instaurare un dialogo con il contesto storico in cui essa si inserisce e che condurre questa ricerca avvalendosi di categorie proprie di altre discipline artistiche possa essere una stimolante e feconda possibilità. Guardando alle influenze che l’arte può avere sul progetto da un punto di vista strettamente progettuale più che analitico e teorico, i saggi di Agata Bonenberg e di Fernanda Incoronato propongono un’analisi del rapporto sinergico tra composizione architettonica e rappresentazione grafica il primo, e con la fotografia l’altro, indagandone le evoluzioni storiche e tecniche e le relative ricadute sul progetto architettonico. Infine gli ultimi due saggi di Francesca Serrazanetti e Cristina Bergo, secondo un approccio più tipologico, offrono una sintetica presentazione dei mutamenti spaziali subiti da due tipi architettonici consolidati quali il teatro e il museo di arte contemporanea, in relazione ai nuovi bisogni legati alle evoluzioni delle rispettive discipline artistiche cui sono destinati. Architettura, Contesto, Cultura si presenta dunque come una miscellanea eterogenea di riflessioni e proposte di ricercatori e studiosi provenienti da contesti culturali differenti; i saggi raccolti, presentati nella lingua originale della loro prima stesura, ad ulteriore dimostrazione della varietà degli apporti, sono molto diversi tra loro sia nell’impostazione metodologica sia negli
obiettivi, ma la loro stessa varie tà, come evidenziano anche i due curatori nell’introduzione, so stiene ulteriormente la tesi del la complessità e il fascino della multidisciplinarietà del proget to di architettura. Come sottolineava già Gianni Ottolini, è dal l’analisi della forma che discende l’interpretazione in quanto come ogni altra percezione, anche quella dell’architettura non è pura registrazione di messaggi dal mondo esterno, ma costru zione attiva e dinamica, che di pende dall’esperienza e dalle aspettative di chi percepisce (G. Ottolini, Forma e significato in architettura, Laterza, Roma, 1996, p. 14); così da questi contributi, dalle “contaminazioni” e dalle “intersezioni” cui si aprono e dal conseguente sforzo analitico che tale apertura richiede, emergono letture alternative e complementari, che cercano di esplorare significati nuovi del progetto stesso e proporre nuovi modi per guardare, parlare e leggere l’architettura contempo ranea. F. L. P. Sparke, Interni moderni. Spazi pubblici e privati dal 1850 a oggi, Einaudi, Torino 2011. Cosa caratterizza un «interno moderno»? E cosa significa l’aggettivo «moderno»? Dove e come nasce il significato di questo termine, utilizzato ancora oggi per descrivere l’immagine [che molti hanno] di una casa con temporanea ed elegante? E ancora, cosa evoca l’espressione «interni moderni» in chi ha un
approccio più storico? Questi sono alcuni degli interrogativi che spingono Penny Sparke, docente di Storia del Design alla King ston University di Londra, a ragionare sugli interni, nella loro accezione privata e pubblica, e sul termine «moderno», non semplicemente inteso come «alla moda» o «aggiornato». Se infatti è probabile che l’epiteto «mo derno» sia [solitamente] inteso dal punto di vista stilistico e che gli interni si riferiscano al contesto domestico, questo libro si propone di affrontare gli inter ni intesi, in senso molto generi co, come i luoghi in cui le per sone fanno esperienza della vita moderna e si confrontano con essa. Nell’Introduzione di questo saggio il quadro di riferimento della ricerca viene definito attraverso i cambiamenti storici, culturali e sociali che hanno accompagnato l’evoluzione degli interni a partire dalla seconda metà del XIX secolo, e prende forza dal pensiero di Walter Benjamin secondo il quale l’avvento della modernità ha coinciso con la nascita della sfera privata dell’individuo, poiché la modernità non era soltanto un concetto astrat to [ma] era vissuta da persone in carne e ossa. L’industrializzazione, i fenomeni di urbanizzazione e l’avvento della produzione in serie hanno innescato una serie di cambiamenti socio-economici che contribuiscono alla creazione di una netta separa zione fisica, psicologica ed este tica tra gli spazi interni della vita domestica e quelli posti all’interno di edifici dedicati ad attività pubbliche, come il lavo ro, il commercio e la socialità.
Si delinea quindi la distinzione tra vita pubblica e vita privata, e con essa la nozione che il posto delle donne fosse la casa diven ne una convinzione ideologica pervasiva nella società capitali stica occidentale. È in questa prospettiva che la Sparke adotta un primo punto di vista innovativo: sottolineare l’importanza del ruolo svolto dalle donne nella formazione e nell’evoluzione dell’idea di moderno, cercando di andare oltre le definizioni già esistenti. Secondo l’autrice, infatti, persino le studiose femministe hanno dato una lettura incompleta della donna che entra nella modernità, limitandosi ad esaminarla in veste di acquirente, se appartenente al ceto medio, o di prostituta o taccheggiatrice, nel caso di estrazione popolare, e quindi concentrandosi esclusivamente sulla sua uscita dalla casa e sul suo ingresso nella confusione della strada. Questo saggio si propone di ri empire questo vuoto, portando l’attenzione sugli interni moderni come centro della costruzio ne del «sé» o del «soggetto» moderni, in particolar modo per il genere femminile. Se produzione industriale sostituisce gran parte della produzione manifatturiera casalinga, come la conservazione della frutta e la creazione dei tessuti, la necessità di questi articoli rimane. Le donne sono così costrette ad uscire dal loro interno domestico per occuparsi degli acquisti e gli interni domestici accompagna vano le donne nelle loro spedi zioni: sale d’aspetto delle stazioni, carrozze dei treni, grandi magazzini, club, caffè, ristoranti, hotel, teatri. Queste «case lonta
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no da casa» offrivano loro una certa comodità quando si av venturavano al di là delle mura domestiche e le aiutavano a ri definire se stesse come consu matrici e come casalinghe. Un elemento cruciale per lo sviluppo della modernità è stata poi la diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione. Come afferma Beatriz Colomina, «l’architettura moderna diventa «moderna» non solo usando vetro, acciaio o cemento armato […] ma proprio confrontandosi con la nuova attrezzatura meccanica dei mass media: fotografia, cinema, pubblicità, editoria e così via». Attraverso i cataloghi, la pubblicità su riviste, o la ricostruzione di stanze in occasione di mostre e fiere di mercato, viene incentivato il consumo di prodotti e viene creato un modello ideale che serve come punto di riferimento da raggiungere ed eguagliare. Nella loro forma idealizzata, gli inter ni stessi divennero mezzo di co municazione di massa, un vei colo per la trasmissione di valo ri moderni di vario tipo. Viene spontaneo il richiamo a ciò che affermava Mario Praz, ovvero «la casa è una proiezione dell’io; e l’arredamento non è che una forma diretta del culto dell’io». Ma subito il dualismo sfera pubblica e sfera privata è in dubbio. Nei primi anni del Novecento un gruppo di architetti e designer, motivati da un disgusto condiviso per la domesticità borghese e dal desiderio di crea re un’architettura senza classi, inizia ad erodere i confini tra le sfere promuovendo ideali di efficienza e utilità, a loro dire rin tracciabili negli interni pubblici dedicati al commercio, alla pro
duzione industriale e al lavoro. Ecco il secondo elemento innovativo e centrale del libro: gli interni moderni sono stati il risultato di un movimento a doppio senso tra la sfera pubblica e quella privata. Il limite tra queste due sfere non è chiuso, netto, ma è fondamentalmente instabile e, secondo Sparke, è stata tale in stabilità […] a definire la mo dernità e per estensione gli in terni moderni. Ruolo determinante in questo scambio osmotico è rivestito dal design, strumento in grado di trasformare valori, desideri e aspirazioni in realtà e ideali visivi, materiali e spaziali. Il libro, dunque, è diviso in due parti di cinque capitoli ciascuna. Nella prima sezione, Dal l’interno all’esterno, si esaminano gli innumerevoli modi in cui valori e idee si sono formati e sviluppati negli ambiti dome stici – il luogo dell’interiorità individuale e della modernità femminile – per poi spostarsi dall’abitazione privata all’are na pubblica. Il primo e il secondo capitolo (Gli interni privati e I nuovi interni) dichiarano come a partire dalla seconda metà del XIX secolo si sviluppa un interesse nuovo nei confronti del l’aspetto degli spazi domestici borghesi e propongono una serie di esempi di architettura, da Van de Velde a Behrens, da Mackintosh a Loos, che narrano i primi tentativi di sviluppare contemporaneamente tutti gli aspetti di un’architettura secondo l’idea di Gesamtkunstwerk. Nel terzo e nel quarto capitolo (Gli interni e il consumo di massa e Gli interni alla moda) la Sparke approfondisce l’evoluzione del modello di
consumo che usava gli interni come mezzo per vendere [affidandosi] alla creazione del desi derio nel consumatore. Viene messo in luce lo stretto legame che si sviluppa tra «interni moderni» e «abiti alla moda», i primi progettati come sfondo per i secondi e, viceversa, abiti pensati come elemento intrinseco dello spazio abitato ed espressione della donna moderna che lo abita. Nel quinto capitolo (Gli interni decorativi) si analizza il dibattito sulla questione della «decorazione di interni» nei primi anni del Novecento e quello sul «ruolo professionale di chi si occupava di decorare gli interni». Come dichiara l’autrice, la prima sezione di questo libro dimostra come la domesticità borghese, implica ta in molti dei temi cruciali del la modernità, rivestì un ruolo fondamentale nella formazione degli interni moderni, anche se venne trasformata a livello visi vo da una molteplicità di stili e tendenze. Nei cinque capitoli che costituiscono la seconda parte (Gli interni pubblici, Gli interni razionali, Gli interni prodotti in serie, Gli interni astratti e Gli interni progettati) ci si concentra sulle strategie adottate dagli archi tetti modernisti per dichiarare guerra agli interni e creare edi fici che ne fossero totalmente privi, a prescindere dalla loro modernità. Scoprendo parados salmente, come afferma Sparke, [che] non solo i modernisti for nirono agli interni una serie di valori alternativi, ma ne pro gettarono anche alcuni tra i più belli e duraturi del XX secolo. Un primo esempio è l’evoluzione della cucina ad opera di una serie
di donne, casalinghe illuminate, che si appropriano dei principi razionali dell’industria per migliorare lo spazio da lavoro domestico, come testimonia la nota «Cucina di Francoforte» di Margarete Schütte-Lihotzky. Altro esempio sono gli interni flessibili, immateriali, determinati da una gestione sofisticata del colo re, della luce e dello spazio progettati da Rietveld per Casa Schröder, un punto di svolta nella storia del progetto di interni. Oppure i progetti estremi di architettura di interni come puro spazio di Villa Savoye di Le Corbusier, che non fu mai davvero una ca sa, e Farnsworth House di Mies van der Rohe. E infine gli interni moderni degli anni Cinquanta e Sessanta dove le caratteristiche distintive di spazio pubblico e spazio privato diventano sempre più omogenee, come dimostrato dai mobili «schizofrenici» progettati dagli Eames che possono essere interpretati come oggetto domestico o come mobile desti nato a un ufficio o alla recep tion di un edificio pubblico. Il capitolo conclusivo propone una riflessione sugli interni contemporanei, su come essi sono al contempo il naturale sviluppo degli interni moderni e un’ulteriore evoluzione stilistica (gli «interni minimali») dovuta alla spinta del consumismo e al potere del commercio. L’influsso dei mass media è sempre più pervasivo e, seppure la separazione tra pubblico e privato continui ad esistere, ormai non sono più soltanto i prodotti ad essere consumati, ma anche lo spazio interno, nella sua forma idealizzata, è diventato oggetto di consumo. La chiusura del libro è in realtà
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un’apertura, solamente tratteggiata, verso una riflessione sulle implicazioni nel progetto di interni del concetto di «spazio virtuale». Interni moderni è un libro piacevole, interessante e scorrevole, a tratti curioso e con uno sguardo
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originale sul tema trattato, ma mai superficiale, come dimostrato anche dall’ampia bibliografia interdisciplinare e dall’interessante apparato iconografico che accompagna la lettura. I. P.
Sommario dei fascicoli pubblicati
N. 1. Le «Nuove Iconi» e la «civiltà del consumo» - Architettura utopistica - La sociologia dell’arte dei sociologi - Esperienze della Biennale - Tecnologia e poetiche contemporanee - Nouveau roman e arti figurative - Il Gaudi di Pane (fascicolo esaurito) N. 2. Design e mass media - Gestalt prima e dopo - L’estetica neonaturalistica di Romanell - Della Pop Art e di una mostra a Vienna - La poetica urbanistica di Lynch - Semantica dell’arte - Architettura come linguaggio (fascicolo esaurito) N. 3. Architettura e cultura di massa - Alcuni temi dell’Informale - Kunstwollen e intenzionalità in E. Panofsky - Dal pragmatismo alla fenomenologia - Libri, riviste e mostre N. 4. La critica discorde - S.K. Langer, L’influenza sociale del design - T. Munro, Recenti sviluppi dell’estetica in America - G. Veronesi, Sull’architettura del secolo - L. Vinca Masini, Le mostre dell’estate ’65 - Libri, riviste e mostre N. 5. I criteri di valutazione dell’arte contemporanea - Una politica culturale per i socialisti - Il visual design - Pareri sulla IX Quadriennale - Libri, riviste e mostre N. 6. Il disegno di architettura - J.P. Hodin, Esiste un’estetica dell’arte moderna? - Alcune voci dell’urbanistica contemporanea - Breve antologia delle ultime Biennali - Libri, riviste e mostre N. 7. Note per una semiologia figurativa - W. Hofmann, Gli inizi dell’attività formale - E. Garroni, 33a Biennale di Venezia: «jeu» e «sérieux» - Libri, riviste e mostre N. 8. Artisticità dei mass media - B. Jessup, Arte e storia - Il design scientifico di Alexander - Incontri di studi urbanistici - Libri, riviste e mostre N. 9. Il pensiero estetico di Adorno - 4 artisti scelti da Barilli - A. Vivas, Filosofia della cultura, estetica e critica: alcuni problemi - Libri, riviste e mostre
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N. 10. Il premio IN/ARCH alla nostra rivista - R. Barthes, Semiologia e urbanistica - Nuove idee per la Gescal - Il metodo scientifico nella pianificazione - G. Veronesi, Su alcune mostre dell’estate italiana - Libri, riviste e mostre N. 11. G. Morpurgo-Tagliabue, L’arte è linguaggio? - Urbanistica e arti visive oggi - Valori ed obiettivi nella pianificazione - Libri, riviste e mostre N. 12. Tre contributi alla semiologia architettonica - E. Garroni, L’eterogeneità dell’oggetto estetico - V. Corbi, Questioni di estetica empirica - A. Perez, Riflessioni di uno scultore sul tema dello spazio - Libri, riviste e mostre N. 13. L’«environmental design» e il suo insegnamento - Per una teoria dell’architettura - L’estetica del «pensiero negativo» in Marcuse - Libri, riviste e mostre N. 14. La prossemica: un nuovo apporto all’architettura? - La poetica del l’arte povera - Note sull’Università e la professione - O. Ferrari, Una Biennale rimasta senza giudizio - Libri, riviste e mostre N. 15. I problemi dell’istruzione artistica - R. Segre, Presenza di Cuba nella cultura architettonica contemporanea - Architettura fra retorica e logica Libri, riviste e mostre N. 16. Significanti e significati della Rotonda palladiana - G. Dorfles, Valori iconologici e semiotici in architettura - Attualità della retorica - Libri, riviste e mostre N. 17. Il centro della città (definizioni) - M. Tafuri, Ambiguità del Guarini - Lettura storico-semiologica di Palmanova - Libri, riviste e mostre N. 18. L’architettura per l’Università - E. Garroni, Semiologia e architettura. Alcuni problemi teorico-applicativi - Recenti contributi allo studio dell’«environmental design» - Libri, riviste e mostre N. 19. Segni e simboli del tempietto di Bramante - Note sull’immaginario in Filarete - Philip Johnson: la funzione della maschera formale - Biennale/ricerca - Libri, riviste e mostre N. 20. Utilità storiografica di una dicotomia linguistica - Meaning in Architecture - La cultura di Le Corbusier - New Towns (definizioni) - Libri, riviste e mostre N. 21. Note per una epistemologia della rappresentazione visiva - G. Bonsiepe, Panorama del disegno industriale - Per una poetica del profondo: Blaue Reiter - Libri, riviste e mostre
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N. 22. Nomi, luoghi, immagini di città nella «Recherche» di Proust - U. Eco, Analisi componenziale di un segno architettonico - Percezione ed esperienza estetica - Libri, riviste e mostre
N. 23. La «riduzione» culturale - Libri, riviste e mostre N. 24. «Arquitectura, historia y teoria de los signos» - Note di terminologia semiotica - Il design: processo e fruizione - Il «silenzio» dell’architettura contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 25. Note sull’arte concettuale - L. Benevolo, La recente storiografia della città - Lo storicismo e i confini della semiologia - Città-pubblicità: sul caso Las Vegas - Libri, riviste e mostre N. 26. La «riduzione» culturale nella progettazione architettonica - R. Barilli, Le due anime del concettuale - G. Morpurgo-Tagliabue, Commento alla «riduzione» culturale - L’antidesign - Libri, riviste e mostre N. 27. Altri aspetti della «riduzione» culturale - Interventi: G. Dorfles, Riduzione ad oggetto, riduzione a progetto - P. Fossati, Riduzione o trasformazione? - T. Llorens, Sul concetto di comunicazione estetica - Libri, riviste e mostre N. 28. Elementi semiotico-progettuali d’architettura - M. Krampen, Dalla semiologia della comunicazione alla logica degli strumenti - Libri, riviste e mostre N. 29. Per una lettura semiotica della prospettiva - Elementi di una tendenza dell’architettura italiana - XV Triennale - Libri, riviste e mostre N. 30. Problemi di semiotica dell’arte contemporanea - B. Zevi, Sei postille su «Il linguaggio moderno dell’architettura» - Alcune opinioni sull’iperrealismo - Libri, riviste e mostre N. 31. Elementi della progettazione scientifica - Il segno indefinito della semiologia urbanistica - Note sulla cultura a «mosaico» - Arbitrarietà e motivazione del linguaggio architettonico - Libri, riviste e mostre N. 32. L’eccentrismo, un momento della avanguardia sovietica - U. Eco, Chi ha paura del cannocchiale? - Nota sul segno urbanistico - I segni e le «figure» del Padiglione di Barcellona - Libri, riviste e mostre N. 33. Architettura come istituzione - Il «ritorno» alla pittura - Università: le parole e le cose - Libri, riviste e mostre N. 34. Dall’estetica alla semiologia - La teoria di Hjelmslev e l’architettura: alcuni problemi - Il «realismo» di Giuseppe Samonà - Libri, riviste e mostre N. 35. Attualità dell’iconologia: alcune questioni metodologiche - R. Barilli, Difficoltà di un approccio semiotico alla culturologia - L’editoria architettonica - Libri, riviste e mostre N. 36. I centri storici nella prospettiva semiologica - Le idee di teatro, oggi - Una riproposta del «multiplo» - Libri, riviste e mostre
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N. 37. Dialettica del «piacere» e identità dell’architettura - Assenza-presenza: due modelli per l’architettura - La «storia dell’arte» nelle scuole - Libri, riviste e mostre N. 38. Le ricerche di architettura più attuali ed insolite - Dalla fotografia al videotape - Analisi di un corso di laurea: il Dams - Libri, riviste e mostre N. 39. La sociologia del gusto di Jean Baudrillard - Le posizioni di […] su alcuni temi della critica architettonica in Italia - Libri, riviste e mostre N. 40. «Aforismi» sui centri storici - Note sulla simmetria in architettura Bataille e la “svolta” di «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 41. Dipartimento e «architettura» - La «rappresentazione» tra storia del teatro e semiotica - La critica d’arte in «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 42. L’idea di pittura in Lévi-Strauss - Sul concetto di gusto - Alcuni contributi alla critica dell’inconscio - Libri, riviste e mostre N. 43. La post-avanguardia - Luoghi e luoghi comuni della recente critica d’arte - Narciso e «l’altro»: note sul dibattito architettonico - Libri, riviste e mostre N. 44. Architettura: la «rimozione del nuovo» - Ipotesi per il segno iconico - Storia dell’arte, storia delle cose - Libri, riviste e mostre N. 45. Topologia e architettura - La casa: norma e «deroga» - Artisti e cinema - Libri, riviste e mostre N. 46. I quindici anni della nostra rivista - L’Architettura all’Ecole des Beaux-Arts - La Storia dell’arte Einaudi - Una griglia che non sia una grata N. 47. Architetto e ingegnere - Le scuole di critica d’arte in Italia - L’immaginario nella cultura di massa - Libri, riviste e mostre N. 48. Prima e dopo il Post-Modernism - L’iconizzazione del mobile - Civiltà del ’700 a Napoli - Libri, riviste e mostre N. 49. Il restauro architettonico: ricchi apparati e povere idee - F. Menna, La Biennale di Venezia. Gli anni settanta: questi (mi)sconosciuti - Critica d’arte e processi produttivi - Libri, riviste e mostre N. 50. Fortuna critica della «Tendenza» - R. Bonelli, Storiografia e restauro - La fotografia: indice o icona? - Libri, riviste e mostre N. 51. Classicismo e razionalismo in J.N.L. Durand - Modelli interpretativi delle tendenze artistiche odierne - Architettura come testo - Libri, riviste e mostre
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N. 52. L’espressione «Movimento Moderno» - Indagine su Carlo - Note sulla Transavanguardia - Libri, riviste e mostre
N. 53. Il design tra «radicale» e «commerciale» - Dalla «ruminazione» dei guerrieri greci all’«insonnia» dell’estate romana - Fortuna degli slogans Libri, riviste e mostre N. 54. Disincantamento e restaurazione - Lutyens fra storia e critica - Il Bauhaus e il teatro tedesco - Libri, riviste e mostre N. 55. Continuità e Protorazionalismo - Se questo è un quadro allora non è un quadro - Gli oggetti di domani - Design come motto di spirito - Libri, riviste e mostre N. 56. Dall’America. Warhol e Kosuth - Il design dell’«altra avanguardia» - L’International Style cinquant’anni dopo - Libri, riviste e mostre N. 57. Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58. E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59. Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60. Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61. Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62. Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63. Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64. Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65. Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre N. 66. Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre N. 67. Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre
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N. 68. Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69. Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70. Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71. Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72. Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73. Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74. Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75. Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76. I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre N. 77. Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre N. 78. L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79. Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80. Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81. Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82. Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre
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N. 83. Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre
N. 84. Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85. Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86. Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87. Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88. L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89. Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90. L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91. «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92. Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93. La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94. Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95. Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96. Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97. Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98. Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99. Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre
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N. 100. Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101. Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102. Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103. Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104. La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105. L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106. Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107. Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108. Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109. Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110. Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111. Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112. Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113. Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114. L’architettura italo-europea (fascicolo monografico)
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N. 115. L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender
Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre N. 116. Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117. Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118. Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119. L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120. Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121. La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122. L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123. Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125. Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126. L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127. Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128. Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129. Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
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N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 131. Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132. Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133. Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134. Abitare la razionalità - Per una nuova classificazione delle arti - Il design aeronautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135. Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137. Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138. Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 139. Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
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N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
Le pagine dell’ADI Associazione per il disegno industriale a cura di Maria Antonietta Sbordone e Dario Moretti
La XXII edizione del Premio Compasso d’Oro ha avuto un risalto d’eccezione: due mostre a Roma – una al Palazzo delle Esposizioni, con la Collezione storica del premio, l’altra alla Pelanda (la sede al testaccio del MACRO, Museo d’arte contemporanea di Roma) con tutti gli oggetti selezionati dalla giuria tra quelli pubblicati sull’annuario ADI Design Index negli ultimi tre anni. Le mostre si sono chiuse il 25 settembre e hanno dato al più antico premio del design italiano una visibilità, tra il pubblico e sui media, che il design italiano raramente (per non dire mai) nella sua storia ha avuto. Per illustrare premesse culturali e risonanza di questa edizione pubblichiamo, traendoli dal catalogo della manifestazione, gli interventi di Luisa Bocchietto, presidente di ADI; di Giovanni Cutolo, presidente della Fondazione ADI e vicepresidente di ADI; e del designer Guto Indio da Costa, membro della giuria di questa edizione del premio, che ne valuta la posizione internazionale.
Luisa Bocchietto Ri-conoscere il design italiano Il XXII Premio Compasso d’Oro si assegna per la prima volta a Roma, in occasione delle celebrazioni del Centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Questo avviene grazie alla collaborazione con Fondazione Va-
lore Italia che ha ottenuto dal governo italiano, attraverso il ministero dello Sviluppo economico, che il design e il Compasso d’Oro potessero essere il fulcro del racconto della nostra più recente storia. L’evento Unicità d’Italia celebra, infatti, il Made in Italy e il “saper fare” italiano di questi ultimi cinquant’anni, proprio attraverso il Premio Compasso d’Oro; un grande risultato per l’ADI e la Fondazione ADI nel vedere riconosciuto il lavoro di tanti anni e l’impegno di tanti soci per promuovere il design italiano. Il design viene assunto come paradigma di lettura dell’evoluzione del costume, del modo di vivere e di consumare, ma anche della ricerca sull’innovazione tecnologica. Il design si rivela componente fondamentale del lifestyle che ci caratterizza nel mondo, insieme con la moda, il cibo, i beni architettonici e ambientali. Il design viene infine sdoganato come forma espressiva e cultura materiale del nostro tempo come la musica, la fotografia, il cinema; come arte contemporanea a tutti gli effetti. Il riconoscimento del valore del diritto d’autore, recentemente ribadito a livello europeo e italiano, aggiunge, inoltre, ulteriore significato alla Collezione storica del Compasso d’Oro, già dichiarata nel 2004 “bene d’interesse nazionale”. Il ruolo di questa collezione, che valorizza i prodotti premiati con il Compasso d’Oro e raccolti negli anni dall’ADI, conferisce loro uno spessore culturale che va oltre il semplice valore commerciale per diventare racconto della nostra identità. In questo senso le due mostre a Roma sono testimonianza del nostro impegno a raggiungere le istituzioni per farle partecipi di un percorso che, da sempre, ci appassiona. Al Palazzo delle Esposizioni si snoda il racconto di ciò che è stato fino a oggi, con il sufficiente distacco raggiunto per poterlo osservare in modo indipendente dagli interessi più immediati; alla sede della Pelanda sono esposti i prodotti selezionati dall’Osservatorio permanente del Design e pubblicati sull’ADI Design Index, in concorso per l’assegnazione del XXII Premio Compasso d’Oro. Da un lato la storia, raccontata magistralmente per temi da Enrico Morteo, curatore della collezione; dall’altro la contemporaneità, già selezionata e sottoposta alla giuria internazionale invitata a esaminarla. Per la prima volta nella mostra storica sono stati esposti tutti i pezzi vincitori del premio, con un rigore scientifico inedito e a seguito di un paziente lavoro di catalogazione necessario da tem-
po. I prodotti sono stati fotografati, schedati, integrati, restaurati a cura di ADI e Fondazione ADI, per rendere possibile l’esposizione attuale a Roma e la futura gestione museale prevista a Milano, nella nuova sede. Per la prima volta, nell’esposizione alla Pelanda dei prodotti in concorso per la XXII edizione del premio, la giuria ha potuto vedere i prodotti partecipanti cosi come li ha visti il pubblico, all’interno di una vera mostra di design inaugurata per l’occasione. Obiettivi multipli, dunque, perseguiti dall’ADI in quest’occasione di celebrazioni del 2011. L’obiettivo di sempre è quello di premiare il miglior design italiano, a conclusione del lavoro triennale di selezione svolto dall’Osservatorio e pubblicato dall’ADI Design Index. L’obiettivo più politico è quello di portare il design a Roma, a contatto con le istituzioni, per evidenziare quanto esso abbia contribuito a diffondere l’immagine del Made in Italy nel mondo. L’obiettivo diffuso è comunicare al pubblico più vasto quanto il design rappresenti per l’economia del paese in termini di ricerca, d’innovazione e di sviluppo sostenibile. L’occasione della ricorrenza presuppone infine per l’ADI l’opportunità di fare un bilancio del lavoro di cinquant’anni, periodo coincidente con la crescita del design italiano, per esercitare la visione di che cosa debba diventare il premio negli anni a venire. Lo sguardo al passato ci rende consapevoli di un percorso avvenuto. Fare design significa progettare, senza dubbio, ma anche raccontare ciò che ci circonda: il modo di affrontare il cambiamento. Parlare di design è utile per riflettere sul futuro del nostro paese, così incentrato sulla creatività e sulla capacità manifatturiera. Parlare della sua storia rappresenta un modo per capire meglio noi stessi, le nostre qualità, i nostri limiti. Per ADI è il momento di ripensare una strategia più ampia, che introduca il design dei processi, dei servizi, dei beni culturali, l’impegno per la formazione e una maggiore apertura internazionale. È interessante rileggere, in questa circostanza, lo Statuto di creazione dell’ADI e le relazioni delle precedenti edizioni del premio. Restano validi i principi di fondo: la visione etica del progetto, la valorizzazione della cultura materiale alla portata di tutti, l’integrazione della componente estetica e umanistica nella produzione industriale. Nel frattempo alcuni risultati sono stati raggiunti: la creazione
della Fondazione ADI nel 2001 per la tutela della Collezione storica, delle Delegazioni per la crescita sul territorio, del Dipartimento Distribuzione e Servizi nel 2008, della società di servizi ADIper nel 2011 per consentire un’economia futura. Anche la rea lizzazione delle scuole di design, prevista fin dall’inizio, che appariva come un’utopia ancora nei primi anni Ottanta, si è concretizzata, ma manca ancora, a oggi, il riconoscimento della professione di designer e dell’associazione che le ha promosse. A questo riguardo la richiesta è in corso presso il ministero di Grazia e Giustizia, e la presenza a Roma vuole essere un segnale in questa direzione. La relazione della XVII edizione del premio, risalente al 1995, curiosamente anticipa l’avvento del design dei materiali e del design dei servizi, categorie tematiche cui è stata allargata la selezione nel corso di questa stessa edizione. Nella stessa relazione, a firma del presidente di allora Augusto Morello, troviamo introdotti alcuni principi adottati dall’attuale Comitato direttivo: non partecipare direttamente ai lavori della giuria per lasciare spazio alla libera scelta dei giurati, accogliere i giovani (da celebrare con un premio parallelo al Compasso), accanto all’annuncio della necessità di uno sviluppo internazionale del premio stesso. La Targa Giovani, ripresa quest’anno, con un lavoro di selezione realizzato da una commissione apposita, intende recuperare il collegamento con le scuole, mentre la riflessione sul Regolamento del premio apre la discussione a livello internazionale. Se infatti il premio incentrato sulla promozione del design italiano ha contribuito a rafforzare l’immagine del Made in Italy, ha permesso all’ADI di strutturare un lavoro di rilevazione della qualità progettuale e produttiva più mirato, fino a caratterizzare il giacimento della Collezione storica come strumento di lettura di un percorso di valorizzazione del design unico al mondo, oggi questa peculiarità forse può rappresentare un limite. La concorrenza di premi internazionali, supportati dagli Stati o da organizzazioni commerciali, rischia di escludere il design italiano da una meritata visibilità. Pensare a un premio internazionale da assegnarsi in occasione delle celebrazioni ogni tre anni potrebbe essere il modo per riproporre a livello più ampio il nostro modo di operare e ci permetterebbe di allargare la visione ai paesi in crescita per rafforzare l’immagine del nostro paese.
Di fatto le imprese da anni si sono aperte alla collaborazione di designer stranieri, anche per meglio interpretare le esigenze di quei mercati dove intendevano vendere i loro prodotti; avere al nostro fianco le istituzioni, per esportare con mostre itineranti
Roma, 12 luglio 2011: la premiazione della mostra del XXII Premio Compasso d’Oro ADI alla Pelanda, sede del MACRO di Roma (fotografia: Claudio Vitale).
della Collezione storica il nostro “modo italiano” di fare design, rappresenta un interesse collettivo. Il nostro approccio al progetto si distingue per una certa sensibilità etica che merita di essere supportata nell’interesse generale. Il design è passato dall’occuparsi del prodotto a occuparsi del processo e sempre più riguarderà il servizio; in questo contesto fare design significa appoggiare politiche di diffusione della conoscenza che interessano il settore, ma in senso più ampio l’economia e la cultura del nostro paese. Il design, al di là dei prodotti che celebriamo per la loro qualità riconosciuta, ci interessa come processo che accompagna la capacità di migliorare la qualità della vita. In questo senso è fatto salvo lo slancio iniziale del progetto inteso come utopia e tensione a costruire un mondo migliore. La famosa frase di Ernesto Nathan Rogers – “Dal cucchiaio alla città” – resta alla base di un impegno comune che è distante dall’idea del design ridotto a componente estetica del marketing. Oggi più che mai, cadute le illusioni di un lineare collegamento tra cultura e società, di fronte ai temi dello sviluppo sostenibile e della responsabilità sociale verso le generazioni future, vale la pena di ribadire la forza ideale del progetto. Infine le motivazioni dei premi di questa edizione: i premi alla carriera sono assegnati, a titolo di riconoscenza, a tre ex presidenti dell’ADI, grandi progettisti, diversi tra loro ma ugualmente generosi nell’occuparsi di una sfida comune; a titolo di una perseguita maggiore riconoscibilità, a tre grandi protagoniste femminili; a un’istituzione all’origine della formazione di design, a un’impresa eccellente, a un designer italiano che ha contribuito al successo di un’impresa internazionale, a tre meritevoli personaggi internazionali; cui si aggiunge un premio speciale riservato a un settore tradizionale interpretato, come sempre è possibile, in maniera nuova. Il design è pensiero, racconto, strategia, prima ancora che prodotto. Infine, al centro dell’attenzione, seguono i premi della giuria assegnati ai prodotti, protagonisti originali e straordinari della nostra storia. Un ricordo particolare va a Riccardo Sarfatti, che non abbiamo voluto premiare ‘alla memoria’ perché continua a vivere in noi: il suo italianissimo “fare con poco”, al quale aggiungo “fare con passione”, è alla base del nostro lavoro.
Giovanni Cutolo Il design come promessa di felicità Quasi cinquant’anni fa, nell’ultimo saggio della sua Opera aperta intitolato “Del modo di formare come impegno sulla realtà”, parlando dell’ineludibile problema posto dall’alienazione, Umberto Eco metteva in evidenza come, anche se fosse possibile risolvere il problema dell’alienazione cui si riferisce Marx quando scrive di economia, rimarrebbe pur sempre il problema dell’ineliminabile presenza dell’alienazione nel contesto antropologico in cui l’uomo si muove. Dato che resta comunque evidente che “per il fatto stesso di vivere, lavorando, producendo cose ed entrando in relazione con gli altri, siamo nella alienazione”. Eco ipotizza che gli effetti negativi di questa alienazione – strutturale e ineliminabile – potrebbero però essere attutiti e resi meglio tollerabili grazie al design: “L’industrial design sembra risolvere il problema: unisce la bellezza all’utilità e ci restituisce una macchina umanizzata, a misura d’uomo. Un liquidificatore, un coltello, una macchina da scrivere che esprimono le loro possibilità di uso attraverso una serie di relazioni gradevoli, che invitano la mano a toccarli e usarli: è una soluzione. L’uomo si integra armoniosamente nelle loro funzioni e nello strumento che le rende possibili”1. Oggi, nel riconoscere sorprendenti doti profetiche di Eco semiologo, non dobbiamo dimenticare, e soprattutto non dobbiamo sottovalutare, la grande attualità della sua riflessione, nella quale si ritrovano messi in luce tanto il ruolo culturale quanto l’importanza strategica del design. In effetti il design italiano, soprattutto quello dedicato alla progettazione di mobili, lampade e oggetti per l’arredamento, è diventato, insieme ai prodotti della moda e a quelli alimentari, uno degli elementi che caratterizzano la nuova identità nazionale. Nel cosiddetto immaginario collettivo internazionale, l’Italia delle tre A – Arredamento, Abbigliamento e Alimentazione – ha preso oramai il posto di quella delle tre M – Mafia, Maccheroni e Mandolini – modificando radicalmente e in maniera positiva il modo in cui il paese si rappresenta, si comunica e viene percepito, soprattutto all’estero. Umberto Eco, Opera Aperta, Milano, 1963.
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In poco più di mezzo secolo il design ha letteralmente preso il volo, sia entrando in forza in una miriade di altri settori merceologici, sia aprendosi, come disciplina, a una vasta molteplicità di varianti applicative. Oggi il design è divenuto il linguaggio di una nuova metodologia che non si declina soltanto come product design, ma anche e da tempo come graphic design e car design e poi come fashion design (la Moda), food design, concept design, management design, strategic design, exhibition design, social design ecc. Se oggi una parte della produzione industriale è guidata, non solo dai valori dell’economicità e della funzionalità, ma anche da quelli della bellezza e della sostenibilità, ciò è dovuto al design. Oggi, grazie al design, le nuove tecnologie che continuamente si offrono alla produzione, vengono utilizzate per migliorare la funzionalità nel rispetto dell’estetica e nella coscienza che si debba garantire la sopravvivenza del pianeta terra. Coniugato in questa maniera, il design si configura come una sorta di ‘neoumanesimo edonistico post-industriale’, impegnato a rendere sempre più amichevole e piacevole l’incontro dell’uomo con i prodotti fabbricati grazie alle macchine. Si è oramai affermata l’efficacia del design come strumento per la revisione della sterminata quantità di oggetti che concorrono alla definizione del paesaggio in cui viviamo: quello domestico e privato e, più ancora, quello collettivo e pubblico, di cui ci pare evidente il grande valore sociale. Si va, analogamente, affermando l’idea che l’auspicabile sviluppo futuro del design dovrà necessariamente farsi carico anche di quella grande parte del pianeta che è finora rimasta esclusa dalla crescita dei consumi a causa del mancato sviluppo economico. È molto probabile che la via indicata da Muhammad Yunus, il banchiere dei poveri premio Nobel per la pace 2006, possa risultare una strada estremamente interessante anche per il design. La creatività dell’Italian furniture design ha potuto contare su un grande numero di designer di eccellenza. Più recentemente il design italiano si è arricchito ulteriormente grazie al talento di molti stranieri che hanno contribuito a diffondere ulteriormente il nostro linguaggio rendendolo ancora più internazionale. Ha certamente ragione la critica brasiliana Ethel Leon quando ricorda che: “Una delle produzioni maggiormente applaudite del design al mondo, quella italiana, riesce a mettere insieme artefatti tanto
diversi fra loro come quelli firmati da Marco Zanuso o da Ettore Sottsass. Quando forse l’unico tratto comune a tutti, che conferisce loro l’attributo di ‘scuola’, è la capacità di invenzione formale e l’inserimento degli artefatti nel dibattito culturale contemporaneo”2. Mi piace ricordare che in questi ultimi cinquant’anni di design si è ripetuto in Italia qualcosa di analogo a quanto già avvenne nei circa centocinquant’anni intercorrenti fra la seconda metà del ’600 e la fine del ’700, quando la straordinaria creatività dei compositori italiani, quasi tutti di scuola napoletana, si impose in tale maniera da lasciare tracce profonde nella storia musicale di quasi tutti i paesi europei. Grazie alla straordinaria apparizione contemporanea di eccezionali talenti si produsse una profonda trasformazione nei costumi musicali dell’epoca, la quale diede luogo all’invenzione di un nuovo linguaggio musicale, formale ed estetico, che rapidamente si estese e dilagò al di là dei confini geografici italiani. Perfino Parigi, cuore culturale della Francia e dell’Europa intera, aprì le porte all’opera italiana arrivando addirittura a destinare un teatro alla rappresentazione esclusiva delle opere italiane. In virtù della diffusione del design anche i parametri dei beni di lusso, ancorati tradizionalmente ai valori tangibili, materici e legati fondamentalmente alla rarità e alla preziosità dei materiali utilizzati, hanno gradualmente lasciato campo ai nuovi valori immateriali e culturali espressi dal design come nuovo parametro di giudizio. In certa misura il design si è imposto come nuovo lusso, definendo i confini di quello che si potrebbe definire ‘lusso culturale’. Di particolare rilievo poi la relazione che intercorre fra l’arte e il design, separate da un confine mutevole e talvolta ambiguo a seconda che si guardi dal punto di vista della creazione (o progettazione?), della realizzazione (o produzione?), della vendita (o distribuzione?) o della fruizione ( o consumo?). “Ciò che noi chiamiamo il creato non solo si sostituisce al nulla, ma ne è l’imitazione. È questo il potentissimo germe che, nascosto nel pensiero orientale, mina dall’interno la creazione ex nihilo propria del creazionismo occidentale. Come si può dedurre anche dai testi di Lacan […] la realtà non è il reale, è imitazione e Ethel Leon, Design brasileiro, Rio de Janeiro, 2005.
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virtualità, ma l’oggetto che essa imita e sostituisce non esiste. Quanto a Lacan, più precisamente, come egli spiega ne Gli scritti tecnici di Freud, ‘il reale, o ciò che è percepito come tale, è quanto resiste in modo assoluto alla simbolizzazione’; la realtà per contro, è tessuta di ordine simbolico, ovvero di linguaggio. Inteso secondo la prospettiva indiana, il reale coincide con il nulla e la crea zione dal nulla conserva con ciò da cui proviene il nesso essenziale: è imitazione del nulla, declina il nulla come illusione”. Partendo da queste premesse Aldo Tagliaferri suddivide l’arte contemporanea in “materica” e “iconica”, osservando che “[…] mentre l’arte iconica rinvia ai referenti intermedi delle forme delle singole illusioni, quella aniconica del materico ha come proprio referente il nulla, situandosi come ciò che direttamente lo sostituisce imitandolo. La prima, storicamente articolata sotto diverse denominazioni strettamente interdipendenti (realismo, neorealismo, iperrealismo e simili) dipinge la realtà, la seconda il reale”3. Trasferendo tale modello di analisi critica dell’arte al più prosaico mondo del design, potremmo ipotizzare, anche qui, una suddivisione tra prodotti riconducibili a una matrice materica e altri invece sostenuti soprattutto da un’ispirazione definibile come iconica. Nei prodotti materici troveremmo quelli più fortemente contestativi, che rifiutando ogni tipo di omologazione e simbolizzazione sembrerebbero voler alludere al nulla e alla drammatica assenza di ogni possibile traccia di reale. Mentre i prodotti di tipo iconico sarebbero quelli pronti al compromesso con la realtà, al punto da rivendicare un posto ben in vista dal quale esibire il loro valore simbolico, ricco talvolta di valori di forma e di funzione, ma irrimediabilmente destinato a essere nient’altro che una finzione. La finzione di una realtà che, pur fascinosamente e seducentemente riflessa, non cessa di essere una realtà meramente virtuale. Se è vero che l’essenza dell’arte risiede in ciò che non si vede contemplando l’opera, è anche vero che la sua rivelazione si manifesta soltanto agli occhi di chi è innamorato della conoscenza e del sapere. Si potrebbe allora sostenere che il rapporto che si stabilisce fra gli oggetti prodotti dalle aziende di design e tutti coloro che li utilizzano, magari limitandosi a contemplarli, sia un rapporto reso Aldo Tagliaferri, Una materia controversa, in “il Verri”, n. 22, 2003, p. 64. 3
possibile e valorizzato dal sapere del consumatore. Un sapere propedeutico, essenziale per poter apprezzare i futuri esiti di un design che diverrà il linguaggio di riferimento per la realizzazione di proposte sempre più sofisticate di prodotti-servizi, di prodottiesperienze e di prodotti-trasformazioni. In questo sconcertante scenario che sembra preannunciare la scomparsa delle merci, lasciando intravedere una nuova economia fondata prevalentemente sullo scambio di rarefatti valori immateriali privi di consistenza tridimensionale, vanno necessariamente ripensati e rinnovati i valori ai quali ancorare la produzione e i suoi prodotti. È quasi sicuro che una buona parte delle merci saranno costituite, o forse dovremmo dire sostituite, da cose e oggetti soft, intangibili, mentre continueranno a circolare quantitativi socialdemocraticamente crescenti di cose hard, di merci tangibili, merci la cui accettazione però sarà sempre più influenzata dai e ispirata ai valori intangibili e soft del design. Di un design capace di instaurare con l’acquirente un nuovo coinvolgimento fondato su di una sorta di complicità culturale mediata dagli oggetti, che non verranno più scelti in base a parametri oggettivi, espressione del loro valore materiale, ma invece sempre più spesso verranno scelti in base a criteri soggettivi, espressione della loro empatica aderenza al gusto di ciascun acquirente. Si realizzerà così, gradualmente, un processo di trasformazione culturale determinato dalle caratteristiche delle merci, finalmente divenute capaci di spostare l’attenzione dell’acquirente dalla volgarità dei valori espressi dal peso dei materiali utilizzati, alla raffinata eleganza dei valori intangibili, quelli che promanano da ogni oggetto di buon design. Un design che, come abbiamo già indicato, in barba alle socializzanti utopie dei padri fondatori, diverrà sempre di più un lusso culturale esercitato con sempre maggiore discernimento da un numero crescente di Edonisti Virtuosi, i nuovi consumatori non manipolabili, capaci di fare scelte di acquisto autonome, orientate da un gusto individuale sempre più informato, smaliziato, sofisticato ed educato. A questa trasformazione culturale lavora da oltre cinquant’anni l’ADI, da dieci anni affiancata dalla Fondazione ADI. Da molti anni partecipo a questa avventura che spesso si trasforma in battaglia e da quattro circa ho il privilegio di svolgere un ruolo nella gestione di questa favola italiana, fatta di impegno, creatività e
passione. La favola di una battaglia a favore della diffusione del design, perché da sempre la diffusione del bello alimenta e rende plausibile quella promessa di felicità alla quale tutti abbiamo bisogno di credere.
Giancarlo Iliprandi, già presidente ADI e premiato con il Compasso d’Oro alla carriera alla XXII edizione, alla mostra dei prodotti selezionati dalla giuria (Fotografia: Claudio Vitale).
Guto Indio da Costa1 I premi di design e il Compasso d’Oro Mi è sempre piaciuto parteciparvi e ho sempre cercato di farlo il più spesso possibile, ma lo confesso: nei confronti dei premi di design, ultimamente, provavo un po’ di intolleranza. Ce ne sono troppi, e ce ne sono dovunque! Un designer che non ottiene almeno un premio o è molto giovane, o è cosa rara! Inoltre è diventata sempre più una moda: ora anche i pubblicitari vogliono distribuire premi di design… Ma recentemente ho vissuto l’interessante esperienza di stare dietro le quinte: ho fatto parte della giuria di premi di design brasiliani; sono stato giurato del D&AD inglese, dell’Observeur francese, del Red Dot tedesco e sono appena tornato dal Compasso d’Oro italiano. Quest’ultima esperienza ha rinvigorito il mio rapporto con i premi. Il D&AD, in Inghilterra, ha avuto per me un sapore speciale. L’anno in cui ho partecipato, il presidente della giuria del design di prodotto era Dick Powell, un grande designer socio di uno più importanti studi di disegno industriale inglesi, lo studio Seymour Powell. Ha coordinato i giudici in modo perfetto, ha portato nella discussione il contributo dei suoi valori ed è stato perfetto non solo per la qualità progettuale ma anche per quella dei particolari: Wonderfully designed and superbly executed, “Splendidamente progettato e superbamente realizzato” era il suo motto. Tuttavia il premio in sé lasciava parecchio a desiderare. Essendo in origine un premio pubblicitario non è bastato istituire una categoria di design di prodotto per farlo diventare un successo. Non è servito neanche rendere internazionale il premio allo scopo di motivare i professionisti: le iscrizioni non erano molte e la maggior parte era di dubbia qualità. Di fatto il premio suscitava poco interesse negli industrial designer (anche inglesi). L’Observeur, promosso dalla francese APCI, ha come caratteristica l’esposizione delle opere vincitrici per la durata di qualche 1 Il testo è stato pubblicato sulla rivista brasiliana “ArcDesign”, n. 74, 2011. Guto Indio da Costa, membro della giuria del XXII Premio Compasso d’Oro ADI, è laureato in Design di prodotto presso l’Art Center College of Design (Europe) ed è attualmente amministratore delegato di Indio da Costa AUDT Office, studio di consulenza progettuale di Rio de Janeiro.
mese alla Cité de l’Industrie della Villette, a Parigi, centro espositivo didattico della scienza e della tecnica dedicato soprattutto a bambini e adolescenti. È un grande motivo di interesse, ma il premio in sé – in un paese in cui la tradizione del design è ancora recente e, per molti anni, è stata iniziativa di un unico personaggio – nell’anno in cui ho fatto parte della giuria ha avuto risultati, diciamo così, mediocri. C’era anche una prevalenza di prodotti privi di grandi valori espressivi, e in questo caso la giuria era composta da troppe persone: più di quindici, di culture e paesi differenti. Il che ha reso impossibile una decisione unanime e concorde. I voti individuali e il sistema di assegnazione del punteggio portavano a risultati a volte eccezionali, a volte deludenti. Tutto questo dopo ore di intense discussioni (alla fine si tratta di un premio francese e di una giuria prevalentemente francese!). Si sono visti molti prodotti di aziende orientali e di grandi multinazionali. Il Red Dot, premio annuale tedesco, con tanti anni di esperienza e di solida reputazione, era già un po’ differente. Una moltitudine di prodotti provenienti da tutto il mondo, compresi i più nobili prodotti tedeschi, e una giuria composta da venti designer di tutto il mondo (alcuni celebri), ma divisi in piccoli gruppi per categoria. L’organizzazione tedesca era impeccabilmente guidata da Peter Zec, gran maestro del design di Essen. La città, anche se poco nota, ha il più grande museo di design del mondo, allestito in un’ex miniera di carbone completamente ristrutturata, un luogo incredibile che ogni designer prima o poi dovrebbe visitare. Al Red Dot non c’è preselezione. La giuria ha accesso a tutti gli oggetti partecipanti e tutti i prodotti sono sul posto per essere toccati con mano: un divertimento per qualsiasi designer e soprattutto un requisito indispensabile per formulare un giudizio corretto. Da un lato il fatto che non esista una preselezione dà a tutti la possibilità di accedere al premio, dall’altro c’è il rischio che si abbassi la qualità di gran parte di ciò che viene sottoposto al giudizio. Il risultato è molto orientato all’industria, abbastanza commerciale, e con una tale quantità di prodotti che il risultato finale, nonostante il massiccio catalogo, è incisivo e molto autorevole.
Come l’iF, il Red Dot offre inoltre ai prodotti vincitori la diffusione del suo logo come marchio di qualità del design. È importante notare che un premio minimamente serio vieta a qualsiasi membro della giuria di competere nello stesso anno in cui funge da giurato. Se si permette a un membro della giuria di promuovere un suo prodotto, si crea un evidente imbarazzo del gruppo nel caso di mancato riconoscimento del merito di uno dei suoi membri. Nel D&AD, premio che nasce nel mercato pubblicitario, si è verificata una situazione imbarazzante, e anche Dick Powell ha riconosciuto la difficoltà di evitare la premiazione di un membro della giuria. Anni dopo ho capito che si tratta di una cattiva e frequente abitudine di questi premi pubblicitari, per i quali nutro sfiducia e scarsa stima. Il Compasso D’Oro, invece, è il più strutturato e più prestigioso premio di design che io abbia mai conosciuto. In primo luogo perché è un premio essenzialmente italiano: premia i designer italiani e anche i designer stranieri purché abbiano progettato per aziende italiane. Può sembrare un limite, ma proprio questo lo rende molto più interessante, dato che è frustrante premiare Apple a Londra o Samsung a Parigi. In queste premiazioni internazionali, aperte a tutti, succede che gli stessi marchi, e molte volte gli stessi prodotti, entrino in concorso e vengano premiati dappertutto. Cosa abbastanza sgradevole. I vincoli del Compasso d’Oro invece ci pongono di fronte a una selezione diversa, non sempre pubblicata e conosciuta nel mondo intero. Inoltre è un premio triennale. Oggi, nel 2011, si giudicano prodotti del 2008, del 2009 e del 2010. Questo fa sì che l’effetto del tempo sui prodotti aiuti a scegliere ciò che riteniamo davvero migliore. Spesso quello che sembra inizialmente un buon progetto non supera la prova del tempo e pochi anni dopo si dimostra invecchiato e datato. Questa prospettiva temporale rende tanto più interessante la premiazione e la durata diventa un fattore preponderante del giudizio. Altro fattore interessante è che in ogni edizione triennale sono presenti da un minimo di dieci a un massimo di venti prodotti premiati con il Compasso d’Oro. Ossia meno di sette all’anno, il che è la garanzia dell’eccellenza di quelli che vengono premiati. Inol-
tre nessuno si iscrive: la scelta è fatta annualmente da critici di design di tutta Italia nell’arco dei tre anni precedenti la selezione finale. Quest’anno abbiamo preso in esame poco meno di trecento prodotti, provenienti da una selezione iniziale di quasi cinquemila! Ossia il top del top, cosa che rende titanico il compito dei giudici, perché non è facile giudicare e scegliere tra Lovegrove, Pininfarina, Matteo Thun, Michele De Lucchi, Urquiola, Citterio, Grcic, Alberto Meda e tante altre star internazionali… Allo stesso modo si incontrano giganti del design italiano come Luceplan, Alessi, Maserati, Fiat, Flos, Plank, Wally e così via. Non esistono premi per categorie (errore di tutti gli altri concorsi). Si giudica quello che è buono e quello che è eccezionale. Non esiste nessuna restrizione nel premiare equamente qualsiasi categoria o segmento di mercato. Ciò evita che ci siano vincitori di seconda categoria. Infine il fatto più sensazionale: l’ADI (l’associazione italiana del design) conserva una collezione con tutti i prodotti premiati con il Compasso d’Oro fin dalla prima edizione, cinquant’anni fa! Quindi la caratteristica più importante del Compasso d’Oro è il fatto di possedere la maggiore e più importante collezione di design del mondo! E ogni tre anni questa collezione aumenta di almeno dieci prodotti. Da non perdere a Roma la mostra in corso, con uno spaccato degli ultimi cinquant’anni del Compasso d’Oro realizzato dall’architetto e critico Enrico Morteo: una vera lezione di storia del design, con le opere prime di tutti i maestri italiani. (Traduzione di Daniela Marengo Alves)
ISSN 0030-3305
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