133
gennaio 2012
numero 143
Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli
Electa Napoli
Selezione della critica d’arte contemporanea
rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Alessandra de Martini, Emma Labruna, Livio Sacchi Segreteria di redazione: Rosa Losito Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 081/7690783 Amministrazione: 80121 Napoli, Via dei Mille, 16 - Tel. 081/4297440 Un fascicolo separato e 9.00 (compresa IVA) - Estero e 10.00
Abbonamento annuale: Italia e 25.00 - Estero e 28.00 Un fascicolo arretrato e 10.00 - Estero e 11.00 Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione commerciale imprese - Napoli C/C/P n. 24514804
Electa Napoli
L. Sacchi, Architettura: un riesame O. Scotto di Vettimo, Per il disgelo delle arti C. Martino, Design: verso una riscoperta della cultura materiale Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Annalisa Cinelli, Orfina Fatigato, Francesca Rinaldi, Umberto Rovelli, Paola Scala
5 17 27 41
Architettura: un riesame LIVIO SACCHI
L’ultimo libro di Jean Clair, L’hiver de la culture1, sia pur dedicato alle arti visive in generale, ha riacceso nella seconda metà dello scorso anno il dibattito sulla condizione contemporanea anche in architettura. Contraddittoriamente: parlare di “inverno dell’architettura” può sembrare infatti quanto mai improprio. Per molti aspetti l’architettura vive un momento eccezionalmente favorevole: nella sua lunghissima storia, la più lunga fra quelle delle arti, non ha mai avuto una produzione così ampia e universale; gli architetti (soprattutto in Italia) non sono mai stati così numerosi; i media non le hanno mai dedicato così tanta attenzione. Si aggiunga che i livelli di arbitrarietà creativa delle altre arti (uno dei problemi che, come vedremo, sembrano affliggere la creatività contemporanea) sono ben più elevati di quelli riscontrabili in architettura: la natura della disciplina e la sua dipendenza da tutta una serie di fattori molto concreti come la disponibilità della committenza, gli aspetti tecnici e funzionali, i regolamenti edilizi, i budget a disposizione ecc. la rendono nei fatti molto meno esposta agli avventurismi avanguardisti. Tuttavia, a ben guardare, sono forse proprio le così straordinarie condizioni sopra ricordate a rendere in larga misura lecito il parallelo con le pessimistiche tesi di Clair. Il critico francese aveva già più volte espresso il proprio scetticismo sulla complessiva qualità della produzione creativa degli ultimi decenni e, in particolare, sulla
5
6
crescente ridondanza mediatica che impropriamente accompagna tale modestia qualitativa. In Critica della modernità, per esempio, scrive: Poche epoche hanno conosciuto quanto la nostra un tale divorzio fra la povertà delle opere prodotte e l’inflazione dei commenti che anche la più insignificante di esse riesce a suscitare2. Clair se la prende anche con la costante aspirazione della modernità alla rottura con il passato, evidenziandone l’interna contraddizione: Per riprendere un concetto espresso da Octavio Paz, la tradizione della rottura non implica soltanto la negazione della tradizione, ma implica ugualmente la negazione stessa della rottura. Così l’eterodossia di un’estetica del nuovo sfocia su un paradosso e si distrugge da sola. Al contrario di Mnemosine che assicura la calma trasmissione del ricordo, è Cronos che divora i propri figli3. Un paradosso a suo tempo evidenziato da Harold Rosenberg, che resta alla base delle vicende creative dei nostri tempi4. Lo stesso Clair prova poi a metterci in guardia nei confronti della spesso acriticamente condivisa passione per le avanguardie, denunciando il conformismo implicito in molte sue manifestazioni: Occorre forse ricordare che il primo artista a definire con chiarezza l’idea di moderno – poco prima della Rivoluzione del 1848 – si preoccupa di opporla e all’idea di “avanguardia” e all’idea di “progresso”? Baudelaire si prenderà gioco dell’“amore dei francesi per le metafore militari (…)”: “Littérature militante”, “Se jeter dans la melée”, “Les poètes du combat”, “Les littératures d’avant-garde (…)”, “Ces habitude de métaphore militaire, dénotent des esprit non pas militants mais faits pour la discipline, c’est-à-dire pour la conformité”5. Citazioni, queste tratte dai Journaux intimes di Baudelaire, puntualmente riprese, peraltro di recente, da Joseph Rykwert6. Aggiungiamo che l’avanguardismo, a lungo andare, non è una posizione comoda, soprattutto quando non c’è con chi o cosa prendersela. Per gli architetti e i critici “d’avanguardia” un conto è, insomma, avere un nemico facilmente identificabile contro il quale combattere (gli ordini classici, l’accademia, il razionalismo, lo storici-
smo, i regionalismi, le stereometrie elementari, le forme e le tecnologie tradizionali ecc.), un conto trovarsi circondati da ogni parte da acritici ed entusiastici propugnatori del nuovo. La forza delle avanguardie storiche (e del movimento moderno che da esse nacque e si alimentò), per prendere un esempio noto a tutti, risiedeva essenzialmente nel loro puntuale contrapporsi a tutto ciò che costituiva il passato, il vecchio da debellare e superare: gli stili, di derivazione ottocentesca, che ancora monopolizzavano la scena architettonica e urbana nei primi decenni del Novecento. Una battaglia indubbiamente supportata da precisi e altrettanto rivoluzionari orientamenti ideologici, anche se questi ultimi, com’è stato ipotizzato da un sottile esegeta della modernità quale Colin Rowe, non avevano forse altra funzione che occultare il sostanziale interesse dei pionieri per le nuove forme7. Lo stesso può dirsi dei primi rivoluzionari passi compiuti dai protagonisti del Rinascimento: un manipolo di innovatori che, forti della grande tradizione dell’antichità classica, si muoveva contro il consolidato sistema gotico di origine medievale. Con l’accelerazione propria della contemporaneità, le numerose tendenze che hanno segnato la concitata scena architettonica sul finire del secolo scorso si sono configurate l’una come il superamento dell’altra, l’una contro l’altra (chi non si è reso conto, soprattutto in un Paese come l’Italia in cui per realizzare s’impiegano anni se non decenni, di quale rapido invecchiamento fossero oggetto i progetti inizialmente più attuali e alla moda, di quanti edifici venissero inaugurati quando erano già diventati formalmente obsoleti e superati?) Ma oggi persino tali rapidi mutamenti di rotta e contrapposizioni sembrano finiti all’interno di una crescente accelerazione, tutto sembra convivere all’interno di un calcolo apparentemente astruso e complesso che alla fine si rivela a somma zero: nessun critico, nemmeno fra quelli più inclini a identificare ed etichettare il nuovo appena questo si affaccia alla rumorosa ribalta mediatica, è da un po’ di anni riuscito a battezzare una sola inedita linea di tendenza. A ciò si aggiunga che, nel clima di consensuale estetizzazione
7
8
che pervade il presente, il nuovo sembra quanto mai solipsistico e principalmente preoccupato di superare soltanto se stesso; sembra essersi trasformato in gusto gratuito per la novità, la sfida, il superamento dei record, nel tentativo di infrangere regole che non esistono più, in una gara a stupire, inevitabilmente destinata, nel tempo, a non stupire più nessuno e a naufragare piuttosto nell’indifferenza generale. Non a caso dunque, nello stesso saggio qui più volte ricordato, Jean Clair delinea un quadro delle arti contemporanee che calza perfettamente per l’architettura: La violenza fatta al tempo, là dando l’illusione di un accelerarsi sempre crescente, e qui dando l’illusione di un tempo sospeso, non è forse dello stesso tipo? Così come basta accelerare la frequenza di scintillazione di uno stroboscopio per darci l’illusione di una luce continua, allo stesso modo l’avanguardia, in quanto esasperazione e ingrandimento delle tendenze della modernità, provoca un’accelerazione e una proliferazione di forme, che considerate a distanza ci appaiono uniformi e continue. I cambiamenti sono divenuti così rapidi che danno l’impressione di un’immobilità simile a quella dell’estetica congelata del realismo socialista8. Fra i non pochi aspetti della scena critica più recente appare la crescente insofferenza verso la produzione architettonica delle star, cui si accompagna una buona dose d’ingenuità della committenza che vi si rivolge. La fortunata stagione della spettacolarizzazione formale che, tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, ha prodotto numerose fabbriche dal carattere vistosamente iconico, quasi sempre firmate da grandi architetti (e che ha certamente avuto il merito di attirare l’attenzione dei media non specializzati e avvicinare il grande pubblico), denuncia oggi alcuni chiari segnali di crisi. Le star continuano a costituire un aspetto fra i più interessanti della scena odierna: progettisti molto richiesti, imitati e invidiati, ma anche in qualche modo costretti a vivere pericolosamente, come recitano le parole di Ralph W. Emerson: “pattinando sopra il ghiaccio sottile, la nostra salvezza sta nella velocità” (Prudence, 1841). Un gruppo
relativamente ristretto, mediaticamente sovraesposto, dal repertorio formale quasi sempre autoreferenziale e atopico, cioè indifferente ai contesti: se si esamina il ruolo che l’architettura prodotta da tali architetti gioca nei confronti della forma urbana, non è difficile classificarne gli esiti come antiurbani per eccellenza, chiaramente preoccupati, come sono, di dialogare soltanto con se stessi. Naturalmente è opportuno non generalizzare: sarebbe ingiustificato riferire tutto a ciò alle opere di architetti quali, per esempio, Tadao Ando, Renzo Piano o Alvaro Siza (ma l’elenco potrebbe continuare). Tuttavia è altrettanto evidente come una gran parte della produzione architettonica delle star sia prevalentemente ridotta a immagine o a celebrativa autorappresentazione; il meccanismo – superamento incessante all’interno di una sostanziale riconoscibilità – non è dissimile da quello che muove il mondo della moda, dell’arte e del design; il risultato più evidente – al di là del continuare a monopolizzare incarichi di prestigio e del ricevere superficiali consensi critici – è la crescente indifferenza del pubblico. L’arbitrarietà della forma, un carattere invariante in gran parte della produzione recente, ci riconduce a un vecchio problema i cui risvolti nei confronti della modernità non sono esenti da contraddizioni. Se infatti tale arbitrarietà morfologica è più o meno legata alla ricerca fine a se stessa del nuovo, e se l’assunzione del nuovo come valore estetico non è che un tipico tratto delle avanguardie poi riversatosi all’interno delle principali linee creative del secolo scorso, è forse corretto metterla in relazione con l’idea di modernità quale si è andata configurando, in architettura, nel corso del XX secolo. Dall’altra parte non è chi non veda come essa si configuri invece sostanzialmente contro la sistematica precettistica di questa stessa modernità, i cui maestri, da Le Corbusier a Mies a Gropius, hanno pazientemente lavorato alla definizione di codici semplici, giustificabili e reiterabili da parte di chiunque (anche se proprio Le Corbusier, nel 1950, disegnò una delle più potenti e straordinarie icone architettoniche di ogni tempo: la cappella di Ronchamp). Collegata a tale fenomeno è la facilità con cui la stru-
9
10
mentazione progettuale digitale da una parte e le tecnologie e le tecniche esecutive dall’altra consentono una sempre più sorprendente sperimentazione: ciò è alla base di molti edifici contemporanei che si connotano, più che dal punto di vista dell’appropriatezza, della rispondenza ai dettami funzionali, del rapporto con il contesto o della sostenibilità (di cui si parla tanto e tanto a sproposito oggi), soprattutto per l’innovazione formale, in aperta sfida alla tradizione. Ma paradossalmente tutto ciò ha finito con lo svuotare tale sfida di gran parte dei suoi significati, lasciando aperti i veri problemi legati al futuro dell’architettura e della città. La ricerca dell’iconicità, all’interno di un panorama culturale sempre più dominato dai media e reso schiavo dal mercato, ha così cominciato a provocare delle precise reazioni sul piano critico che lasciano presagire un’inversione di tendenza: alcune di esse sono delle vere e proprie prese di posizione contro l’architettura come mass medium, delineata – ma, a ben guardare, certamente non auspicata – già nel 1967 da Renato De Fusco9 e contro la cosiddetta architettura-spettacolo, frutto scontato della società preconizzata, nello stesso 1967, da Guy Debord10. Fra le voci più autorevoli che si sono di recente levate contro la progressiva deriva verso la spettacolarizzazione dell’architettura è, per esempio, quella di Peter Eisenman, che pure di spettacolo ne ha dato parecchio: In un simile contesto, il soggetto contemporaneo, ora reso passivo, è realmente in pericolo di perdere la capacità di una lettura approfondita. (…) La crisi prodotta dallo spettacolare richiede una nuova soggettività, quella di un soggetto rimosso dalla passività indotta dall’immagine superficiale e impegnato dalla forma in una lettura approfondita”11. L’affannosa quanto superficiale e sempre più arbitraria ricerca della novità formale piuttosto che dell’innovazione sostanziale, con il conseguente, progressivo approfondimento del gap che separa l’acritica ammirazione di pochi al generalizzato disinteresse, se non al disprezzo, dei più appare dunque una delle principali caratteristiche della condizione contemporanea. E richiami quali quello di Eisenman,
appena citato, o di Vittorio Gregotti, che critica un’originalità estetica astratta come valore assoluto che si vuole indipendente dalle condizioni di contesto (anche se si sa che esistono idee originali pessime o addirittura dannose)12 è facilmente riconducibile a una lunga serie di considerazioni quali, per esempio, quelle espresse mezzo secolo fa da Johan Huizinga: La permanente spasmodica ricerca dell’originalità – una delle piaghe dell’epoca moderna – rende l’arte assai più accessibile della scienza a tutti i deleteri influssi sociali del di fuori. L’arte, così, manca non solo di disciplina, ma dell’indispensabile isolamento. Nella sua produzione lo sfruttamento lucrativo dello spirito – altra piaga della vita moderna – ha una parte molto maggiore che nella scienza. La necessità, che in una società fondata sulla concorrenza obbliga i produttori a sorpassarsi continuamente nell’uso dei mezzi tecnici, conduce l’arte, sia per sete di pubblicità che per vanità pura, a quei malinconici eccessi d’insensatezza che dieci anni fa si spacciavano per espressione di un’idea (…)13. Provando a riassumere, quali fattori hanno maggiormente contribuito alla crisi della cultura architettonica contemporanea? Il primo è forse la globalizzazione, che ha fortemente cambiato le regole del gioco professionale, con il progressivo asservimento al grande capitale internazionale (il dominio dello ¥€$, come lo ha definito Rem Koolhaas, ovvero “la forma segue il mercato”, per aggiornare il vecchio aforisma di Louis Sullivan “la forma segue la funzione”). Il secondo è la sostanziale rinuncia della scuola, almeno in Italia, a insegnare il mestiere di architetto. Una scuola dove i docenti sono sempre più distanti dalla pratica del fare, dove non è possibile non registrare la progressiva perdita di cultura tipologica e costruttiva, oltre che, in molti casi, del banale buon senso, e dove gli studenti sembrano incapaci di ogni tipo di approfondimento storico-critico, impigriti dalla pratica del copia e incolla, colpiti spesso solo dall’ultimo slogan di moda puntualmente destinato a far cadere nell’oblio ogni precedente, sia pur fortunata, posi-
11
12
zione teorica. Un terzo, rilevante fattore è poi l’incapacità della critica di operare distinzioni e giudicare la qualità delle opere: soprattutto, di giudicare l’architettura a partire dalle opere, dalla loro qualità e dalla loro rispondenza alle richieste della committenza. Un ruolo, quello giocato oggi da molta critica architettonica, spesso diviso tra l’entusiastico accoglimento di ogni sia pur minima novità che strizzi superficialmente l’occhio a mode e tendenze in ascesa da una parte e un atteggiamento (minoritario) di contrapposizione che si concretizza in ragionamenti astiosi se non incompetenti dall’altra. Per non parlare di quella critica e di quella editoria più o meno apertamente pagata per offrire giustificazione culturale a studi ansiosi di conquistarsi, a qualsiasi prezzo, una qualche visibilità (con risultati spesso deludenti dallo stesso punto di vista mediatico, a causa della polverizzazione del valore comunicativo della pubblicazione di un’opera: se, poniamo, trenta o quarant’anni fa l’uscita di una nuova realizzazione su una delle, allora poche quanto autorevoli, riviste di settore bastava a garantire notorietà al suo progettista, oggi, nell’indistinta multimedialità che caratterizza i nostri tempi, ci vuole ben altro). Siamo dunque lontanissimi da quella “critica discorde”, coraggiosa e anticonformista, ma solidamente radicata in una profonda cultura sia disciplinare sia extradisciplinare, di cui si parlava in uno storico numero di “Op. Cit.”14. Riviste, web sites, mostre, cataloghi, pubblicazioni e convegni nascondono spesso, dietro le apparenze della comunicazione culturale, il loro vero obiettivo che è di natura esclusivamente commerciale, legato dunque all’indiretta pubblicità a un prodotto (nel nostro caso, non tanto all’opera architettonica, difficilmente rivendibile in quanto tale, bensì al suo creatore, l’unico cioè in grado di garantire qualcosa di simile a un futuro committente). Un quarto fattore, quasi un corollario del precedente, è infine costituito dall’ambiguo ed equivoco ampliamento dei confini disciplinari, fino alla con-fusione dell’architettura nell’indistinto universo comunicativo che caratterizza la stagione contemporanea nel suo insieme. L’arte – e l’architettura, aggiungiamo noi – non
produce idee, transazioni elettroniche, valori virtuali, ma oggetti materiali, fisici, che hanno una sostanza. E questi oggetti non sono rilevanti per il loro capitale intellettuale o cognitivo, ma per il loro capitale spirituale, termine desueto che non s’incontra nel vocabolario del l’economia immateriale15. Si aggiunga che la libertà progettuale consentita dalla diffusione della tecno-cultura digitale è, a ben guardare, effettiva nella misura in cui essa resta tale, nello spazio ibrido della virtualità rappresentativa, rinunciando a trasformarsi in architettura. Quando è invece costretta a passare dall’ambito ideativo e comunicativo a quello reale, perde per strada gran parte della sua carica sperimentale e, lungi dal mantenere le promesse sperate, diviene vano esercizio di design superficialmente alla moda o, peggio, ricade nell’ambito della produzione ordinaria, per lo più sciatta e scadente, con l’aggravante di una improbabile pretenziosità. Temiamo anche che molte delle questioni sopra ricordate non siano che un alibi che ha il solo scopo di nascondere una ingombrante assenza: la qualità dell’architettura, intesa nella sua specificità disciplinare, nella sua storica autonomia, nella sua essenza e nella sua unicità. Qual è oggi lo stato di salute della disciplina, termine che, non a caso rimanda ai concetti di regole, principi ecc., e quale il suo futuro? L’architettura vive, come s’è detto in apertura, una stagione interessante e ricca di eccezionali realizzazioni da una parte all’altra del mondo. Ma si tratta anche di una fase in cui, dal punto di vista della ridefinizione dei suoi statuti, essa appare stagnante e assopita: fingendo di guardare avanti, si attarda in realtà a guardarsi intorno se non indietro, stordita e drogata, forse, dall’eccesso di libertà e dall’illimitato sperimentalismo che le è consentito. Riteniamo insomma vero ciò che in diverse occasioni ha osservato ancora Peter Eisenman – richiamandosi al libro On Late Style (2006) dell’americano di origine palestinese Edward W. Said, da poco scomparso – e cioè che l’architettura sia oggi prigioniera all’interno di una condizione di lateness: una fase tarda in cui non esistono nuovi paradigmi e neanche le
13
14
condizioni ideologiche, culturali e politiche che rendono possibile il cambiamento. Non mancano i bravi architetti in grado di far bene il proprio lavoro; il problema è che, non essendoci né i Brunelleschi né gli Alberti, e nemmeno i Palladio o i Michelangelo, abbiamo invece i Sansovino o gli Scamozzi. Siamo insomma tutti in attesa di un futuro il cui scopo non sia essere, a sua volta, rapidamente consumato e dimenticato; di un futuro che porti a nuove forme di pensiero e a nuove forme architettoniche: un nuovo non ancora all’orizzonte ma che si determinerà, forse inaspettatamente, forse anche presto, un po’ come improvvisamente esplose, dopo la elegante ma ripetitiva età tardo-rinascimentale, la grande rivoluzione barocca. Per concludere, l’architettura è cosa difficile da realizza re: al suo specifico, come avviene per tutte le arti, non basta il sapere, ma è necessario il fare. Non si dà dunque senza costruzione e senza spazialità abitativa. Né si dà senza buon senso e capacità di mediazione, senza l’inesausta ricerca di quel “centro perduto” denunciato da Sedlmayr nel suo Verlust der Mitte: una perdita di quel mezzo in cui stat virtus: perdita d’umanità, d’organicità, del senso della realtà e del divino16. Né senza l’inesausta ricerca di quel punto d’incontro fra creatori e fruitori auspicato da Klee: deve ben esistere un terreno comune a profani e artisti, un terreno sul quale sia possibile un incontro, sul quale l’artista cessi di apparire qualcosa di estraneo, e appaia invece come un essere che al par di voi, non richiesto del suo parere, è stato gettato in un mondo proteiforme, in cui bene o male gli tocca raccapezzarsi (…)17. L’architettura, come abbiamo di recente sostenuto18, è infine cosa difficile da valutare, soggetta, com’è oggi, alle distorsioni esegetiche dovute alla sua rappresentazione, grafica, fotografica e filmica, e all’esaltazione critica che superficialmente ne deriva. Una volta esaurita la stagione del dissolvimento nella comunicazione globale, della liquidazione del concetto stesso di opera nella estetizzante presentazione della sua immagine, ci auguriamo che essa, nel prossimo futuro, torni alla sua essenza disciplinare, a ciò che distingue l’archi-
tettura da ciò che architettura non è, e sia giudicata dopo aver subito il banco di prova della costruzione: un giudizio positivo andrebbe addirittura formulato solo dopo qualche anno, qualora essa, uscita dal frastuono mediatico che inizialmente la circonda, sia passata indenne al vaglio della rispondenza funzionale, della efficienza gestionale, della tenuta nel tempo della sua immagine, in una parola di tutto ciò di cui, banalmente, gli uomini continuano ad aver bisogno, secondo l’enigmatica ammonizione di Adorno: proprio perché l’architettura oltre che autonoma è anche legata a uno scopo, non può negare gli uomini come sono, anche se in quanto autonoma deve farlo19.
Cfr. J. Clair, L’hiver de la culture, Flammarion, Paris 2011. J. Clair, Critica della modernità, Considerazioni sullo stato delle belle arti, Umberto Allemandi & C., Torino, p. 9. Ed. or. Considérations sur l’état des beaux arts, Critique de la modernité, Gallimard, Parigi 1983. 3 Ivi, p. 24. 4 Cfr. H. Rosenberg, The tradition of the New, Horizon Press, New York 1959. 5 J. Clair, op. cit., p. 55. 6 Cfr. J. Rykwert, The judicious eye. Architecture against the other arts, London 2008, p. 12. 7 Cfr. C. Rowe, The Architecture of Good Intentions. Toward a Possible Retrospect, Academy Editions, London 1994. 8 J. Clair, op. cit., p. 62. 9 Cfr. R. De Fusco, Architettura come mass medium, Note per una semiologia architettonica, Dedalo, Bari 1967. 10 Cfr. G. Debord, La Societé du spectacle, Éditions Buchet-Chastel, Paris 1967. 11 E. di Casarotta, alias P. Eisenman, Contro lo spettacolo, in La città nuova Italia-y-2026, Invito a VEMA: il padiglione italiano alla 10° Mostra internazionale di architettura, a cura di F. Purini, N. Marzot, L. Sacchi, Editrice compositori, Bologna 2006, p. 25. 12 V. Gregotti, Contro la fine dell’architettura, Einaudi, Torino 2008, p. 91. 13 J. Huizinga, La crisi della civiltà, Einaudi, Torino 1963, pp. 125-131. 14 Cfr. La critica discorde, in “Op. Cit., Selezione della critica d’arte contemporanea”, n. 4, settembre 1965. 15 J. Clair, L’hiver de la culture, cit., p. 105. 16 C. Brandi, Segno e immagine, Il Saggiatore, Milano 1960, p. 130. 1 2
15
17 P. Klee, Visione e orientamento nell’ambito dei mezzi figurativi e loro assetto spaziale in Teoria della forma e della figurazione, Feltrinelli, Milano 1959, p. 81. 18 Cfr. L. Sacchi, Il futuro dell’architettura, in XXI Secolo, Gli spazi e le arti, Istituto della Enciclopedia Italiana fondato da Giovanni Treccani, Roma 2010, p. 219. 19 Th.W. Adorno, Funktionalismus heute, Il funzionalismo oggi, discorso tenuto al congresso del 1965 del Deutscher Werkbund, pubblicato in Ohne Leithild: Parva aesthetica, 1967, pp. 7-19; trad it. Parva aesthetica: saggi 1958-1967, Feltrinelli, Milano 1979, p. 121.
16
Per il disgelo delle arti OLGA SCOTTO DI VETTIMO
Si ha talvolta l’impressione di non appartenere propriamente al proprio tempo. Si è colti da un malessere nell’ammettere a se stessi di non comprendere fino in fondo ciò che ci circonda. […] I diversi tentativi di teorizzazione di quella che non saprei come altro definire se non arte del tardo capitalismo postmoderno […] sono diventati sempre più insopportabili, per la vacuità che li caratterizzava. […] Siamo alla fine di un’arte di regime, la cui volgarità e povertà intellettuale e visiva è sconcertante. È necessario, affinché qualcosa di altro possa apparire, che questa illusione ottica sia smascherata e sia rivendicato con forza, senza paure e senza sottostare alle censure dell’ideologia dominante, un altro modo di fare arte, un altro modo di frequentare l’atto creativo, un altro modo di fruire l’opera1. «Il re è nudo», afferma provocatoriamente Federico Ferrari, indicando un solco di pensiero variamente articolato e nutrito da un sentimento intellettuale che, a mio avviso, prende le mosse dal paradosso teorico in cui la critica oggi si trova ad operare: la messa in discussione del Postmoderno. Si dimentica infatti che proprio questa categoria è il luogo della crisi per definizione e che non ammette e non potrebbe ammettere altro se non il suo superamento. Le categorie del pensiero attuale, per uscire dall’impasse dello scontro tra due modelli ormai del tutto inattuali (Moderno e
17
18
Postmoderno), non possono che procedere a una affermazione teorica forte che si sviluppi però non più esclusivamente sul piano intellettuale ma su quello della prassi. E che questo possa avvenire nella ricerca anche di una nuova possibilità semantica per rinominare il contemporaneo, appare urgente soprattutto per storicizzare le voci critiche autorevoli e avvertite non più in grado di soddisfare la lettura della contemporaneità, tanto da renderla addirittura ancora più confusa perché incapace di distinguere il sapere dalla conoscenza. Se si provasse, invece, a sviluppare l’esercizio critico all’interno di uno statuto nuovo, che suggeriamo possa dirsi ‘ipermoderno’, sarà a nostro avviso possibile liberarci dal termine «crisi» e ammettere che la nuova epoca di pensiero richiede ‘azioni teoriche’ che, sostituendosi alle ginnastiche riflessive, sappiano davvero dirsi attuali e contemporanee e, pertanto, pienamente capaci di cogliere, senza i pregiudizi nostalgici del Moderno e le secche del Postmoderno (o della «modernità liquida» baumaniana2), le immediatezze del l’epoca attuale, che rifuggono – in arte ma non solo – tanto le «narrazioni» quanto le debolezze della crisi della post historia. Il dubbio che si impone nel ragionamento è che non si può più accettare oggi la legittimità di domande sul senso e sulla natura dell’arte contemporanea3, sulle necessità definitorie dell’artistico e dell’estetico con inadeguati riferimenti o messa in discussione degli statuti dell’arte. L’epoca ipermoderna impone oggi la costruzione attraverso azioni di modifica e di rifondazione, abili a essere attuali perché presenti, incisive e deideologizzate, ma ugualmente trascendenti. L’epoca ipermoderna è quella si sviluppa nel tracciato della comunicazione digitale, la cui efficacia coincide con la sua efficienza e che non si costruisce con i criteri della ripetitività e reiterazione, ma con quelli della puntualità, dell’immediatezza e della determinazione dell’azione che dovrà necessariamente essere ‘visionaria’. Il Postmodern, mettendo in crisi l’idea dell’arte come opera d’arte totale, si oppone alla «vaporizzazione» (per dirla con Baudelaire) dell’artistico nel fluire della vita e ca-
stra quella tensione che ha segnato l’epoca delle avanguardie, indirizzate a far coincidere in un progetto comune (ottimistico e darwiniano) questi due ambiti. La frattura teorica con la condanna aspra, dura e radicale al «progetto moderno» avviene in architettura con l’inequivocabile posizione di Paolo Portoghesi, curatore della prima Biennale di architettura a Venezia nel 1980, che nel saggio teorico di introduzione al catalogo attacca la «critica ufficiale», i «sacerdoti del Movimento Moderno», il «lavoro dei critici poliziotti», incapaci di individuare come il riciclaggio in nuovi contesti sintattici di forme tradizionali è uno dei sintomi che hanno prodotto una “differenza” profonda in una serie di opere e progetti di questi ultimi anni inclusi da alcuni critici nell’ambigua ma efficace categoria del Postmoderno4. Da subito il Postmoderno denuncia le fragilità proprie del pensiero debole, per cui Habermas potrà tacciare questo atteggiamento di «nuovo storicismo» e di «Neo conservatorismo» e, diversamente, Lyotard condannerà «l’impazienza con la quale le esperienze artistiche postmoderne rinunciano alle ricerche linguistiche e alle pratiche sperimentali dell’avanguardia»5. Ma il tratto più evidente che caratterizza il pensiero postmoderno è sintetizzato così da Angelo Trimarco: l’intera cartografia dell’arte postmoderna, segnata, certo, da una forte discontinuità col “progetto moderno dell’arte”, non è, tuttavia, riconducibile, nella sua complessità, alla sequenza lineare “impossibilità di un’avanguardia” – “sparizione dell’arte” o, come vuole Virilio, “estetica della sparizione”. Nella città globale dell’arte – spazio, senza dubbio, del défilé infinito dei simulacri – vivono esperienze che, pur in discontinuità con i pensieri dell’avanguardia e del movimento dell’architettura moderna, si pongono come punti critici e di comprensione dei profondi mutamenti e delle fratture che la crisi del Moderno e lo sfaldamento della metropoli hanno prodotto nel lento, laborioso, creativo processo di “mondializzazione”, come dice Nancy6. Esiste, pertanto, una linea critica nei confronti del Moderno che si articola in pensieri, soluzioni e prospettive diverse, se non
19
20
addirittura antitetiche, ed è forse questa la dimensione più vera di senso che nutre la galassia Postmoderna: la dissidenza. Interrogandosi sulla direzione della critica d’arte oggi, Mario Perniola ha affermato che come esiste un’«arte senza aura», così anche si farebbe una «critica senza teoria». In particolare Perniola circoscrive questa riflessione alla critica giovanile, la quale, a suo giudizio, praticherebbe un esercizio diverso da quello della formalizzazione teorica e sarebbe riconducibile, invece, all’ambito cronachistico e della comunicazione («promozione pubblicitaria») – abbandonate ormai le questioni di metodo rivolte alla poetica, all’estetica e alla storia dell’arte –, comportandosi come se l’arte non avesse più bisogno di una sistematizzazione del pensiero. Da un lato Perniola attribuisce questo atteggiamento a una comprensibile reazione «all’inconsistenza e alla verbosità inconcludente di molta critica d’arte della seconda metà del Novecento»7, dall’altro lo studioso ammette che esistono questioni anche più profonde che risalgono alle tendenze dell’arte degli anni Novanta, orientate su una particolare sensibilità «permeata di disgusto e di abiezione», come il Posthuman: sembra così che la critica d’arte giovanile invece di spiegare al pubblico gli artisti del Posthuman, voglia mettersi in un rapporto di concorrenza con loro, recuperando tuttavia dal loro messaggio non l’estremismo delle provocazioni e delle trasgressioni, ma la piattezza, la banalità e “l’idiozia” delle opere8. Questo atteggiamento dipenderebbe da «uno schiacciamento sull’esistente» da una sorta di «ultra-naturalismo» che è farcito di un certo dilettantismo che spinge comunque a valutazioni critiche che appartengono alla sfera del gusto e del personalismo senza teoria. Così, almeno, Perniola nel 2000. Pochi anni dopo Jean Clair si interroga, diversamente, ponendo al centro delle sue riflessioni non esclusivamente l’arte post-umana (che tiene insieme organico e postorganico, originale e clone), ma più in generale quella che si nutre del «disgustoso», dell’«informe», della «lordura» e dell’«o scenità», del «degrado», utilizzandoli come categorie del
l’arte: De immundo. Può esistere un’arte simile? E se esiste, come ammetterla in un’esposizione destinata al pubblico? Un’arte che mette in scena il proprio stato di abbandono, fino al rilassamento degli sfinteri, che altro fa, a questo punto, se non dare il segnale della sua morte clinica?9. Gli esempi che questo interrogativo si porta dietro sono, inizialmente, quelli di artisti che usano peli (Robert Gober), sperma e sangue (Andres Serrano), escrementi (Chris Ofili e Franz West), il corporeo e il residuale, confondendo l’opera con la reliquia. Invero Jean Clair utilizza una posizione critica rispetto a tutta la produzione artistica che spettacolarizza gli umori interni, le secrezioni, le mutilazioni, il dolore, rigettando la drammatizzazione del biologico che svilisce l’arte. La questione non viene posta, dunque, in termini cronologici, ma afferisce allo stupore per l’accoglienza di quest’arte all’interno delle istituzioni (musei, gallerie, esposizioni) che la celebrano. E così si assiste allo «spurgo generalizzato dei valori. Il getto d’urina spegne l’aura»10. L’estetica dello stercus, secondo Jean Clair, scaturita dalla presenza oggettiva del corpo, avrebbe determinato una pericolosa perdita di indirizzo, per cui l’artista si atteggerebbe a «manipolatore di escrementi», incapace ormai di esercitarsi su una specificità – la pittura – che gli consentiva, invece, di appartenere «all’ordine di una totalità»11. La condanna all’oscenità, alla lordura, alla scatologia è stata di recente ripresa dal critico francese che apocalitticamente suggerisce che è giunto, alla fine, l’inverno della cultura. Sembrerebbe, a dire il vero, una posizione reazionaria, anche rispetto alle più estreme e avanzate affermazioni sulla fine dell’arte di Arthur Danto, per il quale l’ininfluenza dell’arte è tale perché nell’epoca della post-storia essa è priva di valore, o di Jean Baudrillard che stigmatizza l’estetica delle rovine, in cui l’arte sembrerebbe priva di forme di problematizzazione. È l’intero sistema dell’arte ad essere al centro dell’attenzione di Clair quando ci ricorda che oggi è il culto della cultura ad essere diventato la ginnastica mentale preminente. E questa nuova pratica avverrebbe soprattutto nei musei,
21
22
che hanno interrotto ogni rapporto ideale con i modelli tradizionali. La forte e suggestiva immagine che lo studioso francese restituisce è quella di nuovi spazi urbani che hanno perso il legame con la memoria, col passato, accogliendo immense discariche in cui vengono riversati i rifiuti. L’accumulo fino alla saturazione avrebbe determinato, quindi, lo sversamento degli stessi all’interno dei musei, dove la figura del direttore artistico consentirebbe, con la sua forviante e colpevole complicità scientifica, che vengano accolti e sistemati nelle sale e, soprattutto, ribattezzati col nome di «opere d’arte»12. «Il tempo del disgusto» nasce da una «crisi dei valori», come sostiene Jean Clair, oppure dall’incapacità – viene da chiedersi – di storicizzare la crisi e di contenerla attuando altre pratiche costruttive che aspirino al conseguimento non di valori altri, ma di valori possibili? Quale lo spazio critico entro il quale è lecito muoversi? E quali le coordinate? Al solido impianto storico-teorico di molti studiosi della seconda metà del Novecento si è andato a sostituire prima l’intervento del «curatore/autore», più attrezzato a comprendere i nuovi percorsi dell’arte, poi una nuova figura di curatore meno radicalmente protagonista e più attento alla pluralità di accessi e di sguardi e alle contraddizioni dell’arte, intenzionato ad affermare il relativismo del suo punto di vista a favore di una responsabilizzazione del pubblico. Questo atteggiamento si va a innestare in una complessiva messa in discussione di tutto il sistema dell’arte che ha investito, in particolare, il ruolo e la funzione delle istituzioni dell’arte contemporanea, primi tra tutti i musei. A questo proposito ancora Jean Clair negli anni Ottanta aveva nostalgicamente evocato i musei come una sorta di riserve in cui sarebbe stata ammirata e protetta la pittura in questi tempi di degrado dell’arte e della critica. Esisterebbe, infatti, per lo studioso una disparità, mai rilevata in nessuna epoca precedente, tra l’esiguità numerica delle opere realizzate e l’inflazionato spreco di commenti anche per le produzioni più modeste; e, finalmente, la possibilità oggi di additare con chiarezza le responsabilità della critica, complice del mer-
cato e incapace di interpretare nuovi statuti rivoluzionari, come invece dovrebbe13. La colta e raffinata opposizione che Jean Clair opera alla contemporaneità attesta un atteggiamento sempre presente che si pone in affiancamento alla critica più avvertita sull’oggi e che funge quasi da ‘controcanto’ ammonitore di percorsi critici capaci di decodificare le direzioni attuali dell’arte. Si pensi, a questo proposito, ai risultati di quella ricognizione operata da alcuni studiosi e pubblicata anonimamente (siamo nel 1965) sulle pagine di “Op. Cit.”, intitolata efficacemente La critica discorde e tessuta con l’intento di illustrare i diversi orientamenti di alcuni autori che hanno avuto un atteggiamento «ostile, svalutativo o anche di consenso» nei confronti dell’arte moderna. Pur chiarendo di non simpatizzare per le posizioni raccolte, gli studiosi non firmatari dell’articolo ritennero utile descrivere una posizione eccentrica nei confronti dell’arte contemporanea che si comportava come una critica discorde avanzata da una visuale più radicale e anticonformista o, spesso, più reazionaria di quella visione ormai schematica che ha accompagnato gli sviluppi dell’arte moderna14. Invero, la crisi del ruolo della critica nella decodificazione interpretativa dell’opera scaturisce certamente dalla rivendicazione dell’arte di una sua autonomia, dal suo aver saputo procedere come arte e come teoria allo stesso tempo. Questo percorso, che su sentieri diversi e contraddittori prende le mosse dalle esperienze radicali del concettuale, ha determinato uno svuotamento del ruolo della critica, relegata a un ambito secondario e di ‘osservazione’ più che di comprensione. Se il contributo teorico è già dentro la pratica dell’arte, il critico non può che assumere un atteggiamento da narratore (quando è possibile) e riproporre il discorso critico che è contenuto già nell’opera. La critica perde, così, il suo ruolo di mediazione, diventa marginale e certamente non necessaria all’opera. Ma il dibattito più acceso e più contradditorio oggi sembra essersi spostato dalla preoccupazione sul senso della critica e del curatore (o dell’artista e dell’opera), all’ampia
23
24
questione aperta dal ruolo dei musei nel sistema dell’arte contemporanea, non solo per la funzione didattica e istituzionale che ricoprono (quale deve essere oggi il museo e quali i servizi che deve offrire?), ma anche perché si è voluto indagare sulla responsabilità del museo nel meccanismo isterico del mercato dell’arte. Quindi di museo si discute non più solo in termini museologici, ma anche come protagonista indiscusso del sistema, nel quale ricopre una funzione determinante e spesso di indirizzo. Oltre che considerare il museo come luogo del dis-autentico (se un’opera, quando è riprodotta, viene privata della sua aura, per contro l’opera trasferita al museo perde il proprio significato. I musei funzionano come macchine per trasformare in falsi le opere autentiche che vi vengono ammesse15), Jean Clair, ancora nel suo recente testo, sembrerebbe imputare una responsabilità particolare al museo, causa principale del determinarsi dell’«inverno della cultura»: ma c’è di peggio: dal suo potere di taumaturgo il museo trae ormai la presunzione di consacrare le opere della contemporaneità. E sono spesso, come si è detto, le opere più mediocri, più volgari16. Il museo contemporaneo, quindi, sembrerebbe essere il simulacro dell’imbroglio e della mistificazione, il luogo dello scarto, in cui si compie l’inganno in complicità con il mercato, il marketing dell’arte e dove l’opera, in definitiva, non c’è: al suo posto solo lordura e «patacche milionarie». Fare analisi del museo e delle sue funzioni significa oggi osservare il luogo in cui sono visibili, forse più che altrove, tutte le coordinate e i meccanismi che sottendono l’attuale momento dell’arte. I musei d’arte contemporanea non solo negli ultimi decenni hanno conosciuto una diffusione capillare, ma, in alcuni casi, sono diventati elementi stessi della riorganizzazione urbana e invece di trasformarsi sono addirittura nati nel segno dell’adeguamento ai nuovi paradigmi culturali dell’età postmoderna17. Già il museo tradizionale aveva subito una trasformazione ad opera degli artisti della Istitutional Critique (Marcel Broodthers, Daniel Buren, Michel Asher, Hans Haacke) che dalla fine degli anni Sessanta
ha sollecitato teoricamente un ripensamento della relazione tra gli attori del sistema museo (l’artista e l’opera, il pubblico e lo spazio di esposizione) e ha operato una radicale contestazione del suo funzionamento, aprendo fratture e contrapposizioni tra modelli socio-economico ed estetici diversi e inaugurando quella che sarebbe diventata la «crisi dell’istituzione» e di un sistema ancora oggi alla ricerca di nuove possibili indirizzi e sollecitazioni di senso. Se le questioni si pongono e si sviluppano secondo declinazioni ampie che prendono in considerazione gli insiemi e i sistemi, gli attori e le loro relazioni, immaginando questo come possibile percorso critico di aderenza alle problematiche dell’oggi, non sembra praticabile, pertanto, uno sguardo critico e dissidente capace ancora di suggestioni romantiche che affermino che la morte dell’artista è una morte di per sé eccezionale perché diversa da quella di qualsiasi altro uomo, al di là del ruolo sociale che ha ricoperto in vita e la celebrità raggiunta. La scomparsa dell’artista viene descritta da Jean Clair come morte «irreparabile» che estende il lutto all’umanità intera, soprattutto perché determina l’impossibilità del ripetersi all’infinito del ‘miracolo’ della immortalità, requisito insito nella produzione artistica: unica produzione materiale che, priva di funzionalità, è in sé evocativa di testimonianze e ha addirittura il dono della «sacralità»18. Una tale ottica appare minata e dannosa, perché incapace di restituirci il nodo centrale delle riflessioni sull’arte, e ci distrae con le possibilità infinite di opposizione non costruttiva, risultando inaspettatamente poco attrezzata per valutare la complessità del reale e per provare a ri-nominarlo. E, inoltre, pure sollecitati da questi suggerimenti, che non tengono conto della fine della modernità, si preferirà comunque e sempre il monito ancora attuale di Baudelaire, che così chiosò, a suo tempo: La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile. […] E questo elemento transitorio, fuggitivo, dalle metamorfosi così frequenti, nessuno ha il diritto di disprezzare e di trascurare19.
25
26
1 F. Ferrari, Il re è nudo, Luca Sossella Editore, Bologna 2011, pp. 9-10. 2 Zygmunt Bauman individua nella dimensione «liquida» l’essenza dell’epoca attuale. Cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2002. 3 Si veda a questo proposito R. De Fusco, Per cucire lo strappo, in “Op. Cit.”, n. 113, gennaio 2002, pp. 22-33; in particolare pp. 2633, dove l’autore si sofferma sulle tre domande che il pubblico comunemente rivolge: ma questa è arte?; che cosa significa quest’opera?; non saprei farla anch’io?. “Insomma il metalinguaggio dell’avanguardia è venuto a sostituire il linguaggio della vera e propria pratica dell’arte, muta o ridondante su pochi messaggi alienanti.”, p. 29. E prima ancora: “l’irritante domanda “che cosa significa?” non viene neanche più posta dal pubblico per l’indifferenza verso l’arte, è necessario un tentativo critico per uscire da una condizione in cui, mentre l’architettura e il design riescono a reggere di fronte alla dominante tecnologia, le arti rappresentative ne risultano quotidianamente spiazzate e comunque risultano rispetto al grande pubblico, come abbiamo appena letto, qualcosa che questo non vuole e di cui non sa che fare”. R. De Fusco, Arti visive: un senso da ritrovare, in “Op. Cit.”, n. 111, maggio 2001, pp. 13-14. 4 P. Portoghesi, La fine del proibizionismo, in La presenza del passato. Prima mostra internazionale di architettura, a cura di P. Portoghesi, Edizioni La Biennale di Venezia, Venezia 1980, p. 9. 5 A. Trimarco, Galassia. Avanguardia e postmodernità, Editori Riuniti, Roma 2006, p. 84. 6 Ivi, p. 91. 7 M. Perniola, L’arte e la sua ombra, Einaudi, Torino 2000, p. 63. 8 Ibidem. 9 J. Clair, De immundo, trad. it., Abscondita, Milano 2005, p. 20. 10 Ivi, p. 31. 11 Ivi, p. 91. 12 J. Clair, L’inverno della cultura, trad. it., Skira, Milano 2011, p. 53. 13 J. Clair, Critica della modernità, trad. it., Umberto Allemandi & C., Torino 1994, pp. 9-10 (ma ed. originale Gallimard, Parigi 1983). 14 La critica discorde, in “Op. Cit.”, n. 4, settembre 1965, p. 20 e pp. 41-42. 15 J. Clair, L’inverno della cultura, cit., p. 95. 16 Ivi, p. 96. 17 Si vedano a questo proposito A. Polveroni, This is contemporary! Come cambiano i musei d’arte contemporanea, Franco Angeli, Milano 2007 e Le funzioni del museo, a cura di S. Chiodi, Le Lettere, Firenze 2009. 18 J. Clair, L’inverno della cultura, cit., p. 83. 19 Ch. Baudelaire, Il pittore della vita moderna, in Baudelaire. La critica d’arte, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 177.
Design: verso una riscoperta della cultura materiale CARLO MARTINO
Un nuovo esame, più attento e approfondito dei precedenti1, su qualsivoglia attività umana, sia essa per esempio la produzione delle arti contemporanee o il ruolo del design nelle arti, parte sempre dall’emergere di un disagio o da una mutata condizione di contesto, che rende necessaria tale riflessione. Spesso il riesame si configura come un bilancio che, rispetto alla comparsa di nuovi scenari, serve a suggerire delle strategie, come per esempio quella di proseguire l’attività privilegiando indirizzi solo delineati, quasi embrionali, o quella di tralasciare o abbandonarne altri, valutati poco utili o sterili, o di riscoprire percorsi quasi dimenticati, oggi più che mai attuali. Il contesto in profonda mutazione, che rende necessario oggi un riesame sul design nel più ampio ambito delle arti, è quello socio-economico occidentale di inizio millennio. Un contesto fortemente connotato dal termine crisi e da una diffusa incertezza sul futuro e sul progresso dell’umanità, ma attraversato anche da un dilagante sentimento di rinuncia. Un riesame quanto mai urgente anche a seguito della presa d’atto, da parte di attenti osservatori internazionali, della deriva o delle aberrazioni che caratterizzano la prassi di numerose manifestazioni artistiche, dell’inverno della cultura2 contemporanea cioè, che da più parti si registra in occidente.
27
28
Una deriva che riapre il dibattito sulla necessità di un’e tica della progettazione come conferma Lorenzo Imbesi: La cosiddetta fine delle grandi narrazioni e delle visioni totalizzanti (…) ed una nuova consapevolezza sul carattere complesso e non lineare dei fenomeni e dei sistemi scientifici, economici e culturali (…) sono all’origine di una nuova domanda di etica al di fuori dei modelli assoluti3. A seguito delle premesse fatte, in questa occasione si intende riflettere su ciò che il design, come ambito riconosciuto e rilevante delle arti contemporanee, ha elaborato di negativo, inseguendo spesso le deviazioni di alcuni fenomeni della contemporaneità, ma anche quanto la disciplina conservi di positivo o stia incubando come antidoto per una sopravvivenza futura. L’attività di riesame non è nuova nella teoria del design, ed è oggi invocata da diversi autori (V. Pasca, E. Manzini, ecc.). Tra i momenti di riflessione più alti, è necessario ricordare quello elaborato da uno dei massimi esponenti della terza cultura, Tomás Maldonado, alla fine degli anni Settanta, da cui tra l’altro prende spunto la titolazione della presente raccolta. La pubblicazione Disegno Industriale un Riesame, del 1976, fu utile, infatti, all’autore per fare delle puntualizzazioni su quanto aveva già affermato in occasione della conferenza internazionale dell’ICSID del 1961, e di quanto elaborato nella definizione ufficiale della disciplina. Un riesame resosi ancor più necessario dopo le controversie di quegli anni sul ruolo del disegno industriale nella società, quindi per una mutazione di contesto che portò l’autore a dichiarare che una definizione generica del design avrebbe dovuto ospitare, senza che per questo venga meno la sua validità complessiva, altre definizioni ausiliarie, capaci di riflettere più fedelmente la reale diversità (e persino conflittualità) degli ordinamenti socio-economici esistenti4. Maldonado, da abile e cauto intellettuale qual è sempre stato, avvertiva l’esigenza di non limitare il disegno industriale a una semplice diatriba sugli aspetti for-
mali e sul portato tecnico e strutturale di questi, quanto piuttosto di aprire la disciplina a una interpretazione più flui da e flessibile, degna di un uno scenario pluralista. Riconosceva, infatti, che tale attività non era autonoma, ma fortemente influenzata dalle condizioni dei diversi contesti socio-economici e culturali. Questa puntualizzazione aveva un senso in uno scenario internazionale caratterizzato dalla sensibile contrapposizione politica tra ordinamenti capitalisti e socialisti, contrapposizione che rendeva nullo il tentativo di elaborare una definizione universale e oggettiva del disegno industriale. Un’apertura che ha portato il design ad abbracciare negli anni campi di applicazione e ambiti molto ampi, fin troppo estesi, che negli ultimi tempi hanno privilegiato più il versante immateriale di quello materiale, spesso generando, in nome della trasversalità, confusione ed incertezza sui reali confini della disciplina. Sempre Maldonado, nel 2010, giunge, infatti, ad affermare che ciò che essa (la parola design, ndr) ha guadagnato in estensione, l’ha perso in spessore5. Anche chi scrive, dalle pagine di questa stessa rivista, riconosceva al design, come fenomeno già consolidato negli anni Novanta, un’effettiva apertura agli aspetti immateriali della produzione che andavano dal Design Management al Design Strategico, capaci cioè di superare gli ambiti tradizionali del product e del visual design, a favore di una progettualità allargata agli aspetti gestionali e di servizio6. La denuncia della necessità di un riesame ancor più approfondito sul design contemporaneo è recentemente riaffiorata in Maldonado quando, sempre nel 2010, a distanza di oltre quaranta anni dal precedente, stimolato dalle puntigliose domande di Hans Ulrich Obrist, afferma che di fronte alla grave crisi che stiamo vivendo, la “sostanziale ri-definizione” (del vigente assetto materiale della nostra società, ndr) (…) sia l’unica strada da percorrere7. Mentre nel suo primo “nuovo esame” le questioni assu-
29
30
mevano un carattere universale ed era necessario legittimare il design all’interno del più ampio contenitore della cultura materiale, nel 2010 in Maldonado emerge la volontà di verificare la correttezza e gli effetti dei portati materiali delle società occidentali sull’ambiente, ponendo al centro proprio l’emergenza ambientale. Crisi ambientale, crisi sociale, crisi disciplinare quindi. La crisi d’inizio millennio sta di fatto generando in tutti gli attori del design, dagli imprenditori ai progettisti, dai promotori ai formatori, interrogativi sul senso e sul valore delle pratiche fin qui perseguite e sulle scelte più corrette da fare per continuare ad operare in una logica evolutiva di servizio al progresso dell’umanità. La sensazione che traspare è quella di un ravvedimento, rispetto a strade percorse che hanno indubbiamente sostanziato “l’eccesso”, quel surplus di produzione, di valore e di senso, frutto di distorsioni che hanno poi saturato tutte le soglie, da quelle finanziarie a quelle percettive. Da qui l’esigenza di una profonda revisione che riscopra e ri-valorizzi il senso dell’operare e del “saper fare” nel design. Da molti studiosi e designer, nonché da realtà imprenditoriali più sensibili, è infatti invocata la riscoperta della “semplicità”, in risposta al senso di sopraffazione che deriva dalla dimensione entropica della contemporaneità. C’è chi ne fa una mission, come John Maeda del MIT, che focalizza il suo lavoro sulla ricerca della semplicità nell’era digitale, studiandone il valore economico e giungendo persino a teorizzarne delle leggi8. Chi invece, come la multinazionale del l’elettronica Philips, ne fa addirittura un pay-off a supporto della propria filosofia aziendale. Sta di fatto che la semplicità è una dimensione della realtà più che mai auspicata, che contrasta fortemente con la schiacciante idea della globalizzazione e della grande dimensione che molti sovrasistemi comunicano: la rete, il mondo digitale, l’informazione, ecc. Ma vediamo quali sono stati alcuni dei fenomeni forvianti che hanno generato deviazioni dell’attività progettuale applicata, del design appunto.
Dalla deriva comunicativa del design alla Design Art Mutuando ancora da Maldonado un appellativo che egli attribuisce ad alcune aberrazioni scultoree dell’architettura contemporanea, è possibile affermare che anche il design, negli ultimi anni, sia stato spinto verso pratiche effimere e verso mondi surreali da alcuni processi deviati di comunicazione. Una deriva comunicativa della progettazione di artefatti che ha visto nel processo di comunicazione l’obiettivo finale dell’atto creativo e non un suo effetto collaterale, come accadeva in passato. La “comunicazione del design” letteralmente significherebbe “divulgazione del progetto”, quindi il risultato di una comunicazione prevalentemente tecnica. Purtroppo nel tempo tale significato “etico” ha lasciato il posto a dinamiche promozionali e pubblicitarie, più vicine alle logiche commerciali. Come ha già affermato chi scrive: La comunicazione del design sembrerebbe, infatti, più vicina a quelle forme di attività che il semiologo Ugo Volli fa rientrare nel cosiddetto “circuito seduttivo” (U. Volli, 2007), in quelle manifestazioni cioè in cui convivono una forte esposizione dell’emittente – in questo caso il design – e una pesante pressione sul ricevente – il pubblico destinatario9. La comunicazione negli ultimi anni è, infatti, giunta a rappresentare per il design un vero e proprio contesto in cui si è mosso e di cui si è alimentato, un mediascape, un paesaggio costituito dalla rete della comunicazione globale10 grazie al quale il design è esistito. Tale fenomeno ha generato però delle distorsioni, come dimostra la recente diffusione per esempio degli onerosi Showpieces, pezzi unici o in edizione limitata, molto scenografici ed effimeri, destinati quindi a nascere e a vivere per l’evento, senza lasciare tracce, se non immagini. L’irrompere della digitalizzazione, dal web agli ambienti e alle società virtuali (Myspace, Second Life, Facebook, ecc.), ai media individuali e flessibili, spesso economicamente più accessibili, ha inoltre stravolto i sistemi tradizionali di diffusione, portando spesso la comunicazione del
31
32
design a utilizzare indistintamente i cosiddetti sistemi verticali, orizzontali e a rete. Non solo, ma ha immesso nel processo di comunicazione anche attori del design prima nel l’ombra e la stessa idea di backstage del design, l’esistenza in altre parole di un complesso sistema correlato. I designer, per esempio, prima conosciuti solo attraverso la griffe, o per gli occasionali articoli di divulgazione o ancora per le monografie celebrative, hanno oggi intrapreso una comunicazione autonoma del propria progettualità. Per cui in questi anni si è assistito ad una proliferazione di siti web di designer e al diffondersi di pubblicazioni e di mostre autoprodotte. I progettisti si sono trasformati essi stessi in media del design e gli imprenditori, lì dove gli era fornita l’opportunità, non hanno esitato a mettersi in mostra. D’altro canto la maggiore disponibilità di media ha generato un fenomeno di “meticciato” e di contaminazione tra gli stessi, nonché di manipolazione diretta, anche nella fase di elaborazione del messaggio. Se, infatti, da un lato l’accesso facilitato alla comunicazione e l’acquisita coscienza della possibilità di manipolare l’informazione (web 2.0), hanno liberato un incredibile spazio per la creatività nel design e nella sua comunicazione, dall’altro il desiderio dei designer di conquistarsi uno spazio mediatico ha fortemente influenzato la progettazione di prodotti, tesi più a “bucare” la pagina della rivista che ad offrire un reale contributo alla ricerca, alla sperimentazione e al miglioramento della vita dell’uomo. Influenza avvertita soprattutto dai più giovani, da una Youngeneration, figlia di un forte ed esclusivo fine comunicativo dell’azione del progettare, indifferente alle questioni realmente industriali, ai reali bisogni di chi deve utilizzare i prodotti, ma anche alla effettiva vendibilità per chi li produce. Tutto questo è stato per lungo tempo la realtà, all’interno di una “economia finzionale”, di uno scenario cioè in cui soprattutto il design si è mosso, un’economia basata su processi di valorizzazione e di generazione del valore di mercato, degli elementi immaginari presenti nel sociale, nei media nelle loro narrazioni e figure11.
Al fenomeno di deriva mediatica è possibile affiancare anche quel filone del design, associato al lusso, denominato Design Art, ben descritto nel 2008 da Vanni Pasca, nella sua lettura del design contemporaneo dalle pagine di questa rivista. Pasca affermava infatti che: crescono slittamenti (del design, ndr) verso l’arte, fino al diffondersi di una nuova definizione di Design Art (…)12. Questa tendenza può essere vista come il compimento di una previsione fatta dallo storico dell’arte Martin Kemp, che già alla fine degli anni Novanta immaginava l’affermazione del dominio del visuale ed un conseguente allargamento dell’arte ad un’enorme varietà di manufatti. Negli ultimi anni è accaduto, infatti, che galleristi come Established & Son, Gagosian o Kreo abbiano alimentato il mercato del lusso, commissionando direttamente ai designer pezzi unici. Un sistema molto lontano dalla serialità e dal design democratico, da un design utile e sostenibile, cui va però il merito di aver surrogato quel mecenatismo che fino a qualche anno fa aveva consentito a designer/artisti, di sperimentare liberamente nuove tecniche, tipologie inedite e soluzioni formali inusitate, senza limiti d’impiego e di costo. Se da un lato la Design Art rappresenta quindi un’anomalia del design contemporaneo, gli va tuttavia riconosciuto un ruolo importante di talent scouting – si pensi ai fratelli Bouroullec o ai più giovani Barber & Osgerby, venuti alla ribalta proprio attraverso il circuito delle gallerie – nonché di fertile terreno per sperimentazioni ardite, soprattutto nella relazione materia e tecnica. Senza le occasioni fornite per esempio dalla Kreo Gallery, non si sarebbero potute avverare le sperimentazioni sugli artefatti/ambientali dei Bouroullec, come il Parasol Luminex o il sistema Audiolab, né tantomeno senza la commissione della galleria Established & Son, le ricerche sui cromatismi con la tecnica dell’anodizzazione sui tavoli Iris della coppia inglese Barber & Osgerby. Se da un lato quindi la Design Art rappresenta una buona palestra per quel recupero dell’aspetto fabbrile del de-
33
sign, che vedremo dopo, e la speranza progettuale del futuro, all’opposto si registrano, oltre le questioni elitarie, un limite tipologico, poiché la contiguità con l’arte viene avvertita solo per poche tipologie di artefatti quali complementi d’arredo, oggettistica, ecc., con qualche incursione nell’integrazione tecnologica. Sono invece assenti numerose altre tipologie di oggetti che rappresentano la nostra interfaccia oggettuale contemporanea con il mondo. Lavorare nella sostenibilità
34
Se da un lato la comunicazione e l’arte hanno rappresentato due frontiere estreme del design, inducendone dei deragliamenti disciplinari, all’opposto sembra altrettanto pressante sui designer oggi, la propaganda ambientalista, con conseguenti esiti progettuali che non toccano punte di eccellenza e che rischiano di castigare la progettualità più che farne scaturire nuove potenzialità. Come ricordato prima, lo stesso padre della teoria del Disegno Industriale, T. Maldonado, ha posto recentemente l’emergenza ambientale come questione centrale nell’auspicato ridisegno dell’assetto materiale contemporaneo: La questione ambientale è il crocevia, il punto di passaggio obbligato, di gran parte dei problemi che una strategia anti-crisi deve affrontare. (…) La questione è presente anche nella indilazionabile esigenza di un intervento di sistematica, puntuale ri-progettazione del parco degli oggetti della nostra società, e ciò in funzione del risparmio energetico e della maggiore sostenibilità ambientale13. Ancor più radicale è il monito lanciato da John Thackara, attraverso tutte le sue iniziative divulgative sulla cultura della sostenibilità, da Doors of Perception, a in The Bubble, ecc. sull’utilità del design: Oggi, l’unica funzione significativa che il design può avere è aiutare la gente a trasformare le modalità con cui si ottengono cibo, energia, materiali ed acqua (…)14. Indirettamente lo studioso inglese sembra incitare a un recupero della capacità di trasformazione che rimanda alla
manualità e all’homo faber che ha caratterizzato molto design del passato, ma nei fatti il suo discorso è più indirizzato a distogliere l’attenzione dei designer dalla riprogettazione di tipologie di artefatti oramai più che ridondanti e finalizzate a quel circuito seduttivo di cui sopra, giungendo perfino ad affermare che: Lo sviluppo non è una questione di prodotti ma di persone15, e ancora che: molte delle soluzioni da adottare per un mondo più sostenibile sono pratiche sociali vecchie di secoli o semplicemente in uso in altri contesti. Da qui il suggerimento a rivalutare anche vecchie pratiche per risolvere problemi nuovi, cui abbiamo accennato prima, in relazione agli esiti di un riesame. I recupero dell’aspetto fabbrile dei designer: dai Makers al fai-da-te Sono in molti a credere che il futuro (…), abbia bisogno necessariamente di riscoprire i makers, quelli che fanno le cose16. È una delle affermazioni su cui s’incentra la ricerca di Stefano Miceli sugli scenari produttivi del futuro, pubblicata nel 2011, e che l’autore argomenta con specifici riferimenti, autorevoli riflessioni di studiosi come Richard Sennett, e casi studio prevalentemente ambientati nel contesto nordamericano. La tesi sostenuta nella ricerca, vede nella figura dell’artigiano, che condensa passione per la qualità del lavoro, il suo desiderio di migliorare nell’esercizio e nell’approfondimento delle tecniche, il suo radicamento in comunità di pratica socialmente riconosciute17, caratteristiche positive che consentono di animare e di far progredire il mondo della produzione nel prossimo futuro, ma anche il principale rimedio (forse l’unico) alle distorsioni generate dai mezzi di comunicazione di massa18. In America quello dei makers è ormai un fenomeno molto diffuso, se non un movimento di pensiero, che propone nuovi stili di vita e nuove relazioni con gli artefatti. Dal
35
36
positivo risvolto psicologico dovuto all’autostima associata ai successi di autocostruzione degli artefatti, quindi di piccole sfide manuali e intellettuali vinte, ai risvolti sociali, che derivano dalla condivisione in comunità specifiche di problematiche e soluzioni, al valore economico di operazioni che si pongono fuori dalla catena produzione-distribuzioneconsumo e perciò riescono ad attuare delle economie di scala. Un fenomeno che come afferma Chris Anderson, direttore di Wired America, è strettamente legato a Internet, che ha prima democratizzato l’editoria (…) e ora (…) l’industria (…). Gli strumenti necessari alla produzione industriale, dall’assemblaggio dei componenti elettronici alla stampa 3D, ormai sono accessibili a tutti, dai piccoli gruppi ai singoli individui19. Da un lato Internet, che facilita la comunicazione buona, dall’altra la voglia di riappropriarsi della parte fisica della propria esistenza, recuperando quella tecnicità invocata già da Maldonado negli anni Settanta e così strettamente connessa alla Cultura Materiale di ogni civiltà: (…) i prodotti dell’attività tecnica umana (e tra questi è possibile annoverare il design, ndr) sono sempre da considerarsi dei fatti di “vita materiale”, o meglio di cultura (o civiltà) materiale20. Se lo studio della cultura materiale prende in esame i fatti quotidiani e ripetuti, derivanti da una conoscenza condivisa e trasmessa per “tradizione”, da una generazione all’altra o fra gruppi della stessa generazione, il fenomeno dei makers può essere ritenuto la manifestazione più recente di questa cultura. In Italia, il saper fare ha permeato tutto il sistema produttivo che, anche quando si è evoluto in forme imprenditoriali più ampie, ha conservato un forte legame con l’artigianato, come afferma di nuovo Miceli: questo “spirito artigiano” permea gran parte del Made in Italy, anche nella media e nella grande impresa. Anche il fronte professionale nella tradizione del design italiano deve molto del suo successo al “saper fare”, alla capacità sincronica cioè di elaborazione manuale e intellettuale, in cui la teoriz-
zazione viene forse dopo la sperimentazione, in cui la riflessione viene esperita attraverso il fare, una tradizione che dai grandi maestri continua nelle nuove generazioni di designer autoprodotti, da Massimiliano Adami a Giulio Iacchetti, ecc. Uno dei grandi padri dell’autoprogettazione, Enzo Mari, autore delle famose istruzioni di montaggio esemplificative per l’autocostruzione di mobili del 1965, non solo ha recentemente rieditato con la Artek il progetto della sedia, ma ha tenuto a battesimo il collettivo Recession Design, nato nel 2008 a Milano. Progettare per non essere progettati, è lo slogan che Mari conia nel testo che accompagna la presentazione dei lavori del gruppo milanese, in un contesto in cui egli stesso riconosce il fenomeno che porterà ad aumentare anche il numero delle persone che realizzeranno con le proprie mani ciò di cui hanno bisogno. Recession Design è nato da un’idea semplice – spiegano i fondatori del collettivo – di fare design (progettare e rea lizzare oggetti) usando materiali e attrezzi facilmente reperibili sul mercato21. Una modalità che trova nella crisi un terreno fertile proprio per la scarsità di risorse che tale situazione pone come esistenziale. L’operazione Recession Design, così come tutte le altre iniziative avviate sul tema, apre chiaramente un confronto sul ruolo e sul futuro delle imprese, soprattutto in relazione al sistema consolidato di aziende design oriented. Un confronto che può essere sostenuto da numerosi esempi di aziende flessibili, abituate a customizzazare il prodotto e, perché no, ad aprire la fabbrica per coinvolgere l’utente finale nei processi di produzione. Si ricordino di nuovo i prodotti di Gaetano Pesce per Zerodisegno, o per Fishdesign, in cui il contributo creativo di operai e degli utenti finali era già previsto nell’ideazione e nella realizzazione del prodotto. Nel caso del design applicato al mondo del fai-da-te i coinvolgimenti imprenditoriali possibili possono essere numerosi. Tutta l’operazione Recession design, per esempio, si è potuta avverare grazie al sostegno di grandi gruppi del bri-
37
38
colage, prima Bricocenter e poi Leroy Merlin. Marchi d’impresa del tutto rispettabili, capaci di incidere sulla parte progettuale del prodotto da vendere. L’evoluzione strategica sta nella volontà, da parte di questi gruppi, di vendere o di offrire “modelli di prodotti” ben progettati, che il maker finale potrà realizzarsi anche con margini di personalizzazione e di integrazione elevati. Un’ipotesi su cui ha lavorato anche chi scrive, attraverso sperimentazioni che hanno dimostrato la reale fattibilità della strategia, a patto di non incorrere in false operazioni di Ready Made, come invece ha fatto Recession. Il rischio di creare oggetti posticci come sommatoria di prodotti de-funzionalizzati è forse la strada più pericolosa e meno premiante per un design per il Do It Yourself colto. Materiali e semilavorati, si diceva. Proprio la stretta relazione con questi, è alla base della rivalutazione del modello lavorativo dell’artigiano. Il solo modo per capire veramente un materiale e farci delle cose22, afferma Jonathan Ive, responsabile del Apple’s Industrial Design Group. Il recupero della cultura materiale deve passare per una diversa relazione con i materiali, non solo di tipo ingegneristico, cioè finalizzata allo studio delle proprietà chimiche e meccaniche, ma nella relazione materiale e forma. Il Design per il fai-da-te non è certamente l’unica strada da percorrere nella logica del recupero del saper fare nel design. Come prima accennato, gran parte del giovane design italiano, e non solo, è ricorso a modalità di autoproduzione per poter portare avanti sperimentazioni più libere, perpetuando una tradizione che vedeva i designer farsi carico della ricerca che poi l’azienda sfruttava quando gli sembra più appropriato. Qualche anno fa a tal proposito Andrea Branzi affermava: l’innovazione del design in Italia è avvenuta in gran parte a spese dei designer che si sono fatti carico di ricerche, di laboratori autonomi, di scuole private famose nel mondo23. Le imprese infatti, facilitate da momenti di contatto ravvicinato con i giovani designer – si vedano il Salone Satellite ed il fenomeno delle Design Week – hanno spesso solo
compiuto lo sforzo di raccogliere quanto già sperimentato per trasformarlo, senza grandi sforzi, in prodotto seriale. La ricerca applicata è stata quindi una prerogativa del design italiano che deve molto alla capacità dei progettisti di “saper fare” le cose, di manipolare gli oggetti, di avere una relazione stretta con materiali e tecnologie. Per cui lo scenario appena descritto dovrebbe dare continuità ad una consuetudine già avviata e incoraggiare quanti hanno conservato una propensione per il “fare”. Per concludere è interessante richiamare il suggerimento di Walter Valentini ai progettisti: I designers devono riprendersi l’anima e affermare per primi che il design moderno è una scienza con un’estetica, un’arte all’interno dell’industria24.
1 Dizionario della Lingua Italiana, Sabatini Coletti, http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/R/riesame.shtml 2 J. Clair, L’hiver de la culture, Flammarion, Paris 2011. 3 L. Imbesi, Etica e Design riflessioni, Rdesignpress, Roma 2008, p. 84. 4 T. Maldonado, Disegno Industriale un Riesame, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1976, p. 10. 5 T. Maldonado, Arte e Artefatti, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2010, p. 76. 6 C. Martino, Note sul design degli anni Novanta, in “Op. Cit.” n. 110, pp. 53-63. 7 T. Maldonado, Arte e Artefatti, cit., p. 61. 8 J. Maeda, Le leggi della semplicità, ed. Italiana Paravia Bruno Mandadori Editore, Milano 2006, p. 2. 9 C. Martino, La comunicazione del Design, in XXI Secolo, Istituto dell’Enciclopedia Treccani di Giovanni Treccani, Roma 2010, vol. IV, pp. 543-550. 10 F. Carmagnola, Il Consumo delle immagini. Estetica e beni simbolici nella fiction economy, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano 2006. 11 F. Carmagnola, Design. La fabbrica del desiderio, Lupetti Editori di Comunicazione, Milano 2009. 12 V. Pasca, Il Design oggi, in “Op. Cit.” n. 131, p. 22. 13 T. Maldonado, Arte e Artefatti, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2010, p. 62. 14 J. Thackara, Persone_siamo Tutti Economie Emergenti, in “Etica e Design riflessioni”, a cura di Lorenzo Imbesi, Rdesignpress Roma 2008, p. 43.
39
Ivi, p. 42. S. Miceli, Il futuro Artigiano, Marsilio Editore, Venezia 2011, p. 16. 17 Ivi, p. 21. 18 Ivi, p. 25. 19 C. Anderson, Open Source & D.I.Y. Gli atomi sono i nuovi bit, in “Wired Italia”, n. 11-2011, pp. 72-73. 20 T. Maldonado, Disegno Industriale un Riesame, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1976, p. 16. 21 N. Golfari - Z. Minic, Recession Design. Un Nuovo Modello progettuale, in Design fai da te. Idee contro la crisi, Rizzoli, Milano 2011. 22 J. Ive, in Core77, R. Noe “Core77 speaks with Jhonatan Ive on the design of the Iphone4”, 25 giugno 2010. 23 A. Branzi, Il Design per l’Innovazione diffusa, in Made in Italy. Il design degli Italiani, a cura di Tonino Paris, Carla Farina e Carlo Martino, Rdesignpress, Roma 2005, p. 84. 24 W. Vannini, Prefazione all’edizione italiana di: Il Design del futuro, di Donald A. Norman, Apogeo, Milano 2008. 15 16
40
Libri, riviste e mostre
Jean Clair, De immundo. Apofatismo e apocatastasi nell’arte di oggi, Abscondita, Milano 2005. Sulle macerie della estetica classica si costruisce questo imperdibile saggio sull’aspetto immondo della bellezza nelle pratiche d’arte contemporanea scritto da un Jean Clair ispirato, chirurgico, nichilista, attualissimo. Lontano è il tempo in cui san Bonaventura predicava la delectatio. […] L’arte contemporanea sembra aver cambiato completamente registro. L’età del disgusto è subentrata all’età del gusto: esibizione e desacralizzazione del corpo, svilimento delle sue funzioni e delle sue forme visibili, morphings e deformazioni, mutilazioni ed automutilazioni, fascinazione per il sangue, gli umori corporali e gli escrementi, coprofilia, coprofagia… Da Lucio Fontana a Louise Bourgeois, da Orlan a Serrano, da Otto Muehl a David Nebreda l’arte si è impegnata in una strana cerimonia dove il sordido e l’abiezione
scrivono un inatteso capitolo della storia dei sensi. Senza proporre soluzioni conclusive al fenomeno né giudizi di taglio morale, Jean Clair indaga le ragioni e le modalità di tutto quell’universo border line di manifestazioni artistiche centrate sulla fisiologia ripugnante del corpo e dei suoi (dis)ordini organici e fa i conti con la nascita dell’informe all’interno dell’arte che è stata fin qui considerata, per sua natura, urgenza di forme. L’arte divina considerata disciplina umanistica da Panofsky, cade indefinitamente nell’anarchia del contenuto aprendo la crisi della sua stessa negatività: quando non c’è più niente da dire, più niente da fare, più nessuna forma da formare, si fa con ciò che resta. E questo resto, nel senso letterale e volgare dell’espressione, è «merda». In questo scenario compare quindi il germe del maligno, lo scarto biologico si introduce nella sfera della crea zione artistica e si porta dietro la più vasta implicazione generica sulla frontiera legittima dell’arte, una ennesima riflessione sulle
41
42
sue finalità, modalità e giustificazioni (ammesso che valga cercarne). Se il mundus è, in origine, il mondo ordinato, figura dell’ordine e della bellezza, ornamento dello sguardo, il motivo di fondo della tesi sull’immondo sta tutto nell’orrore per la morte e la perdita del controllo: la società dell’ottimo e del presentabile stigmatizza – accantonandola – qualsiasi forma di rifiuto nelle pieghe di questo immondo sgradito e lì lo abbandona, tabù estremo della civiltà, creazione indesiderata, effetto collaterale rimosso dalla coscienza, all’esorcismo che solo l’arte può compiere riscattandolo, sublimandolo, ri-mettendolo al mondo. Siamo di fronte ad una teofania negativa che può trovare soluzione soltanto in un processo di re-integrazione dell’aspetto animale dell’essere umano nelle fila salvifiche dell’arte: mentre un tempo la composizione […] era il cristallo nascosto, la sezione aurea, la simmetria, […] tutto ciò che esiste di regolare, […] l’inorganico scintillante, il bagliore dell’intelligibile, sul lato opposto ci sono le flatulenze, i cedimenti, i detriti terrosi degli escrementi. C’è l’informe, tutto quel lavoro intorno all’Erdenrest che il corpo lascia dietro di sé. Il recupero dei resti, delle deiezioni del corpo, appunto, sarebbe allora un compito esclusivo della creazione artistica, la rivendicazione di una totalità perduta, una totalità smembrata dall’estetica ipocrita di chi intende contenere in sé senza lasciar veramente andare la pienezza della creazione finale. L’opera disgustosa avrebbe dunque ragione ontologica nell’esperienza dello ster
cus come nascita della cultura (in senso reale e metaforico). Contro il positivismo del logos, la vita intelligente e riflessiva, si staglia non solo il bios, la vita pre-umana, ma addirittura la zoe, aristotelica vita nuda, il biologico puro e semplice di questa terra che è fatto anche di rifiuti, di quell’abiezione che sarebbe lo stato di un’arte inferiore, un’arte di ciò che resta dopo che tutto è stato rigettato. Si tratta di un ritorno alle origini che, superando l’operazione ancora parziale dello smantellamento storico-semantico delle avanguardie, si riferisce sia all’abbattimento che all’avvilimento, a tutto ciò che ha a che fare con il campo della degradazione. Può esistere un’arte simile? E, se esiste, come ammetterla in un’esposizione destinata al pubblico? Un’arte che mette in scena il proprio stato di abbandono, fino al rilassamento degli sfinteri, che altro fa, a questo punto, se non dare il segnale della sua morte clinica? Là dove il denominatore comune delle esperienze artistiche di personaggi come Gober (cera d’api e peli umani), Serrano (sangue e sperma), Gasiorowski e West (feci), Pane (larve e ferite), Schwarzkogler (evirazione) è dato dalle secrezioni ed escrezioni del corpo, si può certo affermare che mai l’opera d’arte è stata così cinica e ha così amato sfiorare la scatologia, la lordura e l’oscenità portando all’eccesso quella esaltazione delle funzioni naturali già cara a pionieri surrea listi-dadaisti del calibro di Dalì, Cravan (“Io mangerò la mia merda”) e Picasso (“Dipingerei con la mia merda”), ai concettualisti
della prima ora (Manzoni, Beuys) o agli epigoni contemporanei dell’informale organico (Louise Bourgeois e i suoi Precious liquids racchiusi in boccette di vetro). In ogni caso l’intera operazione scatologica e dissacratoria – che avrebbe radici nelle provocazioni ante litteram di Duchamp (dalla ovvia Fountain fino alla Monna Lisa baffuta) – sta nel trasformare il cultuale in culturale dal momento che presentare un orinatoio nelle sale di un museo significa avvalersi della potenza profanatrice dell’istituzione per fare, di un oggetto d’uso se non di decenza, un’opera d’arte; e fare di quel luogo, un tempo consacrato alle muse, uno spazio affine ai gabinetti pubblici, un puteus o un lupanare, in breve quel luogo equivoco che è diventato il museo d’arte ‘moderna’. Alla base di un simile atteggiamento nichilista sta allora il ‘disgusto’ per cui tutte le forme, secondo l’espressione popolare, ‘sono nella natura’ e, Clair conclude, tutte le forme richiedono uno spurgo generalizzato dei valori. Perché il getto d’urina spegne l’aura. D’altra parte, che sia esorcismo dello stato prelogico del l’umanità o esibizione della propria interiorità emozionale l’ideo logia contemporanea proclama un corpo detto volentieri e con ostentazione ‘liberato’ integrando alla valenza ontologica e espressiva dell’arte immonda un profilo che attiene invece la sfera del religioso: dal momento che la lordura, il tabù, l’osceno equivalgono al non-mundus, cioè al nonpuro, essi sono di conseguenza riconducibili al demonio e l’artista – come Bréton dimostra – di-
viene un sacerdote differente che eleva a dogma il meraviglioso degli dei infernali e dalla cui opera traspare un’angoscia reale e sempre attuale sulla natura e i significati del mostro come redentore dell’uomo, dell’orrore come cammino verso il bene, del ripugnante come accesso al bello. Lo stesso Goethe, nel Faust, mostra come sia propriamente l’immondo, ciò che, nel mondo, non è di questo mondo, e che ne infrange la sicurezza. Lo Ungeheure è ciò che non è appropriato al mondo. È l’improprietà, nel nostro mondo pulito e civilizzato, dello sporco, del disgustoso, del ripugnante. Per potersi considerare davvero libero l’individuo ritorna bambino assoluto privo di freni inibitori e – come suggerisce l’opera di Nebreda, Serrano ed altri – si fa nuovamente padrone fantasticato dal mondo, buffone escrementizio ed onnipotente così che il genio si riduce alla condizione di infanzia ritrovata, caduta nella regressione del puramente fisiologico. La formula di Schreber ‘cacare sul mondo intero’ riassume l’autonomia eccellente dell’artista-puer, finalmente svincolato dai legami della bella forma, ovvero dalle sovrastrutture di una cultura soggetta alle norme della convenienza e al controllo di un super-io collettivo. Quando questa volontà di liberazione diventa liberazione dalla propria visceralità assomiglia poi stranamente a una mistica religiosa che, eretica rispetto al dogma cristiano, pretendeva anch’essa di negare la realtà fisica del corpo. […] Le tecniche impiegate sono identiche: mortificazioni, diete, di-
43
44
giuni, esercizi fisici spossanti, tonsure, rasature, disprezzo e sovente odio delle funzioni naturali etc. Arte, dunque, concepita come pratica di divergenza, scarto rispetto alla norma, comportamento aberrante. Il fuori scala o l’orrido di Bacon, Max Klinger, Otto Dix, Lucien Freud, Hirst o Maribarola hanno la forza della sofferenza, sono gli epigoni moderni dell’iconografia della crocefissione: sono opere fatte per calmare l’angoscia, atti apotropaici contro l’informe e l’innominabile. Alla obiezione – qualunquista quanto legittima – che, al contrario, l’occhio e la mente amerebbero per naturale inclinazione il bello e l’armonico, l’Autore contrappone qui il potere educativo della nausea, sola risorsa in grado di renderci lucidi iniziandoci non all’apprendimento del gusto, ma al disapprendimento di quel disgusto un tempo pazientemente inculcato al lattante che noi siamo stati per ritornare alla posizione primitiva del primate, piegato verso la terra, con l’organo olfattivo nuovamente vicino agli organi genitali. Il trasporto estetico verso la misura dei classici è già tramontato all’alba del Romanticismo e dell’Impressionismo di Manet, viene codificato da Baudelaire (Il mondo sta finendo. L’umanità è decrepita. […] L’umanità degradata chiamerebbe la bellezza bruttezza) e definitivamente siglato da Nietzsche nello Zarathustra come il malinconico demone del crepuscolo. La novità del ‘sublime’ di Burke avrebbe rivoltato le dinamiche della fascinazione sensoriale a favore del terrifico, di ciò che sfugge alla
regola, alla norma, persino alla decenza introducendo un orizzonte provocatorio della bellezza. E qui Clair dà una interpretazione politica dell’azione sacrilega e disgustosa dell’arte come reazione oppositiva ad esperienze storiche di sopraffazione e deumanizzazione (segnatamente quella nazista): le Aktionen promosse dal gruppo di Nitsch, Brus, Muehl e Schwarzkogler negli anni Sessanta (flagellarsi o flagellare altri, bere urina e sangue, mangiare escrementi, copulare con animali o ancora celebrare, in abiti religiosi, messe ‘nere’ con immolazione di un animale e altro ancora) vengono lette come ‘azioni antifasciste’ destinate a partorire un uomo liberato dalle alienazioni della società borghese, di cui il nazismo era stato, dicevano, la forma più estrema della violenza sull’individuo. Seguendo la linea della liberazione Clair introduce un appunto sul valore di reliquia degli oggetti artistici d’avanguardia: si è operato un rovesciamento dal simbolico al reale. […] dalla simbolizzazione dell’immagine dipinta si è ritornati al reale immediato della reliquia. Questo accade da quando l’arte ha rinunciato ad imitare e/o sublimare la realtà: la seconda, non più rappresentata, viene ri-presentata in tutta la potenza della sua astanza materica, nella sua verità tattile, oggettiva, incarnata. Per contrastare il vuoto di una religione che si è disincarnata, l’arte ripropone la pienezza simbolica e fattuale della reliquia, il sacrum del corpo con l’intero apparato-feticcio che gli è connesso. L’evoluzione tecnica e
concettuale dell’arte iniziata con il saccheggio del collage, ovvero con lo slittamento dall’immagine della realtà alla giustapposizione più o meno aleatoria dei suoi scarti, impone oggi il regno tirannico dell’oggetto nella sua totalità epifanica, nella realtà del l’escremento, degli umori, delle feci, in un atteggiamento che consacra la confusione tra sfera anale e sfera genitale chiudendo l’artista definitivamente in una condizione paranoica. Il disgusto avrebbe infine una giustificazione sociale: a questo proposito Clair chiama in causa il concetto di apocatastasi (= restaurazione, ristabilimento) per ricordare come, nella teologia cristiana dei primi secoli, la credenza nell’universalità della salvezza fosse degenerata in un’eresia che conduce al paradosso della redenzione di Satana e al l’assoluzione del male. In que st’ottica la società edonista, pragmatica, o tradizionalista, o positivista, o progressista di oggi […] non può che entusiasmarsi, in un’epoca di grande disgusto, nel vedere che una simile arte dello stercorario sia diventata “arte ufficiale”, come l’apocatastasi fu sul punto di diventare il dogma della chiesa primitiva. L’attrazione verso l’immondo sarebbe una versione dell’ineffabile che sottende la natura e le cose, una narrazione di ciò che non si può dire perché avvolto nell’arcaico e nel pre-conscio. Ogni espressione artistica che attinga a queste fonti sarà allora un atto di devozione alle origini della vita che, devitalizzando la ripugnanza, restituirà all’uomo la sua dimensione miracolosa ed eterna sollevandolo alla divinità:
quando Dante lascia alla loro sorte gli adulatori immersi nei loro escrementi, risale alla superficie del mondo a rivedere «le cose belle che porta il cielo», a riveder le stelle. In conclusione va però sottolineata la vera sorpresa del testo. A dispetto, infatti, dell’originalità (e forza) argomentativa con cui l’Autore legge il fenomeno del l’arte immonda nell’ambito della contemporaneità, quest’opera resta tuttavia un unicum nella produzione di Jean Clair: noto esponente della cosiddetta critica discorde, la sua interpretazione risulta qui imprevedibilmente dissociata – e, anzi, contraddittoria – rispetto alla sua linea di pensiero consolidata. Che sia esercizio d’accademia, provocazione intellettuale o divertissement di critico brillante, riteniamo che l’episodio vada inteso come incursione nell’arte ‘insostenibile’ non cancellando la sua ferma avversione per l’ambiguità delle e- spressioni estreme di un’arte ancora lontana dalla sua auto-estinzione. F. R. Davide Ponzini, Michele Nastasi, Starchitecture. Scene, attori e spettacoli nelle città contemporanee, Allemandi & C., Torino 2011. Un libro sull’architettura dello spettacolo che propone un punto di vista inusuale provando a riflettere sul significato, il senso e il ruolo di questa architettura al l’interno dei paesaggi contemporanei; per una volta non protagonista, ma soltanto uno tra gli atto-
45
46
ri che partecipano allo spettacolo, non sempre riuscito, delle trasformazioni urbane. Un libro che prova a smontare, attraverso l’a nalisi di cinque casi studio (Bilbao, Abu Dhabi, Parigi, New York, Campus Vitra), l’idea che la starchitecture possa essere equiparata ad una forma di arte contemporanea e che dunque il giudizio su questo tipo di architettura debba rispondere solo a canoni estetici e alle logiche del mercato. La prima cosa che colpisce del libro è il carattere sobrio e silenzioso della copertina dell’edizione italiana, in netto contrasto con il tema. L’HQ Building di Abu Dhabi – progettato da MZ & Partners viene ritratto di notte da un parcheggio semideserto attraversato da una macchina della vigilanza. La spettacolarità del l’architettura contemporanea è indebolita dalle luci dell’automobile e da quelle della città lontana. L’immagine restituisce una straordinaria “solitudine dell’edificio” tipica di una qualunque periferia urbana. Il taglio della fotografia, visibile per intero all’interno del testo, partecipa a questo processo di normalizzazione di una tra le più “tipiche” tra le architetture spettacolari. La copertina tuttavia non intende trasmettere un atteggiamento critico verso la singola opera di architettura, ma piuttosto rendere esplicito l’intento del libro che è quello di provare a riportare la starchitecture fuori dalla sfera dell’arte contemporanea e nuovamente dentro il territorio dell’architettura, intesa anche come elemento del paesaggio urbano. Del resto tutte le fotografie di Nastasi contenute nel libro rappresentano
molto più di un apparato iconografico e costituiscono parte integrante del testo, nell’esplicita volontà di riassumere le singole architetture nella dimensione complessiva del paesaggio urbano cui appartengono. Superando dunque la contrapposizione tra le due posizioni culturali dominanti nel dibattito architettonico, quella celebrativa e quella ostativa di questo tipo di architettura, il libro intende riflettere sull’architettura spettacolare e sulle sue molteplici influenze sul policy making urbano e sulle trasformazioni della città contemporanea, mettendo alla prova metafore e modelli ritenuti centrali in alcune correnti del dibattito architettonico e urbanistico. Prima tra tutte le metafore della città imprenditiva, della città come macchina della crescita e dell’intrattenimento che sono alla base di una logica competitiva che porta le pubbliche amministrazioni a investire ingenti capitali in un’architettura spettacolare, nella convinzione che quell’investimento possa servire ad accrescere il valore di un’area o addirittura a riscattarla da uno stato di degrado. Tra le domande che gli autori del libro si pongono e alle quali cercano di rispondere comparando cinque casi studio, c’è anche quella relativa al ruolo effettivo che le archistar assumono nel l’arena di una città o di un progetto. Il luogo comune di Bilbao è appunto il titolo di uno dei capitoli del libro nel quale gli autori analizzano il cosiddetto “Bilbao effect”, l’ipotesi secondo la quale l’architettura d’autore, da sola, innescherebbe un’azione di ri-
qualificazione urbana, così come accaduto nella città basca dopo la costruzione del museo di Gehry. Gli autori inquadrano la costruzione del museo nell’ambito di un più ampio processo di rigenerazione urbana accuratamente pianificato e sostenuto dalle amministrazioni pubbliche con investimenti anche sul piano infrastrutturale. Il museo di Gehry non è quindi il motore dello sviluppo ma l’icona della trasformazione urbana, il brand che ha reso il processo riconoscibile in tutto il mondo. Il fallimento di operazioni analoghe, come quella di Rem Koolhaas a Las Vegas, sarebbe dunque imputabile proprio all’errata convinzione che da solo l’intervento architettonico spettacolare possa servire a innescare un processo di riqualificazione urbana. In un’intervista Thomas Krens, direttore del Guggenheim, ha riconosciuto che il museo di Bilbao non avrebbe generato alcun impatto se non fosse stato integrato in un più ampio insieme di politiche urbane e culturali. La posizione critica maturata nel libro nei confronti dell’architettura spettacolare non nasce dunque da un giudizio estetico nei confronti della singola opera dell’architetto di fama internazionale, ma piuttosto dalla convinzione che questa architettura di fatto “condanna” l’architetto nei limiti del recinto della propria fama, sottraendogli autonomia nelle scelte progettuali e ruolo all’interno dei processi di trasformazione urbana. A ogni modo, si deve notare che oggi l’architetto ha abbandonato i compiti fondamentali attribuitigli dal movimento moderno. Una vol-
ta che le responsabilità sono dissolte e gli aspetti più superficiali del lavoro riconosciuti, l’architettura più in vista assume due strategie. Da un lato rende gli aspetti tecnici più importanti, talvolta fino ad esasperarli, in modo da legittimare il contributo disciplinare. Dal l’altro si indirizza verso campi effimeri. Proprio alle archistar, gli architetti “normali” invidiano la possibilità di proporre immagini sensazionali tecnologicamente avanzate superando in virtù della propria fama limiti di budget e opposizioni istituzionali. Tuttavia quando una pubblica amministrazione o un’azienda investono un consistente budget per realizzare un’architettura d’autore è perché puntano a qualcosa che sia immediatamente riconoscibile come “icona della contemporaneità”. L’architettura diventa dunque immagine, un’o pera d’arte che non deve quindi rimandare al luogo, al contesto nel quale è inserita, né alla funzione che deve ospitare, né tanto meno alla sua struttura compositiva. Ciò che si chiede a quest’architettura è che sia immediatamente associabile al suo autore. In questo senso l’archistar appare talvolta confinato nei limiti di uno “stile” di volta in volta legato alla sua opera più famosa. Senza dubbio gli architetti il cui successo dipende dalla distinzione del proprio stile estetico sono consapevoli della similarità con l’arte contemporanea, Frank O. Gehry sostiene in un’intervista rilasciata a Charles Jencks: Dopo Bilbao, sono stato chiamato per fare edifici “alla Frank Gehry”. Mi chiedono proprio questo. Vogliono un “Frank
47
48
Gehry”. Diventa un problema quando propongo un progetto e mi dicono “Quello non è un edificio alla Gehry”. L’architettura spettacolare, dunque, rappresenta lo stile estetico del proprio autore e appare indifferente al contesto, ai caratteri del luogo nel quale si inserisce. L’opera dell’archistar presenta caratteri simili in qualsiasi parte del mondo venga realizzata, è intesa come prodotto di un mercato “globale”. Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi ha di fatto utilizzato l’architettura d’autore per realizzare una sorta di ossimoro: la città ha costruito la sua nuova “identità” come “capitale globale”; una città “firmata” completamente nuova che fa tabula rasa delle sue preesistenze. Per realizzare il Central Market di Foster e Partners, un complesso che include residenze e aree commerciali di lusso, è stato demolito un mercato molto popolare con l’esclusione di negozianti e utilizzatori di reddito più basso. La città araba ha cercato di interpretare la narrazione del “Bilbao effect” alla lettera, coinvolgendo nella trasformazione urbana sia il direttore del Guggenheim che Gehry, ma la differenza sostanziale sta nel numero dei soggetti che hanno diretto il cambiamento che, nel caso di Abu Dhabi, è estremamente limitato. Se negli Emirati Arabi l’architetto è stato sostanzialmente chiamato a costruire attraverso la “propria firma” l’identità della nuova città, nel caso di una città come Parigi quale può essere il ruolo dell’architettura d’autore? Gli autori del libro sottolineano che, di fatto, da secoli Parigi
sperimenta architetture spettacolari: in una città con una forte identità la starchitecture assume sostanzialmente un ruolo di legittimazione politica della committenza. Alla luce di questa considerazione, il testo passa in rassegna alcune delle trasformazioni urbane più significative della città francese, a partire dagli anni ’70. Le esperienze del Centre Pompidou, della Villette, del Musée du Quai Branly, dell’Institut du Monde Arabe, della Bibliothéque Nationale, fino alla recente sperimentazione del Grand Paris vengono messe a confronto. La rassegna mostra come, a partire dalle prime esperienze, il ruolo dell’architettura spettacolare sia progressivamente mutato. Mentre, a partire dagli anni ’70, le esperienze di Rogers e Piano prima, di Nouvel e Perrault poi, venivano intese come sperimentazioni architettoniche d’avanguardia dal punto di vista estetico e tecnologico, in grado di competere con la qualità architettonica della città storica, le esperienze più recenti come quella del Grand Paris sembrano alludere più alla sfera della comunicazione che a quella della “conformazione”. Oggi la qualità dei progetti architettonici e urbani è ancora determinante, ma la capacità di catturare l’attenzione del pubblico e del mercato da parte dell’architetto sembra avere un maggiore peso rispetto alla sola estetica o funzionalità degli edifici. La dimensione simbolica di questa architettura sembra centrale anche nell’esperienza newyorkese di Ground Zero. Il progetto di Daniel Libeskind, per la ricostruzione dell’area su cui sor-
gevano le Torri Gemelle, viene preferito al precedente studio redatto da un gruppo di esperti della Lower Manhattan Development Corporation, che viene giudicato troppo poco innovativo. Il progetto di Libeskind include invece una torre a spirale, la Freedom Tower alta bene 1.776 piedi (numero che allude all’anno della dichiarazione di indipendenza). Secondo alcuni, la ricostruzione nell’area delle Torri Gemelle rappresenta un punto di svolta nel dibattito pubblico sull’estetica architettonica e sullo sviluppo di New York. La tesi viene di fatto confutata nel libro dove si sottolinea come l’estetica newyorkese sia sempre stata legata più a ragioni di rendita immobiliare che a regole estetiche. Il Manhattanismo, teorizzato da Koolhaas negli anni ’70 nel suo Delirius New York, sottolinea proprio il carattere assolutamente innovativo di questa “metropoli globale” che diventerà il fondamento di una visione del mondo basata sul potere del mercato (Y€$). Individuando nell’esperienza di Ground Zero un’eccezione, legata all’evento traumatico, nel libro si sottolinea come invece la questione dell’architettura d’autore sia nella città americana molto più legata alla logica degli hotel e delle abitazioni di lusso che mostra forti similitudini con il mercato del l’arte contemporanea. Non a caso, l’ultimo caso studio affrontato nel libro è quello del Campus Vitra che viene analizzato proprio per sottolineare il suo carattere di eccezionalità. Il Campus è di fatto una “collezione privata” di architetture d’autore, una sorta di museo di opere d’arte
contemporanea che non può essere replicato, come alcune città hanno tentato di fare, nei processi di trasformazione urbana che devono necessariamente tenere conto di una pluralità di interessi, non solo di natura estetica ma anche sociale, politica ed economica. Il caso del Campus Vitra mostra un forte impegno verso il design di alta qualità e l’eccellenza architettonica che, fatta eccezione per gli effetti visivi, hanno impatti rilevanti prevalentemente all’interno del Campus. Il fatto è che questi raffinati e spettacolari esempi di architettura non sono parte di una città. Alla luce degli esempi analizzati il libro arriva così a mettere in discussione il carattere globale dell’architettura contemporanea, considerandolo una questione puramente stilistica, e sostenendo al contrario che anche la starchitecture assume una notevole varietà territoriale che dipende da condizioni locali e talvolta contingenti. Di conseguenza, nuove prospettive interpretative dei pae saggi urbani potrebbero indurre trasformazioni migliori oltre a consentire all’architetto di recuperare ruolo e significato all’interno dei processi di trasformazione urbana. La visibilità mediatica, il branding post moderno e la costruzione del consenso non generano necessariamente impatti positivi o negativi che possono derivare dalle condizioni contestuali e dai modi in cui i progetti intervengono sui luoghi esistenti, sui loro usi e significati. In questo senso è necessaria un’interpretazione culturale del progetto e dell’ambiente urbano per meglio com-
49
prendere e progettare le trasformazioni della città contemporanea. P. S. G. Cavagna di Gualdana, Gariboldi. Le arti decorative in Italia: la riscoperta di un mae stro. Tra Gio Ponti le Triennali la Richard-Ginori e le collezioni ceramiche, Corraini Edizioni, Milano 2010.
50
La gatta frettolosa fa i gattini ciechi… E come il proverbiale felino la storia spesso dimentica, tace, preferisce rielabolare traiettorie causali meno tortuose – talvolta in senso riduttivo – per dar conto, a posteriori, degli accadimenti del reale. Di quel reale, gaddianamente inteso, dove «le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti». A proposito del pasticciaccio storico che ha visto per molto tempo sottratto a Giovanni Gariboldi il ruolo di protagonista del design industriale del ’900 che gli spettava di diritto, il volume di Giacinta Cavagna di Gualdana dedicato alla sua opera appare non solo proficuo e necessario ma – sotto il profilo sia storico che estetico – assai riuscito, lucido e coerente. In grado cioè di portare luce laddove – come afferma Marco Romanelli nella prefazione – la storia, la grande storia degli uomini e delle cose,
produce a volte delle sottili pieghe proiettando coni d’ombra in cui uomini e cose rischiano di rimanere celati. Risultato di un accurato lavoro di ricerca e di archivio, il volume presenta un’ampia selezione di disegni, schizzi progettuali, lettere, pieghevoli pubblicitari d’epoca e fotografie in gran parte inedite. L’ottimo progetto e book design di Italo Lupi dona una veste aguatamente elegante a un volume di gran pregio sia storico sia formale che, pur nella sobrietà del testo – del quale fa pienamente parte la prefazione di Romanelli –, riesce finalmente a mettere a nudo una personalità mite e complessa che ha legato il proprio nome e la propria carriera alla Società Ceramica Richard-Ginori. Se non fosse limitativo e frustrante per i suoi meriti e talenti, si potrebbe definire Gariboldi un ideale uomo-azienda, ma ciò – oltre a deprimere la rilevanza che ebbe in molte scelte svolte dalla sua partner nel dopoguerra – sarebbe limitativo anche per la stessa Richard-Ginori perché azienda è davvero un termine improprio per definire un ambiente di lavoro che è stato protagonista del rilancio delle arti industriali e decorative italiane. Ma, avvertiti dei limiti della definizione, occorre pure tener conto del salutare rilievo posto in essa al legame sussistente fra i due termini. Una relazione simbiotica nella quale la marcata confidenza (fatta di vicinanza fisica e continuità di rapporto) con le maestranze ha sì forse leso la capacità di emergere come individualità a Gariboldi ma a tutto vantaggio di un amalgama frut-
tuoso e maturo creatosi con gli anni fra la struttura produttiva e il direttore del Servizio Artistico. A dispetto del grande favore e riconoscenza che sicuramente va attribuito all’opera instancabile di Gio Ponti, occorre ammettere che egli ha presumibilmente svolto per la Richard-Ginori il ruolo, pur maieutico, dell’amante – estroso, aitante, energico e innovativo – mentre la figura incarnata da Giovanni Gariboldi, soprattutto nel secondo dopoguerra del secolo scorso, sia stata più plausibilmente quella del coniuge, ovvero del compagno fedele deputato tanto alla cura confidente quanto all’attento sostegno nel tempo della partner. Anche a proposito di ciò, nella sua intensa prefazione, Marco Romanelli pone oppurtunamente in rilievo la tonalità coinvolgente e «tattile» della relazione fra Gariboldi e il saper fare all’interno della Richard-Ginori che col tempo si è esplicato in sensuale corresponsabilità e partecipazione, ovvero in quel senso del fare insieme – non limitato alla società ceramica, ma esteso al territorio e più ancora all’utenza finale – che, forse, non venne mai colto da un Ponti più interessato allo scarto e alla performance d’eccezione che alla routine dei dettagli funzionali e dell’adattamento pratico per esigenze produttive. Per leggere al meglio l’avventura di Gariboldi e della RichardGinori occorre perciò tener conto: a) del discrimine – soprattutto per quel che concerne il riscontro comunicativo – sussistente fra personalità che in ragione della propria autonomia formativa erano in grado di avviare nuovi processi e coloro che quegli stessi
processi li conducevano a buon frutto essendone parte integrante; b) del fil rouge che covava fra pezzi d’eccezione (oggetti unici, serie numerate, prodotti ad alto costo) e linee correnti ovvero quel feedback di tecnica, di colore, di innovazione che, senza soluzione di continuità manteneva in comunicazione i due ambiti della produzione della Richard-Ginori, in particolare negli stabilimenti milanesi di San Cristoforo e di Lambrate. Da esecutore di invenzioni pontiane – per usare i medesimi termini adottati nelle didascalie pubblicate sul finire degli anni ’20 sulle pagine di Domus – Gariboldi giunse a coprire lo stesso ruolo di direzione artistica rivestito da Ponti (dal 1923 fino alla metà degli anni ’30). Ma se per Gariboldi essere direttore artistico (dal 1946 è a capo del Servizio Artistico Richard-Ginori) ha presumibilmente significato il culmine professionale di una vita, per Ponti quella mansione non fu che una delle innumerevoli attività nelle quali venne coinvolta la sua molteplice personalità. Vale a dire che l’intensità e la dedizione con cui vennero vissute tali cariche – forse addirittura imparagonabili – non possono certo essere ritenute sovrapponibili. Come risulta evidente dal racconto dell’autrice, dopo aver vissuto dieci anni sotto l’egida di Ponti, Gariboldi ebbe un ruolo da protagonista all’interno del Servizio Artistico di San Cristoforo nei tredici anni successivi, rimanendo a diretto contatto con le problematiche più specifiche della tecnica ceramica (dalla ricerca sugli smalti, alla terracotta, dal grès al biscuit, dal cam-
51
52
meo alla porcellana orientale) talora indagando le possibilità offerte dalla monocromia (avvalendosi dei trattamenti «a lustro», il giallo paglierino, ovvero l’areografo e la spugnatura) talaltra interrogandosi sulle peculiarità metamorfiche delle varianti cromatiche abbinate alle decorazioni in rilievo, ovvero passando dal recupero, la rievocazione e l’innovazione degli antichi repertori della manifattura alla reinterpretazione degli stessi motivi geometrici pontiani. Eppure dopo tanto approfondimento tecnico, la promozione porta, paradossalmente, Gariboldi ad allontanarsi dalla ceramica. Nonostante, dopo due decenni di carriera avesse un’assoluta confidenza con ogni aspetto e problematica inerente la manifattura, la fine del conflitto apre per lui e per la Richard-Ginori uno scenario sostanzialmente connotato da un cambiamento delle priorità della società che determina una revisione delle finalità delle indagini artistiche e delle ricerche tecnologiche: le necessità del mercato influenzano le scelte delle industrie, alle quali viene chiesto di creare dei prodotti economici e funzionali. La creatività dell’artista deve convivere con l’essenzialità. I concetti di utilità e praticità animano le pagine dei quotidiani e dei periodici: la rivista Stile Industria diventerà un centro di dibattito per intellettuali, architetti, urbanisti che riconoscono nella razionalità e nella sintesi i principi cardine di ogni ricerca. Gariboldi diviene così, uomo della ricostruzione, e nei suoi primi anni di direzione del Servi-
zio Artistico è implicato più nella strategia aziendale di ampliamento della catena di negozi che nella creazione di modelli e decori. Come nota l’autrice, all’VIII Triennale del 1947 il ruolo della Richard-Ginori è marginale e il nome di Gariboldi assente dal catalogo della mostra. La manifattura, che espone solo alcuni apparecchi sanitari, sembra aver risposto al comune invito alla razionalità e alla concretezza, sottoponendo la propria produzione a una generale semplificazione. All’occasione successiva, la IX Triennale del 1951, la mostra La forma dell’utile sancisce l’af fermazione del design: l’unità delle arti è ormai riconosciuta come premessa di ogni progetto, si è sempre più consapevoli che l’uso determini la forma, la facile serialità il successo. Appare cioè evidente che la manifattura deve ripensare il proprio ruolo all’interno di una società e la provocatoria scelta di Gio Ponti (curatore quell’anno della sezione ceramica) di mettere in secondo piano la vocazione utilitaristica della ceramica e di prediligere le opere di artisti contemporanei attratti dalle possibilità espressive della terracotta, non sembra in grado di ottenere il riscontro auspicato. La X Triennale del 1954 diventa così l’occasione per Gariboldi (che firma tutte le proposte Richard-Ginori) di offrire un complesso di forme coeso e rispondente alle esigenze dei tempi nuovi. Il servizio da té Ulpia, il servizio da caffè Donatella, i servizi da caffè Delia e Luisa, il servizio Patrizia, la teiera Ofelia e il
servizio Adriana, sono infatti emblematiche di un metodo e una sensibilità davvero non comuni e sono rivelatrici – come sottolinea Romanelli – di uno straordinario rispetto per le forme che ci sono giunte in retaggio dal passato e che come tali valgono e che come tali sono la base per un serissimo, a volte lentissimo, “millesimale” lavoro di modernizzazione. Ma il 1954 è davvero un anno magico per Gariboldi che con il servizio Colonna realizza un capolavoro di asciutta eleganza, praticità ed economia. I diversi elementi del servizio sono, infatti, perfettamente impilabili l’uno sull’altro; molti pezzi sono stati disegnati in modo da essere adattabili a più funzioni e utilizzi; la scelta di realizzarlo in porcellana Ariston (un materiale meno raffinato della porcellana tradizionale, ma più duro, resistente ed economico) consente di contenere i costi. Questo progetto, premiato con il Compasso d’Oro sia per la riu scita essenzialità di forme e colori sia per l’espediente della “sovrapposizione verticale” come proposta di minimo ingombro diviene da allora una sorta di modello o ideal-tipo della quotidianità moderna al quale Gariboldi si sarebbe dedicato nei tre lustri successivi con aggiornamenti e perfezionamenti (tra l’altro vincendo la medaglia d’oro al XXV Concorso Internazionale della Ceramica d’Arte di Faenza nel 1967). Realizzandone infine evoluzioni ancora più rigorose e decisamente contemporanee con i servizi Uno più uno e Eco che oggi rappresentano il testamento di un grande artista-operaio tal-
mente coinvolto nella storia aziendale e assiduamente partecipe della complessa specificità del proprio ruolo e lavoro, da non riuscire per alcuni decenni a risaltare nella storia come avrebbe dovuto. Merito del volume aver mosso il primo passo verso una auspicabile riconsiderazione del valore dell’opera di Giovanni Gariboldi che ha certamente avuto un ruolo da protagonista anche nell’aprirsi dell’Italia alla modernità ovvero – come nota ancora Romanelli – a concetti come l’attenzione al packaging e all’economia di spazio. Formule ovvie per noi oggi, ma non altrettanto per un popolo che si stava appena riprendendo dagli orrori della guerra e che, anche semplicemente scegliendo stoviglie “moderne” e abbandonando i servizi di un tempo, destinati a pochi, e tanto sconfinati quanto decorati, tanto fragili quanto inutili, cercava di costruire un mondo più giusto. U. R. C. Davies, Il primo libro di architettura, Einaudi, Torino 2011. Un quadro sintetico e illuminante sull’idea di architettura e i suoi concetti principali, orientato a fornire i requisiti necessari in materia tanto agli esperti del settore quanto ai non esperti, affascinati ed interessati a quello che è uno dei più ampi e ricchi campi della cultura. Sia chiaro, esso non aggiunge niente di nuovo al sapere architettonico, anzi accogliendo e rac-
53
54
cogliendo le varie teorie architettoniche dagli anni Settanta ad oggi, tenta di fare chiarezza anziché proporre novità. Tale esigenza prende le mosse dalle due principali caratteristiche della riflessione contemporanea relativa all’architettura: una, l’impenetrabilità del suo linguaggio; l’altra, la sua conseguente elitaria autoreferenzialità. Se negli anni Cinquanta la teo ria architettonica in Europa e in America era improvvisata, nei successivi decenni è andata conquistando maggiore autonomia. L’avvento della teoria francese dello Strutturalismo, poi, e la possibilità che ogni settore della cultura fosse ad esso permeabile, iniziò a nutrire l’idea che la teoria architettonica, soccorsa dal neonato metodo strutturale, potesse divenire una branca a sé stante della filosofia. Questo è lo scenario che funge da terreno fertile alla crisi del rapporto tra teoria e prassi architettonica. La teoria, conquistata una propria autonomia, diviene isolata e ingarbugliata, distaccandosi dalla pratica architettonica. Tra la più generica definizione fornita da dizionari ed enciclopedie secondo cui l’architettura è progettazione di edifici, e quella – seppur affascinante ma classista – di Nikolaus Pevsner, secondo cui un edificio viene concepito in vista di un effetto estetico, ne esiste una intermedia. Essa è quella più legata alla realtà e vede l’esclusione dalla categoria architettonica degli edifici ordinari. In ciò consiste la grande contraddizione dell’architettura. La tipologia costruttiva degli alloggi popolari, sebbene sia la più diffusa nella realtà, è quella che
meno trova posto nei libri di storia. Ma l’architettura non è un concetto astratto, è una configurazione sociale concreta. L’originale e spensierata rassegna dei concetti principali inizia dall’architettura come rappresentazione. L’antica Grecia ce ne propone vari esempi. L’impiego delle Cariatidi dell’Eretteo ci istruisce sul legame tra l’idea di colonna e quella di figura umana. Esso ormai è una questione acquisita, ma che l’istinto alla rappresentazione sia naturale e continuo nell’uomo a volte ci sfugge. Analizzando le varie caratteristiche della rappresentazione architettonica, passando dall’associazione al ritmo musicale, alle spiegazioni sulla sua reale o fittizia regolarità – come nel caso delle colonne angolari del Partenone, inclinate verso l’esterno, per ovviare alla distorsione ottica che la vista frontale procurava – egli giunge ad una conclusione. L’architettura non può non essere rappresentativa, perché di essa l’uomo si serve per trovare i significati del mondo. Ad essi si perviene grazie ad una capacità, innata e inconsapevole nell’uomo, che prende il nome di interpretazione. Sebbene tutti gli uomini ne siano dotati, tutti necessitano di apprenderla, come l’acquisizione della lingua è fondamentale per sviluppare l’innata attitudine al linguaggio. Egli scrive: Il linguaggio è un processo biunivoco, fatto di lettori e scrittori, entrambi contribuiscono alla costruzione del significato. Non mancando di illustrare brevemente nozioni ba silari di Semiotica – in particolare la duplice costituzione del se-
gno come significante e significato – e di linguistica strutturale, si serve del filosofo americano Charles Sanders Pierce per rapportare il concetto di segno all’architettura. Ma il significato di un edificio non è sempre chiaro, esso a volte può essere ambiguo. E proprio sull’idea di ambiguità si fonda il concetto di «doppio codice». In architettura lo si deve a Robert Venturi. Lo stile volutamente ambiguo e contraddittorio della casa che egli progettò per sua madre nel 1964, ha segnato l’inizio dell’architettura postmoderna. L’architettura necessita di essere popolare ma allo stesso tempo elitaria, abbracciando l’ambiguità della vita moderna. Per far ciò si serve di un «doppio codice». Che la casa Venturi sia una casa, tutti possono capirlo, che sia una casa strana lo capiscono sono gli architetti. Benché il postmoderno rappresenti lo stile del linguaggio per antonomasia, l’autore non manca di accennare alla Decostruzione di Jacques Derrida e ai suoi legami, veri o presunti, con il decostruttivismo architettonico. Forma e materia, sebbene le si sia spesso considerate inseparabili, sono continuamente scisse dagli architetti tramite il disegno. Il progetto è fatto di sola forma, senza materia. Apparentemente essa prevale. È possibile, infatti, disegnare una forma senza sapere di che materiale sarà, ma è impossibile disegnare materia informe. L’analisi dei vari sistemi di proporzione che hanno informato l’architettura spazia dagli aritmetici rapporti proporzionali desunti dalla musica, al coordinamento modulare, passando per la
geometrica proporzione aurea, e la geniale rielaborazione che Le Corbusier ne propose nel suo Le Modulor. Lo spazio contende alla forma il posto di predominante caratteristica dell’architettura. L’idea più condivisa nel tempo è quella aristotelica di spazio come superficie, e non come volume. Ma lo spazio architettonico si differenzia da quello universale. Ad esso l’architetto dà una connotazione fenomenologica più che scientifica. Quando l’architetto pensa allo spazio pensa a un rapporto, non ad un fenomeno oggettivo: a uno spazio umano, non scientifico. Una stanza è un interno e, in quanto tale, riflette l’esperienza umana continua del l’«interiorità». A sostegno della tesi che la caratteristica prevalente dell’architettura sia quella spaziale cita Martin Heidegger. Egli in Costruire Pensare Abitare scri ve: «La più fondamentale delle esperienze umane è quella del l’abitare». Ma lo spazio realizzato dall’architettura modernista del XX secolo, da Mies van der Rohe a Hans Scharoun ad Alvar Aalto, nasce in netta opposizione allo spazio «della stanza». Esso non è né interno né esterno. La fluidità e la libertà che lo contraddistinguono stanno all’architettura, come il superamento dei limiti del nostro corpo, grazie all’immaginazione, sta al corpo umano. Il concetto di verità architettonica nasce con John Ruskin e la sua manifesta propensione per lo stile gotico. L’architettura gotica gli piaceva perché era onesta: mostrava il modo in cui stava in piedi. Delle varie rielaborazioni della dottrina dell’onestà, la più
55
56
compiuta è quella novecentesca che, passando attraverso gli edifici – macchina di Rogers, Foster e Grimshaw, prende il nome di High-tech. L’analisi dell’incompatibilità tra le teorie di Laugier e le apparentemente antitetiche teorie di Gottfried Semper, trova soluzione in Ruskin. Se l’essenza dell’architettura sia prevalentemente «tettonica» o ornamentale, poco importa. Essa coniuga entrambi gli aspetti. A volte essi addirittura coincidono. La prevalenza dell’uno o dall’altro ha spesso soppiantato il potenziale collaborante rapporto tra ornamento e «tettonica», conducendo l’architettura ad esiti fallimentari. L’attuale cultura digitale, che predilige l’immagine rispetto alla sostanza, rischia di minacciare entrambi i principi. Sono vari i modi in cui l’architettura ha manifestato il proprio rapporto con la natura. L’organicità può riferirsi alla forma, ai materiali, allo spazio, come al l’imitazione dei processi naturali. Dal punto di vista spaziale l’architettura più organica, precedente la codificazione del maestro Wright, è stata quella gotica, il più gotico degli architetti è stato Gaudì, con la progettazione della paradigmatica cappella per la Colonia Guell. La diffusione della difficile filosofia del francese Gilles Deleuze, ad opera di Manuel De Landa, ha aperto nuove frontiere all’imitazione dei processi naturali in architettura. Proprio su di essa pone le basi la pretesa di organicità della nuova architettura parametrica. Con la sua progettazione algoritmica ritiene di riuscire a rendere la simultaneità dei processi naturali.
Pur essendo orientata a conseguire esiti sempre meno tradizionali, l’architettura, più di ogni altra disciplina, non può ignorare la storia. Essa non è un di più, è parte integrante dell’arte architettonica. Sebbene essa presenti distorsioni e ingiustizie, l’architettura attinge da essa profondità culturale e critica. La grande conquista dell’immediatezza, e dell’istantaneità della comunicazione hanno trasformato le città. La velocità le ha condotte all’inevitabile distruzione del proprio spazio. L’uomo, così, insegue la propria vita all’interno di parallele città virtuali, osannate dalla cultura digitale, che paradossalmente ricreano in maniera impeccabile le condizioni della vita reale, che esse stesse in primis annichiliscono. La naturalezza e la semplicità dell’intera trattazione – sebbene questo non si propone di essere un libro per bambini – fanno sì che anche chi tratti già di architettura è come se si trovasse di fronte ai suoi concetti per la prima volta. Non possiamo fare a meno di notare che dello Strutturalismo noi preferiremmo sottolineare la portata rivoluzionaria, più che il limite di esser stato causa della separazione tra teoria e prassi architettonica. D’altra parte apprezziamo la lucidità con cui l’autore espone teorie nei confronti delle quali nutre un chiaro slancio. Infatti, la descrizione dell’ambiziosa realizzazione dei biomi in Cornovaglia di Nicholas Grimshaw smaschera la sua naturale propensione nei confronti di tale tipo di architettura organica. A. C.
Á Travers Naples et l’Italie, XVIIe Rencontre de La Fondation Le Corbusier, 11-12 novembre 2011. Á Travers Naples, Mostra, 11-18 novembre 2011, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli. È il centenario del noto Voyage d’Orient – intrapreso dal giovanissimo Ch. E. Jeanneret nel 1911 – il tema della XVIIe Rencontre che La Fondation Le Corbusier ha celebrato nel 2011 con tre incontri di studio organizzati in altrettanti luoghi, corrispondenti alle principali e più emblematiche tappe del viaggio: Istanbul il 7 e 8 ottobre, Atene il 21 e 22 ottobre, Napoli l’11 e 12 Novembre, rispettivamente coordinati da Burku Kutukcuoglu, Panayotis Tournikiotis e Roberta Amirante. L’ambizioso progetto della Fondation di ripercorrere attraverso la XVIIe Rencontre alcune delle principali tappe del Voyage nasce evidentemente dall’ormai pieno riconoscimento della straordinaria rilevanza di quel viaggio nella costruzione della complessa personalità e opera di Le Corbusier. Nel maggio 1911 il giovane Ch.-E. Jeanneret parte per l’O riente, lascia Berlino visita Dresda, Praga e Vienna, costeggia il Danubio e i Balcani, raggiunge Istanbul, poi Atene e infine rientra in Italia da sud passando per Napoli e Pompei, prosegue verso Roma e poi Pisa. Compie dunque una sorta di Grand Tour all’incontrario, durante il quale esegue oltre 500 disegni, scatta 400 fotografie, prende appunti, scrive lettere, annota avvenimenti. Un primo parziale resoconto di quel
viaggio apparve già alla fine del 1911 su «La Feuille d’Avis», un giornale locale di La Chaux de Fonds cui sistematicamente il giovane Jeanneret inviava i suoi articoli in forma di diario di viaggio. Da allora Le Corbusier ha continuato a tratti a lavorare al testo, ma il Voyage d’Orient sarà pubblicato in versione definitiva solo nel’66 da Jean Petit, un anno dopo la sua morte. Nel breve testo Rien n’est transmissible que la pensée, pubblicato nell’ultimo numero della Oeuvre Complete e scritto un mese prima di morire, Le Corbusier rimanda, come fosse il suo autentico testamento, al Voyage e scrive: Devo correggere in que sti giorni il manoscritto di un libro scritto nel 1911: “Le Voya ge d’Orient”. Tobito, (…) è ve nuto a trovarmi (…), Jean Petit è arrivato in quel momento con il testo “Voyage d’Orient”. (…) Ricordo di aver detto loro che la condotta del giovane Ch. E. Je anneret, all’epoca del Viaggio in Oriente, è la stessa che ora se gue papà Corbu. Tutto è que stione di perseveranza, di lavo ro, di coraggio. (…) Il coraggio è una forza interiore, la sola che possa realmente qualificare l’esistenza. (…) Si, niente è più trasmissibile del pensiero, no biltà del frutto del lavoro. Que sto pensiero può, oppure no, di venire una vittoria sul destino, al di là della morte e può assu mere una dimensione impreve dibile. Singolare appare dunque la volontà di Le Corbusier di ritornare al testo manoscritto del Viaggio del 1911 dopo oltre cinquant’anni, nel’65. Come interpretare tutto ciò se non come la
57
58
volontà di guidare, sul finire della propria esistenza, non di certo alla comprensione autocelebrativa del proprio articolato percorso di uomo e di artista, ma piuttosto all’improvviso svelamento di “codici nascosti” per aprire a nuove interpretazioni, riflessioni e percorsi conoscitivi, affinché il pensiero, il proprio, potesse realmente vincere il destino e assumere la dimensione imprevedibile agognata? Il testo del Viaggio in Oriente – primo e ultimo saggio di Le Corbusier, e contemporaneamente, come definito da Roberta Amirante, romanzo di formazio ne e testamento – è senza dubbio il più frammentario, discontinuo, ambiguo tra gli altri numerosi scritti ereditati dal Maestro. Una incompletezza tuttavia non banalmente ascrivibile alla presunta giovinezza dell’autore ma piuttosto espressione della precisa volontà di far emergere proprio il valore e il significato ermeneutico del dubbio, dell’incertezza, della scoperta quali principali strumenti per alimentare ogni instancabile ricerca intellettuale. Jeanneret nel novembre 1911, parlando di sé, scrive nell’ultima delle tante lettere indirizzate a Ritter: (…) comincia a lavorare, (…), lavora sodo, si tratti pure di lavoro intellettuale, al punto che tu ne abbia piena la testa (…). Lavora, brucia, come una candela che si vende e fabbrica per far luce (…) Ed ancora: (…) sono il soldato di una battaglia che mi sembra dichiarata a cau sa mia. Queste sue riflessioni possono essere oggi evidentemente interpretate come il prezioso prologo
della sua lunga vita intellettuale; di quella vita la pubblicazione postuma del Voyage d’Orient nel ’66 ha sollecitato altri racconti, nuove riflessioni che a partire da quell’unica esperienza di formazione possono ancora oggi rinnovarsi e trovare nel presente nuovi “spazi di iscrizione”. Ma parlare del Voyage d’O rient significa parlare anche e soprattutto del lavoro interpretativo condotto negli anni da Giuliano Gresleri; a partire dai suoi noti studi si sono potute nel tempo ricomporre tutte le tessere del viaggio e soprattutto rileggere l’opera di questo maestro del Moderno sotto una luce nuova. Risale al 1974 la prima edizione in italiano, a cura di Gresleri, del testo del Voyage d’Orient, più volte ampliata sino a quella del 1995, edita da Marsilio, in cui al testo è alternato e riferito un ricco apparato iconografico. Questo lavoro si è in vario modo incrociato con la pubblicazione dei Carnets del viaggio, sei taccuini di formato 10 × 14 cm, editi da Electa nel 1987. Gresleri intrecciando il testo, alle fotografie, alle lettere, agli acquerelli del viaggio ci ha restituito nel tempo un rigoroso e completo apparato filologico come fondamento di un interminabile lavoro ermeneutico cui il Viaggio in Oriente come “esperienza artistica totale” si offre. Ed è il valore metastorico del viaggio lecorbusiano – definito da Benedetto Gravagnuolo meta fora del movimento incessante dell’io verso un altrove, bagaglio inesauribile di riferimenti per la comprensione di un metodo conoscitivo eternamente pregno di significato in quanto decodificabile e trasmissibile – a riempire
di senso la celebrazione del suo centenario. Un centenario che ha voluto prima di tutto costruire una rete tra punti di vista, voci e narrazioni differenti per restituire non solo il racconto della complessa biografia intellettuale di Le Corbusier ma il senso più profondo che l’esperirsi di quella unica vicenda umana, compiuta dal giovane Jeanneret, può assumere nella contemporaneità. Nei tre incontri, alla voce di esperti legati alla Fondation quali Timothy Benton, Jean-Louis Cohen, Giuliano Gresleri, Jacques Lucan, Carlo Olmo si sono alternate quelle di noti studiosi lecorbusiani, e la tappa napoletana, in particolare, ha visto l’introduzione di una nuova pratica: tramite call for paper, sono stati selezionati per intervenire alla Rencontre, alcuni giovani studiosi al di sotto dei quaranta anni che avessero già svolto ricerche o tesi di dottorato su temi inerenti il Voyage d’Orient (A.M. Berritto, O. Fatigato, E. Kawamura, I. Leone, J. Maisian, E. Morello, V. Solera). Il comitato scientifico che ha costruito la tappa napoletana (Alison, Amirante, De Fusco, Gravagnuolo, Gresleri, Izzo, Olmo, Villari) ha voluto rimarcare il senso che l’Italia ha assunto nel Voyage come luogo del ritorno, soglia tra l’Oriente appena lasciato e rimpianto e l’Occidente in parte già noto. Attraversando l’Italia, e attraverso l’Italia, Jeanneret noterà si le distanze e le differenze dalla perfetta Armonia lasciata in Oriente, ma riuscirà anche a sperimentare, con ulteriore maturazione, il metodo di osservazione faticosamente acquisito durante il viaggio, al fine
di fissare, con altro senso di appartenenza rispetto alla emozio ne brutale suscitata dalla Turchia e dalla Grecia, la realtà di altri tempi di Pompei, gli spunti per quella che sarà la sua leçon de Rome, le potentiel de poésie ex traordinaire di Pisa. E sarà forse, come rimarcato da Amirante, proprio l’opposizione, che mai si risolse con furiosa nostalgia, tra il suo Oriente e il suo Occidente a definire il territorio materiale della sua vita di architetto, il campo ampio della sua ricerca paziente e forse l’eredità che at traverso il testo del Voyage d’Orient ha inteso lasciare. Nella prima sessione, intitolata Appunti di viaggio, si è voluto intessere, incrociando diversi sguardi, un racconto sul senso complessivo dell’intero viaggio. Se Benedetto Gravagnuolo, che ha aperto il convegno napoletano, nel suo intervento Il viaggio mentale nell’Antico, individua nella volontà di interrogazione della Modernità come tema di Armonia, il vero movente del Voyage, Remì Baudouï ha ricomposto il racconto di quella Armonia trovata attraverso le lettere familiari del giovane Jeanneret. Baudouï ha teso a dimostrare come in quelle lettere private, attraverso un codice comunicativo prettamente affettivo, Le Corbusier trasferisca sì informazioni autobiografiche, ma anche stupore e emozione quali fonti primarie delle sue successive intellettualizzazioni delle quali le lettere familiari costituiscono, a suo dire, gli imprescindibili prodromi. In linea con questo approccio, attento alla biografia di Le Corbusier prima di tutto in quanto uomo ed Artista ancor prima che
59
60
architetto, può essere riguardato anche l’intervento di Carmine Piscopo, che attraverso la rilettura dei noti acquerelli de Le Langage des pierres, e proponendone una differente sistematizzazione cronologica, ne mette in luce le derivazioni da esperienze artistiche coeve – l’ingenuità – ma anche il carico di mistero che ne avvolge la produzione e il senso più profondo – l’ignoto – spesso trascurato dalla storiografia lecorbusiana. Nella seconda sessione napoletana Attraverso l’Italia si sono ripercorse in chiavi differenti alcune delle tappe italiane del Viaggio: Napoli, Pompei, Roma e Pisa. Emanuele Carreri, sfogliando rapidamente tutte le pagine dedicate a Pompei del quarto Carnet e gran parte della produzione architettonica raccolta nell’Oeuvre Complete, ha proceduto da una parte al riconoscimento di tutti i soggetti pompeiani raffigurati negli schizzi e dall’altra con acutezza critica, identificatone il valore meta progettuale, alla loro libera associazione con alcune successive opere lecorbusiane. È Marida Talamona a raccontare invece la prosecuzione del viaggio di Jeanneret, lasciata Pompei il 14 ottobre, a Roma, ricostruendo l’itinerario della prima giornata di visita della città e descrivendo la Roma che Jeanneret attraversa, in un momento di grande fermento culturale e apertura internazionale dovuti alla grande Esposizione Universale. Nella sua visita romana, Jeanneret alterna dunque alla visione di importanti esposizioni gli usuali percorsi turistici all’interno della città storica. E pur avvertendo a
Roma, come sottolineato dalla Talamona e da Johan Linton nel suo intervento Jeanneret e le ambivalenze italiane, il disagio per quanto gli appare, distante dall’imponente unità dell’Orien te, come un insopportabile di vertissement si lascia andare a entusiastici giudizi sulla Roma di Michelangelo, su Castel Sant’Angelo, sul Pantheon, etc. A quella prima giornata romana, come ha ricordato Talamona, Le Corbusier ritornerà più volte: nel suo viaggio libresco, come definito da Cohen, alla Biblioteca Na zionale di Francia, e nel viaggio del ’21 nuovamente a Roma, per tirar fuori, nel manifesto del l’Esprit Nouveau, la nota Leçon de Rome. E infine Jacques Lucan, anticipando il tema della terza e ultima sessione sulle Eredità del Viaggio, ha raccontato di Pisa come reale preziosa eredità continuamente interrogata e riattualizzata negli anni da Le Corbusier attraverso la composizione del plan libre in svariati progetti: il Palais des Soviet, il Centrosoyuz, la villa Meyer, il Pavillon Suisse de la Cité universitaire. Il Campo dei Miracoli di Pisa dunque come punto di origine delle prime esplorazioni “esotiche” di Jeanneret nel viaggio in Italia del 1907, come tappa conclusiva del Voyage e soprattutto costante punto di riferimento che, come sottolineato da Lucan, lo porterà a scrivere – nel ’60 in La Recherche patiente – Si vous avez dessiné la Tour de Pisa tou te penchée par rapport à la ca thédrale ou au baptistère vous saurez qu’il s’attache à ce phé nomène stupéfiant un potentiel de poésie extraordinaire.
Se Lucan ha dunque in maniera esemplare raccontato dell’instancabile approfondimento della lezione di Pisa, Christian Gilot ha costruito la sua interessante comunicazione sull’idea stessa del Ritorno che ha portato a suo dire Le Corbusier, sia durante lo stesso viaggio che successivamente, a revenir sur ses pas continuamente, come a Pisa, cosi a Pompei, a Villa Adriana, alla Certosa di Ema, ristudiando, ridisegnando, rivedendo di continuo quanto fissato nella tappa italiana del suo Viaggio in Oriente, fino alla pubblicazione continuamente attualizzata in differenti testi dei medesimi riferimenti. Proprio in questa possibilità di lettura comparativa, tra opere e schizzi del viaggio, risiede secondo Francesco Taormina la profonda verità trasmissibile dei Carnets e il loro reale messaggio educativo. Taormina, sottolinea come al di là degli aspetti stru mentali i segni degli schizzi le corbusiani aiutino a guardare l’Architettura e come essi, nel modo rapsodico e dialettico del la trasmissione lecorbusiana, siano parte esplicativa della sua Opera, non ontologicamente an tefatto della sua Opera ma parte di quella ontologia. A chiudere la tappa napoletana, la conferenza esemplare di Gresleri, i cui studi costituiscono la ragione stessa della individuazione del Voyage come tema di ricerca. La traduzione del testo originario del Voyage, il ritrovamento e la decodifica del testo frammentario dei Carnets, e ancora la ricostruzione esatta del lungo itinerario di Jeanneret hanno impegnato, come egli stesso ha raccontato, numerosi anni della sua attività di ri-
cerca e ciò che appare ancora oggi come straordinario è la capacità unica di ritornare a quelle ricerche di continuo con incessante curiosità ed entusiasmo. Gresleri ha raccontato della costruzione del suo “viaggio” alla scoperta del Voyage, della sua intensa e continuativa collaborazione per la redazione del libro con l’amico Mogens Krustrup, di come le tracce, le intuizioni e le improvvise scoperte si siano susseguite per intessere un racconto ancora in divenire. E non apparirà dunque improprio in nome della costante pratica di quella ricerca paziente, invito e monito continuo di Le Corbusier, affiancare proprio l’immagine dello Studioso Gresleri a quella del Maestro cui ha dedicato ampia parte della propria ricerca intellettuale. A creare un ponte reale tra la Rencontre dedicata al centenario del viaggio e la prima importante esposizione sul Voyage, curata da Gresleri nell’87 a Bologna, è stata la proiezione, durante la tappa napoletana, del filmato – Le Corbusier, Viaggio in Oriente. Ch. E. Jeanneret fotografo reporter – curato da Pier Giorgio Massaretti in occasione del passaggio a Ferrara di quella prima importante mostra. Il filmato, restaurato da Sergio Villari, è un racconto del percorso di Jeanneret da Praga sino ad Atene, ricostruito attraverso una successione di fotografie di Jeanneret, accompagnate dalla lettura di brani del Voyage e dalle splendide note di Dvorak. Quasi come naturale prosecuzione del racconto del viaggio alla partenza da Patrasso, la mostra Á travers Naples, curata da Orfina Fatigato, ha raccontato del breve passaggio a Napoli di Le
61
Corbusier ipotizzando tempi e sequenze dei possibili attraversamenti della città nei giorni del 6, 7, 8 e 10 ottobre 1911, e ricostruendo un mosaico composto da diversi frammenti – le brevi annotazioni, gli schizzi che si succedono nel quarto Carnet, le tante fotografie, le lettere, le foto Alinari acquistate a Napoli ancora inedite – tutti preziosamente custoditi nell’archivio della Fondation Le Corbusier. La mostra, esito di un attento lavoro filologico, senza forzate sovrapposizioni interpretative riguardo al presunto sguardo lecorbusiano su Napoli, si è riproposta di offrire piuttosto, proprio a partire dal l’esatto riconoscimento dei luoghi percorsi, la possibilità di riflettere su quale “immagine di città” Jeanneret abbia voluto portare con sé. Certamente distante dalla volontà di comprensione, del carattere mediterraneo della forma urbis napoletana, che come sostenuto da Cacciari, racconta forse del significato più profondo della città, del suo Kunstwollen, della sua volontà di forma come espressione del
62
suo più profondo contenuto culturale ed artistico, Jeanneret di Napoli esalta invece la straordinaria geografia attraverso i noti schizzi del suo golfo orientale e di quello occidentale: paesaggi che legge ancora una volta come composizione orizzontale e verticale di volumi sotto la luce. Il giovane Jeanneret, ancora rapito dalla linee nette della classicità greca, non ritrova a Napoli il carattere mediterraneo che ha imparato a decodificare e che invoca nostalgico nei suoi appunti e nelle sue lettere; ma, come la sequenza dei suoi schizzi racconta, di Napoli coglie il carattere frammentario, l’alternanza tra l’ampiezza dei paesaggi che ne disegnano il golfo, l’inaspettata monumentalità diffusa e la maestria nei dettagli della sua mediterranea architettura senza architetti, fino a dir di essa – pur se ormai lontano dalla magistrale sempli cità della Turchia e della Grecia, pur se già molto al Nord – (…) e malgrado io sia distrutto. Napo li è una cosa riuscita. O. F.
Sommario dei fascicoli pubblicati
N. 1. Le «Nuove Iconi» e la «civiltà del consumo» - Architettura utopistica - La sociologia dell’arte dei sociologi - Esperienze della Biennale - Tecnologia e poetiche contemporanee - Nouveau roman e arti figurative - Il Gaudi di Pane (fascicolo esaurito) N. 2. Design e mass media - Gestalt prima e dopo - L’estetica neonaturalistica di Romanell - Della Pop Art e di una mostra a Vienna - La poetica urbanistica di Lynch - Semantica dell’arte - Architettura come linguaggio (fascicolo esaurito) N. 3. Architettura e cultura di massa - Alcuni temi dell’Informale - Kunstwollen e intenzionalità in E. Panofsky - Dal pragmatismo alla fenomenologia - Libri, riviste e mostre N. 4. La critica discorde - S.K. Langer, L’influenza sociale del design - T. Munro, Recenti sviluppi dell’estetica in America - G. Veronesi, Sull’architettura del secolo - L. Vinca Masini, Le mostre dell’estate ’65 - Libri, riviste e mostre N. 5. I criteri di valutazione dell’arte contemporanea - Una politica culturale per i socialisti - Il visual design - Pareri sulla IX Quadriennale - Libri, riviste e mostre N. 6. Il disegno di architettura - J.P. Hodin, Esiste un’estetica dell’arte moderna? - Alcune voci dell’urbanistica contemporanea - Breve antologia delle ultime Biennali - Libri, riviste e mostre N. 7. Note per una semiologia figurativa - W. Hofmann, Gli inizi dell’attività formale - E. Garroni, 33a Biennale di Venezia: «jeu» e «sérieux» - Libri, riviste e mostre N. 8. Artisticità dei mass media - B. Jessup, Arte e storia - Il design scientifico di Alexander - Incontri di studi urbanistici - Libri, riviste e mostre N. 9. Il pensiero estetico di Adorno - 4 artisti scelti da Barilli - A. Vivas, Filosofia della cultura, estetica e critica: alcuni problemi - Libri, riviste e mostre
63
N. 10. Il premio IN/ARCH alla nostra rivista - R. Barthes, Semiologia e urbanistica - Nuove idee per la Gescal - Il metodo scientifico nella pianificazione - G. Veronesi, Su alcune mostre dell’estate italiana - Libri, riviste e mostre N. 11. G. Morpurgo-Tagliabue, L’arte è linguaggio? - Urbanistica e arti visive oggi - Valori ed obiettivi nella pianificazione - Libri, riviste e mostre N. 12. Tre contributi alla semiologia architettonica - E. Garroni, L’eterogeneità dell’oggetto estetico - V. Corbi, Questioni di estetica empirica - A. Perez, Riflessioni di uno scultore sul tema dello spazio - Libri, riviste e mostre N. 13. L’«environmental design» e il suo insegnamento - Per una teoria dell’architettura - L’estetica del «pensiero negativo» in Marcuse - Libri, riviste e mostre N. 14. La prossemica: un nuovo apporto all’architettura? - La poetica del l’arte povera - Note sull’Università e la professione - O. Ferrari, Una Biennale rimasta senza giudizio - Libri, riviste e mostre N. 15. I problemi dell’istruzione artistica - R. Segre, Presenza di Cuba nella cultura architettonica contemporanea - Architettura fra retorica e logica Libri, riviste e mostre N. 16. Significanti e significati della Rotonda palladiana - G. Dorfles, Valori iconologici e semiotici in architettura - Attualità della retorica - Libri, riviste e mostre N. 17. Il centro della città (definizioni) - M. Tafuri, Ambiguità del Guarini - Lettura storico-semiologica di Palmanova - Libri, riviste e mostre N. 18. L’architettura per l’Università - E. Garroni, Semiologia e architettura. Alcuni problemi teorico-applicativi - Recenti contributi allo studio dell’«environmental design» - Libri, riviste e mostre N. 19. Segni e simboli del tempietto di Bramante - Note sull’immaginario in Filarete - Philip Johnson: la funzione della maschera formale - Biennale/ricerca - Libri, riviste e mostre N. 20. Utilità storiografica di una dicotomia linguistica - Meaning in Architecture - La cultura di Le Corbusier - New Towns (definizioni) - Libri, riviste e mostre N. 21. Note per una epistemologia della rappresentazione visiva - G. Bonsiepe, Panorama del disegno industriale - Per una poetica del profondo: Blaue Reiter - Libri, riviste e mostre
64
N. 22. Nomi, luoghi, immagini di città nella «Recherche» di Proust - U. Eco, Analisi componenziale di un segno architettonico - Percezione ed esperienza estetica - Libri, riviste e mostre
N. 23. La «riduzione» culturale - Libri, riviste e mostre N. 24. «Arquitectura, historia y teoria de los signos» - Note di terminologia semiotica - Il design: processo e fruizione - Il «silenzio» dell’architettura contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 25. Note sull’arte concettuale - L. Benevolo, La recente storiografia della città - Lo storicismo e i confini della semiologia - Città-pubblicità: sul caso Las Vegas - Libri, riviste e mostre N. 26. La «riduzione» culturale nella progettazione architettonica - R. Barilli, Le due anime del concettuale - G. Morpurgo-Tagliabue, Commento alla «riduzione» culturale - L’antidesign - Libri, riviste e mostre N. 27. Altri aspetti della «riduzione» culturale - Interventi: G. Dorfles, Riduzione ad oggetto, riduzione a progetto - P. Fossati, Riduzione o trasformazione? - T. Llorens, Sul concetto di comunicazione estetica - Libri, riviste e mostre N. 28. Elementi semiotico-progettuali d’architettura - M. Krampen, Dalla semiologia della comunicazione alla logica degli strumenti - Libri, riviste e mostre N. 29. Per una lettura semiotica della prospettiva - Elementi di una tendenza dell’architettura italiana - XV Triennale - Libri, riviste e mostre N. 30. Problemi di semiotica dell’arte contemporanea - B. Zevi, Sei postille su «Il linguaggio moderno dell’architettura» - Alcune opinioni sull’iperrealismo - Libri, riviste e mostre N. 31. Elementi della progettazione scientifica - Il segno indefinito della semiologia urbanistica - Note sulla cultura a «mosaico» - Arbitrarietà e motivazione del linguaggio architettonico - Libri, riviste e mostre N. 32. L’eccentrismo, un momento della avanguardia sovietica - U. Eco, Chi ha paura del cannocchiale? - Nota sul segno urbanistico - I segni e le «figure» del Padiglione di Barcellona - Libri, riviste e mostre N. 33. Architettura come istituzione - Il «ritorno» alla pittura - Università: le parole e le cose - Libri, riviste e mostre N. 34. Dall’estetica alla semiologia - La teoria di Hjelmslev e l’architettura: alcuni problemi - Il «realismo» di Giuseppe Samonà - Libri, riviste e mostre N. 35. Attualità dell’iconologia: alcune questioni metodologiche - R. Barilli, Difficoltà di un approccio semiotico alla culturologia - L’editoria architettonica - Libri, riviste e mostre N. 36. I centri storici nella prospettiva semiologica - Le idee di teatro, oggi - Una riproposta del «multiplo» - Libri, riviste e mostre
65
N. 37. Dialettica del «piacere» e identità dell’architettura - Assenza-presenza: due modelli per l’architettura - La «storia dell’arte» nelle scuole - Libri, riviste e mostre N. 38. Le ricerche di architettura più attuali ed insolite - Dalla fotografia al videotape - Analisi di un corso di laurea: il Dams - Libri, riviste e mostre N. 39. La sociologia del gusto di Jean Baudrillard - Le posizioni di […] su alcuni temi della critica architettonica in Italia - Libri, riviste e mostre N. 40. «Aforismi» sui centri storici - Note sulla simmetria in architettura Bataille e la “svolta” di «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 41. Dipartimento e «architettura» - La «rappresentazione» tra storia del teatro e semiotica - La critica d’arte in «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 42. L’idea di pittura in Lévi-Strauss - Sul concetto di gusto - Alcuni contributi alla critica dell’inconscio - Libri, riviste e mostre N. 43. La post-avanguardia - Luoghi e luoghi comuni della recente critica d’arte - Narciso e «l’altro»: note sul dibattito architettonico - Libri, riviste e mostre N. 44. Architettura: la «rimozione del nuovo» - Ipotesi per il segno iconico - Storia dell’arte, storia delle cose - Libri, riviste e mostre N. 45. Topologia e architettura - La casa: norma e «deroga» - Artisti e cinema - Libri, riviste e mostre N. 46. I quindici anni della nostra rivista - L’Architettura all’Ecole des Beaux-Arts - La Storia dell’arte Einaudi - Una griglia che non sia una grata N. 47. Architetto e ingegnere - Le scuole di critica d’arte in Italia - L’immaginario nella cultura di massa - Libri, riviste e mostre N. 48. Prima e dopo il Post-Modernism - L’iconizzazione del mobile - Civiltà del ’700 a Napoli - Libri, riviste e mostre N. 49. Il restauro architettonico: ricchi apparati e povere idee - F. Menna, La Biennale di Venezia. Gli anni settanta: questi (mi)sconosciuti - Critica d’arte e processi produttivi - Libri, riviste e mostre N. 50. Fortuna critica della «Tendenza» - R. Bonelli, Storiografia e restauro - La fotografia: indice o icona? - Libri, riviste e mostre N. 51. Classicismo e razionalismo in J.N.L. Durand - Modelli interpretativi delle tendenze artistiche odierne - Architettura come testo - Libri, riviste e mostre
66
N. 52. L’espressione «Movimento Moderno» - Indagine su Carlo - Note sulla Transavanguardia - Libri, riviste e mostre
N. 53. Il design tra «radicale» e «commerciale» - Dalla «ruminazione» dei guerrieri greci all’«insonnia» dell’estate romana - Fortuna degli slogans Libri, riviste e mostre N. 54. Disincantamento e restaurazione - Lutyens fra storia e critica - Il Bauhaus e il teatro tedesco - Libri, riviste e mostre N. 55. Continuità e Protorazionalismo - Se questo è un quadro allora non è un quadro - Gli oggetti di domani - Design come motto di spirito - Libri, riviste e mostre N. 56. Dall’America. Warhol e Kosuth - Il design dell’«altra avanguardia» - L’International Style cinquant’anni dopo - Libri, riviste e mostre N. 57. Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58. E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59. Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60. Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61. Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62. Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63. Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64. Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65. Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre N. 66. Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre N. 67. Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre
67
N. 68. Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69. Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70. Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71. Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72. Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73. Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74. Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75. Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76. I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre N. 77. Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre N. 78. L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79. Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80. Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81. Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82. Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre
68
N. 83. Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre
N. 84. Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85. Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86. Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87. Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88. L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89. Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90. L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91. «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92. Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93. La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94. Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95. Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96. Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97. Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98. Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99. Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre
69
N. 100. Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101. Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102. Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103. Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104. La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105. L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106. Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107. Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108. Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109. Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110. Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111. Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112. Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113. Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114. L’architettura italo-europea (fascicolo monografico)
70
N. 115. L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre
N. 116. Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117. Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118. Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119. L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120. Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121. La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122. L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123. Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125. Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126. L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127. Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128. Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129. Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
71
N. 131. Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132. Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133. Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134. Abitare la razionalità - Per una nuova classificazione delle arti - Il design aeronautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135. Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137. Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138. Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 139. Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
72
N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
Le pagine dell’ADI Associazione per il disegno industriale a cura di Maria Antonietta Sbordone e Dario Moretti
I tempi cambiano: inseguirli o precederli? Fregiarsi, con orgoglio e con giustificati motivi, del titolo di “più autorevole e più antico premio di design” non solo d’Italia, ma probabilmente del mondo, è per il Compasso d’Oro una questione di brand oltre che un dato storico inoppugnabile. E tuttavia, mentre la storia resta fissata negli annali, i brand invecchiano, i format migliori – per le iniziative culturali come per le trasmissioni televisive – quando hanno un lungo successo devono affrontare il complicato compito di rinnovarsi restando fedeli a se stessi. Da un lato devono fare i conti con la propria identità, con le proprie regole e con la visione del mondo (sia pure del mondo relativamente ristretto della cultura del progetto) che cercano di promuovere; dall’altro devono tutelare i valori per cui sono nati e cercare di riformularli con coerenza rispetto a un mondo esterno che cambia. Condizione indispensabile per continuare ad avere senso. La rapidità di adattamento è essenziale, per non perdere la presa sulla realtà; ma avere il tempo di riflettere è altrettanto essenziale per non disperdere il patrimonio accumulato in oltre mezzo secolo di attività ai massimi livelli (per “non buttar via l’acqua sporca con il bambino dentro”, si sarebbe detto anni fa, con un’immagine un po’ trucida dell’igiene familiare oggi resa improponibile dal consolidato comfort dell’arredo bagno, che si rivolge anche ai più piccini). Proseguiamo in questo numero di “Op. Cit.” la panoramica sui modi in cui cambia il Premio Compasso d’Oro ADI: dopo le ragioni di principio cui è stata dedicata questa sezione nel numero scorso, è il momento di analizzare in concreto le caratteristiche con cui
il sistema ADI Design Index/Premio Compasso d’Oro informa il pubblico sull’evoluzione del design contemporaneo in Italia. La sfida, va da sé, ha le caratteristiche di quella che agita oggi tutta l’editoria nel mondo e nel nostro paese: la progressiva conquista del terreno dei media da parte del digitale, l’apertura della prospettiva grandiosa (o pericolosa?) di un pubblico imprevedibilmente vasto, ma che si accosta all’informazione in modi molteplici, inattesi, a volte addirittura sorprendenti. Un pubblico sempre più diverso da quello cui si era – forse pigramente – assuefatto chi finora l’informazione, specializzata e non, l’ha creata e trasmessa. ADI cerca di esplorare questo terreno anche con incontri dedicati specificamente al tema dell’editoria (Design da leggere, gli incontri milanesi a cura del Dipartimento Generale e del suo coordinatore Vanni Pasca, che dal gennaio 2012 vedono la presentazione di libri e riviste di design da parte di autori e direttori [cfr. http://www.adi-design.org/blog/design-da-leggere.html]). Non poteva perciò non pensare anche al sistema di comunicazione collegato con il Premio Compasso d’Oro. In questo senso la nuova linea assunta da ADI Design Index 2011 è un primo sondaggio, da cui l’associazione si attende riscontri importanti. Per illustrarla pubblichiamo un intervento della curatrice di ADI Design Index, Maria Cristina Tommasini, per la quale, per ragioni di profonda esperienza professionale, il tema della comunicazione non poteva non essere centrale; e un contributo, analogo ad altri pubblicati in precedenza su queste pagine, di un premiato del Compasso d’Oro. Questa volta si tratta di un giovane premiato, Marco Fagioli a nome di ZUP Design, lo studio di Perugia vincitore alla XXII edizione del premio e cooptato dall’ADI, sulla base di un concorso a inviti, per elaborare il progetto editoriale e grafico dell’Index. Dal progetto è nato (come si direbbe nel mondo virtuale) un avatar dell’Index: un sito che ne amplia i contenuti proponendoli in modo diverso, con una modalità di fruizione diversa. Completiamo il panorama riproponendo qui una conversazione della stessa Maria Cristina Tommasini con Enzo Mari (passando dai giovani ai padri fondatori del design italiano), tutt’altro che tenera, com’è nel personaggio, nei confronti del Compasso d’Oro come istituzione, ma cui vorremmo attribuire il valore di esempio di come sia possibile, oggi e nel
prossimo futuro più o meno digitale, un discorso profondo e sensato sul design: un’informazione che si dimostri critica contrapposta a una – oggi onnipresente – comunicazione, che si giustifica esclusivamente con le ragioni dell’efficienza.
Maria Cristina Tommasini Un sistema per ricordare e discutere: archivi e la democratizzazione del sapere L’edizione 2011 dell’ADI Design Index ha aperto il ciclo triennale che porterà alla XXIII edizione del Premio Compasso d’Oro ADI. Il rodato meccanismo che governa i lavori dell’Osservatorio permanente del Design si conclude ogni anno con la redazione di un volume che raccoglie il meglio del design italiano nelle sue diverse espressioni. Essendo frutto di un lavoro collettivo che coinvolge circa 150 esperti di ogni settore, l’Index ha sempre avuto una sua originalità, che lo connota a livello nazionale e lo rende unico in campo internazionale, se paragonato a pubblicazioni legate ad altri premi di design. Con le innovazioni introdotte nell’ultima edizione del volume, ADI Design Index ha acquistato una maggiore capacità divulgativa, associando ai contenuti della versione cartacea le informazioni disponibili sul sito creato ad hoc, accessibile direttamente attraverso i QRC presenti nelle pagine del volume, o collegandosi in rete. I due media (libro-sito), uniti secondo una prassi sempre più frequente, garantiscono una potenzialità informativa che appartiene a un sapere condiviso, che si alimenta e cresce online, come ricordato nelle pagine dell’ADI Design Index 2011: “Alcune delle ricerche più interessanti nel campo della ‘democratizzazione del sapere’ riguardano gli archivi e la mappatura dei fenomeni culturali attraverso l’uso degli strumenti informatici (si vedano al riguardo gli studi di Jeffrey Schnapp). L’accesso a grandi repertori (specie se ‘ragionati’, cioè frutto di un lavoro di selezione, come l’ADI Design Index) dà a ciascuno la possibilità di costruire il proprio percorso di conoscenza e approfondimento su basi ‘certificate’ ”. La grande libertà (di accesso, giudizio, approfondimento, cri-
tica) implicita nella rete, di cui è impossibile oramai fare a meno, rende tuttavia imprecisati i contorni e i limiti di ciò che si può apprendere e condividere. Contenuti potenzialmente aggiornabili all’infinito, e all’infinito riscritti, entusiasmano e al tempo stesso spaventano, perché gli eventuali errori assumono una velocità di divulgazione impressionante. Cattivi maestri e cattivi libri hanno sempre fatto parte del percorso di apprendimento, ma gli anticorpi dei buoni insegnamenti, e delle informazioni corrette, li possono neutralizzare, o perlomeno confutare. Scriveva George Orwell in 1984: “Non appena tutte le correzioni che si rendevano necessarie a ogni numero del Times erano state messe insieme e verificate, quel numero veniva ristampato di nuovo, la copia originale distrutta, e la copia corretta veniva collocata nelle collezioni al suo luogo. Tale processo di continua trasformazione era applicato non soltanto ai giornali, ma ai libri, ai periodici, agli opuscoli, ai manifesti, alle circolari, ai film, alle colonne sonore, alle illustrazioni, alle vignette umoristiche, alle fotografie… a qualsiasi genere di roba stampata e comunque documentata che potesse avere un significato politico o ideologico. Giorno per giorno, minuto per minuto, si può dire, il passato veniva messo al corrente” (trad. it. di Gabriele Bandini, Milano, Mondadori, 1973, p. 63). Lo scenario desolato e desolante in cui si muove Winston Smith, impiegato del Ministero della Verità, non è certo il nostro, ma la capacità di George Orwell di descrivere un mondo governato dal Grande Fratello sorprende e inquieta, perché molte delle sue premonizioni si sono avverate. E sono vissute come aspetti normali del nostro quotidiano: mentre scrivo queste righe, ho consultato il catalogo della Library of Congress, utilizzando le potenzialità positive del mondo globalizzato e connesso che Orwell ha immaginato. L’infinita disponibilità di informazioni rende tuttavia ancora più pressante la necessità di verificare la loro correttezza, così come è indispensabile il ricorso a strumenti che aiutino a orientarsi nell’abbondanza di dati e suggerimenti. Il processo attraverso il quale si acquisiscono le informazioni è conoscenza. Da sempre e ora più che mai. Il sistema costituito dall’ADI Design Index e dal suo sito aspira a essere parte di questo percorso virtuoso.
Il codice QR (acronimo di Quick Response, “codice a risposta rapida”), che è diventato il segno distintivo della grafica di ADI Design Index 2011, è il collegamento tra la carta e il digitale: fotografato con un comune smartphone e interpretato da un software adeguato, può essere usato per accedere immediatamente, sullo stesso smartphone, alla pagina di un sito web. Qui è riprodotto il codice che porta alla home page in italiano del sito dell’ADI Design Index: www.adidesignindex.com/it. Ogni prodotto illustrato sulla carta è accompagnato da un codice QR che conduce il lettore direttamente alla scheda online dello stesso oggetto.
Un Compasso d’Oro che guarda al futuro Per ZUP Design, XXII Premio Compasso d’Oro (2011) per il progetto di identità e comunicazione dell’evento Multiverso. Icograda design Week Torino 2008, risponde Marco Fagioli, che condivide l’attività dello studio con Lucia Roscini e Andrea Medri. Come avete conosciuto il Compasso d’Oro? Personalmente ho conosciuto il premio Compasso d’Oro sui banchi di scuola, all’Istituto d’Arte di Perugia. Ho avuto la fortuna di avere come insegnante il prof. Marcello Pennacchi, un eccellente xilografo di Assisi, che durante una lezione di progettazione ci parlò dei progetti di Max Huber e tra le varie cose ci disse che aveva vinto il Compasso d’Oro. Quali altri premi internazionali di design conoscete? Vado a memoria e con grande probabilità ne tralascio qualcuno importante: European Design Awards, D&D Awards, Good Design Awards, RedDot Design Award, Worldwide Logo Design Award.
Qual è secondo voi la differenza tra gli altri premi internazionali e il Compasso d’Oro? È difficile trovare delle differenze assolute, mi sento solamente di dire che il Compasso d’Oro ha, per diversi motivi, un grande fascino, in Umbria si dice: è un premio serio. Sicuramente sono condizionato dal fatto di essere italiano ma gran parte dei designer che hanno vinto questo premio sono stati e sono ancora dei punti di riferimento assoluto per tanti della mia generazione. Questo premio mi ha sempre comunicato qualità, sia perché a differenza di altri premi la fase di preselezione è gratuita e quindi non legata a fini economici, sia per il lavoro svolto dall’Osservatorio permanente del Design dell’ADI, che trovo di fondamentale importanza. A che punto della vostra carriera professionale avete pensato di poter partecipare a un premio di questo livello? Non ci abbiamo mai pensato. Siamo stati selezionati quattro volte nell’ADI Design Index, tre per progetti di grafica e una per un progetto di industrial design, e tutte le selezioni sono dovute al fatto che l’Osservatorio permanente ADI ha segnalato i nostri progetti. Affrontiamo ogni lavoro, anche piccolo, come se fosse il progetto più importante dell’universo e siamo molto critici verso quello che facciamo. Per questi motivi sono sicuro che non avremmo mai trovato il progetto “perfetto” da candidare. C’è stato un momento nel corso della realizzazione del prodotto che poi è stato premiato in cui avete pensato che potesse ricevere il Compasso d’Oro? Sinceramente no. Eravamo concentrati, preoccupati e anche stimolati dalla committenza, che da sola bastava a creare una certa pressione psicologica. Mettere in piedi un progetto di identità visiva e comunicazione per due associazioni di grafici (AIAP e ICOGRADA) non è semplicissimo, il livello di attenzione è molto alto e non sfuggono nemmeno i particolari più insignificanti. Vincere il Compasso d’Oro era l’ultima delle nostre preoccupazioni.
La copertina di ADI Design Index 2011 e, in alto, l’home page del sito che da questa edizione lo accompagna e lo amplia.
80 fondo giallino pagine ADI
Che cosa cambiereste nel meccanismo del premio per renderlo più adatto agli sviluppi del design nel prossimo futuro? Domanda difficile e insidiosa, non è facile dire cosa cambierei nei meccanismi di un premio istituito nel 1954 e cresciuto in modo esponenziale; ci provo, spero senza presunzione. Parto dal presente: andrebbe creata una distinzione netta tra i selezionati ADI Design Index e i vincitori del Compasso d’Oro, l’utilizzo dello stesso marchio nella comunicazione delle aziende e dei designer, anche se con una declinazione diversa, crea confusione. Ci è capitato di seguire aziende con prodotti selezionati ADI Design Index e mi ha dato sempre molto fastidio che alcune tentassero di far passare il fatto di essere selezionati con il riconoscimento del premio: sono due cose completamente diverse! Non so bene perché, ma sono abbastanza contrario all’autocandidatura, è molto affascinante pensare che solamente l’Osservatorio permanente possa proporre i progetti, mi fa immaginare che della gente giri tutto il giorno affamata alla ricerca di prodotti eccellenti. Per il futuro penso sia importante alzare la qualità dei progetti premiati con la Targa Giovani, magari coinvolgendo e stimolando molte più scuole di design. Come pensate che l’impostazione del vostro progetto per ADI design Index 2011 influirà sulla fisionomia del Premio? Mi auguro che il nostro progetto per ADI Design Index 2011 non influisca sulla fisionomia del premio, ci piace così com’è. Ci auguriamo che il nostro progetto possa creare delle provocazioni per aprire la strada a una partecipazione più collettiva al disegno industriale, e che attraverso una maggiore interazione porti a far discutere nuovamente di contenuti e meno di forma. Idee e progetti per difendere un sogno Conversazione con Enzo Mari di Maria Cristina Tommasini Esistono 25 modi per piantare un chiodo1. Il titolo dell’auto E. Mari, Venticinque modi per piantare un chiodo, Milano, Mondadori, 2011. 1
biografia di Enzo Mari è una sorta di postulato, formulato quando era ancora studente a Brera, che sintetizza un modo di operare, nell’arte e nel design, di un uomo che è rimasto sempre coerente a se stesso. Enzo Mari è stato protagonista, insieme a pochi altri, di una stagione felice del design italiano, di cui si considera l’unico sopravvissuto. La passione con la quale parla di design assume spesso toni ossessivi, “politicamente scorretti”, che ai più risultano irritanti. Tuttavia, come non riconoscere la genialità di tante sue opere? L’incontro avviene a poche settimane dal conferimento del Compasso d’Oro alla carriera (il quinto, i quattro precedenti erano stati assegnati per la ricerca e per il prodotto)2. La conversazione prende spunto da un articolo di Zygmunt Bauman, sui disordini scoppiati in agosto in Gran Bretagna, e i relativi saccheggi “[…] Oggi siamo tutti consumatori, innanzitutto e soprattutto consumatori, consumatori per diritto e per dovere […]. È il livello della nostra attività di acquirenti e la facilità con cui ci sbarazziamo di un oggetto di consumo per sostituirlo con una versione più ‘nuova e aggiornata’ a fissare i parametri fondamentali del nostro status sociale e il nostro punteggio nella corsa al successo. […] Per i consumatori senza accesso al mercato, i veri poveri di oggi, il non poter acquistare è lo stigma odioso e doloroso di una vita incompiuta”3. Sembra arrivato il momento della severità. Serve un progetto per tutti i paesi occidentali e per l’Italia in particolare. Chi è parte del mondo della merce, e il designer è uno degli attori del processo, che cosa può o deve fare? Dobbiamo avviarci a una decrescita consapevole come sostiene l’economista Serge Latouche? È difficile iniziare da questo, anche se sono le cose che sto dicendo da una vita, molto prima che la crisi facesse riflettere le 2 Mari ha ricevuto il primo Compasso d’Oro nel 1967 per le “Ricerche individuali di design”. Nel 1979 è stato premiato per la sedia Delfina, nel 1987 per la sedia Tondetta e nel 2001 per il tavolo Legato. 3 Z. Bauman, Quei figli umiliati del consumo all’assalto delle nuove cattedrali, “Corriere della Sera”, 11 agosto 2011.
persone. Le manifestazioni di malessere di cui parla l’articolo di Bauman possono portare a situazioni molto peggiori. Abbiamo l’esperienza della nascita del nazismo: in una Germania distrutta dalle conseguenze della sconfitta nella prima guerra mondiale, la disperazione cosmica in cui era piombata la popolazione portò la gente ad acclamare la prima persona che prese in mano la situazione… senza capire a che cosa si andava incontro. Oggi la crisi è inarrestabile, questo mondo è finito. Occorre non tanto una crescita zero, ma una decrescita. Pesante. Non di colpo, perché correremmo i rischi di cui sopra. Sin dai primi anni Sessanta, quando ho incominciato a occuparmi di design, mi sono chiesto: “Perché devo fare questo lavoro?”. Uno che produce le sedie o biciclette deve essere in grado di fare una forma giusta, una forma bella, come gli artigiani antichi sapevano fare. Poi illudendomi, partendo dal presupposto che la vera conoscenza, quella di qualità più alta, per tutti gli uomini nasce dal lavoro, dalle contraddizioni del lavoro, mi sono detto: “Forse si può portare una buona novella, forse si può influire in questo processo”. Perché dico che la crisi è inarrestabile? Perché per circa cinquant’anni ho lavorato nella stanza dei bottoni, dove si decide la merce. Naturalmente, non dicendo: “La merce è bella, facciamola!”. Oppure: “È poco bella, ma il nostro ruolo è questo”. No, ribellandomi in continuazione. Neppure ho fatto il rivoluzionario massimalista che dice: “Mi rifiuto, mi ritiro!”. Ho cercato invece di attuare, nel limite del possibile, piccole cose concrete, che potessero essere un esempio positivo. Sin dai primissimi anni, mi è stata riconosciuta la qualità delle cose che facevo. Sono sempre stato sbeffeggiato sulle ragioni teoriche. Se non ci fosse la Triennale, se non si pubblicassero libri e riviste, se non ci fossero dipartimenti di design, se non si facessero mostre, se non ci fosse il designer che si pone come autore, io del design non direi nulla, non mi arrabbierei. Parliamo dell’oggetto firmato: negli ultimi trent’anni, posso aver individuato al massimo uno o due oggetti con una qualche caratteristica di firma, su trecentomila nuovi progetti! Sono tutte ripetizioni. La firma è inutile, tanto è vero che l’industria stessa dà scarsa importanza alla qualità del progetto.
Nella storia del design ci sono stati pochi momenti chiave: William Morris, permeato dal gusto della sua epoca, scrive un libro – News from Nowhere, “Notizie da Nessun Luogo” – in cui descrive bene la figura del designer, di quello che dovrebbe essere. Poi c’è stato il sogno del Bauhaus, non più di dieci persone tra architetti, artisti e imprenditori. E poi c’è stato lo scoppio del design italiano, alla fine degli anni Cinquanta. E lì io c’ero, ero giovane, ero considerato da quelli più vecchi, da quei quattro cinque più vecchi, il giovane più promettente. Cos’erano Morris e il Bauhaus? Morris era sostanzialmente un socialista, un utopista. Gli altri perseguivano il sogno del marxismo, erano comunisti. Il Movimento Moderno è stato fatto da comunisti, dico comunisti tra virgolette, con sfumature varie più o meno rosse. Pure gli italiani, io pure. Il design non era: “Facciamo una cosa per il mercato”. Ma: “Facciamo una cosa che sia giusta, che non passi di moda, che sia perfetta, che utilizzi tecnologie attuali, che gli operai siano contenti di realizzare, un modello, un’ipotesi di cambiamento”. Perché l’industria oggi ha bisogno dei designer? Perché la forma implica una riflessione globale sul fare l’oggetto. Io lo faccio da sempre, continuo a parlare di questo, ma inutilmente. In tutti i miei progetti in qualche modo ho fatto finta di essere io l’imprenditore. Mi aspetto che in questo rapporto, nel quale i privilegi stanno da una sola parte, l’imprenditore lavori appassionatamente, capisca. I miei progetti migliori sono stati quelli in cui, rispetto a un cento per cento di utopia contenuta nel progetto – che già io censuro al cinquanta per cento perché né l’imprenditore né gli acquirenti capirebbero – l’imprenditore ha fatto proprio un cinque per cento. Quando questo è stato possibile, il progetto è venuto bene, o quasi bene. Che cosa è il design? È un’attività intellettuale, come quella di Michelangelo o Galileo? Tutte le grandi opere dell’uomo, letteratura, musica, architettura portano in sé il valore etico. Tutte le grandi opere di filosofia,
di musica sono una reazione alla banalità, sono la negazione del blabla. In partenza, tutti i rapporti sono sociali. Le persone vivono più o meno felicemente se in un qualche modo s’illudono di modificare le loro condizioni sociali. La conoscenza sicura è quella basata sul lavoro fatto con un minimo di passione. La colpa più grande del Sessantotto non sono stati gli anni di piombo, ma l’aver affermato che il lavoro è solo alienazione. Invece il lavoro è conoscenza. Tutti i miei progetti sono modelli per capire qualcosa, un qualche dettaglio. Ora invece sventola la bandiera della creatività… Crede ancora che si possa migliorare l’industria operando all’interno del processo di produzione della merce? Un operaio cinese guadagna cento volte meno di un operaio italiano. Ormai si è visto che oggi, nell’arco di una generazione, un paese sottosviluppato, grazie al diffondersi delle informazioni, può acquisire tutta la tecnologia necessaria a vincere al più alto livello, la capacità di vincere il Premio Nobel. Quando dico che la crisi è appena cominciata, dico esattamente questo. La Cina è in grado in questo momento di produrre tutto ciò che vuole. Siccome il meccanismo del potere è duro e uguale in tutto il mondo, anche lì si preferisce continuare a utilizzare la manodopera a basso costo, anche se ci sono avvisaglie di cambiamenti. Una delle ragioni per cui il design si è sviluppato in Italia e non in Germania, o in Inghilterra – dove c’erano scuole, una tradizione, un’economia più potente – si deve al fatto che negli anni Cinquanta-Sessanta gli italiani erano i cinesi d’Europa. I giornali internazionali guardavano l’Italia con un certo disprezzo. Ma ecco che, prima del design e della moda, salta fuori il Neorealismo, con film importanti e subito riconosciuti a livello mondiale. Due o tre anni dopo scoppia il design. Quando oggi guardo alla Cina, vedo che i cinesi hanno già messo in piedi un’industria cinematografica capace di fare dei bellissimi film, e lo stesso vale per gli artisti cinesi, apprezzati in tutto il mondo. Non è difficile ipotizzare il resto. La gente s’immagina una crisi con un po’ di ricchezza in meno. No, sarà un meno molto pesante. Tutti quelli che ar-
rivano a Lampedusa, o prima dall’Albania, non vengono perché sognano di diventare Berlusconi, ma perché sperano di guadagnare mille euro il mese. Quale futuro immagina per i giovani? Proviamo a dire cosa dovrebbero fare i giovani: in primo luogo, i contadini. Il contadino è un bellissimo lavoro di progetto. Ogni giorno c’è qualcosa da affrontare: la grandine, la rotazione delle colture… A parte il fatto che i contadini hanno inventato la numerazione. E la geometria. Ma io dico anche: “Andate a fare gli imprenditori. Accettate di essere parte di un ufficio tecnico, di entrare nell’industria, di essere operai”. Quando sento i giovani dire che manca il lavoro, ricordo che gli imprenditori della Brianza negli ultimi due anni hanno pubblicato più volte sui giornali: “Cercansi 700 falegnami”. Nessuno si è presentato! Perché nessuno lo sa fare o ha voglia di imparare? Perché tutti hanno l’illusione di laurearsi in “berlusconite”. Deve sparire la creatività sul mercato! Occorre progettare per l’uomo, se lavora. Che cosa dovrebbe fare oggi un giovane designer? Accettare di assumere un ruolo tecnico. Avevo un bravissimo collaboratore che era stato un mio allievo. Era così bravo che un cliente me l’ha portato via, pagandolo il doppio, il triplo. A sua volta un altro imprenditore, dopo sette mesi l’ha assunto togliendolo al precedente, raddoppiando il compenso. Io gli dicevo: “Torna in studio, diventa socio”, perché avevo bisogno di una persona come lui, molto concreta. Ma lui mi ha detto: “No, ho deciso, non voglio progettare sciocchezze. Preferisco esprimere la qualità del mio lavoro costruendo le sciocchezze degli altri”. Ma chi può aiutare i giovani a uscire da questa logica? Spesso si rimprovera alla generazione dei padri di non aver insegnato. A me nessuno ha insegnato nulla. È vero che ci sono i
maestri che hanno fatto le grandi opere, ma il testimonio passa da grande opera a grande opera. Noi invece siamo completamente immersi nella cultura dell’ignoranza. In qualche modo però bisogna sporcarsi le mani. Sì, sono d’accordo, bisogna sporcarsi le mani. Credo di essere la persona che ha trascorso più tempo a domandarsi che cazzo di lavoro è questo. Sono nella condizione di non poter andare da nessuno a chiedere qualche input sul design. Se dobbiamo parlare di questo lavoro, devono essere chiare alcune coordinate. Cominciamo a stabilire delle regole e poi, all’interno di queste regole, ognuno abbia qualche riferimento di conoscenza per fare bene il proprio lavoro, se ha voglia di farlo bene. Io stesso, rispetto a quello che mi era chiaro, e a quello che dovevo accettare, ho fatto molti compromessi, sono costretto ancora oggi a farne. Non posso immaginare che esista un’altra società, ma posso cercare un filo rosso di riferimento in questa società in cui si sentono tutto e il contrario di tutto. Parlo di etica. L’etica è la morale collettiva, che sta sopra la morale familiare. Dopo di che accetto di dover fare dei compromessi, ma intanto incominciamo a stabilire che cosa è l’etica. Che cosa risponde ai giovani quando le chiedono quale lavoro potrebbero fare? Se è una bella ragazza, faccia la puttana, come dice Berlusconi. Se è un ragazzo, s’iscriva a una palestra di arti marziali e faccia la guardia del corpo. Il futuro nei prossimi venti-trent’anni sarà nei castelli dei ricchi, nelle città murate. Sto pensando che potrebbe essere positiva l’autarchia. Intendo che ogni paese produce per sé, per i propri bisogni, senza essere stravolto dal mercato globale. E penso ad alcuni lavori sui quali puntare: bravi insegnanti, medici e infermieri, terziario minimo, contadini, artigiani. Vuol dire che se voglio fare il designer, magari faccio il falegname, apro un negozietto sotto casa: se decido di produrre sedie, non ne posso fare tante, solo quelle che realizzo a mano, una
alla volta; perciò metto a punto un progetto di una certa sedia economica e continuo a costruirla! Se sono panettiere, forse che ogni mattina impasto un pane diverso? Bisogna uscire dall’oggetto firmato, dalla logica: “Voglio passare alla storia!” Quale ruolo dare alle associazioni professionali? Vogliamo fare un discorso su come è pagato il lavoro? Quando ero giovane, Bruno Munari, i BBPR, qualcuno di questi mi disse: “Vieni, iscriviti all’ADI”. Mi sono iscritto, cercavo di capire, ero molto ignorante. La prima volta che partecipai a un incontro, sentii cose che non mi piacevano, non mi ricordo su che cosa vertesse il discorso, ero lì e fremevo. Di fianco a me c’era un vecchio signore, sapevo che era Adriano Olivetti, ma io non osavo parlargli. Quello gira la testa, mi sorride e dice: “Se non sei d’accordo, alzati e parla”. Naturalmente quella volta non l’ho fatto, ma poi ci ho ripensato e ho cominciato a parlare… In uno degli incontri successivi è intervenuto Marcello Nizzoli; conoscevo il suo lavoro in Olivetti, ma in quell’occasione parlò del progetto di una macchina per cucire. La conversazione durò una serata intera, per più di due ore, con spiegazioni alla lavagna. È stato l’incontro che ricordo con più piacere tra quelli organizzati dall’ADI. In tutti questi anni, nonostante il mondo riconosca che io sono quasi l’unico superstite della generazione storica del design italiano, l’ADI non mi ha mai chiamato a raccontare ai soci il mio lavoro di allora. Qualche anno fa avevo proposto di tenere una conferenza per parlare del diritto d’autore e del brevetto. Vista la mia età, non sarebbero stati discorsi ingenui, da “ragazzino che sa tutto”. A chi avesse dimostrato interesse, avrei detto di fondare un gruppo di lavoro per dibattere la questione del compenso dei progettisti. Non se ne fece nulla. Quali cambiamenti vorrebbe nell’ADI? Forse bisognerebbe prendere in mano l’intera associazione. Non sto pensando a rivoluzioni assurde. I problemi della crisi sono noti, e nessuno ha in tasca la soluzione. Quindi proviamo a
capire come, più che lanciare una proposta. Nell’associazione convivono due realtà: da un lato gli imprenditori con le istituzioni, dall’altro i progettisti. Che esista un luogo comune in cui incontrarsi per discutere, per esempio di un evento culturale o del Compasso d’Oro, è corretto. Ma le due realtà devono rimanere separate, forse in sedi diverse. Solo la separazione può rendere possibile una qualche forma di dialogo, un dibattito chiaro sulle controversie. Che cosa pensa del lavoro di selezione dell’ADI Design Index? La qualità del prodotto non può essere solo la forma; esistono ovviamente altre qualità, quali la durata o la non nocività. Chi decide qual è la ricerca da fare? Un’industria accetta che il mondo dica di un suo prodotto: “Non è carino”, ma respinge le critiche se non sono argomentate e dimostrabili. Io credo nell’égalité, delle parole della Rivoluzione francese l’unica che accetto. Mi piace non perché si sia realizzata veramente, ma perché qualcosa si è ottenuto: le donne votano, i neri possono entrare in un bar… La seconda parola è guerra. Il progetto è guerra. Io sono in guerra, ma sono consapevole che in guerra un soldato da solo fa poco. Mi piacerebbe che almeno l’uno per cento delle parole che dico fossero capite, e che fossimo in due, in tre a combattere. Per questo continuo a parlare. Le ha fatto piacere ricevere il Compasso d’Oro alla carriera? Si ricorda cosa ho detto al momento della consegna? “Sono un po’ triste. Mi sembra come in fabbrica, dove ai vecchi operai, quando stanno per andare in pensione, si dà l’orologio d’oro”.
ISSN 0030-3305
Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli