Op. cit., 144, maggio 2012.

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maggio 2012

numero 144

Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi - Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli

Electa Napoli



Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Emma Labruna, Livio Sacchi Segreteria di redazione: Rosa Losito Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 081/7690783 Amministrazione: 80121 Napoli, Via dei Mille, 16 - Tel. 081/4297440 Un fascicolo separato e 9.00 (compresa IVA) - Estero e 10.00

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Electa Napoli


F. Purini, C. de Seta, A. Bassi,

Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI

Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Pasquale Belfiore, Renato De Fusco, Giovanni Menna, Sara Oliviero, Umberto Rovelli, Dario Russo, Olga Scotto

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Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 FRANCO PURINI

Dall’inizio del Novecento a circa due decenni fa il modo di leggere gli edifici da parte dei destinatari dell’architettura – il vasto pubblico territoriale-paesistico e urbano dei non addetti ai lavori, un popolo multiforme che pratica senza saperlo l’arte del flaneur e quella, benjaminiana, del perdersi nella città, oltre ad abbandonarsi alle derive psicogeografiche – era rimasto sostanzialmente uguale. L’architettura era vista come un fenomeno complesso nel quale le tre specificazioni della ratio vitruviana, la firmitas, l’utilitas e la venustas, istintivamente presenti anche in coloro i quali, non architetti, osservavano l’edificio, davano vita a un processo interpretativo. Un processo di decodificazione spesso automatico nel quale la tecnica, non temuta né sopravvalutata, la funzione del manufatto e i contenuti estetici che questo esprimeva continuavano a comporsi in un consapevole atto conoscitivo e in un conseguente giudizio di valore. Tale interpretazione si faceva ancora più profonda e ovviamente spaziotemporalmente adeguata e motivata se l’edificio era stato vissuto oltre che visto, nel senso che si era fatta un’esperienza sufficientemente lunga e intensa del suo esterno e delle sue cavità interne, toccando il massimo quando l’architettura che si stava guardando e valutando era quella più nota, ovvero la propria abitazione. Questa modalità di lettura si articolava sostanzialmente in tre ambiti. Il primo riguardava una dimensione che si potrebbe definire pedago-

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gica. Gli edifici erano infatti pensati come autentici dispositivi formativi, ovvero come veri e propri manifesti che concorrevano con la propria tendenziosità a promuovere l’idea di una città futura che cercava di realizzarsi nel presente. Ciò sia nei paesi democratici sia in quelli totalitari, tutti comunque organizzati in altrettante società di massa, che nelle democrazie erano orientate verso il consumo, mentre nelle dittature prevalevano comportamenti rituali fortemente formalizzati. Società in entrambi i casi alla ricerca di nuove mitologie urbane, grandi narrazioni capaci di alimentare il desiderio e l’immaginario della collettività. Riassumendo, attraverso la sua lettura l’architettura dichiarava una finalità dimostrativa, proponendosi come lo strumento più efficace per aumentare la possibilità degli abitanti del territorio-paesaggio e della città di essere felici. Il secondo aspetto della lettura degli edifici, protrattosi fino all’inizio degli Anni Ottanta del secolo scorso, consisteva in quella modalità che Walter Benjamin, già prima evocato, aveva chiamato la “percezione distratta”, considerata dal filosofo tedesco l’unica vera conoscenza, da parte della massa, dell’architettura, una conoscenza non riduttiva perché radicata non nel solo edificio ma nel contesto in cui l’edificio stesso è inserito. In un certo senso questa lateralità della lettura costituiva un sistema di indiretto autocontrollo. L’architettura cedeva la sua potenziale frontalità per armonizzare la propria presenza all’insieme, quasi rispondendo positivamente a quella indicazione di Giulio Carlo Argan che vedeva l’architettura stessa prosciogliersi nell’urbanistica, quasi dissolvendo la propria carica formale nell’iterazione spaziale metrica e materica dei moduli costituenti il tessuto urbano. Il terzo aspetto della lettura di un edificio si identificava nel ricondurre l’unicità all’insieme, iscrivendo il singolo manufatto nell’ordine superiore della città. In sintesi, leggendo un’architettura, ciascun abitante di un insediamento urbano era in grado di comprendere il legame dialettico tra l’individualità che essa possedeva e la totalità urbana. Ciò che così si riusciva a cogliere era il carattere dell’edificio in quanto frammento isolato messo a confronto con l’interezza della città.


Aumentando la propria densità l’elemento residuale o interrotto dedotto dall’insieme moltiplicava i suoi contenuti in una idealizzazione della forma di cui rappresentava una non casuale frazione a suo modo magica. Il frammento si configurava come una componente riconoscibile della città, una componente semanticamente preziosa, carica del significato di una incompletezza che era luogo di una tensione duplice, sia verso un’integrità perduta da riconquistare, sia verso una sua ulteriore decostruzione. Una realtà del resto e della rovina orientata, nella sua evidenza estetica, quella del frammento, che doveva rispondere alla necessità che la compagine urbana costituisse un insieme organico, coerente in ogni sua parte. Leggendo un’architettura si passava da questa alla città, e di nuovo dalla città all’architettura, in una circolarità vitale seppure, per più versi, causa di potenziali implosioni disciplinari. Ad esempio, l’autonomia promossa da Aldo Rossi negli anni Settanta, che tanta fortuna ha avuto in tutto il mondo, andò molto vicina a una pericolosa autoreferenzialità, che avrebbe tolto all’architettura la possibilità di aprirsi a orizzonti ad essa esterni, dai quali trarre nuovi elementi per la propria evoluzione. La fenomenologia relativa alla decodificazione del senso di un edificio si definiva come la ricerca di una sintonia tra il modo con il quale l’edificio stesso presentava di sua iniziativa un ordinamento delle qualità da esso possedute, come se al suo interno esistesse una sorta di attento custode dei suoi contenuti, e una lettura da parte dell’osservatoreabitante del manufatto. Questi due piani conoscitivi davano vita con la loro sovrapposizione a un terzo livello, consistente in una sintesi tra l’idea che l’edificio aveva di sé e quella formata da chi lo stava leggendo. Alla luce di quanto è stato detto la conformità dell’architettura alla città può essere considerata come il paradigma primario della modalità di lettura dell’architettura prevalsa dall’inizio del Novecento fino gli Anni Ottanta. Tale paradigma non è l’unico. Esso è infatti accompagnato da altre quattro categorie di lettura, che lo integrano rendendolo problematicamente più articolato e operativamente più

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flessibile. Il primo di questi paradigmi paralleli era la pienezza, nel senso che la lettura di un edificio si poneva come un’interpretazione integrale del fatto architettonico, che acquisiva prima di tutto i caratteri strutturali dell’edificio dando qui alla nozione di struttura, il suo significato più ampio, per poi fare convergere nella città, come si è già detto, la qualità individuale del manufatto. Il secondo era la coincidenza tra l’opera architettonica e la sua immagine, risultato di una corrispondenza logica tra la forma e il processo che l’aveva generata. La sovrapposizione tra i due ambiti di esistenza dell’edificio, cioè il suo essere un oggetto dotato di una consistenza peculiare e la rappresentazione di questo consistere, rendeva ancora più forte la sua lettura come un fatto sicuramente identificabile nella sua interna processualità. Il terzo paradigma parallelo era la normalità. Ciò significa che, leggendo un’architettura, si cercava di misurare la sua attitudine a svolgere il suo ruolo – che è quello di migliorare l’abitare umano – in una situazione comune a quella che connotava la generalità dei manufatti. In questo caso l’idea di normalità coincideva con la considerazione della città come entità nello stesso tempo unitaria e composita, scenario di una condizione quasi naturale, dotata di propria automaticità funzionale e di una necessità morfologica immediatamente comprensibili. Il quarto e ultimo paradigma consisteva nella qualità collettiva del linguaggio architettonico dell’edificio, ovvero nel fondarsi dell’espressione linguistica su convenzioni ormai note e condivise, una qualità del manufatto che facilitava la sua appartenenza critica a un tessuto urbano pensato come omogeneo. L’essenza collettiva di un’architettura faceva sì che essa dialogasse senza pro­blemi con le altre, spostando qualche eventuale conflitto linguistico sul piano omologante della città. La modalità di lettura dell’architettura appena illustrata, la quale, occorre ripeterlo, si è confermata per tre parti del Novecento, potrebbe essere considerata come l’espressione di un radicato e motivato realismo critico. Tale realismo, che all’aspetto critico univa un carattere progressivo e un orientamento sistematico, si proiettava sulla convinzione che la


città dovesse crescere all’infinito attraverso processi positivi, capaci di superare conflitti e contraddizioni dando vita a un abitare individuale e collettivo del tutto risolto, proiettato in un futuro che era possibile sperimentare nel presente. Questa condizione realistica, presente sia nei paesi democratici, sia in quelli totalitari, si era affermata come esito di uno scontro tra le profezie utopiche delle avanguardie e le ragioni strutturali connesse ai modi di produzione, con le loro implicazioni sociali e culturali. Le avanguardie avevano dovuto venire così a patti con le esigenze concrete dei contesti nei quali esse agivano, trasformando la loro carica rivoluzionaria per un verso in formulazioni spesso ermetiche, luoghi inaccessibili alla massa nei quali la funzione eversiva ed estrema dei molti linguaggi artistici del Novecento in un certo senso si sospendeva; per l’altro in soluzioni tecniche e figurative più facilmente metabolizzabili. Il significato innovativo delle proposte avanguardistiche si poneva in questo modo su un piano arretrato rispetto ai caratteri più evidenti dell’opera, un piano per così dire, implicito, avvertito dalla massa dei fruitori dell’architettura in un modo subliminale. Il realismo critico si collocava all’interno di una condizione dell’architettura fortemente determinata dalla storiografia, dalla cultura e da un’idea precisa di progetto architettonico. La storiografia era interessata a costruire punti di vista generali ai quali subordinare le vicende particolari e le diverse ricerche individuali. Queste ricostruzioni della nascita del­ l’architettura moderna e della sua evoluzione si estendevano ad una ampia analisi delle relazioni tra le questioni disciplinari e quelle che coinvolgevano l’intera società, alla ricerca di una totalità problematica e di una avvincente tonalità espositiva. Le storie dell’architettura moderna di Sigfried Giedion, Nikolaus Pevsner, Bruno Zevi, Leonardo Benevolo, Manfredo Tafuri e Francesco Dal Co, tanto per limitarsi ad alcuni degli autori più noti, seppure molto diverse tra loro, e in qualche caso opposte nelle interpretazioni che proponevano delle vicende architettoniche del Novecento, avevano come obiettivo principale la proposta di panorami completi, comprendenti eventi, opere, personalità, alluden-

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do spesso a una finalità alla quale la storia, ripercorsa nei suoi itinerari lineari o tortuosi, sembrava tendere. Ciò che caratterizzava questa forma storiografica era quindi la volontà di pervenire a una unitarietà che trascendeva il singolo episodio o la singola biografia per privilegiare la dimensione collettiva verso orizzonti urbani e architettonici e paesisticoterritoriali, più avanzati. Anche la critica possedeva questo sguardo totale di un movimento. Anche essa si configurava come il luogo di una ricerca fortemente rivolta non solo alla individuazione di quei punti nei quali le contraddizioni della realtà provocavano fratture teoriche e difficoltà operative ma alla creazione stessa di queste condizioni perturbate. La critica – si pensi alla “critica operativa” di Bruno Zevi e al suo rovesciamento nel “progetto di crisi”, come lo ha chiamato Marco Biraghi, di Manfredo Tafuri – agiva in linea indicando traguardi concettuali e azioni concrete, rimuovendo errori e ambiguità, proponendo cicliche “remise en question” a volte drammatiche nel loro radicalismo. Da parte sua il progetto si poneva in questo quadro come un atto conoscitivo di una parte del mondo fisico considerato dal punto di vista dell’abitare, un atto militante e intensamente politico che costituiva una premessa indispensabile alla modificazione di quella stessa parte. Il progetto era concepito come una serie di scelte che non si esaurivano nel definire un piano urbanistico, un quartiere o un edificio, ma riverberavano i loro effetti non solo nel contesto che accoglieva l’intervento ma anche nella vita successiva di questo, prevedendo e orientando le sue inevitabili trasformazioni. Il progetto definiva in sostanza un valore molteplice – estetico, culturale, sociale, produttivo – che aveva come ambito la dimensione strutturale dell’abitare intesa nella lunga durata. Tra la storiografia, la critica e il progetto si stabilivano corrispondenze, interferenze e anche conflitti, relazioni dialettiche che definivano nel loro insieme un campo problematico ed espressivo integralmente disciplinare e al contempo aperto all’esterno. Leggere un edificio all’interno del paradigma principale della conformità dell’architettura alla città riassumeva in una sintesi, avvertita quasi istintivamente da tutti gli abitanti del


territorio-paesaggio e della città, l’intero senso del costruire e del suo esito primario, l’abitare umano. Con l’apparizione sulla scena internazionale del Guggenheim Museum di Frank O. Gehry a Bilbao, a metà degli anni Novanta, un edificio che conquistò subito una celebrità mondiale, si produce una svolta improvvisa e apparentemente irreversibile nella modalità di lettura degli edifici. Il paradigma della conformità dell’architettura alla città si trovò quasi da un giorno all’altro completamente esautorato. In realtà esso era già stato minato in più punti della stagione del postmodernismo, nella quale l’umanità della lettura storica degli edifici che si era protratta per gran parte del Novecento aveva iniziato a disgregarsi in una polverizzazione problematica alla quale era seguito un evidente disorientamento interpretativo riguardante l’essenza stessa del fenomeno architettonico. C’è da notare, per inciso, che l’edificio di Frank O. Gehry potrebbe essere considerato sia il compimento ideale del Postmodernismo nell’accezione non strettamente storicista, anche se in questa opera ci sono riferimenti al neobarocco, previsto molti anni fa da Gillo Dorfles, e all’espressionismo, sia come è stato scritto da molti, uno straordinario esempio di decostruttivismo maturo. La cangiante mole di titanio dagli ampi panneggi rappresenta quindi una sorta di boa attorno alla quale si è compiuta una svolta epocale nella lettura di un edificio, una svolta le cui componenti sono oggi sufficientemente chiare ma i cui effetti sono ancora soggetti a continui cambiamenti. La categoria interpretativa che ha sostituito la conformità dell’architettura alla città, rimasta in vigore per quasi tutto il secolo scorso, è il paradigma ambientale. Con queste due parole si indica quel vasto insieme di questioni nate al­l’inizio degli Anni Settanta del Novecento attorno ai problemi dell’energia, dovuti soprattutto al crescente consumo delle fonti fossili, all’inquinamento, anch’esso in rapido incremento, del territorio-paesaggio e della città, all’affollamento che nei grandi agglomerati urbani rendeva la qualità della vita sempre meno apprezzabile. La consapevolezza di questa autentica crisi della società di massa basata sull’industria

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è un effetto del superamento dell’industria stessa a favore della produzione immateriale e nello stesso tempo una causa del passaggio tra la cultura industriale a quella postindustriale, un transito fondamentale indagato da Daniel Bell nel suo libro The Coming of Post-Industrial Society. C’è da aggiungere che la produzione immateriale, concentrata sull’informazione, è stata resa possibile dalla rivoluzione digitale, anche essa effetto e causa del passaggio di cui si è detto. La principale conseguenza del paradigma ambientale consiste nel fatto che la lettura di un edificio, prima unitaria, è divenuta parziale, concentrandosi solo sugli aspetti dell’edificio legati alla forma, alla memoria contenuta nello stesso linguaggio architettonico ed espressa dalla tipologia nei suoi contenuti collettivi, alla congruenza tra lo spazio e l’impostazione tettonica. Se si pensa alla problematica della sostenibilità viene inevitabilmente alla mente un repertorio tecnologico per la maggior parte di natura decorativa fatto di involucri in legno o in materiali fittili, di pareti ventilate, di travi lamellari, di sofisticate vetrate continue, di serre. Si è ormai consolidato un vero e proprio stile della sostenibilità che non sembra esprimere tanto una vera costruttività compatibile con l’ambiente quanto la sua esigenza. Ma non è tutto. La genericità inserita nel concetto stesso di ambiente ha fatto sì che esso si sia trasformato in una sorta di contenitore verbale talmente capiente e magnetico da attrarre e includere campi conoscitivi più specifici, il primo dei quali è proprio l’architettura. Tale concetto ha poi stabilito una al­ leanza sospetta e teoricamente poco attendibile con quello di paesaggio, anch’esso ambito di una generica espansione. La parola paesaggio ha quasi del tutto sostituito quella di architettura apprestandosi a impadronirsi anche dello stesso termine ambiente. Legittimata dalla Convenzione europea del paesaggio, del 2000, un documento che si limita a esporre un tema senza di fatto trattarlo, questa parola sta procedendo verso nuove e preoccupanti espansioni. La conseguenza più rilevante dell’adozione di massa del nuovo paradigma ambientale potrebbe essere definito come un cambio di prospettiva interpretativa, che è passata dalla casa al suo


intorno. In effetti l’edificio, letto in questo nuovo modo perde la sua densità, la sua capacità di autodeterminarsi per sporgersi, per così dire, nel circostante, come se volesse fecondarlo. Rimane da dire ancora qualcosa sulla tecnologia. All’interno del paradigma della conformità dell’architettura alla città la tecnica oscillava tra i timori di Martin Heidegger, le caute aperture di Romano Guardini e l’esaltazione di Reyner Banham, un certo “custode dei frigoriferi” come lo aveva definito Ernesto Nathan Rogers, ma un assertore della linea del meccanicismo funzionalista nata all’interno della modernità di matrice materialista. Come per il precedente paradigma nella conformità dell’architettura della città, anche il nuovo, quello ambientale, è corredato da alcuni paradigmi paralleli. Il primo di questi è il paradigma artistico. L’architettura viene oggi considerata dalla maggioranza degli addetti ai lavori, ma anche da gran parte del suo pubblico, come una propaggine dell’arte pittorica, plastica e soprattutto installativa. Proprio a partire dalla già citata opera spagnola di Frank O. Gehry, capostipite di quella che Germano Celant ha chiamato “archiscultura”, l’architettura si è trasformata in una performance spettacolare, una sorta di manifestazione laterale di arte pubblica che utilizza per la propria definizione gli strumenti linguistici disponibili agli artisti. L’edificio è visto come un intervento “site specific”, evocato dalla propaggine urbana. Come sfiorando un “touch screen”. Intrinsecamente effimera, l’architettura installativa cerca di intercettare l’attimo fuggente traendo dal mondo della moda e da quello della musica atmosfere e modalità espressive. Un secondo paradigma è quello comunicativo. L’architettura è sempre stata anche un veicolo di messaggi extradisciplinari, come nell’architettura barocca, che era chiamata a esaltare le dimensioni estroverse del culto cattolico romano rispetto alla interiorizzazione puritana della Riforma. Tuttavia questa finalità comunicativa si limitava ad associarsi ai contenuti più intrinseci dell’architettura mentre oggi essa si pone come principale ed esclusiva. L’immagine trasmessa nella città dall’edificio si separa in tal modo dalla realtà fisica di

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questo per mezzo di uno sdoppiamento iconico di cui è emblema tecnico e linguistico l’involucro, ma replica ferita e divergente rispetto all’impianto tettonico del manufatto. Il terzo paradigma a corredo del principale, la sostenibilità, è quello della fluidità. L’edificio non è più pensato come una realtà solida e stabile, ma è concepito come la materializzazione transitoria del flusso di informazioni che percorre la città. Un flusso talmente potente da sostituirsi metaforicamente a quell’idea di forma urbis la quale, nonostante la perdita dell’unità concreta e rappresentata della città, sostituita spesso da un insieme spesso incoerente e metamorfico di parti urbane, era rimasta comunque operante costituendo un riferimento centrale per ogni riflessione sulla natura e nello stesso tempo sull’evoluzione dei sistemi insediativi. Il quarto paradigma, nel quale confluiscono elementi e tensioni provenienti da quelli precedenti, è il paradigma atopico. Gli edifici non cercano più di radicarsi nel loro contesto prelevando da questo alcuni elementi e seguendo le linee forza che lo strutturano. Essi non si situano neanche in quelli che Marc Augé ha definito non-luoghi; realtà spaziali le quali mantengono comunque una loro riconoscibilità, ma sono collocati in situazioni del tutto neutre prive di ogni elemento di identificazione. Essi si spargono nella città con una simulata casualità che nasconde in realtà le logiche distributive del mercato. Il nuovo paradigma della sostenibilità, assieme agli altri quattro che ne amplificano gli aspetti, agisce all’interno di una situazione che ha visto la storiografia, la città e il progetto assumere nuovi significati. La storiografia è passata dalla ricerca di una possibile totalità a una visione strutturalmente parziale, basata su interpretazioni circoscritte e tendenzialmente relativiste di episodi tanto più interessanti quanto più isolati. I vari dizionari del­ l’architettura del Novecento pubblicati all’inizio del nuovo secolo da Hazan, Skira, Jaca Book, le storie dell’architettura di Alessandra Muntoni, di Antonino Saggio e di Marco Biraghi, tanto per restare nell’ambito italiano, hanno raccolto il testimone da Kenneth Frampton, autore della prima compilazione postideologica per proporre una narrazione


orizzontale delle vicende dell’architettura moderna e contemporanea antitetica rispetto a quella verticale dei loro predecessori. Parallelamente la critica ha rinunciato all’ambizione di tracciare le direzioni della ricerca disciplinare e si è sottratta alla necessità di giudicare le opere per divenire un puro strumento informativo, destinato a indicare l’appartenenza delle opere stesse a una tendenza piuttosto che a un’altra. Si tratta quindi di una sorta di critica distributiva che si limita semplicemente a illustrare i caratteri più esterni degli edifici, considerati da un punto di vista puramente merceologico. Il progetto infine, non è più un atto di conoscenza di una parte del mondo come premessa per la sua modificazione. Esso si è trasformato nel mezzo attraverso il quale produrre un evento, forse anche clamoroso, ma non un valore. In questo modo esso si trasforma in un elemento perturbante di un necessario disegno collettivo del territorio-paesaggio e della città, occasione di un commento puntiforme, indeterminato e interrotto di un abitare di cui si ignorano da tempo le vere strutture, l’autentica funzionalità e il contenuto formale più significativo e duraturo. Per chi non condivide la svolta descritta non avrebbe molto senso schierarsi, davanti a questo cambiamento radicale, contro il paradigma che è stato superato nel passaggio tra il Novecento e il Duemila. Chi scrive è infatti convinto, anche se si identifica con il primo orizzonte tematico, che non abbia molto senso combattere una battaglia a favore di una condizione dell’architettura che appare ormai del tutto superata. Sembra senz’altro più giusto, invece, non cercare di contrastare frontalmente questa nuova situazione ma, approfittando della sua stessa, indubbia energia, adottando una strategia Zen, rivolgerla verso obiettivi interstiziali e laterali contrari a quelli che il nuovo paradigma prevede. Obiettivi che esso comunque rende, quasi inconsapevolmente, possibili. In sintesi, poiché non sembra probabile che a breve termine questo nuovo paradigma sia a sua volta sostituito, a partire dall’esplosione della bolla immobiliare che dal 2008 ha sconvolto l’economia globale, da un ulte-

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riore scenario tematico, occorre lavorare all’interno della nuova situazione tecnologicamente ambientalista mediatica, artistica, atopica, spettacolare, celebrativa, inclusiva all’esterno ma anche sovvertendola la dove è possibile. Ciò anche se si trattasse di sovversioni rare e parziali. In fondo basterebbe agire all’interno del secondo paradigma come se il primo fosse ancora operante.

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Alla fine di febbraio, organizzato da Marina Engel, si è svolto presso la British School un incontro-confronto tra Vittorio Gregotti e Pippo Ciorra in occasione della pubblicazione dei libri Incertezze e simulazioni. Architettura tra moderno e contemporaneo, dell’autore del progetto Bicocca a Milano, e Senza architettura. Le ragioni di una crisi, del curatore del settore architettura del Maxxi. Il dibattito, che è stato moderato dall’autore di queste note, ha visto Vittorio Gregotti sostenere la necessità del fondamento, della distanza critica da una realtà che non deve mai essere considerata come qualcosa che non si può modificare, e di una misura interrotta e trattenuta della scrittura architettonica. Pippo Ciorra ha invece affermato con decisione la sua idea movimentista, artistica e neosituazionista dell’architettura, del tutto empatica nei confronti della fluidità. Un’idea però, paradossalmente proiettata su quella polemica antiarchitettonica – si pensi a Franco La Cecla – la quale, associandosi alla attuale antipolitica, nasce sia dalla diffusa falsa coscienza attorno alle responsabilità sociali della disciplina rispetto alla comunità, sia dal modello della crisi come principale formula interpretativa dell’architettura italiana. Un modello il quale, introdotto da Edoardo Persico quasi un secolo fa, e presente fino a Manfredo Tafuri e oltre, continua a prevedere per la cultura architettonica della penisola un futuro drammatico e al contempo estetizzante e autoconsolatorio di ripetuti fallimenti, seppure eroici, irreversibili e totali. L’incontro-confronto di Roma si è concluso con una sorta di tregua preoccupante, nella quale la sirena dell’ideologia, e quella, simmetrica, dell’ideologia dell’antideologia, hanno cantato all’unisono.


Contro l’arte d’oggi CESARE DE SETA

La polemica, a volte motivata e a volte astiosa, contro l’arte contemporanea è vecchia quanto il cucco e ha lievemente increspato le acque stagnanti della critica d’arte negli ultimi mesi. Harold Rosenberg scrisse felicemente che «la famosa “rottura con la tradizione” è durata tanto a lungo da aver dato origine a una tradizione sua propria». Senza risalire a Oswald Spengler del Tramonto dell’Occidente, 1918, a Croce che non esitò a rifiutare «l’arte impressionistica, cubista, futurista e, in genere, decadentistica moderna», 1919, al più radicale Hans Sedlmayr che invocò la rottura col sacro come causa di una crisi epocale, fino ai più articolati e sottili dissensi di Theodor W. Adorno, 1953, e Ortega y Gasset, 1962, si può ben dire che, come Renato De Fusco ed io scrivemmo in una rassegna dal titolo La critica discorde (Op. cit., n. 4, 1965), le istanze della critica d’arte del nostro tempo sono assai esili e anemiche. Esse, in larga parte, non fanno altro che foraggiare i musei o le gallerie di cui sono conniventi. Gli ultimi contributi, ostili all’andazzo corrente, sono il denso saggio di Marc Fumaroli, storico della civiltà moderna di sconfinata erudizione, Paris-New York e ritorno, Adelphi, e l’ultimo pamphlet di Jean Clair, L’inverno della cultura, Skira. Del tutto consapevole delle tecniche dell’ad­ vertising un critico e storico della modernità raffinato co­ me Jean Clair ha sparato a zero sulla Croce Rossa: uso

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quest’espressione colorita perché Jeff Koons nella Reggia di Versailles o il teschio cosparso di diamanti di Damien Hirst sono fenomeni che rientrano nella composita produzione dei consumi di massa dell’affluent society – direbbe Veblen – nella quale, volenti o nolenti, siamo immersi. Che il mercato faccia lievitare il valore di queste opere è un fenomeno sociologico e economico, da indagare con strumenti che non sono quelli della critica d’arte. A tal fine sono necessari uomini che «ci guidino nell’infinito labirinto di concatenazioni nel quale consiste l’essenza dell’arte e verso quelle leggi che sono di base a queste concatenazioni», come scrisse Lev Tolstoj in una lettera a Nikolaj Strachov. Uno spirito che Marc Fumaroli stenta a riconoscere nel crocifisso calato nell’urina di Andres Serrano o nelle «non-arte di plastica» di Koons approdate nella Reggia di Versailles. Ma quali sono le ragioni di fondo che hanno determinato la rottura tra questi fenomeni e le arti, nelle loro diverse e convulse declinazioni, del nostro tempo?

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Il j’accuse di Clair si muove, con ammirevole verve, nell’acqua che è scorsa sotto i ponti da oltre un secolo, ma corre anche il rischio di buttare l’acqua sporca con il bambino dentro. Che il mercato gratifichi un certo genere di prodotto, che i maggiori musei d’arte contemporanea facciano a gara per fare incetta di spazzatura, che le banche – anche italiane – si rubino tra loro i fenomeni più vistosi della produzione contemporanea fa parte del loro mestiere: comprando cento pezzi è probabile che dieci di qualche valore reggeranno al tempo. Queste istituzioni sono come dei pescatori che buttano nel mare la loro rete a strascico, sperando che tra relitti, alghe, bottiglie e rifiuti di ogni genere possa finire nella rete un sarago o una spigola. È fin troppo evidente che Ambroise Vollard, Leo e Gertrude Stein o Peggy Guggenheim quando acquistavano Matisse o Picasso, Max Ernst o Pollock non buttavano a caso una rete, ma erano guidati da un’idea dell’arte a loro molto chiara. Questa idea, magari a volte soltanto intuita, come nel caso della


miliardaria Peggy, negli ultimi decenni s’è disfatta. E persino il grande contributo dell’avanguardia, quella che ha rinnovato nel Novecento l’idea stessa di modernità, finisce per essere appiattita e svilita sulla produzione contemporanea più corrente e insignificante. Negli ultimi trent’anni almeno, c’è stata una convulsa accelerazione dei linguaggi visivi con vistose ibridazioni tra forme diverse di comunicazione, prima neppure lontanamente immaginabili. Sarebbe stolto provare a riassumerle con gli «ismi», che sono ormai alle nostre spalle; più utile è riferirsi alla contaminazione tra i linguaggi. Per spiegarmi, brevemente, mi riferirò, all’ultima Biennale di Venezia, sia per la rilevanza della mostra che per il successo che ha riscosso: nella sezione fondante, dal titolo ILLUMInazioni, a cura di Beatrice Curiger, quello che salta all’occhio è che molti artisti si avvalgono della fotografia, anzi sono a tutti gli effetti dei fotografi, molti altri propongono delle installazioni con oggetti e immagini, strettamente imparentati con l’architettura. Anzi, sono architettura. Dunque i tradizionali confini tra fotografia, architettura e arti visive si sono del tutto dissolti e ciascuno attinge alla stessa tavola imbandita. Questa non è una novità: agli esordi del Novecento gli Espressionisti, De Stijl e i Futuristi proponevano qualcosa di simile. Anche se non mi sfugge che nel corso di oltre un secolo i linguaggi dell’arte hanno subìto una radicale trasformazione. Tuttavia il primo premio della rassegna assegnato a Christian Marclay per il film The Clock sta a confermare che l’ambizione a una Gesamtk­ unstwerk, un’opera d’arte totale, è viva e vegeta. Il film del­ l’artista ginevrino-californiano, nato nel 1955, dura ben 24 ore: sarebbero tante, anche se l’autore fosse Ingmar Bergman o Stanley Kubrick. Opera fluviale che ha appunto l’ambizione di creare un’opera d’arte totale, secondo lo storico modello che rimanda agli anni della Repubblica di Weimar. Che dire? The Clock è un’opera molto interessante, sull’iterazione tra tempo reale e tempo narrato che qui sono coincidenti, perché la proiezione del film avviene in sincrono con lo scorrere delle ore del giorno. Pertanto se lo spettato-

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re arriva in sala alle 10 vede una scena che si svolge alla stessa ora. È un film a suspense, una sorta di thriller, ma resta un film e si avvale di spezzoni di celebri film da Chaplin a Hitchcock. Mi chiedo perché non abbia concorso nella sezione Cinema. Dal cinema alla fotografia: i fotografi presenti sono tantissimi o gli artisti che si servono della fotografia sono tantissimi. Tale è l’algerino Mohamed Bourouissa (1978) con foto dure e video clip con riprese in una prigione. Che Luigi Ghirri (1943), prematuramente scomparso, sia stato un eccellente fotografo lo sapevamo da molti decenni, che le sue foto avessero una carica simbolica, anche; mentre una riproposta e una conferma molto interessante è quella del sudafricano David Goldblatt (1930) che documenta il crudo clima dell’apartheid e del razzismo. Peraltro a San Giorgio Maggiore si vedono quattordici fotografi che ripensano Venezia e si distinguono Mimmo Jodice e Nino Migliori. Gli slittamenti tra foto, video, videoclip interessano molti artisti presenti. Ma a me interessa insistere sullo slittamento a cui assistiamo. Né la mia vuole essere una recensione della rassegna, quanto piuttosto un’individuazione delle linee di tendenza o di quelle che a me sono parse tali. Dunque il cinema come mezzo artistico, ma aggiungo subito lo sconfinamento con l’architettura. Lo svedese Karl Holmqvist (1964) con Untitled presenta un modello in scala 1:36 del Palazzo della Civiltà italiana all’Eur: costruito in travertino proprio come l’originale, reca in cima alla gruviera di archi la famigerata scritta: Un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasformatori. Naturalmente in maiuscoli caratteri romani. L’intenzione dell’artista è associabile a talune operazioni surrealiste alla Dalí: ironia, sarcasmo, comico inutile. Il georgiano Andro Wekua (1977) con Pink Wave Hunter ci propone ben quindici modellini del suo paese, un gioco della memoria che si risolve ancora in architettura miniaturizzata. La cinese Song Dong (1966) propone la casa in legno dei suoi genitori, o meglio la ricostruzione dello scheletro portante, e ha installato decine di ante per armadi re-


cuperati tra le strade di Pechino: un modo per mettere a confronto spazio domestico e spazio urbano. L’austriaco Franz West ci fa visitare la memoria della sua cucina viennese. La polacca Monika Sosnowska (1972) crea un’architettura con pannelli: nella struttura a stella le pareti interne sono rivestite da carta da parati, quelle esterne sono lasciate grezze. Lo spazio architettonico – scrive l’artista – «inizia ad assumere le caratteristiche dello spazio mentale». Ingenua e esile pretesa quella dello zig-zag delle pareti per indicare, nientemeno, che lo spazio mentale sul quale la neurobiologia ci fornisce indicazioni ben diverse e ben più affascinanti. Il panorama si complica ulteriormente quando si passa al vasto mondo che si avvale del cinema, della tv e di internet. I new media, con centri di ricerca a Linz e a Karlsruhe, ma attivi nel laboratorio di ogni artista che si serve del computer da almeno vent’anni, hanno rimescolato le carte: proprio come accadde con l’avvento della fotografia a metà Ottocento. L’uso della camera fu un trauma per l’arte del tempo, e questo trauma s’è ripetuto con l’avvento di internet, cioè di una tecnologia dalle mille risorse che arriva persino a trasformare chi vede l’opera in un co-autore dell’opera stessa. Ormai video e operazioni internet sono correnti nella contemporanea ricerca: con risultati talvolta di rilevante fascino come le opere di Bill Viola che è il più dotato operatore in questo ambito. Dunque la luce e il movimento – sfida perenne all’arte in ogni tempo – irrompono nel mondo dell’arte con un’insolita energia, avvalendosi di mezzi che erano nati per altri fini. Il web è divenuto un attore e, ci piaccia o no, Bill Gates è l’eroe di questo mondo. Se entriamo nel vivo della querelle sull’arte contemporanea conviene diffidare delle crociate pro o contro, altrimenti si torna dietro di cinquant’anni e più, quando in tutto il mondo si scontrarono astrattisti e figurativi: nella polemica, che ha un improponibile afrore zdanovista, portare a modello quelli che dipingono col pennello contro coloro che lavorano con le installazioni o con internet è privo di

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senso. Ma quando un venerando maestro come Gillo Dorfles dice che Lucian Freud è un’artista di seconda fila mi permetto di dissentire: perché, col suo amico Francis Bacon, è uno dei grandi pittori del secolo; così come Anselm Kiefer, assai più dell’ambiguo maestro Joseph Beuys, è un grande poeta che si serve di un linguaggio del tutto nuovo, nel quale figurativo e installazioni felicemente convivono. Come s’è visto ancora una volta nella stupefacente tela-installazione alla Fondazione Vedova alle Zattere, proprio negli stessi mesi in cui si è svolta la Biennale. Così come sarebbe stolto non rendersi conto che Giuseppe Penone e Giulio Paolini – disposti su fronti opposti – offrono della natura, il primo, del concetto dell’arte, il secondo, interpretazioni originali che, anche se realizzate senza tela, pennello o scalpello, toccano la nostra sensibilità. È facile trovare referenti rilevanti altrove. Infatti uno dei caratteri tipici dell’arte del nostro tempo è il suo carattere ubiquitario. Certo quando mi trovo di fronte al Puppy alto tredici metri di Koons dinanzi al Guggenheim di Bilbao o ai palloncini gonfiati a Versailles non mi commuovo; né mi avvince lo squalo sottoformalina o la pecora squartata, e non me la sento di seguire Simon Schama quando, con tutta la dottrina di cui è gravido, sostiene che il bestiario di Hirst rende «un contorto omaggio all’equazione tra sacrificio e salvezza tipica del cristianesimo» e lo accosta, nientemeno, che al Bue macellato di Rembrandt. Un caso esemplare e controverso è quello di Maurizio Cattelan, il più duttile tra gli emersi degli ultimi anni. Debbo confessare che il suo Hitler in ginocchio, ridotto a orrendo feticcio, ha una forza tragica e dirompente, mentre irrilevante mi pare il suo cavallo imbracato. La sua poetica è largamente esposta in Un salto nel vuoto, Rizzoli e in All di Nancy Spector, Skira, curatrice della monografica, ora al Guggenheim di New York. Per concludere: una larga parte dell’arte contemporanea sembra immersa in un presente bulimico che si occupa prevalentemente del suo brand, ma tra i contemporanei ci sono coloro che continuano a dialogare con la Storia e col passa-


to, e per questo motivo sono l’arte del futuro. Riconoscere questa distinzione è essenziale: che poi Koons valga assai più di un Tiziano, come dicono le aste, è questione irrilevante. Si cerca di capire per se stessi e per gli altri che, nella solitudine cercano, istintivamente, la qualità e la verità del­l’arte: Hirst, Koons e i loro sodali baldanzosi ascendono le classifiche del mercato, ma allo stesso tempo precipitano nell’abisso dell’insignificante, celebrando così il loro suicidio sull’altare dell’arte. Proprio come Paperon de’ Paperoni che fa il bagno tra i dollari avendo perso il piacere di farlo nell’acqua.

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Radical design, Superstudio ALBERTO BASSI

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Il lungo “decennio” che va dalla fine degli anni cinquanta ai primissimi settanta è decisivo per le vicende del design in Italia. Confrontandosi con le profonde trasformazioni economico-sociali e artistico-culturali, il dibattito dentro la cultura del progetto produce infatti esiti particolarmente significativi. In sede teorica, elaborando una diversa idea di architettura e design che integra e/o supera l’ipotesi e la pratica modernista della gute forme; sul piano pratico, realizzando una variegata serie di progetti/prodotti dai caratteri assai differenti: alcuni deliberatamente sperimentali, altri per necessità o scelta eseguiti in piccole serie, altri ancora destinati a vita duratura e successo di critica e mercato. La molteplicità di risultati fu favorita anche da fattori di natura tecnologica e produttiva, legati alle ricerche sui materiali, come le nuove plastiche e i poliuretani, e sulle tecnologie produttive, come la schiumatura a freddo, che permisero sperimentazioni linguistico-formali e allo stesso tempo produttivamente concrete, tese a prefigurare inedite possibilità per l’abitare e gli oggetti. Quanto accaduto nel corso degli anni sessanta – variamente etichettato come design radicale, antidesign o controdesign – non è riconducibile a un filone unitario e univoco1, bensì costituisce il frutto di posizioni individuali/collettive, di molti linguaggi, protagonisti ed esiti talvolta fram-


mentari. Infatti, a fronte di un dibattito in sostanza comune, furono differenti le declinazioni territoriali, in relazione ai contesti imprenditoriali e culturali. Proprio tale varietà e imprevedibilità è all’origine della longevità sia nell’immaginario degli addetti ai lavori che del pubblico allargato, oltre che della continuità produttiva. Uno dei gruppi più significativi in questo periodo è stato quello dei fiorentini di Superstudio2: Adolfo Natalini e Cristiano Toraldo di Francia dal 1966, cui si aggiungono Roberto Magris nel 1967, Gian Piero Frassinelli nel 1968 e Alessandro Magris nel 1970. Di interesse il momento fondativo, dalla metà degli anni sessanta ai primi del decennio successivo, che si chiude con la mostra al MoMA di New York Italy: the New Domestic Landscape del 1972 e l’“etichettatura” celantmendiniana (rilanciata poi da molti, ma non tutti, i protagonisti) Radical design che campeggia sulla copertina di “Casabella” del luglio 1972. Una fase poliedrica, vulcanica, contraddittoria viene alfine letta e indirizzata, in modo comunicativamente efficace e assieme parziale, lungo una linea antagonista e in sostanza monodisciplinare. Anche se sono decisivi altri contesti (da quello genera­ le della contestazione politico-sociale fino al diffondersi di innovativi segnali di elaborazione artistica, culturale ed espressiva, dall’arte pop ai linguaggi della cultura giovanile, dalla musica alla moda), per la formazione e lo sviluppo delle tematiche teoriche e progettuali di Superstudio è rilevante la situazione fiorentina. Per prima cosa, ha scritto Lara Vinca Masini, la mancanza di richiesta sul piano ope­ rativo e professionale da parte della città, per la sua con­ dizione di città non industriale e conseguentemente fuo­ ri da un certo tipo di economia3. In secondo luogo ha contato la struttura universitaria della facoltà di architettura di Firenze, dove alcuni docenti impostano in maniera sperimentale l’insegnamento. Dal 1964 Leonardo Savioli è titolare della cattedra di interni e nell’anno accademico 196667 tiene un corso sullo “spazio di coinvolgimento”, che apre riflessioni non convenzionali su nuove tipologie d’ar-

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chitettura e d’interni; Leonardo Ricci nel 1963 e 1964 svolge corsi dedicati rispettivamente all’industrial e al visual design. L’esordio pubblico di Natalini-Toraldo e Branzi-Morozzi-Deganello-Corretti (da cui avranno origine rispettivamente Superstudio e Archizoom, l’altro noto gruppo fiorentino) avviene in occasione della mostra Superarchitettura alla galleria Jolly di Pistoia alla fine del 1966, ripresa l’anno successivo alla Galleria comunale di Modena. Colori squillanti, forme ondulate e biomorfe per prototipi di oggetti, in un allestimento unitario, caotico e ironico. Sergio Cammilli di Poltronova, l’azienda di Agliana (Pistoia) che già aveva iniziato a lavorare, fra gli altri, con Ettore Sottsass, ne metterà diversi in produzione con il marchio Design Center. Dei Superstudio sono la poltrona in poliuretano Sofo, le lampade in perspex Onda e Passiflora (1966-68); cui faranno seguito altri apparecchi illuminanti: Gherpe (1967) sempre in perspex, Oolok (1968) in metallo, e infine Polaris ed Excelsior (1969)4. Le prime traducono in colorata plastica trasparente il mondo naturale; le seconde più meccaniche hanno schermi che orientano la luce; il terzo gruppo è una riflessione sugli archetipi. Con il titolo Design d’invenzione, design d’evasione li presentano su “Domus”: ogni oggetto ha una funzione pratica e una contemplativa: è questa ultima che il de­ sign d’evasione cerca di potenziare. Proseguono: Si può raggiungere questo coinvolgimento totale in due modi: fornendo oggetti a funzionamento poetico o fornendo schemi di comportamento (…) così il design d’evasione vuole costituire un’ipotesi d’introduzione di corpi estra­ nei nel sistema: oggetti col maggior numero possibile di proprietà sensoriali (cromatiche, tattili, ecc.) carichi di figuratività e immagini, nell’intento di destare l’atten­ zione, di richiamare l’interesse, di costituire una dimo­ strazione e di ispirare azioni e comportamenti5. La partecipazione all’esposizione trinazionale Trigon 69 alla Biennale di Graz fornisce l’occasione per una svolta alle ricerche del gruppo, che condurrà, con differente scala


ma assoluta continuità teorico-metodologico-progettuale, da una parte all’architettura visionaria di Monumento continuo e delle Dodici città ideali, dall’altra agli Istogrammi d’architettura e al sistema Misura. Il monumento continuo – scrivono – è il polo estremo di una serie di operazioni progettuali coerenti che portiamo avanti in questi tempi, dal design all’urbanistica, come dimostrazione di una teo­ria enunciata a priori: quella del disegno unico. Un disegno che si trasporta rimanendo uguale a se stesso, cambiando scala o area semantica senza traumi o incon­ venienti6. A queste riflessioni sono collegati gli Istogrammi d’architettura, un “sistema” generatore applicabile a diversi tipi di scala dimensionale, tipologica, morfologica. In quegli anni poi – sostenevano – divenne molto chiaro che conti­ nuare a disegnare mobili, oggetti e simili casalinghe de­ corazioni non era la soluzione dei problemi dell’abitare e nemmeno di quelli della vita e tantomeno serviva a sal­ varsi l’anima (…) Preparammo un catalogo di diagram­ mi tridimensionali noncontinui, un catalogo d’istogram­ mi d’architettura con riferimento a un reticolo traspor­ tabile in aree e scale diverse per l’edificazione di una natura serena e immobile in cui finalmente riconoscersi. Dal catalogo degli istogrammi sono stati in seguito gene­ rati senza sforzo oggetti, mobili, enviroments, architet­ ture7. La declinazione degli istogrammi negli oggetti conduce alla serie di mobili Misura del 1969; dapprima un unico piano “con gambe” appoggiato a terra che diviene tavolo o spazio per dormire, e poi un catalogo integrale, dalle sedute ai tavoli, dagli armadi ai letti all’oggettistica. Per realizzare superfici uniformi e continue, dopo una fase iniziale “artigianale” sui primi modelli, viene disegnato un apposito decoro per un laminato Abet Print, con cui gli arredi entrano in produzione per Zanotta dal 1971. “Non pensammo mai, nemmeno per un attimo – scriveranno in seguito – ad un futuro tutto a quadretti, a un mondo tut­ ta bellezza e ragione, anche se ogni tanto per farci corag­ gio, ne parlavamo (…) rimossi comunque i riquadri neri

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dai piani dei tavoli, questi restano solo scacchiere per angeli”8. Di estremo interesse infine la presenza di Superstudio alla mostra del MoMA del 1972, che chiude questa prima fase di attività. Gli ambienti, che si riflettono in superfici specchiate, sono allestiti privi di oggetti; unica presenza fisica percepibile gli attacchi elettrici a prefigurare il tema della connessione e della rete. Sosterranno i Superstudio: dopo sette anni di disordi­ nata attività nel campo dell’industrial design, e malgra­ do le affascinati esperienze con la Poltronova, Giova­ netti, Zanotta e Cassina (…) pensammo di cessare la nostra guerriglia nel mondo del bel design (la mostra Italy: the new domestic landscape ci era bastata, sia co­ me glorificazione che come fine delle nostre speranze nel futuro del design d’invenzione). Avevamo così deciso d’intraprendere un lavoro tecnico e scientifico sulla pro­ duzione di sistemi per abitare, nel tentativo di una ‘neu­ tralizzazione’ dello spazio domestico. La nostra speran­ za era di produrre sistemi capaci di eliminare le galassie di oggetti9.

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1   Le vicende dell’architettura radicale in Italia attendono ancora di essere appieno indagate e valutate dal punto di vista storico-critico. In forzata sintesi, finora sono state sviluppate soprattutto ricostruzioni e letture più o meno “militanti” dei protagonisti; la storiografia e cultura progettuale “ufficiale”, con poche eccezioni, ha operato una sostanziale rimozione acritica o perlopiù pregiudizialmente critica. 2   Si vedano, Superstudio 1966-1982 Storie, figure, architettura, a cura di Gianni Pettena, Electa Firenze, Firenze 1982; Superstudio & Radicals, Japan Interior, Tokio 1982; Cristiano Toraldo di Francia. Progetti e architetture 1980-1988, a cura di Gianni Pettena, Electa, Milano 1988; Adolfo Natalini architetture, a cura di Vittorio Fagone, Fondazione Ragghianti, Lucca 2002; Alberto Bassi, Superstudio superdesign, in “LUK”, 7-8, gennaio-dicembre 2003; Peter Lang e William Menking, Superstudio. Life without objects, Skira, Milano 2003; Roberto Gargiani, Beatrice Lampariello, Superstudio, Laterza, RomaBari 2010. 3   Sul contesto fiorentino in Lara Vinca Masini, Archifirenze, “Domus”, 509, aprile 1972.


4   Si veda, Facendo mobili con…, a cura di Pier Carlo Santini, Poltronova edizioni, Milano 1977. 5   Design d’invenzione, design d’evasione, “Domus”, 475, giugno 1969; pensieri scritti alla fine del 1967, ricordano. 6   Superstudio: lettera da Graz. Una mostra sul tema: architettura e libertà Trigon ’69, “Domus”, 481, dicembre 1969. 7   Superstudio: dal catalogo degli istogrammi la serie “Misura”, “Domus”, dicembre 1972. 8   “Testimonianza a quadretti”, “Casabella”, 376, 1973. 9   Superstudio 1966-1982 Storie, figure, architettura, cit., p. 57.

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Libri, riviste e mostre

Ph. Daverio, Il Museo immaginato, Rizzoli, Milano 2011.

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Quello di Philippe Daverio è un museo aperto a tutti, sette giorni su sette, 24 ore su 24. Non ci sono file all’entrata. È la descrizione di sale museali progettate ed allestite dalla fantasia dell’autore. La segnaletica del percorso del museo è chiarissima, fin dall’ingresso, ossia dalla presentazione del libro, trasparente e chiaro nell’annunciare l’itinerario che si sta per percorrere: siamo in una dimora storica, una Villa neoclassica, le cui sale sono state dedicate a temi liberamente ispirati ai desideri dell’autore. Il curatore dell’allestimento ha sottratto l’arte al tempo e ha battezzato le sale con titoli spiritosi adatti ad ambienti destinati ad intime riflessioni. Ciò che accomuna tutte le sale è lo sfarzo dell’altissima qualità delle opere: solo i capolavori hanno l’autorizzazione ad entrare. Si resta in Europa e si viaggia nel mondo dell’arte moderna senza sconfinare nel più ardito contemporaneo. L’argomento trattato in

questo libro non è la pittura ma i quadri. La pittura è una prassi ben vasta rispetto al tema. Qui ci occupiamo solo di un settore molto ristretto, quello che ri­ guarda i dipinti su supporto mobile, tavola, tela o rame, e che non abbiano una destina­ zione prettamente ecclesiale, ecco cosa viene specificato nel­ l’introduzione. Il libro è meticolosamente illustrato: il disegno dello schema di ciascuna sala accompagna la gallery delle opere. Dall’anticamera si passa al pensatoio e alla biblioteca; dal Grand Salon si accede alla sala da pranzo, per passare poi al Petit Salon e alla divertente sala da gioco e delle curiosità. Le cucine precedono una grande galleria a balconata, le camere da letto, una stanza della musica, la chiesa e il giardino. Aprire un nuovo museo e scegliere come luogo le pagine di un libro corposo invita ad un nuovo modo di viaggiare, di «camminare il mondo», per usare un’espressione di Leonardo Fioravanti, un medico che nel Cinquecento attraversava l’Europa alla ricerca di nuove città e


nuovi rimedi alle malattie. Daverio viaggia liberamente nei circui­ ti della propria fantasia intrecciata alla raffinata memoria involontaria che lo spinge a proporre al lettore i più straordinari e suggestivi esempi della cultura pittorica europea. Un museo immaginario da portarsi dietro è più che mai attuale oggi all’epoca del «nonluogo» di Marc Augè, per chiunque abbia voglia di sorvolare le tavole e le tele dei più noti e apprezzati protagonisti della storia dell’arte italiana ed europea, passando da un Maestro all’altro grazie a link ipertestuali frenetici. Ogni sala ospita un tema, ma le regole dell’ospitalità sono piut­ tosto elastiche. Le stanze della Villa-Museo diventano, a sorpresa, per chi legge, luoghi ciceroniani della memoria dell’arte, perché al termine della lettura sco­priamo di aver memorizzato con facilità centinaia di immagini, quasi che l’autore le avesse disposte nelle pagine del libro secondo le regole della mnemotecnica classica. Ogni opera ha uno spazio e un perché, personalissimo, di Daverio, eppure si è liberi di iniziare la visita guidata da dove si vuole, nessun percorso obbligato per il visitatore-lettore di un’«Opera Aperta». È un museo scomponibile, non è la sequenza cronologica a determinare la disposizione delle opere. Daverio descrive i quadri con sapienza e al lettore sembra quasi di ascoltare, mentre legge con gli occhi, la voce dell’autore e così la piacevolezza dei toni del presentatore di Passepartout ci porta per mano lungo binari di libere associazioni da un’opera all’altra, senza pretesa di nessi logici. Affinità cromatiche, intrecci sentimentali

di personaggi ritratti, temperature artistiche comuni sono ciò che fa collocare un quadro accanto ad un altro. Il curatore del museo immaginato è libero da qualsivoglia dettame economico ed esonerato da stressanti speculazioni mercantili e politiche che tanta polemica hanno invece provocato intorno ad operazioni culturali altrettanto arbitrarie, come quelle del marchio Louvre ad Abu Dhabi. Daverio ritrova il tempo di emozioni già vissute davanti ai quadri veri di cui il museo immaginato evoca fedeli fantasmi. La perdita della filologia museografica è sopperita da una memoria colta. La «memoria spontanea» o involontaria, sollecitata da una casuale sensazione con un procedimento alogico che permette al­ l’autore di «sentire» con contemporaneità l’arte del passato, di rivederlo con l’intermittenza del cuore del presente. Un museo così non può lasciare indifferenti. Non solo perché è pensato da un critico e comunicatore insigne, ma anche perché apre un varco nuovo in cui potersi rifugiare quando si esce un po’ demotivati da iperaffollate mostre blockbuster o splendidi piccoli musei deserti, tenuti aperti a fatica dopo sgargianti inaugurazioni e dimenticati subito dopo la prima rassegna stampa. Daverio è uomo di mestiere che sa far parlare i capolavori scelti grazie ad una cultura profonda capace di far interagire arti lontane, di far dialogare artisti di generazioni lontanissime; le sue sale non rischiano di restare vuote. Jean Clair sostiene a malincuore che l’arte oggi non ha più finalità, diventa, con gli happening, le azioni, le installazioni, effimera, transitoria, auto-

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distruttiva, ma se l’eclissi del­ l’opera d’arte cede il passo a sale immaginate con cura, allora, seppure per poche ore, la lettura del libro di Daverio sembra di buon auspicio laddove l’immaginazione riesce a stimolare la voglia di tutela e salvaguardia di tavole e tele reali, da conservare e da non dimenticare. La delocalizzazione delle opere, il non tener conto della loro funzione e della loro pertinenza territoriale, smette di essere uno snaturamento se il museo, benché immaginato, sa di­mostrare con lucidità come i criteri espositivi (cronologici, tematici, di paese, di tecniche, di materiali, ecc.) in base ai quali si pretende di ordinare le opere delle mostre, siano talvolta ben più pretestuosi delle girovaghe associazioni di Daverio, partorite dal­ l’antico gioco di sensi tra Amore e Psiche. S. O. R. Barilli, Arte e cultura materiale in Occidente. Dall’arcaismo greco alle avanguardie storiche, Bollati Boringhieri, Torino 2011.

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Imprescindibile strumento di approccio conoscitivo alla sistematizzazione operata da Renato Barilli nel suo ultimo lavoro è l’introduzione metodologica ai 15 capitoli nella quale lo studioso illustra il suo pensiero, disarticolando e dispiegando una prospettiva che costituisce il nodo essenziale di tutta la lettura. Così facendo l’introduzione entra di di­ ritto nei capitoli del volume, diventando esperienza cognitiva indispensabile per il lettore – a

cui vengono offerti strumenti e elementi di decodifica –, ma anche per lo stesso autore che può in tal modo sciogliere il nodo del­ l’impostazione e supportare la tesi mediante circoscritti riferimenti ad una significativa e selezionata letteratura precedente. Tuttavia, per i frequentatori più assidui del pensiero di Barilli, Arte e cultura materiale in Occidente costituisce un altro tassello di una riflessione coerente esercitata da più di trent’anni, sviluppata a partire da Scienza della cultura e fenomenologia degli stili, pubblicato nel 1982, e che si è andata nel tempo strutturando attraverso le pratiche congiunte dello studio e dell’insegnamento. L’autore chiarisce da subito che nell’espressione “cultura materiale” va individuato un equivoco tautologico, procedendo così per via filologica alla definizione della parola “cultura” che viene fatta coincidere con un concetto “pratico-materiale” ancora non assorbito da livelli superiori e aulici di significato. Un’origine etimologica proveniente dal basso, quindi, che per Barilli va combinata con l’altro polo, quello della tecnologia, con cui si confronta l’uomo per definire il suo posto nel mondo. La lettura di oltre tre millenni di arte occidentale avviene, dunque, attraverso una costante articolazione di due livelli – quello “bassomateriale” e quello “alto-simbolico” – denunciando, sin dalle prime pagine, da un lato il debito con le incisive lezioni di McLuhan – che sugli altri svolge un indubbio ruolo guida – e di Marvin Harris, dall’altro l’occhio rivolto a Erwin Panofsky. I piani del materialismo tecnologico e di quello


simbolico, intrecciati, diventano la lente attraverso cui guardare e leggere le esperienze dell’arte visiva. Barilli si propone di seguire un “materialismo culturale” senza l’utilizzo però di un’impronta deterministica, affermando di non volersi riferire, nello svolgersi della sua narrazione sull’arte, a precisi fattori materiali che avrebbero di volta in volta segnato i cambiamenti. Ma la stessa organizzazione del testo lo obbliga, invece, a continue sponde referenziali specifiche, che assurgono a conferme necessarie della tesi di base, e alla ricerca costante di “omologie” che possano rap­presentare efficacemente l’essenza che coagula la declinazione dell’individuo artistico e quello zeitgeist – quella ‘struttura’ immanente – che articola materialmente l’esistenza umana in quel dato periodo e in quel dato luogo. L’intento dichiarato è, dunque, quello di collegare i fenomeni stilistici a quanto avviene in al­ tri settori della cultura di ogni epoca, ivi compresi, in primo luogo, i fenomeni che interessa­ no la vita pratica, economica, produttiva, o per dirla in una sola parola, la cultura materia­ le, che poi altro non è che l’eser­ cizio delle tecniche rese possibi­ li, e di fatto assunte e applicate in quella certa epoca. Da questo proposito si dipana una fitta e articolata storia dell’arte che procede dalle civiltà nomadi fino alle avanguardie storiche, con molte fulminanti intuizioni geniali e innovative insieme a qualche forzatura di troppo, ritenuta indispensabile per una quadratura del cerchio, ma che in alcuni casi rischia di vanificare in

un’eccessiva semplificazione i ben più che condivisibili assunti di fondo. Allo stesso modo, però, il testo procede seguendo i paradigmi scientifici di un vero e proprio manuale, prendendo rapidamente posizione nel corso del­l’e­ sposizione, per un’interpretazione o per un’altra, come per esempio avviene nel caso di Giotto – con l’affermazione dell’indubbia paternità del ciclo francescano di Assisi – o in quello di Caravaggio, del quale si misconosce la matrice lombarda come elemento dirimente della sua poetica. In una delle memorabili sintesi a volo d’uccello che di frequente opera nel corso della lettura Barilli così spiega: dall’ar­ caismo greco alla fase classica si è passati quando un nomadi­ smo sparso sul territorio ha da­ to luogo ai centri di aggregazio­ ne delle poleis, poi travolte nel tentativo ellenistico di allarga­ re gli spazi. L’impero romano, erede della classicità greca, l’ha vista implodere man mano che si allargavano i territori posti sotto il suo dominio e non era più possibile controllarli grazie a un saldo sistema logistico. Da qui la grande bonaccia del Me­ dioevo, cui ha reagito, dopo il secolo XI, il proposito di rial­ lacciare il sistema viario e dun­ que di riprendere intenti mime­ tici di buona fedeltà nei con­ fronti del reale, tenuti per alcu­ ni secoli a uno stato abbastanza ingenuo e spontaneo, finché non sono intervenute le due macchine della prospettiva, per­fetto congegno per misurare le distanze, e della stampa, an­ ch’esso valido strumento di rappresentazione virtuale del mondo.

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Questo assist riepilogativo, offerto tra l’altro in una fase già avanzata di lettura, condensa in forma molto eloquente tutti i possibili passaggi, operati con i relativi exempla che tengono insieme la dimensione produttiva culturale con quella organizzativa-economico-materiale. Si procede co­ sì con il rapporto tra le stilizzazioni astratte e geometriche delle civiltà nomadiche e l’assenza di luoghi circoscritti di residenza o di strade predefinite, come prima illustrazione di una relazione omologica, probabilmente abbastanza forzata anche nel dichiarato orizzonte interpretativo. Oppure con il connubio tra la nascita della polis organizzata attorno a un centro e la comparsa dei kouroi e korai, con la resa del panneggio che, pur ‘nascondendo’ la scarsa conoscenza dell’anatomia umana, permette però una plasticità pura. E, ancora, più avanti, a dimostrazione ulteriore della correttissima coincidenza tra il dato materiale e quello immateriale, o, meglio, della materialità del dato immateriale, la disposizione paratattica dei dipinti di Botticelli, con la collocazione di tutti i personaggi quasi sulla stessa linea, viene resa analoga all’approccio politico di Lorenzo il Magnifico, nel suo sforzo di mantenere un equilibrio tra le signorie italiane. L’autore, in particolar modo, individua, sulla scia della più intelligente critica materialistica del Novecento, due momenti decisivi: la prospettiva e la stampa. Nella prospettiva – definita come il vero atto costitutivo della Modernità – si scorge, con un meccanismo goldmanniano rafforzato dalle conclusioni di McLuhan,

il bisogno di conquista della civiltà occidentale, pronta a forzare il dato naturale per una sintesi che le permetta di governare la realtà, con uno strumento o con un esercito. L’invenzione della stampa a caratteri mobili è il necessario pendant di questo atteggiamento e di questa pratica e, secondo l’autore, alla base delle due tecnologie sta l’uso della qualità rettangolare, che diventa essa stessa quasi la misura delle cose. Quando si affaccia a indagare gli ultimi secoli del secondo millennio, Barilli, innanzitutto si preoccupa di affrontare la questione della “periodizzazione” – specificamente circoscritta al­ l’annosa definizione di “età moderna” e di “età contemporanea” –, inserendosi in un dibattito mai concluso e sottolineando l’esigenza di individuare finalmente una soluzione condivisa universalmente, anche attraverso un bando di un concorso internazionale, perché si sostituisca l’e­ spressione “età contemporanea” per riferirsi a quella che comunemente ha inizio con la fine dell’età moderna: 1789. Lo studioso suggerirebbe infatti di utilizzare il termine “postmoderno”, se questo non fosse già stato riferito ad altri ambiti, proprio perché questo vocabolo consentirebbe meglio di altri di indicare una successione temporale tra un’età moderna e una successiva ad essa. Alla fine del Settecento l’i­ nizio della contemporaneità viene di fatto dettata dalle nuove scoperte sull’elettromagnetismo (Luigi Galvani e Alessandro Volta) che tracceranno una rottura insanabile con i tempi precedenti


e che porteranno in seguito al­ l’utilizzo dell’elettricità; questa brucia le distanze, cancella la prospettiva su cui ancora si ancorava tutta l’epoca moderna e conduce in arte a un’astrazione dei corpi, al loro schiacciamento sulla superficie bidimensionale, con un fremito energetico che attraversa le immagini, che diventano così deliranti e oniriche: in poche parole, la deformazione. L’autore affronta poi il caso di Füssli e Blake e, con il primo, riprende l’ipotesi di una omologia tra le sue proposte e i portati dell’elettromagnetismo e la rottura degli schemi rettilinei delle coordinate cartesiane; le figure abbozzate da questo artista evi­ tano del tutto il criterio dell’iso­ tropia, i corpi non si attengono più al buon album anatomico. Blake va anche oltre e prende di petto, per ribaltarlo, un cardine della modernità, la stampa, rifiutandosi di pubblicare le sue raccolte di poesia e i suoi saggi di filosofia, considerando ormai superato quel sistema di comunicazione e propugnando un ritorno a un’unica lastra di testo e immagine. Da citare, ancora, la lettura di Turner, la cui raffigurazione dei movimenti acquatici (defla­ grazione atomica) viene indicata come l’anticipazione del sostrato linguistico idraulico che fornisce il piano metaforico alla costituzione del lessico elettromagnetico. A questi anticipatori – che appartengono a quella fase che Barilli definisce alba del contem­ poraneo – segue una stagione dettata, anche in arte, dai portati della rivoluzione industriale, basata sul funzionamento delle macchine e dove all’elettroma-

gnetismo si sostituisce l’energia termica. Si tratta in questo caso di un ritorno del moderno, in un rapporto di sintonia con quel­ l’epoca moderna vera e propria in cui era stata inventata la prima macchina industriale, la stampa a caratteri mobili. In arte questo vuol dire ritorno del naturalismorealismo, da considerarsi forma omologa alla tecnologia meccanico-gutenberghiana. Diversamente, negli ultimi due decenni dell’Ottocento si afferma infine il primato dell’elettromagnetismo come tecnologia (Marconi, Einstein), che non riesce, però, immediatamente a scalzare del tutto la macchina, tanto da determinare nelle avanguardie primonoventesche una complessa oscillazione tra “meccanomorfismo” (Cubismo) e “elettromorfismo” (Futurismo), pur nel comune ripudio per la natura e per la rappresentazione, quasi a segnare due flussi carsici, che, di volta in volta, agiscono per orientare la pratica artistica. Sebbene concluda la sua narrazione sugli esempi del Surrealismo – con Sigmund Freud, altro pilastro della contemporaneità – e della contro-onda di Giorgio de Chirico, e sebbene, sempre in chiusura, accenni al rigido meccanomorfismo dell’esperienza del Bauhaus di Gropius, alla cui corte autoritaria vennero chiamati due esponenti di spic­ co di un mondo dell’arte che viceversa non riteneva affatto di aver esaurito i suoi compiti, Kandinskij e Klee, la vera sintesi conclusiva del suo ragionamento Barilli l’affida ancora una volta alle pagine dell’introduzione, indicando un preciso spartiacque che conduce a una nuova

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contemporaneità, affrancata dal suo instancabile confronto con il Moderno: il 1968. È da questo momento che l’arte non si serve più di mezzi tradizionali per “esprimere” la sua anima elettronica, ma utilizza scopertamente neon, resistenze elettriche e computer, cioè quelle tecnologie di cui a lungo era stata forma omologa. Gli artisti abbandonano il pennello e lo scalpello, gli stru­ menti cui era stato affidato il secolare compito di rappresen­ tare la realtà, ora questa è da aggredire con una strumenta­ zione ben incisiva, molte volte di specie elettronica, basti pen­ sare alla video arte, che ormai è condivisa dall’intero pianeta. Insomma dal 1968 parte una storia che non è più riconduci­ bile al solo Occidente, e dunque il darne conto esula dal presen­ te compito. O. S. di V. G. Canella, Architetti italiani nel Novecento, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2010.

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Scritti di Guido Canella prodotti tra il 1979 e il 2007, selezionati e raccolti dall’A. ma pubblicati postumi (a cura di Enrico Bordogna) dopo la sua improvvisa scomparsa nel settembre 2009. Uno sguardo sul Novecento italiano partecipe e al tempo stesso inflessibile, mai indulgente. Da ascrivere – ma con caratteri suoi propri, come si dirà più oltre – al mainstream della storiografia italiana, alla corrente di maggioranza che rifiuta revisionismi estemporanei o interessati e continua a

mettere nel giusto ordine le idee, gli autori e le opere. La sua titolazione naturale sarebbe stata Architetti italiani del Novecento, ma c’era già il saggio di de Seta del 2006 per l’Electa Napoli. La scelta della dizione “nel Novecento” sembra risultare persino più pertinente a giudicare dal contenuto del libro perché è il XX secolo il grande spazio storico che emerge come protagonista e accoglie dentro di sé autori e opere dell’architettura italiana che risulterebbero immiseriti dal­ l’assenza di questo possente supporto che ha alimentato il Moderno. Importante al punto tale che gli ultimi grandi razionali­ sti sembra si siano rifiutati di varcare la soglia del nuovo mil­ lennio, per rimanere dentro questo straordinario Novecento così tragico eppure tanto prodi­ go di ispirazione per le arti, scrive l’A. con tenera ironia introducendo la biografia critica di Gardella morto nel 1999. Quattordici architetti in perfetta simmetria ognuno con il suo spazio monografico, sette tra le due guerre (Sant’Elia, Portaluppi, De Finetti, Muzio, Buzzi, Persico e Terragni) e sette dopo la guerra (Rogers, Samonà, Ridolfi, Gardella, Albini, De Carli e D’Olivo). Quattro saggi iniziali per illustrare il passaggio dal modernismo al razionalismo, tra i quali spicca per lunghezza, impegno di ideazione e scrittura, Figura e funzione nell’architettura italiana dal dopoguerra agli anni Sessanta, che fa riferimento ad una progettazione di élite, ecce­ zionale…di alcune opere che individuano una tradizione “colta”. Scelta di metodo inattesa, ma solo per chi non conosce il


severo esercizio della critica connaturato al maestro milanese. Lo si potrebbe legittimamente titolare anche Breve ma veridica storia dell’architettura italiana del Novecento, parafrasando la nota (e in questo libro citata) Breve ma veridica storia della pittura italiana scritta a soli 24 anni da Roberto Longhi, tanto sono importanti le arti figurative e la pittura in particolare in tutte le analisi storico-critiche di Canella. Gli altri tre sono dedicati all’architettura tra fine Ottocento e primi Novecento nell’area milanese, ai prestiti e debiti tra architettura e pittura del “Novecento” e al rapporto tra il Fascismo e la corrente dei razionalisti. Su quest’ultimo tema, una prima, rapida osservazione per segnalare l’assoluta indipendenza di giudizio dell’A. da proposizioni critiche consolidate. Il bersaglio grosso, per così dire, è addirittura Giulia Veronesi e il suo celebre Le difficoltà politiche. Nessun dubbio che ci furono, dice Canella, ma il Razionalismo godette di una legittimità culturale, avversata più da un pregiudizio di gusto che non da motivi ideologici. E ancora: oc­ corre anche sfatare il luogo co­ mune, ricorrente nel dopoguer­ ra, che pretendeva gli architetti razionalisti solidalmente parte­ cipi di un’estraneità sostanzia­ le, se non proprio ufficiale, all’ideologia fascista, e comun­ que vittime di un inganno cul­ turale; quando invece è dimo­ strato come la gran parte di lo­ ro, soprattutto verso la metà degli anni Trenta …vi aderì per convinzione, nell’illusione che quella moderna potesse accre­ ditarsi come “architettura di Stato”. E infine – ma questa vol-

ta Canella cita il suo maestro Rogers che su Casabella commemorava nel 1946 la catarsi di Pagano – il passato non si può alterare. Bisogna avere il coraggio dove­ roso di parlarne. Questa è la ve­ rità: i migliori di noi furono i più attivi nell’errore. Perché questi argomenti e questi quattordici architetti? Domanda oziosa, se volta a sindacare imperdonabili omissioni o scandalosi inserimenti, come si suol dire ogni qual volta ci si trovi di fronte ad una selezione. Domanda imbarazzante se la selezione presenta un suo palese affastellamento di argomenti. Domanda del tutto legittima se si chiede invece ad un autore di esplicitare i criteri di selezione. Semplice, risponde Bordogna nella Prefazione densa di acute riflessioni, questi di Canella non sono, né tantomeno pretendono essere, scritti di uno storico, ma sono sempre scritti di un archi­ tetto operante, interamente svolti dall’interno del “labora­ torio progettuale”, con sensibi­ lità, attenzioni, intuizioni di un maestro che insegna a compor­ re architettura e scrive, riflette, ricerca a partire dai problemi del progetto e sempre in funzio­ ne del progetto. Ancora più semplicemente, è lo stesso A. a chiudere – ma provvisoriamente per il recensore – la complessa quanto annosa questione della selezione parlando d’una esposizione “tendenziosa” dell’architettura italiana, laddove l’aggettivo include anche scelte affettive del tutto personali. Lo scrive in premessa del citato saggio su Figura e funzione ma l’avvertimento va esteso a tutti gli altri argomenti, monografie comprese. Che ci fa

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Tomaso Buzzi ad esempio, en­ fant terrible tra gli architetti del Novecento milanese, nel­ l’em­pireo architettonico tra San­ t’Elia, Persico e Terragni? Omaggio al suo professore di Disegno dal vero in occasione di un convegno a lui dedicato: è una delle letture più gradevoli perché fa emergere la garbata e ironica vena narrativa del maestro milanese. Vena che ritorna, ancora ad esempio, nel paragrafo dedicato a Marcello D’Olivo in occasione della presentazione della monografia scritta da Zucconi, con un frammento di scrittura raffinatamente bozzettistica che merita una citazione testuale: Ricordo che rimasi affascinato da quel suo certo occhio veneto, in cer­ ta misura somigliante a quelli di Carlo Scarpa o dell’attore Alberto Lionello o di Goffredo Parise: occhio tondo nettamen­ te disegnato e inciso nell’ovale del volto, quasi fosse bistrato, apparentemente malinconico, ma a tratti illuminato da lampi di vivacità comunicativa. Bordogna coglie molto bene e giustamente esalta questa qualità letteraria della prosa di Canella che possiede l’abilità di mettersi dalla parte dell’opera e di ad­ dentrarvisi al punto di riani­ marla a una seconda vita, come se potesse prender forma di nuovo attraverso fulminei giu­ dizi critici…Vi è in questo, cer­ to, il grande modello della pro­ sa longhiana, e la appassionata consuetudine con autori che al nome di Longhi sono in diversa misura legati, come Garboli, Testori, Isella, Pasolini. Da Longhi, aggiungiamo, Canella deriva la capacità di riassumere una serie di idee, giudizi (e pregiudizi)

con aggettivi o avverbi che lasciano tracce valutative inequivocabili, alcune delle quali meritano di essere riportate. Così: la modernità di Moretti è ammic­ cante, i razionalisti Cosenza, Ma­rescotti, Bottoni, Asnago e Vender, Daneri sono personalità mondanamente emarginate o isolate in un confortevole inti­ mismo professionale, Ponti al­ lora novecentista ma occasio­ nalmente sedicente neoclassico, Albini e la sua rarefatta comu­ nicativa… per cui le sue affer­ mazioni venivano assunte come sentenze. E ancora: la lebbra del curtain wall, la babelica volga­ rità dell’International Style. E infine, di certo l’avverbio più perfido: Canella e Rossi scrivono un articolo politicamente eretico titolato Per un’architettura realista e lo consegnano a Davide Lajolo direttore de “l’Unità” di Milano che, accortamente, lo accetta senza pubblicarlo per cui è rimasto inedito. Chiusura provvisoria sui criteri di selezione del materiale pubblicato, si diceva in precedenza. Riapertura d’obbligo per questa antologia che possiede un suo fisiologico tasso di occasionalità (scritti desunti da anniversari, presentazioni di libri, lezioni universitarie e conferenze) ma presenta anche una chiara e coerente scelta di campo su alcune questioni centrali del Novecento italiano e più in generale dell’architettura come progetto pensato e realizzato. Scelta di campo molto più inclusiva e sincretica di quanto il suo esigentissimo carattere culturale induca a credere. A uno dei più rigorosi compositori italiani del secondo Novecento che nulla


concede nel progetto a contaminazioni che non siano dentro il linguaggio specifico dell’architettura, corrisponde un critico operativo che giudica opere e autori sempre dentro correlazioni più ampie. Dentro l’architettura è l’analisi tipologica, morfologica, figurativa e strutturale a impegnarlo prioritariamente. E letture eccellenti di opere paradigmatiche ve ne sono in gran numero in questo libro. Da segnalare quella della Torre Velasca, carica di troppi significati ma anche in sospetto di speculazione edilizia e quella della Casa alle Zattere, che declina un convenzionale gusto ambientalista, a conferma d’un Canella che non fa sconti neppure al suo maestro Rogers e allo stimato amico Gardella. Accanto all’architettura, vi sono le più volte citate arti figurative a spiegare l’origine o gli esiti figurativi di movimenti, opere e autori. Oltre l’architettura v’è la forza ideale, l’esplosione morale e il segreto religioso che il laico Canella connette indissolubilmente al progetto, richiamando quei valori che Persico riconosceva al­ l’architettura moderna centroeuropea e negava agli architetti italiani suoi contemporanei. Persico, appunto. Edoardo Persico è il nome più citato in assoluto, con il paragrafo più lungo, con gli accenti più partecipi. Pari ruolo è riservato solo a Terragni, il maggiore talento architettonico del Nove­ cento. E oggi, fuori del tragico ma grande Novecento? Giudizio negativo, analiticamente negativo. L’incipit gli è fornito da una recente tendenza a rivalutare personalità come Portaluppi, Ponti e

tanti altri che ai suoi occhi hanno perseguito un’idea esornativa del­l’architettura tenendosi a debita distanza dalla tensione morale che deve animare il mestiere. La ragione di questa riscoperta può trovarsi nella fase di pre­ meditato disimpegno che la cultura degli architetti… sta at­ traversando. L’opera è considerata una sorta di “fuor d’opera” rispetto alla identità della città, sradicata dal proprio corpo di­ sciplinare fino a sovrapporsi e confondere i confini con la scul­ tura, il disegno di oggetti, la ca­ ricatura, lo sgarbo. Pertanto non è un caso che il sopravven­ to di un gusto dell’inaspettato, dell’eccentricità, dell’esotismo scorra nell’architettura del nuovo millennio, rivalutando altri, nuovi antecedenti, capaci di legittimare un’auspicata nuova “perdita del centro”. P. B. B. Gravagnuolo, Metamorfosi delle città europee all’alba del XXI secolo, Clean, Napoli 2011. La forma di una città cambia più in fretta, ahimè, del cuore di un mortale. Mai come negli ultimi decenni questo aforisma di Baudelaire sembra dar conto delle metamorfosi in atto nel cuore delle grandi città della vecchia Europa. È questa polimorfa mutazione l’oggetto del nuovo libro di Benedetto Gravagnuolo, Metamorfosi delle città europee al­ l’alba del XXI secolo, il primo studio critico su un decennio di trasformazioni urbane in Europa tra il termine a quo della tragedia

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dell’11 settembre e quello ad quem della Depressione che dal 2008 sta aggredendo la vita dell’Occidente. Il saggio, dedicato a Wim Wenders, il cineasta che fin da Alice nelle città (1974) si è mostrato come il più sensibile a queste tematiche, si apre con un montaggio fotografico che associa al Museo Guggenheim Bilbao, icona massima dell’architettura degli ultimi quindici anni, il ragno di bronzo di Louise Bour­ geois, Maman, che evoca quella immagine ovidiana della metamorfosi che giustamente Gravagnuolo individua come quella che meglio riesce a esprimere la radicalità di modificazioni che, ri-plasmando spazi e forme della città europea, ne stanno segnando la coscienza e l’identità, tra attese e inquietudini. Il libro aggiorna e amplia (con un’integrazione relativa alla situazione italiana) lo studio che Gravagnuolo ha firmato per Gli spazi e le arti, quarto volume del­l’Enciclopedia del XXI secolo, e idealmente chiude la parabola che venti anni fa lo stesso Gravagnuolo aveva aperto su tali temi con La progettazione urbana in Europa 1750-1960, autentico caposaldo storiografico degli studi sulla città europea. Il corpo del libro – illustrato da un ricco apparato fotografico – è strutturato in cinque sezioni, opportunamente precedute da Lo scenario in evoluzione, breve ma densissimo capitolo nel quale l’autore espone con lucido nitore i parametri sui quali incardina la propria disamina. La prima sezione, titolata Quattro capitali esemplari. Londra Parigi Berlino e Madrid, è dedicata ad alcuni study cases che significativamen-

te mettono in luce la natura particolare che, per molte ragioni, assumono le grandi trasformazioni nelle grandi capitali del vecchio mondo. I due capitoli successivi sono dedicati a Le città porto, rispettivamente incentrati sulle metropoli che punteggiano le coste europee nella articolata traiettoria che congiunge Oslo con Lisbona (Dal Baltico all’Atlantico. Città scandinave, Città Atlantiche del Nord. Città Atlantiche del Sud) e su quelle affacciate sul Mediterraneo (Valencia, Marsiglia, Atene, Barcellona). Se nella quarta sezione – Le città Italiane. Roma Torino Venezia Napoli Salerno – è alla complessa e contraddittoria scena italiana che Gravagnuolo volge lo sguardo, è infine a due temi assai diversi come il grattacielo di inizio millennio e il Vitra Campus di Weil am Rheim – irripetibile jam session di grandi protagonisti dell’architettura e del design che l’azienda tedesca è riuscita ad allestire in un’iniziativa che riful­ ge come allegorico paradigma della città contemporanea – che è dedicato l’ultimo capitolo, intitolato Altre icone: un “saggio doppio” nel quale le suggestioni suscitate dalla ricchezza dei riferimenti (da Kubrick a Icaro) e dalla qualità della narrazione non scalfiscono il rigore con il quale è condotta la rilettura di quelle esemplari esperienze. Gravagnuolo muove dalla constatazione di un dato indiscutibile che sta segnando la cultura, non solo architettonica, in modi che forse ancora non sono stati percepiti appieno in tutta la loro portata storica. Tutte le grandi città europee hanno attraversato negli ultimi decenni vistosi pro-


cessi di modificazione del proprio assetto, nelle aree centrali, in quelle di margine e nel loro hinterland, con consequenziali e indispensabili interventi sulle reti di connessione tra nuovi poli di attrazione, vecchi settori ristrutturati e nuove aree urbanizzate. Le ricadute sono state enormi sul piano sociale, economico e culturale, come ancora su quello della percezione dello spazio urbano e dello stesso immaginario collettivo. Tale mutazione, innescata dalle innovazioni precipi­ tate in tale fase contrassegnate da rapidità e radicalità, è il prodotto di deliberate scelte che esprimono lo zeitgeist di inizio millennio, tanto è vero che la mancata attuazione di tali interventi, laddove non è (ancora) avvenuta, non è dipesa da una consapevole rinuncia e quindi da scelte politiche e culturali, ma da ostacoli procedurali, farraginosità gestionali o inettitudini poli­ tiche. Gravagnuolo fissa così un duplice obiettivo: far conoscere, mettendo in luce i modi e le forme dei fenomeni analizzati; e giudicare: poiché è compito precipuo del critico come dello storico, forse più di ogni altro intellettuale, quello di valutare la reale portata di un fenomeno rispetto alle attese e ai bisogni di coloro che ne sono coinvolti. Non sem­ pre le trasformazioni produco­ no un’evoluzione positiva della struttura urbana, recando una crescita economica, civile e cul­ turale del contesto sociale, regi­ strabile in un miglioramento della qualità della vita quoti­ diana di coloro che abitano o lavorano in quel luogo. In tal senso diviene allora fondamenta-

le interrogarsi sul senso delle metamorfosi, provando a verificare se esse non abbiano anche spinto al contrario verso un’in­ voluzione, comprovabile non solo e non tanto con la tenden­ za al decremento demografico e occupazionale, quand’anche e soprattutto con l’avanzare del degrado ambientale e compor­ tamentale. Poste premessa e finalità Gravagnuolo è chiamato a affrontare almeno tre questioni, strettamente intrecciate, di non poco conto. C’è infatti innanzitutto un problema di “distanza”, poiché l’arco temporale di riferimento non solo è breve, ma è assai ravvicinato e lo storico non può confidare in questo caso in quella selezione naturale di eventi che il tempo stesso nel suo scorrere distilla nella media e nella lunga distanza. Oggetto dell’indagine dello storico è dunque una realtà in divenire e, si sa, il presente è il più inafferrabile dei tre tempi in cui abbiamo diviso il tempo. Un secondo problema è costituito dalla sovrabbondanza di informazioni che ostacola lo storico forse persino di più della carenza delle fonti che in ogni tempo è chiamato a combattere. Un flusso di informazioni straripante, sovente ingestibile, e nella maggior parte dei casi scadente, poiché ridotto ad asettica didascalia di immagini spesso anche inattendibili poiché viziate dal fatto che i canali di trasmissione di quelle informazioni – legittimamente – non sono neutri né imparziali ma puntano a trasformare un’informazione “interessata” in un “dato di fatto oggettivo” da accettare acriticamente come tale.

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Una terza questione riguarda la difficoltà di delineare un quadro unitario, poiché la possibilità di individuare invarianti è inversamente proporzionale all’intricato sovrapporsi di un numero altissimo di eventi che, inoltre, non solo si manifestano in contesti assai differenti, non solo mutano nel corso del loro stesso prodursi, ma sono ancora in atto. In estrema sintesi: l’oggetto da studiare è complesso, è troppo vicino, è infinitamente sfaccettato ed è sempre in movimento, e la messa a fuoco pertanto non è affatto agevole. La strategia elaborata si fonda innanzitutto sulla preliminare rinuncia a ipostatizzare tale magmatica sostanza creando a tavolino un’improbabile Città Europea. Non è senza significato che nel titolo si parli infatti, al plurale, di città europee. È tuttavia su una decisa azione di selezione critica, da sempre fondamento e cuore stesso del mestiere di storico, e quindi sulla scelta di casi ritenuti esemplari (per la qualità oggettiva, o per l’emblematicità delle vicende) che si distende poi il plan storiografico, nel quale quei casi sono calati in una griglia organizzata per caratterizzazioni geografiche che lasciano emergere la specificità di contenuti, modi e tempi che hanno segnato le varie realtà, inducendo il lettore a delle inevitabili comparazioni, spesso amare, come accade quando la trasformazione di tutta la città, a Berlino o Londra, è confrontata con quanto non si è riusciti a realizzare a Napoli neanche in un solo settore (Bagnoli o area est). Ed è singolare notare che a fronte di una grande diversificazione delle procedure di

pianificazione e attuazione si riscontri poi una certa omogeneità sul piano delle scelte architettoniche, con il sistematico ricorso alle grandi firme dello star system internazionale che non pare ritengano più prioritaria la questione del dialogo non tanto con il contesto, ma con la specificità di una identità urbana che è l’eredità più preziosa nonché la ragione profonda del fascino che, da Lisbona a San Pietroburgo, le città europee per secoli hanno esercitato. C’è poi il “taglio” che Gravagnuolo adotta nel mettere a fuoco l’oggetto: l’autore amplia infatti il ventaglio dei riferimenti sottolineando come l’azione di architetti e urbanisti si consumi sempre in un confronto dialettico serrato, e spesso aspro, tra norme, procedure e i moltissimi attori presenti sulla scena: istituzioni, imprenditori, apparati decisionali e società civile, ma anche gli intellettuali, i più accreditati a sottoporre l’azione della governance a quel vaglio critico così necessario, e che purtroppo nella realtà italiana sono invece così poco coinvolti, con esiti ora velleitari ora scadenti e progetti spesso irrealizzati. È tuttavia attraverso l’individuazione di un preciso artificio storiografico che si dipana poi il filo del récit di Gravagnuolo, il quale individua tre polarità dialettiche rispetto alle quali orienta i propri percorsi di analisi. La prima è quella tra piano e pro­ getto, poiché è stata soprattutto l’inversione – o meglio la dialet­ tica visione ‘contestuale’ – della sequenza che faceva discendere il secondo dal primo ad aver reso davvero praticabili determinate


scelte. La seconda polarità è quella tra globale e locale, dietro la quale agisce ancora forte la dicotomia tra Kultur e Zivilisation che tanta parte ha avuto nella cultura tedesca sui temi della città e del territorio e anche negli studi dello stesso Gravagnuolo. La terza dicotomia è quella tra espan­ sione e densificazione, ripensata nel segno di una risolutiva virata teoretica verso il ritorno all’idea di ‘città compatta’, assunta quale paradigma preferenziale per il prossimo futuro, che ribadisce di nuovo l’amore antico che la civiltà europea ha sempre avuto per la cultura delle città. Esatta posizione di un problema; scelta degli obiettivi; elaborazione di una metodologia fondata su analisi comparata e selezione critica, inquadratura e messa a fuoco dell’oggetto di studio e, infine, artifici storiografici: Me­tamorfosi non è solo una indagine e una riflessione su dieci anni di grande architettura e il prezioso compagno di viaggio per chi voglia orientarsi nei mutamenti che attraversano l’Europa; è anche un intelligente contributo offerto a coloro che desiderano dare un senso, oggi, alla critica dell’architettura. G. M. D. Baroni, La forma del design. Rappresentazione della for­ ma nel linguaggio del Basic Design, Zanichelli, Bologna 2011. Il nuovo volume di Daniele Baroni, progettista e teorico del design, si presenta in una veste accattivante. Tuttavia, non si trat-

ta soltanto di forme grafiche; la forma qui ha valore prima di tutto teorico. Il volume, infatti, è interamente dedicato alla “for­ ma” nel design, avvalendoci di strumenti in parte già consoli­ dati nell’ambito della didattica. Questa parola latina – forma – che si mantiene longeva dall’antica Roma, tuttora attiva nelle principali lingue occidentali (form, inglese; forme, francese; Form, tedesco; forma, spagnolo), vale qui nella sua duplice accezione di morphé, forma visibile, e di eîdos, forma astratta, dal momento che si considerano gli archetipi, i modelli, le griglie compositive, le figure geometriche e altri importanti strumenti di ideazione del progetto. I temi proposti sono dunque fondamentali, anzi basici; e vanno dal prodotto industriale alla comunicazione visiva, fino alla psicologia del­ l’arte, dal disegno del carattere alla forma degli oggetti, fino alle ricerche di Rudolf Arnheim sui problemi di forma e configura­ zione, di spazio, luce, colore, movimento, tensione, equili­ brio, espressione, tutto stretta­ mente collegato alla fenomeno­ logia della percezione. Un tema importante è sicuramente quello della corporate image, riconducibile alle attività progettuali messe in campo dal­ l’AEG (1907-1914), la grande azienda tedesca dell’elettricità, che si dota di un art director (ante litteram) del calibro di Peter Behrens. Puntando alla “riorganizzazione del visibile”, egli progetta una serie di elementi grafici nucleari (marchio-logotipo, carat­ tere tipografico istituzionale e gam­ma cromatica), perfettamente coordinati ed enucleati in un

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programma d’immagine integrata che conferisce all’azienda un’i­dentità (visiva) ben riconoscibile ed efficace. Ma gli spunti più interessanti sono forse quelli intorno al basic design: un percorso, il nostro, che prende avvio là dove è av­ venuto l’azzeramento di ogni concezione di tipo accademico, e dunque che ripercorre alcuni passi fondamentali degli studi intrapresi negli anni venti del secolo scorso, come “la genesi della forma” e “punto linea su­ perficie”, approfonditi rispetti­ vamente da Paul Klee e da Wa­ silij Kandinskij; si tratta di principi su cui si fondano parte delle teorie del Basic Design e che impegnano, oramai da de­ cenni, la didattica di molti corsi di progettazione. A mio avviso, però, queste teorie impegnano poco i corsi di progettazione, meno di quanto dovrebbero. E ciò è senz’altro bizzarro, perché costituiscono l’ABC del design; a cominciare dal punto geometrico, che – scrive Kandisnkij – è un’entità immateriale e, pensato ma­ terialmente, […] equivale a ze­ ro; oppure dalla linea, che – secondo Klee – funge da collegamento tra un punto che attua il suo rapporto di tensione rispet­ to a un altro punto. Di grande interesse, sempre nell’ambito del basic, sono poi le ricerche condotte da Johannes Itten e da Josef Albers, insieme a Kandinskij e Klee, teorici e formidabili artisti, tutti docenti in quel mitico luogo di formazione e di rinnovamento dei linguaggi che è stato il Bauhaus (19191933). Punto di riferimento assoluto – ancor oggi attualissimo – risulta il saggio di Itten sull’Arte

del colore (1961), dove si conduce un’indagine sul contrasto cromatico inteso come polarità e tensione dinamica: contrasto di colori puri, di chiaro-scuro, di caldo e freddo, di colori complementari, di simultaneità, di qualità e di quantità. In quest’ambito, non meno interessanti sono le associazioni di Kandinskij tra i colori e i suoni musicali, come pure tra le figure geometriche elementari e i colori primari (associazioni confermate dallo stesso Itten): all’elemento freddo/caldo del quadrato e alla sua chiara natura di superficie corrisponde il rosso. Se poniamo di fronte le apertu­ re di due angoli di questo tipo abbiamo un triangolo equilate­ ro – angoli acuti, attivi – che rimandano al giallo […]. L’an­ golo ottuso perde sempre più in aggressività, penetrazione, co­ lore, ed è perciò lentamente af­ fine a una linea senza angoli, che produce la terza forza sche­ matica primaria di superficie, il cerchio. E l’elemento passivo dell’angolo ottuso, la quasi in­ sussistente tensione in avanti, dà a questo angolo una leggera colorazione “azzurra”. Kandinskij, inoltre, precisa che men­ tre il cerchio è una superficie o quantomeno appartiene a que­ ste, la spirale è una linea conti­ nua, mettendo così in evidenza che due immagini elementari somiglianti in realtà si differen­ ziano sostanzialmente. Ancora un riferimento irrinunciabile alle ricerche sul colore è senz’altro Albers, autore di un saggio seminale sull’Interazione del colore (1963) e progettista-pittore di una serie di quadri contrassegnati da tre o quattro quadrati iscritti l’uno nell’altro secondo precise


proporzioni e di colorazioni diverse e calibrate per compiere movimenti e performance percettive. Un altro tema fondamentale è quello della forma tipografica, il disegno del carattere, che secondo alcuni sta nel cuore della grafica. Qui, di basilare importanza sono le ricerche condotte dai grafici del Bauhaus, come Albers (progettista nel 1926 di un carattere stencil fortemente geometrico) ma soprattutto László Moholy-Nagy ed Herbert Bayer, in sintonia con altri autorevoli designer di caratteri quali Jan Thchichold (autore de La nuova tipografia, 1928) e Paul Renner (che disegna il Futura negli stessi anni). Di Bayer, invece, è l’Universal – uno dei caratteri più interessanti degli anni venti (1925), interamente basato sul tratto retto e sull’arco di cerchio – come pure la convinzione, condivisa da Moholy-Nagy, di affermare un “monoalfabeto”, quanto più semplice possibile e rigorosamente minuscolo, per una serie di buone ragioni funzionali e sostanzialmente economiche. “I tedeschi pensano in un modo e scrivono in un altro” (cioè in due modi diversi), lamentava già Adolf Loos, che si potrebbe definire un basic architect. E perché – argomentano Bayer e Moholy-Nagy – al suono “a” devono corrispondere due segni diversi, “a” e “A”? Non è forse uno spreco? (È appena il caso di ricordare che, un tempo, la costruzione del carattere implicava corpi fisici la cui minore o maggiore quantità incideva sensibilmente sui costi di produzione). Da qui, prende campo tutta una sperimentazione tipografica che attraversa il secolo conducendo a

forme inedite, come quelle del New Alphabet di Wim Crouwel, messo a punto tra il 1967 e il 1972, nel tentativo di un adat­ tamento ai primi computer […] un lineare in cui viene utilizza­ to un modulo rettangolare va­ riabile. In seguito, negli anni ottanta e novanta, la tipografia subisce ulteriori e snaturanti modifiche, influenzata dai media digitali, destrutturandosi e assumendo un timbro sempre più figurativo, nei lavori roboanti di grafici come Neville Brody e David Carson; le loro riviste, “The Face” e “Ray Gun”, oramai “storiche”, diventano una sorta di laboratorio sperimentale dei linguaggi grafici, preludendo a una neo-grafia. Tornando alle forme basiche, un posto rilevante occupa il design italiano: sia quello della comunicazione sia quello del prodotto. A cavallo tra i due (e non solo), va menzionata la straordinaria attività di Bruno Munari, progettista multidisciplinare, formatosi nel clima del secondo Futurismo degli anni trenta, e spesso basic designer […] quan­ do su invito di Harward svilup­ pò alcune innovazioni in un programma di insegnamento, proprio intorno ai principi di base del design, che potrebbero essere tradotti in un antico aforisma giapponese: “Osservare a lungo, capire profondamente, fare in un attimo”. Allo stesso modo, la ricerca della sintesi, del gesto minimo, una semplicità risolutiva che non è banalità ma “complessità risolta” (come dice Constantin Brâncuşi), è la chiave del successo di molti progettisti italiani, da Giulio Confalonieri ad Armando Testa, da Max Hu-

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ber a Bob Noorda (entrambi naturalizzati italiani). Ma chi più di ogni altro raggiunge il sub-limen, l’essenza della grafica minimale è senz’altro A. G. Fronzoni, che interpreta in modo originale i postulati della psicologia della Gestalt, fino a sfiorare una sor­ ta di “grado zero” della comu­ nicazione. […] Ciò che nel suo lavoro è apparso più tardi come implacabile Minimalismo, riba­ dito dal dogma puritano del bianco e del nero, si è rivelato infine un atto supremo dell’in­ telligenza che individua nella mobilità delle cose il senso sta­ bile e definitivo. Un caso analogo, sempre nell’ambito del design del prodotto (italiano), è quello del televisore Black, disegnato nel 1964 da Marco Zanuso e Richard Sapper: un cubo nero dalle dimen­ sioni piuttosto contenute che produce un effetto dal punto di vista psicologico equivalente a quello del dipinto di Kazimir Malevič, Quadrato nero su fondo bianco (exploit basico del­ l’Astrattismo geometrico, esposto per la prima volta a Pietrogrado nel 1915). Come quel di­ pinto, infatti, anche il Black costituiva una forma assoluta, perfettamente cubica e nera, dando l’impressione che qua­ lunque progetto successivo a questo non avrebbe potuto che rompere quello schema così ri­ goroso e guardare al passato per ripensare la forma del tele­ visore. Un ultimo episodio che vale la pena di segnalare è quello della Scuola di Ulm, della Hochschule für Gestaltung; una parola – Gestaltung – pressoché intraducibile in italiano che vale come “con-

figurazione”, la capacità di dar forma alle cose o meglio, in questo caso, alle funzioni. Qui, dal punto di vista della ricerca for­ male nel disegno degli oggetti […] sono sempre prevalse la semplificazione e l’essenzialità, secondo una filosofia che qual­ che decennio dopo sarebbe sta­ ta etichettata come “Minimali­ smo”. L’angolo retto e la sobrie­ tà dei grigi, del bianco e nero, in particolare nei lavori di Guge­ lot e dei suoi allievi, era una sorta di regola deontologica. Senza mai cadere nella celebrazione di una morfologia universale, infatti, la geometria non viene assunta come diktat ma come strumento di controllo della forma, da impiegare soltanto quando serve, in direzione ergonomica o, ad esempio, per guadagnare compattezza. Per concludere, paradigmatiche restano le parole di Max Bill, cofondatore della scuola e teorico della gute Form (1949), per il quale è possibile promuovere un’arte – e a maggior ragione un design – fondata prevalentemente sul pensiero matematico: Forma è tutto ciò che possiamo vedere. Ma quando sentiamo la parola “forma” e riflettiamo su tale concetto, questo significa per noi più di qualcosa che esiste per caso. Sin dall’inizio asso­ ciamo al concetto di forma una indiscussa qualità. […] Quando parliamo delle forme della na­ tura pensiamo a quelle partico­ larmente ben riuscite. Quando parliamo delle forme della tec­ nica non ci riferiamo a delle forme qualsiasi ma a quelle considerate particolarmente va­lide; come sempre valide restano le teorie del basic design,


che ogni progettista che si rispetti dovrebbe conoscere. D. R. G. Cavagna di Gualdana, Gariboldi. Le arti decorative in Italia: la riscoperta di un mae­ stro. Tra Gio Ponti le Triennali la Richard-Ginori e le collezioni ceramiche, Corraini Edizioni, Milano 2010. La gatta frettolosa fa i gattini ciechi… E come il proverbiale felino la storia spesso dimentica, tace, preferisce rielabolare traiettorie causali meno tortuose – talvolta in senso riduttivo – per dar conto, a posteriori, degli accadimenti del reale. Di quel reale, gaddianamente inteso, dove «le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti». A proposito del pasticciaccio storico che ha visto per molto tempo sottratto a Giovanni Gariboldi il ruolo di protagonista del design industriale del ’900 che gli spettava di diritto, il volume di Giacinta Cavagna di Gualdana dedicato alla sua opera appare non solo proficuo e necessario ma – sotto il profilo sia storico che estetico – assai riuscito, lucido e coerente. In grado cioè di portare luce laddove – come afferma Marco Romanelli nella prefazione – la storia, la grande storia degli uomini e delle cose, produce a volte delle sottili pie­

ghe proiettando coni d’ombra in cui uomini e cose rischiano di rimanere celati. Risultato di un accurato lavoro di ricerca e di archivio, il volume presenta un’ampia selezione di disegni, schizzi progettuali, lettere, pieghevoli pubblicitari d’epoca e fotografie in gran parte inedite. L’ottimo progetto e book­ design di Italo Lupi dona una veste aguatamente elegante a un volume di gran pregio sia storico sia formale che, pur nella sobrietà del testo – del quale fa pienamente parte la prefazione di Romanelli –, riesce finalmente a mettere a nudo una personalità mite e complessa che ha legato il proprio nome e la propria car­ riera alla Società Ceramica Ri­ chard-Ginori. Se non fosse limitativo e frustrante per i suoi meriti e talenti, si potrebbe definire Gariboldi un ideale uomo-azienda, ma ciò – oltre a deprimere la rilevanza che ebbe in molte scelte svolte dalla sua partner nel dopoguerra – sarebbe limitativo anche per la stessa Richard-Ginori perché azienda è davvero un termine improprio per definire un ambiente di lavoro che è stato protagoni­ sta del rilancio delle arti indu­ striali e decorative italiane. Ma, avvertiti dei limiti della definizione, occorre pure tener conto del salutare rilievo posto in essa al legame sussistente fra i due termini. Una relazione simbiotica nella quale la marcata confidenza (fatta di vicinanza fisica e continuità di rapporto) con le maestranze ha sì forse leso la capacità di emergere come individualità di Gariboldi ma a tutto vantaggio di una amalgama fruttuosa e matura creatasi con gli

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anni fra la struttura produttiva e il direttore del Servizio Artistico. A dispetto del grande favore e riconoscenza che sicuramente va attribuito all’opera instancabile di Gio Ponti, occorre ammettere che egli abbia presumibilmente svolto per la Richard-Ginori il ruolo, pur maieutico, dell’aman­ te – estroso, aitante, energico e innovativo – mentre la figura incarnata da Giovanni Gariboldi, soprattutto nel secondo dopoguerra del secolo scorso, sia stata più plausibilmente quella del coniuge, ovvero del compagno fedele deputato tanto alla cura confidente quanto all’attento sostegno nel tempo della partner. Anche a proposito di ciò, nella sua intensa prefazione, Marco Romanelli pone oppurtunamente in rilievo la tonalità coinvolgente e «tattile» della relazione fra Gariboldi e il saper fare all’interno della Richard-Ginori che col tempo si è esplicata in sensuale corresponsabilità e partecipazione, ovvero in quel senso del fare insieme – non limitato alla società ceramica, ma esteso al territorio e più ancora all’utenza finale – che, forse, non venne mai colto da un Ponti più interessato allo scarto e alla performance d’eccezione che alla routine dei dettagli funzionali e dell’adattamento pratico per esigenze produt­tive. Per leggere al meglio l’avventura di Gariboldi e della RichardGinori occorre perciò tener conto: a) del discrimine – soprattutto per quel che concerne il riscontro comunicativo – sussistente fra personalità che in ragione della propria autonomia formativa erano in grado di avviare nuovi processi e coloro che quegli stessi processi li conducevano a buon

frutto essendone parte integran­ te; b) del fil rouge che covava fra pezzi d’eccezione (oggetti unici, serie numerate, prodotti ad alto costo) e linee correnti ovvero quel feedback di tecnica, di co­ lore, di innovazione che, senza soluzione di continuità manteneva in comunicazione i due ambiti della produzione della Ri­ chard-Ginori, in particolare ne­gli stabilimenti milanesi di San Cristoforo e di Lambrate. Da esecutore di invenzioni pontiane – per usare i medesimi termini adottati nelle didascalie pubblicate sul finire degli anni ’20 sulle pagine di Domus – Gariboldi giunse a rivestire lo stesso ruolo di direzione artistica rivestito da Ponti (dal 1923 fino alla metà degli anni ’30). Ma se per Gariboldi essere direttore artistico (dal 1946 è a capo del Servizio Artistico Richard-Ginori) ha presumibilmente significato il culmine professionale di una vita, per Ponti quella mansione non fu che una delle innumerevoli attività nelle quali venne coinvolta la sua molteplice personalità. Vale a dire che l’intensità e la dedizione con cui vennero vissute tali cariche – forse addirittura imparagonabili – non possono certo essere ritenute sovrapponibili. Come risulta evidente dal racconto dell’autrice, dopo aver vissuto dieci anni sotto l’egida di Ponti, Gariboldi ebbe un ruolo da protagonista all’interno del Servizio Artistico di San Cri­ stoforo nei tredici anni successivi, rimanendo a diretto contatto con le problematiche più specifiche della tecnica ceramica (dalla ricerca sugli smalti, alla terracotta, dal grès al biscuit, dal cammeo alla porcellana orientale)


talora indagando le possibilità offerte dalla monocromia (avvalendosi dei trattamenti «a lustro», il giallo paglierino, ovvero l’areografo e la spugnatura) talaltra interrogandosi sulle peculiarità metamofiche delle varianti cromatiche abbinate alle decorazioni in rilievo, ovvero passando dal recupero, la rievocazione e l’innovazione degli antichi re­ pertori della manifattura alla reinterpretazione degli stessi motivi geometrici pontiani. Eppure dopo tanto approfondimento tecnico, la promozione porta, paradossalmente, Gariboldi ad allontanarsi dalla ceramica. Nonostante, dopo due decenni di carriera avesse un’assoluta confidenza con ogni aspetto e problematica inerente la mani­ fattura, la fine del conflitto apre per lui e per la Richard-Ginori uno scenario sostanzialmente con­notato da un cambiamento delle priorità della società che determina una revisione delle finalità delle indagini artistiche e delle ricerche tecnologiche: le necessità del mercato influen­ zano le scelte delle industrie, alle quali viene chiesto di crea­ re dei prodotti economici e fun­ zionali. La creatività dell’arti­ sta deve convivere con l’essen­ zialità. I concetti di utilità e praticità animano le pagine dei quotidiani e dei periodici: la ri­ vista Stile Industria diventerà un centro di dibattito per intel­ lettuali, architetti, urbanisti che riconoscono nella razionalità e nella sintesi i principi cardine di ogni ricerca. Gariboldi diviene così, uomo della ricostruzione, e nei suoi primi anni di direzione del Servizio Artistico è implicato più nella

strategia aziendale di amplia­ mento della catena di negozi che nella creazione di modelli e decori. Come nota l’autrice, all’VIII Triennale del 1947 il ruolo della Richard-Ginori è marginale e il nome di Gariboldi assente dal catalogo della mostra. La ma­ nifattura, che espone solo alcu­ ni apparecchi sanitari, sembra aver risposto al comune invito alla razionalità e alla concre­ tezza, sottoponendo la propria produzione a una generale sem­ plificazione. All’occasione successiva, la IX Triennale del 1951, la mostra La forma dell’utile sancisce l’affermazione del design: l’uni­ tà delle arti è ormai riconosciu­ ta come premessa di ogni pro­ getto, si è sempre più consape­ voli che l’uso determini la for­ ma, la facile serialità il succes­ so. Appare cioè evidente che la manifattura debba ripensare il proprio ruolo all’interno di una società e la provocatoria scelta di Gio Ponti (curatore quell’anno della sezione ceramica) di mette­ re in secondo piano la vocazio­ ne utilitaristica della ceramica e di prediligere le opere di arti­ sti contemporanei attratti dalle possibilità espressive della ter­ racotta, non sembra in grado di ottenere il riscontro auspicato. La X Triennale del 1954 diventa così l’occasione per Gariboldi (che firma tutte le proposte Richard-Ginori) di offrire un complesso di forme coeso e rispondente alle esigenze dei tempi nuovi. Il servizio da té Ulpia, il servizio da caffè Donatella, i servizi da caffè Delia e Luisa, il servizio Patrizia, la teiera Ofelia e il servizio Adriana, sono infatti

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emblematiche di un metodo e una sensibilità davvero non comuni e sono rivelatrici – come sottolinea Romanelli – di uno straordinario rispetto per le forme che ci sono giunte in re­ taggio dal passato e che come tali valgono e che come tali so­ no la base per un serissimo, a volte lentissimo, “millesimale” lavoro di modernizzazione. Ma il 1954 è davvero un anno magico per Gariboldi che con il servizio Colonna realizza un capolavoro di asciutta eleganza, praticità ed economia. I diversi elementi del servizio sono, in­ fatti, perfettamente impilabili l’uno sull’altro; molti pezzi so­ no stati disegnati in modo da essere adattabili a più funzioni e utilizzi; la scelta di realizzarlo in porcellana Ariston (un mate­ riale meno raffinato della por­ cellana tradizionale, ma più duro, resistente ed economico) consente di contenere i costi. Questo progetto, premiato con il Compasso d’Oro sia per la ri­ uscita essenzialità di forme e colori sia per l’espediente della “sovrapposizione verticale” co­ me proposta di minimo ingom­ bro diviene da allora una sorta di modello o ideal-tipo della quotidianità moderna al quale Gariboldi si sarebbe dedicato nei tre lustri successivi con aggiornamenti e perfezionamenti (tra l’altro vincendo la medaglia d’oro al XXV Concorso Internazionale della Ceramica d’Arte di Faenza nel 1967). Realizzandone infine evoluzioni ancora più rigorose e decisamente contemporanee con i servizi Uno più uno e Eco che oggi rappresentano il testamento di un grande artista-operaio talmente coinvolto nella storia

a­ziendale e assiduamente partecipe della complessa specificità del proprio ruolo e lavoro, da non riuscire per alcuni decenni a risaltare nella storia come avrebbe dovuto. Merito del volume aver mosso il primo passo verso una auspicabile riconsiderazione del valore dell’opera di Giovanni Gariboldi che ha certamente avuto un ruolo da protagonista anche nell’aprirsi dell’Italia alla modernità ovvero – come nota ancora Romanelli – a concetti come l’attenzione al packaging e all’economia di spazio. Formule ovvie per noi oggi, ma non altrettanto per un popolo che si stava appena ri­ prendendo dagli orrori della guerra e che, anche semplice­ mente scegliendo stoviglie “mo­ derne” e abbandonando i servi­ zi di un tempo, destinati a po­ chi, e tanto sconfinati quanto decorati, tanto fragili quanto inutili, cercava di costruire un mondo più giusto. U. R. X Antonio Fomez Il mio «incontro» con lui avvenne in occasione del libro Architettura come mass medium che pubblicai in prima edizione nel 1967. In esso figurava un’illustrazione tipicamente fomeziana sull’ironia dell’invito al consumo. Prelevai questa immagine dal libretto pubblicitario che allora la Ideal standard distribuiva per inquadrare i suoi prodotti nel contesto degli usi e costumi del tempo. Recentemente, quando Fomez mi chiese di scrivere un testo sul-


la mostra che andava preparando per Napoli, pensai «ecco lo scotto da pagare per chi ruba una illustrazione senza il consenso del­ l’autore, insomma una rottura…». Al contrario, vedendo le pubblicazioni, il materiale iconografico, la ricchezza dell’immaginario di questo artista, provo un grande piacere nel parlarne, peraltro ricordando quel periodo in cui nuovi interessi arricchivano la mia esperienza di storiografo come dimostra il sottotitolo del libro citato, note per una se­ miologia architettonica. Entrando nel vivo dell’argomento, resto anzitutto colpito dal sistema autobiografico e promozionale di un pittore che, nelle opere appare così «scombinato», mentre risulta ordinato ed attento nel raccogliere le più autorevoli esegesi critiche, i cataloghi, le interviste e persino un sito web. E fa bene Antonio perché questa apparente contraddizione, non solo è coerente con lo zeitgeist che vuole rappresentare, ma è anche un invito a riflettere meglio sulle valenze proprie della sua opera. Abituato come sono a cogliere le invarianti di un fenomeno storico, artistico o d’altro, mi pare che nella produzione di Fomez vi sia una sintesi di pop e kitsch, da un lato, e di déja-vu, dall’altro. Questo secondo aspetto è più evidente. Non c’è opera di artista famoso, da Velàzquez a Courbet, da Ruoppolo a Van Gogh, da Braque a Picasso, per citarne i primi a memoria, le cui opere non siano state oggetto di manipolazione da parte di Fomez, con un procedimento così descritto da Vincenzo Trione, a mio avviso, il più penetrante interprete del

pittore napoletano:«in questi “cicli” pittorici, Fomez attinge ad un “museo” ideale per modificarlo, scomporlo, decontestualizzarlo, dissacrarlo. Per disfigurarlo attraverso disaccordi cromatici e formali, in una maniera ludica e ironica, secondo modalità kitsch. Servendosi di una sorta di ars combinatoria, offre, con ostinazione, alcune misteriose claves, che gli permettono di ravvivare e di ingigantire le immagini. Non vuole creare qualche cosa di radicalmente nuovo, ma rivedere e ripensare il “già fatto” e il “già visto”, rifarsi a segni ed immagini disseminate nella memoria figurativa». Una collezione di queste opere «modificate» costituirebbe una storia dell’arte assai utile anche ai fini didattici; infatti, oltre alla conoscenza delle immagini originarie dei maggiori maestri, servirebbe a dimostrare la possibiità di rivivere oggi anche l’arte di ieri, ribadendo l’assunto che la storia non può che essere storia contemporanea. Inoltre, esemplificherebbe altresì il tentativo proposto alcuni anni or sono, segnatamente da Ragghianti e da Zevi, di una critica effettuata, oltre che in termini del linguaggio parlato, anche in quello dello stesso linguaggio visivo. Ancora, questo «museo modificato», ridurrebbe l’aura che circonda l’arte classica (ammesso e non concesso che l’aura sia qualcosa da bandire), non tanto ad opera della «riproducibilità meccanica» come pensava Walter Benjamin, ma della stessa potenzialità pittorica, perché – ed è questo un aspetto della produzione di Fomez da sottolineare – egli resta comunque un pittore attento alla resa pittorica

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dell’opera e alla qualità timbrica dei colori e non come qualcuno lo ha classificato semplice «saccheggiatore, citazionista». E veniamo all’aspetto pop-artistico e kitsch, specie per ciò che concerne la gran parte delle opere esposte in questa mostra napoletana. A differenza di Warhol, Li­ chtenstein, Wesselman, Rosenquist, ecc., le cui opere sono «belle», rappresentano tanto le gradevoli fattezze delle figure quanto l’aspetto scintillante, come nuovi, dei prodotti commerciali, Fomez non si cura affatto della componente estetica, in analogia con la Pop art inglese e con il New dada americano. E ciò perché l’umanizzazione di queste due scuole porta inevitabilmente al neo-espressionismo, dal quale il pittore italiano si affranca proprio grazie al kitsch che è in qualche modo «disumano» alla maniera prevista in teoria da Ortega y Gassett. Essendovi differenze tra kitsch e kitsch, è opportuno accennarvi per riconoscere in quale tipo s’inquadra l’opera di Fomez. Anzitutto, non lo si può semplicemente definire come espressione del «cattivo gusto»; non è solo l’opposto del gusto, bensì anche un’ar­ticolazione sui generis di quest’ultimo in rapporto alla distinzione tra i diversi livelli lowbrow, middle-brow, high-brow propri dell’uomo-massa del nostro tempo. Se è vera questa interpretazione, il kitsch, certamente legato al gusto, andrebbe rubricato non tanto nei prodotti – specie quelli delle arti visive che sono autoespressivi – quanto nei comportamenti. Sta di fatto comunque che esso è riscontrabile in tutte le arti e addirittura in tutte

le espressioni dell’uomo; oltre che estetiche, etiche, e dunque po­litiche, tecniche, ecc. Altrettanto interessante è la funzione del kitsch come metro di paragone e riferimento del gusto e per esso dell’opera d’arte autentica. Dorfles scrive infatti: «se non esistono inoppugnabili norme che ci permettano di decidere, una tantum, e una volta per tutte, cosa sia o non sia lo “standard of taste”, esistono tuttavia quelle “oscillazioni del gusto” cui dobbiamo arrenderci all’evidenza dei fatti che ci insegnano come, a seconda delle epoche, delle situazioni storiche, mutino i gusti e muti la valutazione delle opere d’arte. Multiforme nella sua realtà oggettuale il kitsch è anche eclettico rispetto alle fonti donde deriva: il passato, il neo-qualcosa, l’esotico, il folkloristico, il futuristico, il religioso; multiformità ed eclettismo che trovano il loro corrispondente anche nel­ l’avanguardia», da cui l’opportuno accostamento fatto da Greenberg tra avanguardia e kitsch. Altre componenti del fenomeno in esame sono in generale tutte quelle che possiamo considerare inautentiche e, come spesso accade, l’etimologia delle parole è chiarificatrice; infatti il termine «autentico» deriva dal greco authéntes (autore), donde in vari campi, segnatamente quello artistico, l’aggettivo significa opera direttamente realizzata da un autore, legata a questi senza ulteriori modificazioni, né tanto meno falsificazioni, ovvero tutto il contrario delle operazioni proprie del kitsch. L’elenco delle connotazioni di quest’ultimo potrebbe a lungo continuare, ma abbiamo già quan-


to basta per definire il tipo di kitsch «inventato» da Fomez, an­ ch’esso derivato da caratteristiche generali non elencate sopra, ma tuttavia essenziali a cogliere il fenomeno. A mio avviso infatti il kitsch può sinteticamente identificarsi con l’«accostamento» inopportuno, imprevedibile, spiazzante con effetto che può essere spiacevole, ma anche, per gli amanti dei fumetti, gradevole. Fomez accosta infatti su una superficie immagini e segni generalmente eterogenei; ritorna qui l’indifferenza all’estetico, già sopra menzionata, volta all’effetto della sorprendente espressività. Così si spiega, in molti quadri, l’irruzione, su un piano geometricamente ordinato, della figura di Altafini, di James Bond, di un dannato michelangiolesco, tutte dipinte ex novo. In altre opere le immagini sono prelevate direttamente da riviste, cartelli pubblicitari, particolari ingranditi di réclame e trasferite sul dipinto con la tecnica propria della pittura commerciale. Ecco allora affiancate la nota illustrazione della Perugina, degli alimenti Sasso, del café paulista, della Kop, del grassone che mostra una scatola di Invernizzi, ecc. Né si limitano tali opere al solo campionario di pubblicità, ovvero alla componente pop; per raggiungere la sintesi col kitsch, Fomez introduce nella composizione altre figure: Topolino, il gatto Silvestro, Pinocchio, altri personaggi disneyani, nonché un immancabile

«marchio di fabbrica» personale. Un mostruoso omino con cinque denti, tutti puntualmente sporgenti da una famelica bocca, forse emblema del consumatore. Questo connubio di pop-art e kitsch ha dato luogo ad un episodio che Fomez ama raccontare. «Quando nel 1966 al Premio Ramazzotti, allestito al Palazzo Rea­ le di Milano, presentai il quadro Monumento al buon Ramazzotti, da un fondo nero appare una bottiglia del famoso amaro, circondata da Diabolic, Nembo Kid, Braccobaldo, scatole di detersivi, ed altre immagini consumistiche coeve, oltre al solito omino ribelle che talvolta assume le vesti di un politico che arringa la folla da un palco promettendo case e lavoro; non fu quindi un caso che taluni pittori e visitatori ignoranti, mi accusarono di furbizia, perché con quest’opera, volevo entrare nelle grazie del produttore dell’amaro. In realtà ciò in qualche modo avvenne, in quanto la figlia di Ramazzotti mi scrisse una lettera nella quale mi chiese il quadro in cambio d’amari e sambuche + 50.000 lire, dal momento che “pensiamo che il Suo quadro non potrà essere utilizzato per altre mostre né Le sarà facile vendere ad altro acquirente”». Quale altro caso può citarsi dell’utopico precetto dell’avanguardia, per cui l’arte debba risolversi nella vita? R. D. F.

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Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 1.  Le «Nuove Iconi» e la «civiltà del consumo» - Architettura utopistica - La sociologia dell’arte dei sociologi - Esperienze della Biennale - Tecnologia e poetiche contemporanee - Nouveau roman e arti figurative - Il Gaudi di Pane (fascicolo esaurito) N. 2.  Design e mass media - Gestalt prima e dopo - L’estetica neonaturalistica di Romanell - Della Pop Art e di una mostra a Vienna - La poetica urbanistica di Lynch - Semantica dell’arte - Architettura come linguaggio (fascicolo esaurito) N. 3.  Architettura e cultura di massa - Alcuni temi dell’Informale - Kunstwollen e intenzionalità in E. Panofsky - Dal pragmatismo alla fenomenologia - Libri, riviste e mostre N. 4.  La critica discorde - S.K. Langer, L’influenza sociale del design - T. Munro, Recenti sviluppi dell’estetica in America - G. Veronesi, Sull’architettura del secolo - L. Vinca Masini, Le mostre dell’estate ’65 - Libri, riviste e mostre N. 5.  I criteri di valutazione dell’arte contemporanea - Una politica culturale per i socialisti - Il visual design - Pareri sulla IX Quadriennale - Libri, riviste e mostre N. 6.  Il disegno di architettura - J.P. Hodin, Esiste un’estetica dell’arte moderna? - Alcune voci dell’urbanistica contemporanea - Breve antologia delle ultime Biennali - Libri, riviste e mostre N. 7.  Note per una semiologia figurativa - W. Hofmann, Gli inizi dell’attività formale - E. Garroni, 33a Biennale di Venezia: «jeu» e «sérieux» - Libri, riviste e mostre N. 8.  Artisticità dei mass media - B. Jessup, Arte e storia - Il design scientifico di Alexander - Incontri di studi urbanistici - Libri, riviste e mostre

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N. 9.  Il pensiero estetico di Adorno - 4 artisti scelti da Barilli - A. Vivas, Filosofia della cultura, estetica e critica: alcuni problemi - Libri, riviste e mostre


N. 10.  Il premio IN/ARCH alla nostra rivista - R. Barthes, Semiologia e urbanistica - Nuove idee per la Gescal - Il metodo scientifico nella pianificazione - G. Veronesi, Su alcune mostre dell’estate italiana - Libri, riviste e mostre N. 11.  G. Morpurgo-Tagliabue, L’arte è linguaggio? - Urbanistica e arti visive oggi - Valori ed obiettivi nella pianificazione - Libri, riviste e mostre N. 12.  Tre contributi alla semiologia architettonica - E. Garroni, L’eterogeneità dell’oggetto estetico - V. Corbi, Questioni di estetica empirica - A. Perez, Riflessioni di uno scultore sul tema dello spazio - Libri, riviste e mostre N. 13.  L’«environmental design» e il suo insegnamento - Per una teoria dell’architettura - L’estetica del «pensiero negativo» in Marcuse - Libri, riviste e mostre N. 14.  La prossemica: un nuovo apporto all’architettura? - La poetica del­ l’arte povera - Note sull’Università e la professione - O. Ferrari, Una Biennale rimasta senza giudizio - Libri, riviste e mostre N. 15.  I problemi dell’istruzione artistica - R. Segre, Presenza di Cuba nella cultura architettonica contemporanea - Architettura fra retorica e logica Libri, riviste e mostre N. 16.  Significanti e significati della Rotonda palladiana - G. Dorfles, Valori iconologici e semiotici in architettura - Attualità della retorica - Libri, riviste e mostre N. 17.  Il centro della città (definizioni) - M. Tafuri, Ambiguità del Guarini - Lettura storico-semiologica di Palmanova - Libri, riviste e mostre N. 18.  L’architettura per l’Università - E. Garroni, Semiologia e architettura. Alcuni problemi teorico-applicativi - Recenti contributi allo studio dell’«environmental design» - Libri, riviste e mostre N. 19.  Segni e simboli del tempietto di Bramante - Note sull’immaginario in Filarete - Philip Johnson: la funzione della maschera formale - Biennale/ricerca - Libri, riviste e mostre N. 20.  Utilità storiografica di una dicotomia linguistica - Meaning in Architecture - La cultura di Le Corbusier - New Towns (definizioni) - Libri, riviste e mostre N. 21.  Note per una epistemologia della rappresentazione visiva - G. Bonsiepe, Panorama del disegno industriale - Per una poetica del profondo: Blaue Reiter - Libri, riviste e mostre N. 22.  Nomi, luoghi, immagini di città nella «Recherche» di Proust - U. Eco, Analisi componenziale di un segno architettonico - Percezione ed esperienza estetica - Libri, riviste e mostre

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N. 23.  La «riduzione» culturale - Libri, riviste e mostre N. 24.  «Arquitectura, historia y teoria de los signos» - Note di terminologia semiotica - Il design: processo e fruizione - Il «silenzio» dell’architettura contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 25.  Note sull’arte concettuale - L. Benevolo, La recente storiografia della città - Lo storicismo e i confini della semiologia - Città-pubblicità: sul caso Las Vegas - Libri, riviste e mostre N. 26.  La «riduzione» culturale nella progettazione architettonica - R. Barilli, Le due anime del concettuale - G. Morpurgo-Tagliabue, Commento alla «riduzione» culturale - L’antidesign - Libri, riviste e mostre N. 27.  Altri aspetti della «riduzione» culturale - Interventi: G. Dorfles, Riduzione ad oggetto, riduzione a progetto - P. Fossati, Riduzione o trasformazione? - T. Llorens, Sul concetto di comunicazione estetica - Libri, riviste e mostre N. 28.  Elementi semiotico-progettuali d’architettura - M. Krampen, Dalla semiologia della comunicazione alla logica degli strumenti - Libri, riviste e mostre N. 29.  Per una lettura semiotica della prospettiva - Elementi di una tendenza dell’architettura italiana - XV Triennale - Libri, riviste e mostre N. 30.  Problemi di semiotica dell’arte contemporanea - B. Zevi, Sei postille su «Il linguaggio moderno dell’architettura» - Alcune opinioni sull’iperrealismo - Libri, riviste e mostre N. 31.  Elementi della progettazione scientifica - Il segno indefinito della semiologia urbanistica - Note sulla cultura a «mosaico» - Arbitrarietà e motivazione del linguaggio architettonico - Libri, riviste e mostre N. 32.  L’eccentrismo, un momento della avanguardia sovietica - U. Eco, Chi ha paura del cannocchiale? - Nota sul segno urbanistico - I segni e le «figure» del Padiglione di Barcellona - Libri, riviste e mostre N. 33.  Architettura come istituzione - Il «ritorno» alla pittura - Università: le parole e le cose - Libri, riviste e mostre N. 34.  Dall’estetica alla semiologia - La teoria di Hjelmslev e l’architettura: alcuni problemi - Il «realismo» di Giuseppe Samonà - Libri, riviste e mostre N. 35.  Attualità dell’iconologia: alcune questioni metodologiche - R. Barilli, Difficoltà di un approccio semiotico alla culturologia - L’editoria architettonica - Libri, riviste e mostre

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N. 36.  I centri storici nella prospettiva semiologica - Le idee di teatro, oggi - Una riproposta del «multiplo» - Libri, riviste e mostre


N. 37.  Dialettica del «piacere» e identità dell’architettura - Assenza-presenza: due modelli per l’architettura - La «storia dell’arte» nelle scuole - Libri, riviste e mostre N. 38.  Le ricerche di architettura più attuali ed insolite - Dalla fotografia al videotape - Analisi di un corso di laurea: il Dams - Libri, riviste e mostre N. 39.  La sociologia del gusto di Jean Baudrillard - Le posizioni di […] su alcuni temi della critica architettonica in Italia - Libri, riviste e mostre N. 40.  «Aforismi» sui centri storici - Note sulla simmetria in architettura Bataille e la “svolta” di «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 41.  Dipartimento e «architettura» - La «rappresentazione» tra storia del teatro e semiotica - La critica d’arte in «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 42.  L’idea di pittura in Lévi-Strauss - Sul concetto di gusto - Alcuni contributi alla critica dell’inconscio - Libri, riviste e mostre N. 43.  La post-avanguardia - Luoghi e luoghi comuni della recente critica d’arte - Narciso e «l’altro»: note sul dibattito architettonico - Libri, riviste e mostre N. 44.  Architettura: la «rimozione del nuovo» - Ipotesi per il segno iconico - Storia dell’arte, storia delle cose - Libri, riviste e mostre N. 45.  Topologia e architettura - La casa: norma e «deroga» - Artisti e cinema - Libri, riviste e mostre N. 46.  I quindici anni della nostra rivista - L’Architettura all’Ecole des Beaux-Arts - La Storia dell’arte Einaudi - Una griglia che non sia una grata N. 47.  Architetto e ingegnere - Le scuole di critica d’arte in Italia - L’immaginario nella cultura di massa - Libri, riviste e mostre N. 48.  Prima e dopo il Post-Modernism - L’iconizzazione del mobile - Civiltà del ’700 a Napoli - Libri, riviste e mostre N. 49.  Il restauro architettonico: ricchi apparati e povere idee - F. Menna, La Biennale di Venezia. Gli anni settanta: questi (mi)sconosciuti - Critica d’arte e processi produttivi - Libri, riviste e mostre N. 50.  Fortuna critica della «Tendenza» - R. Bonelli, Storiografia e restauro - La fotografia: indice o icona? - Libri, riviste e mostre N. 51.  Classicismo e razionalismo in J.N.L. Durand - Modelli interpretativi delle tendenze artistiche odierne - Architettura come testo - Libri, riviste e mostre N. 52.  L’espressione «Movimento Moderno» - Indagine su Carlo - Note sulla Transavanguardia - Libri, riviste e mostre

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N. 53.  Il design tra «radicale» e «commerciale» - Dalla «ruminazione» dei guerrieri greci all’«insonnia» dell’estate romana - Fortuna degli slogans Libri, riviste e mostre N. 54.  Disincantamento e restaurazione - Lutyens fra storia e critica - Il Bauhaus e il teatro tedesco - Libri, riviste e mostre N. 55.  Continuità e Protorazionalismo - Se questo è un quadro allora non è un quadro - Gli oggetti di domani - Design come motto di spirito - Libri, riviste e mostre N. 56.  Dall’America. Warhol e Kosuth - Il design dell’«altra avanguardia» - L’International Style cinquant’anni dopo - Libri, riviste e mostre N. 57.  Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58.  E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59.  Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60.  Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61.  Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62.  Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63.  Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64.  Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65.  Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre N. 66.  Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre

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N. 67.  Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre


N. 68.  Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69.  Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70.  Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71.  Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72.  Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73.  Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74.  Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75.  Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76.  I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre N. 77.  Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre N. 78.  L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79.  Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80.  Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81.  Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82.  Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre N. 83.  Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre

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N. 84.  Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85.  Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86.  Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87.  Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88.  L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89.  Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90.  L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91.  «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92.  Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93.  La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94.  Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95.  Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96.  Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97.  Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98.  Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre

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N. 99.  Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre


N. 100.  Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101.  Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102.  Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103.  Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104.  La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105.  L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106.  Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107.  Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108.  Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109.  Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110.  Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111.  Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112.  Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113.  Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114.  L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115.  L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre

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N. 116.  Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117.  Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118.  Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119.  L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120.  Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121.  La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122.  L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123.  Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 124.  Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125.  Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126.  L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127.  Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128.  Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129.  Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 130.  Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI


N. 131.  Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132.  Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133.  Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134.  Abitare la razionalità - Per una nuova clas­si­ficazione delle arti - Il design ae­ro­nautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135.  Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136.  Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137.  Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138.  Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­ l’ADI N. 139.  Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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Le pagine dell’ADI Associazione per il disegno industriale a cura di Maria Antonietta Sbordone e Dario Moretti

Anche e soprattutto nelle epoche di crisi il Salone internazionale del Mobile di Milano rimane un punto di riferimento per il design da due punti di vista: quello dell’economia e quello della cultura. Due punti di vista inscindibili per la particolare situazione disciplinare del design, certo; ma speciale anche perché il Salone rappresenta, ai giorni nostri, l’unica occasione geograficamente collocata in territorio italiano dove convergono interessi professionali ed economici mondiali. Non più, da molti anni, solo vetrina di novità, ma soprattutto verifica della tenuta d’immagine di una professione e di un settore che da sempre aspirano, sul piano nazionale, a un’identità che è da decenni un fatto acquisito sul campo a livello mondiale, ma che rimane nonostante tutto problematico affermare in patria. E che rimane soprattutto problematico rinnovare con coerenza e con efficacia. Il Salone pare finora esserci riuscito, e si è pensato utile proporre due punti di vista non contrastanti ma distinti sul significato e sulla portata della manifestazione: il Salone visto da fuori, da una città del Sud dove il design è particolarmente vivace da sempre e che porta al design italiano il contributo di una cultura ben radicata nell’iniziativa e nell’ispirazione personale; e il design visto da dentro la gran macchina organizzativa e mediatica del Salone: da quella Milano industriale che l’ha a suo tempo inventato, che l’ha costruito, ma che sa di non poter contare solo sue forze per poterlo far vivere con un senso adeguato a quel che sta succedendo nel mondo.


Incroci di continenti al Salone del Mobile: in alto un gruppo di visitatori cinesi davanti allo stand dell’ADI, in basso alcuni giovani designer italiani espongono i loro lavori in uno spazio affittato per l’occasione nel quartiere cinese di Milano. Fotografie: Daniela Martino e Dario Moretti.


Il Salone visto da fuori di Maria Antonietta Sbordone I tanti che visitano il Salone del Mobile di Milano, al loro ritorno affidano le proprie impressioni, idee e pensieri sull’esperienza appena trascorsa ai social network, o direttamente ad amici, clienti, addetti ai lavori; è la prassi del pourparler, della meraviglia di aver visto, scoperto o di aver avuto la prova che il sentimento personale sul design che sta avvenendo è quella giusta ed è quella che si è materializzata dopo un lungo periodo di applicazione. Altrimenti il resoconto integrale del Salone è appannaggio delle maggiori riviste di settore che raccolgono, interpretano, scandagliano le tendenze, per cui le cosiddette “novità” sono sbattute in prima pagina proprio come se fossero notizie di gossip. Una moltitudine di visitatori, distributori, studenti, designer, imprenditori, approdano a Milano da tutto il mondo, dalle regioni del sud, in particolare dalla Campania: i visitatori che abbiamo intercettato e ai quali abbiamo posto delle questioni ci hanno aiutato a capire tra la vastità di eventi i filoni più interessanti e le loro personali scelte design oriented. In qualche modo, la ricognizione effettuata delinea le diverse trame del design contemporaneo come riflesso di configurazioni produttive tradizionali e consolidate, sperimentali e d’avanguardia. I percorsi creativi di tanti designer che incrociano la componente individuale ed intima con quella produttiva e pubblica delle aziende, disposte alla kermesse, ci induce ad una serie di riflessioni che individuano nelle novità un maggiore uso delle risorse intangibili e delle relazioni tra loro e quelle tangibili ancora da immaginare. Relazioni ideative e produttive che, da una parte, procedono in maniera consolidata e dall’altra, accolgono il nuovo con attenzione e lungimiranza. L’approccio campano al design reagisce a modo suo alla valanga mediatica del Salone e del Fuorisalone mantenendo fermo il proprio carattere mediterraneo e la capacità di osservare e di non mischiarsi troppo che deriva da una matrice resistente, connaturata al territorio e che detiene un carattere di a-temporalità; si tratta della natura del pensiero mediterraneo che anima e sostanzia i percorsi creativi dei tanti designer, i quali consapevolmente auto-determinano, creazioni, produzioni, distribuzioni. Si evidenzia dall’indagine


critico-conoscitiva la capacità di un territorio di essere dentro la modernità e contemporaneamente, con estrema eleganza, esserne totalmente estraneo, proponendo modelli evolutivi autonomi, coniugando magistralmente tradizione e contemporaneità. Accanto alle produzioni fit-product design per l’industria, con tutto ciò che ne consegue da un punto di vista di capacità industriale e di tecnologie ad alto contenuto innovativo, si concretizza la ferma volontà di immaginare e poi realizzare propri percorsi produttivi e distributivi: il self design. Laddove la resistenza alla modernità della cultura materiale, attraverso l’artigianato, si rinnova nell’incontro con il Design e diventa ‘artidesign’, humus perché il pensiero immaginativo fertilizzi ambiti diversi. Così, mentre la matrice distintiva del Design mediterraneo si consolida ed evolve, parallelamente si avvia un processo di graduale riconoscimento delle sue peculiarità immaginandone la collocazione nei futuri assetti produttivi e culturali dei territori a sud della penisola. Uno dei caratteri distintivi che contiene in sé la traccia del grande rinnovamento che pervade il territorio è sicuramente il self design. Esso si riferisce alle modalità di autoproduzione con le quali si attua il design in alternativa alla filiera convenzionale: progetto-prodotto comunicazione-distribuzione. Rappresenta l’approccio del designer che intraprende e individua nuovi percorsi produttivi e distributivi, con l’obiettivo di creare un originale cluster per realizzare progetti inediti. L’artidesign, comprende la produzione in alcuni settori merceologici, principalmente degli oggetti di arredo, ma anche del design della persona, un concetto “che si colloca fra l’artigianato e l’industrial design” (Renato De Fusco), che rifugge la perenne contraddizione tra piccola e grande serie, che supera le gerarchie tra linguaggi espressivi. Il fit-product design individua i prodotti di design aderenti alla filosofia aziendale intesa non solo come mission ma anche come performance tecnologica e produttiva e come dispiegamento di capacità umane. Il fit-product design si articola nello stretto dialogo tra il progettista e gli interlocutori dell’azienda, nella rivalutazione delle risorse del territorio che esprime quelle eccellenze produttive a livello internazionale e nel recupero del concetto di democrazia del bello, diffondendo ipotesi di civile business. Le convergenze sulle tesi del fit-product design, del self design e dell’artidesign sono in atto e da qualche tempo alcune ricevono mag-


gior attenzione (self design), altre recuperano il terreno perduto (l’artidesign) diventando design da galleria, da pezzo unico che sconfina nell’arte del designer. Il riferimento è ad un articolo da me scritto in occasione dei festeggiamenti per l’Unità d’Italia (in via di pubblicazione), dal titolo Il lato viscerale del design italiano, nel quale facendo riferimento all’unicità, termine con il quale si parla del design italiano, si sottolineava il valore dell’oggetto creato dalla cultura del saper ideare, sia esso espressione di un designer o di un artista poco importa, poiché è la dinamica relazionale che ci interessa mettere in luce. L’articolo proseguiva identificando in alcuni designer italiani contemporanei un sentimento di frustrazione per l’impossibilità di fare design liberando idee e progetti per non restare serrati nelle maglie della logica produttiva industriale. La glorificazione della merce o della ipermerce, snaturando il ruolo autentico del design italiano, ha aderito a quello che qualcuno ha definito lo stile “design”, individuando la matrice di un design fine a se stesso. La tradizione di unicità italiana emerge dichiarando la rottura e la conseguente ri-definizione dei confini entro i quali il design si colloca. Una mostra ha annunciato recentemente le proposte del design “indipendente” (Independent. Design Secession, Triennale di Milano 2010): un design, secondo Branzi, non più impermeabile alle inquietudini, e non più intento a ostentare comunque e sempre il lieto fine: “I critici letterari direbbero che il design si è sviluppato secondo una linea petrarchesca, sempre più raffinata e formalmente perfetta, mentre gli manca una dimensione dantesca, oscura, viscerale. E non si capisce perché, visto che il design è pur sempre una delle culture principali oggi, per diffusione, impegno, qualità”. La matrice sovrastorica dei contenuti, (la cultura umana, la vita, la morte, la catastrofe, il sacro) che connettono le produzioni distanti tra loro, è il vero nucleo stabile del riaccendersi dell’interesse per un fare design utopico. La visione utopica costringe il designer ad una ricerca quanto più indipendente possibile che parte dalla dimensione del privato: la libertà con la quale usa le tecnologie e le abilità dell’industria o dell’artigiano, ne fanno di nuovo l’artefice contemporaneo di un design che vuole imparare a parlare il linguaggio degli oggetti. Oggetti che non saranno più performativi degli altri, o più intelligenti o friendly, ma saranno innanzitutto i testimoni di una riflessione viscerale e di abilità espressive rinnovate, messe a disposizione di tanti e fatte circolare in autonomia.


I nostri occhi sul Fuorisalone del Mobile 2012 Mara Rossi, dottoranda in Design e innovazione, Seconda Università di Napoli, Dipartimento Ideas. Per Mara Rossi al Fuorisalone si è evidenziata chiaramente “la direzione di un design performante non solo in termini di immaterialità, cioè servizi, ma di interattività; infatti, attraverso piccoli gesti, quasi invisibili, gli oggetti reagiscono e funzionano”. Altra componente che riguarda quella parte del design dove la sperimentazione è sostanziale “…è l’attenzione all’autoproduzione spinta a livelli molto interessanti con la mostra The Future in the making, Open Design Arcipelago, organizzata da Domus a Palazzo Clerici, orientata sul come l’open source può in maniera semplice, diretta e democratica contribuire a favorire innovazione recuperando allo stesso tempo la dimensione del concetto del Fare o meglio del Far da sé”. Altro elemento identificativo di questo Salone/evento è l’attenzione al bisogno di “condividere”, attraverso l’uso di tecnologie qr code, che in maniera diretta, utilizzando gli smartphone, contribuiscono ad un’informazione istantanea, lasciando ad ognuno la scelta di approfondire un dato argomento. Sempre nella fantastica location di Palazzo Clerici, si mettono in mostra non più prodotti ma concept con Welcome to the future furniture fair organizzata da Droog presenta: Material Matters”. Giulia Scalera, dottoranda in Design e innovazione, Seconda Università di Napoli, Dipartimento Ideas. Intanto, per Giulia, l’aria è molto positiva, c’è voglia di ricominciare e di dare una scossa alla crisi con la proverbiale laboriosità milanese. I segnali di ripresa sembrano quasi scolpiti sui volti delle persone che esprimono forza e una carica emotiva che non si percepiva da anni oramai. Il racconto articolato è una prima verifica delle categorie sopra evidenziate: il fit-product design che si riferisce al design del sistema storico italiano: “…fa riferimento alle produzioni caratterizzate da una robusta organizzazione produttiva delle aziende storiche del design; accanto, astri nascenti che presentano novità market orien-


ted. Nomi quali Cassina, Edra e Magis hanno presentato il top della loro produzione senza troppi ammiccamenti, badando al contenuto con allestimenti rigorosi e misurati”. L’altra componente del design fonda le basi nella ricerca, procede nell’ambito della didattica e degli studi di design d’avanguardia dove la sperimentazione è il fulcro centrale, con “…progetti prevalentemente di giovani designer e di scuole importanti di cui la forte innovazione prefigura scenari futuri fondati sulle tecnologie dell’ICT e sull’utilizzo di dispositivi che superando l’iPhone, l’iPad e l’iPod, lasciano intravedere quelle che saranno le nostre prossime protesi”. Quest’anno il Salone ha puntato molto sulla critica alla società, motivata dalla condizione di crisi reale inquadrata in una prospettiva socio-culturale, dalla quale sono emersi concept come innovazione profonda, “…reinventando i modelli di lavoro, come quello della pesca che da ricerca di pesci si trasforma in ricerca di plastica nei mari orientali per la trasformazione di un mestiere che rivisitato può rigenerare i mari che fino ad oggi ha saccheggiato. Modelli da leggere come segno tangibile della forza innovativa della creatività che da catastrofi ambientali può creare nuove opportunità di crescita e sviluppo”. Un altro aspetto interessante è una sorta di “cultural production nella quale si inserisce il progetto Design Dance che attraverso una performance fonde teatro di narrazione, danza e design, raccontando con e attraverso gli oggetti, le storie che il design ha scritto dal dopoguerra ad oggi”. Dal récit di Giulia emerge l’autoproduzione, il self design, “… una nuova soglia della progettazione che recuperando il saper fare e le nuove tecnologie apre una finestra ‘democratica’ sul panorama del design internazionale”. Accanto alle riflessioni dei visitatori abbiamo raccolto quelle di alcuni protagonisti del design campano che, non nuovi alla kermesse del Salone, ci hanno affidato i loro pensieri. Sergio Catalano, designer Sergio Catalano partecipa al Fuorisalone. Afferma che “è stato molto importante presentare a Milano, durante il Salone del Mobile


l’iniziativa Campania Design Industry, con il patrocinio di ADI Campania. L’evento al Nhow ha fatto in modo che ci fosse una visibilità nazionale, l’apprezzamento diretto del nostro presidente ADI Luisa Bocchietto (in visita al nostro spazio) e l’interesse di vari blog, portali di design on web e testate giornalistiche nazionali ed internazionali, confermando l’importanza di esserci nonostante le tante carenze”. Campania Design Industry raccoglie cinque aziende espressione del fit-product design e del self-design campano che sono: Catalanodesign lab, Esprimodesign, Joinlamp, Puntolargo, Rarodesign. Per Sergio Catalano “…mai prima d’ora era stato proposto a livello internazionale un collettivo di realtà produttive e di autoproduzione campane riunite da un manifesto di intenti a breve termine, obiettivi a lungo periodo e strategie di attuazione. Nella presentazione, si legge quanto questo evento sia coerente con il percorso ambizioso per la definizione di un distretto del design Campano che tutti noi auspichiamo per il futuro. Da certi punti di vista dunque, ritengo abbastanza soddisfacente aver raggiunto alcuni risultati come il fatto di essere stati “visti” e “riconosciuti” oltre che dal vasto pubblico, anche da molti addetti al settore che contano. Credo che dopo la nostra apparizione al Fuorisalone milanese, la nostra “esistenza” come realtà di progetto e produttiva design oriented, sia ormai un dato di fatto incontrovertibile. Restano, invece, da analizzare con maggiore attenzione gli aspetti relativi alle opportunità di business che ci sono state offerte dal Fuorisalone”. Il Fuorisalone avrebbe dovuto rappresentare i tanti che si muovono in maniera autonoma, ma negli anni non è riuscito a consolidare una selezione di qualità per favorire un vero business che viene dal basso: “…da questo punto di vista c’è molto da ripensare, e non solo da parte nostra, ma anche da parte di chi questo sistema del “Fuorisalone” lo ha inventato e fatto evolvere. Una certa sua degenerazione avvenuta nel corso degli ultimi anni, ha portato ad inficiare gravemente la spinta innovativa originaria: l’idea straordinaria di portare il design nelle strade tra la gente fuori dal Salone. Per questo oggi, essere al Fuorisalone, rischia di portare ad una certa “invisibilità”. Questo avviene, oramai, da anni, eventi ed iniziative lodevoli durante la settimana del design a Milano sono sistematicamente oscurate da super offerte mediatiche di ogni sorta, spesso ben lontane dal mondo del design. Che qualche danno da questo sistema “perverso” l’abbia ricevuto anche


Campania Design Industry, non c’è dunque da meravigliarsi. In conclusione, ritengo che l’esperienza di Campania Design Industry Fuorisalone (al quale in passato ognuno di noi aveva già partecipato singolarmente) andava fatta e ci permetterà di capire cosa correggere nelle nostre strategie di promozione e come agire nel prossimo futuro”. suDesign (designers: Andrea Jandoli e Paola Pisapia) suDesign, ultimo nato sulla scena del design napoletano, ci racconta della prima esperienza a Milano di architetti di recente approdati al design con determinatezza e una buona dose di ottimismo che hanno presentato al Fuorisalone di Milano dal 17al 22 aprile la collezione completa di arredi e complementi, disegnata e prodotta da suDesign all’Urban Center del Comune di Milano, nella Galleria Vittorio Emanuele. Le loro riflessioni da neofiti raccontano di un Fuorisalone imperdibile ed emozionante “…una esperienza estremamente interessante, stimolante e di grande arricchimento”. Per loro la settimana del design è valsa come: “un’opportunità per confrontarsi con gli esperti del settore, designer, architetti, agenti, seller, sui contenuti del proprio progetto, sulla qualità dei singoli prodotti, sui dettagli, sulle problematiche connesse alla realizzazione e produzione, su quelle più specificamente commerciali e sul riscontro rispetto alle richieste del mercato. Di fatto si ha la possibilità di verificare se c’è interesse per il proprio progetto di design, se vi sono dei tratti distintivi e di originalità, qualità di realizzazione coniugata con giusta modalità di produzione, corretto rapporto tra prodotto e suo prezzo di vendita, cioè tali da confermare la completezza del progetto”. Il loro modo di fare design ha registrato un certo interesse “… più in generale per produzioni che ripropongono materiali della tradizione che si avvalgono di una lavorazione in cui vi sia compresenza tra tecnologia avanzata e lavorazione artigianale. Si tratta di un prodotto seriale realizzato con un processo produttivo caratterizzato dall’incontro tra la sapienza della lavorazione artigiana e il lavoro di ricerca e di sperimentazione di forme, materiali e finiture, che conferisce qualità e unicità agli arredi prodotti”.


Tra gli stand del Salone del Mobile, con i loro personalissimi allestimenti, non sempre il dialogo è facile‌ Fotografia di Daniela Martino.


Conclusioni Le ultime riflessioni accomunano tutti sulla validità e vivacità della kermesse con tutta la carica e l’attrazione del richiamo internazionale, concordando sulla capacità di ospitare i numerosissimi operatori stranieri presenti a Milano, soprattutto provenienti dai paesi dell’Europa dell’est ma anche dalla Cina e dal Sudamerica. L’altra interessante osservazione è riferita ai distributori che guardano alle grandi aziende storiche, i cui marchi sono una garanzia nazionale, riservando grande attenzione “a nuove aziende anche piccole con progetti innovativi e di un certo interesse con l’idea di proporre ai loro clienti, accanto al marchio storico, oggetti con maggiore personalità magari a piccola tiratura, “un made in Italy” per intenditori” (suDesign). Sempre suDesign raccoglie, non senza qualche ironica sorpresa l’ultima sfida del Salone; “Figurarsi che ai milanesi non basta il Salone e il Fuorisalone, ora fanno il Dopo Salone!!!. Hanno selezionato delle aziende, alcune consolidate e altre come noi “emergenti” per esporre e commercializzare alcuni pezzi da loro scelti in un temporary store di circa 1.500 metri quadrati (Yum Design Store). Hanno allestito un grande spazio e ricominciano con gli eventi! Sono grandiosi sotto questo punto di vista. In particolare, i nostri arredi hanno riscontrato molto consenso in questo ultimo evento ed è stata una grande soddisfazione che sia stato così apprezzato il lavoro dei designer e di artigiani di un’azienda del sud”.

Salone e Panettone di Dario Moretti Mai come quest’anno il Salone internazionale del Mobile (anzi, “i Saloni”, al plurale, come correttamente ma invano suggerisce la denominazione ufficiale) si è presentato agli addetti ai lavori e al pubblico generale con un viso tanto sorridente e un atteggiamento tanto fiducioso nei valori positivi della produzione e del consumo. Non è cosa da poco: i Saloni (e la loro sempre più invasiva ombra indotta, il Fuorisalone) hanno ormai un’identità che travalica il


messaggio tecnico-commerciale che pure ne è la radice: la fiera dei progettisti e dei produttori del mondo dell’abitare, nucleo motore della manifestazione, finisce con il dipanarsi su un livello frequentato dagli addetti ai lavori, cui in parallelo si sovrappone come uno tsunami un evento cittadino di risonanza internazionale (l’unico di queste dimensioni a Milano), il cui referente è il “vasto pubblico”, con tutte le generalizzazioni di senso che ne derivano: una festa, un’occasione di turismo specializzato ma – finalmente – vasto e disponibile a invadere la città. In quale altra occasione Milano attira a sé, negli anni Duemila, altrettanti turisti attenti e consapevoli, che sanno che cosa cercare e che quindi si inseriscono tanto più positivamente nella macchina commerciale cittadina? Il crisma ufficiale a questa situazione, nota e in consolidamento da anni, lo conferisce nientemeno che Gillo Dorfles, l’anima immortale del design italiano, dalle pagine, che più milanesi e al tempo stesso più nazionali non potrebbero essere, del “Corriere della Sera” del 22 aprile (Le avanguardie dell’artigianato. Progetti di futuro a Milano, p. 36): “[…] il Salone del Mobile ha dato prova di essere l’autentico motore avveniristico della capitale lombarda. Per cui potremmo concludere affermando: non più solo Panettone, ma anche Salone”. Conclusione apparentemente ironica e nazional-popolare, ma che in realtà non potrebbe essere più realistica. Un omaggio alla tradizione rinnovata della centralità culturale milanese saldamente motivato nell’articolo con la lode alla qualità delle presenze del design nella sacra area dell’Università degli Studi. Fatto davvero notevole, visto il carattere profondamente promozionale e strumentale con cui questo spazio (la cui nobiltà architettonica va dalla concezione originale del Filarete alla ristrutturazione postbellica di Piero Portaluppi) era stato invaso dalle installazioni degli scorsi Fuorisalone. Digerire il panettone La lode di Dorfles appare nient’altro che il sigillo a un contesto di stile think positive che ha preso le mosse fin dalla conferenza stampa di presentazione dei Saloni 2012 (Teatro Dal Verme, 5 febbraio): per la prima volta nessuna informazione esplicita sul­l’an­da­ mento economico del settore, solo sguardi rivolti al futuro; presenza


fisica sul palco, accanto ai boss di Cosmit, di giovani (non solo giovani designer: giovani scrittori, giovani musicisti pop, studenti), suggestioni spettacolari di qualità affidate alla regia di Andrée Ruth Shammah. Quella che, come ogni conferenza stampa, doveva essere in sostanza una riunione di lavoro tra organizzatori e giornalisti, si è piacevolmente trasformata in un’occasione di ottimo teatro, dove a sorpresa alla performance progettata si è aggiunto anche un autentico happening: un presidente della Regione presentatosi fuori tempo e accolto dal pubblico con una ferocia decisamente carente di fair play ma sintomo esplicito di una tempesta politica locale destinata a farsi ancor più cruda nel giro di alcune settimane. Il punto di fondo è questo. Il Salone è diventato, dice ancora Dorfles, un “feticcio”, senza le connotazioni negative del termine: un simbolo di riferimento per la comunità, che vive di vita propria. Il Salone in gran parte non appartiene più al design, ma davvero a tutta la città, diventa un momento in cui si coagulano in modo esemplare tensioni che non sono solo positive ma che lasciano anzi intravvedere, sotto l’ottimismo della volontà, il nervosismo per la crisi economica, le difficoltà a uscire dall’autoreferenzialità dei peana al Made in Italy che, per essere giustificati, hanno bisogno del nutrimento costante dell’innovazione (la quale costa, in termini di risorse delle imprese, e non è perciò oggi così frequente come il design va da sempre auspicando). “Ce l’abbiamo fatta”, si potrebbe dire: il design con i Saloni esce dalla maledizione dell’autoreferenzialità, si avvera di nuovo il miracolo del design come componente attiva e riconosciuta della cultura cittadina, come nei dorati anni Cinquanta e Sessanta (una vera versione meneghina della liquefazione del sangue di San Gennaro, almeno per la portata sociale e culturale). E il miracolo sta nel fatto che questa dimensione condivisa del design torni vera in un contesto radicalmente differente, dove l’orizzonte non è quello di una crème di classi dirigenti, dove politica, impresa e scienza si incontravano facilmente nei salotti culturali della città, ma l’immersione collettiva nella frenesia multiculturale di una città attraversata da tensioni sociali e politiche i cui protagonisti non sono più i “personaggi di qualità” ma gruppi di interesse mobili e in perenne riconfigurazione, la cui cultura non ha radici omogenee (la formazione al liceo classico e il gaddiano “noster politeknik”).


Ancora un articolo del “Corriere” (Annachiara Sacchi, Salone del mobile, un antidepressivo per Milano, 19 aprile 2012, “corriere. it”, blog “I Milanesi”) offre uno spunto di riflessione su come siano vissuti concretamente i Saloni a Milano: tutto improntato all’ottimismo di rigore il pezzo, meno positivi i post dei lettori. Tutti quanti non specialistici, da normali persone “non addette ai lavori”. Alcuni entusiasticamente aderenti alle proposte di novità e di intrattenimento che la manifestazione dissemina in città, pronti a farsi partecipi di una festa popolare di gigantesche dimensioni; altri più attenti ai disagi causati dalla concentrazione dei visitatori: “Non mi occupo di design, né di nulla ad esso attinente, ma quel mondo mi affascina. Purtroppo posso dire che ciò che mi ha colpito di più, oltre alla quantità di gente presente è stata la sporcizia e i cumuli di rifiuti presenti lungo tutte le vie coinvolte e sono rimasto davvero deluso. I pochi cestini presenti (difetto non solo milanese) erano strabordanti di bicchieri, bottiglie, lattine e quant’altro, le strade disseminate dei tanti flyer e gadget distribuiti nelle varie esposizioni. Possibile che la città più cosmopolita d’Italia non riesca a dare un’immagine migliore?” (emaz68, 23.04, h 10:38). Oppure legati a complessi d’inferiorità nazionali che hanno radici addirittura prebelliche: “Tutto bellissimo, le manifestazioni che ruotano attorno alla Fiera sono il fiore all’occhiello di Milano. Ma che immagine possiamo dare agli stranieri se in giro ci sono gruppi di zingari che delinquono, che si accampano in centro […] che ti saltano addosso ai semafori?” (Giancando, 24.04, h 11:01). Il design qui non c’entra proprio, si dirà. Ma proprio qui sta il problema: anche se il design non c’entra, oggi affrontare questa dimensione è comunque affare del design. Il Salone non è più solo del design Uscire dall’autoreferenzialità significa fare i conti con la giungla della diversità degli interessi, delle sensibilità, delle culture. Poco più di un decennio fa una ricerca dell’allora Corso di laurea in Disegno industriale (oggi Scuola del Design) del Politecnico di Mi-


lano (AA.VV., Milan Design System, Milano, Abitare Segesta, 1999) definiva Milano “distretto del design” non trovando altro modo di caratterizzarlo, nello schema interpretativo prevalente di quegli anni che analizzava la struttura produttiva italiana come insieme di cluster di attività specializzate. Insomma un ‘distretto multicompetenza’, dove la specialità non era produrre l’eccellenza ma coordinare le condizioni che sono i fondamenti dell’eccellenza: ricerca e comunicazione. La comunicazione – con tutte le sue storture, che a Milano hanno trovato terreno di coltura fertilissimo (cfr. Mario Perniola, Contro la comunicazione, Torino, Einaudi, 2004) – è stata, soprattutto grazie ai Saloni, la leva che ha fatto uscire dal suo recinto il design. Va dato atto agli organizzatori dei Saloni di aver giocato questa carta con le migliori disponibilità a farsi promotori della qualità dei contenuti invece che della semplice efficacia della promozione: si pensi non solo al livello delle manifestazioni collaterali che si sono succedute negli anni ma soprattutto alle iniziative di lunga durata di Federlegno, promosse ancora per iniziativa dello scomparso Rosario Messina, per ampliare, in contatto con il comparto dell’edilizia, l’accesso ai prodotti dell’arredamento italiano. E, al di là dei Saloni, la spinta a un ampliamento globale (geograficamente e in termini di aree di pubblico) della cultura del design come veicolo dei prodotti italiani è forte, da parte delle aziende e, per quel che le finanze pubbliche consentono, anche da parte delle istituzioni dello Stato. Anche ADI, che ha ottenuto da non molto un riconoscimento ufficiale ma non solo formale del suo ruolo, è impegnata sempre più attivamente in tutto il mondo (e questa sezione di “Op. cit.” intende darne conto nei prossimi numeri). Il design queste carte milanesi, insomma, se le gioca con attenzione, superando alcune tradizionali polemiche interne, prima tra tutte quella sul carattere “milanocentrico” della cultura del design, un tempo gestita in termini accusatori dagli esponenti del design delle altre aree italiane; oggi, con un atteggiamento più maturo delle imprese e dei progettisti, correttamente utilizzata per quel che il “distretto del design” ha da offrire a tutti: un trampolino di lancio verso una maggiore visibilità internazionale collettiva. Che cosa chiedere di più a Milano?


Milano, a parte la visibilità e la comunicazione, e ferma restando questa sua riaffermata competenza, ha ancora qualcosa da dare al design italiano nella sua nuova sfida, non più solo disciplinare ma di responsabilità culturale più generale? Forse – per restare ai classici – insieme con l’ottimismo della volontà può offrire il pessimismo della ragione. Per esempio nelle prospettive, vivissime a livello internazionale, del self design, delle geniali invenzioni della scheda Arduino (germoglio diffuso a livello mondiale del tronco culturale Olivetti) che sta alla base dell’ormai popolare cultura del progetto diffuso, Milano può dare ancora una volta un contributo, non di idee creative ma di azione organizzativa. Per restare nei limiti dell’esempio: se si afferma l’idea di un design autoprogettato o comunque prodotto on demand dal service sotto casa, la risposta può essere una nuova cultura produttiva – quella delle imprese che praticano una forma strutturata di prototipazione rapida e CAM al servizio di designer e imprese – diffusa sì, ma nettamente industriale e strutturata, creativa ma in senso pragmatico, di taglio più brianzolo che strettamente milanese, di cui Milano e la sua area limitrofa già dispongono. Se, per esempio, il design diventa, con l’autoproduzione, sempre più ‘democratico’, la comunicazione da sola non basta a rendere l’autoproduzione una condizione stabile: occorre che anche la democrazia produttiva abbia una sua forma, un suo processo, che in ogni caso non può che essere un processo industriale: perché dall’industria il mondo non torna indietro. Milano come il gattopardo? Tutto deve cambiare perché nulla cambi? Speriamo di no: ma di fatto tutto deve cambiare rispondendo alle nuove situazioni con gli strumenti che esistono oggi, e non ha senso rinunciare a impiegare con intelligenza il patrimonio di competenze produttive e organizzative di cui il “distretto del design” dispone già oggi. Milano dovrebbe insomma lavorare per dei Saloni e un Fuorisalone che siano ancora una festa popolare, ma dove lo spettacolo sia a chilometro zero: di persone e di cose pensate e prodotte in questa parte del mondo, da mettere a disposizione del resto del mondo.



ISSN 0030-3305

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