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numero 145

Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, r viste e mostre - Le pagine dell’ADI Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli

Electa Napoli



Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Emma Labruna, Livio Sacchi Segreteria di redazione: Rosa Losito Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 081/7690783 Amministrazione: 80121 Napoli, Via dei Mille, 16 - Tel. 081/4297440 Un fascicolo separato e 9.00 (compresa IVA) - Estero e 10.00

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Electa Napoli


R. De Fusco, Che cos’è la critica? 5 O. Scotto Di Vettimo, L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale 26 G. Pigafetta, Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 36 P. Belfiore, Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri 45 Libri, riviste e mostre 58 Le pagine dell’ADI Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Micaela Bassanelli, Jessica Bianchera, Francesca Lanz, Cettina Lenza, Jacopo Leveratto



Che cos’è la critica? RENATO DE FUSCO

Una delle parole più usate nel linguaggio moderno è «critica» e con un senso, per un verso, tra i più banali, per un altro, tra i più problematici. Secondo Wikipedia, «la critica, dal greco κρὶνω (distinguo) è un esame circostanziato di un fatto o di un’opera let­ teraria, scientifica, teatrale, artistica, valutandone gli aspetti contenutistici, estetici e storici. Spesso per critica si sottintende che in essa si debbano riportare, prevalentemente, pareri antitetici e negativi: ciò non è sempre vero, ma va notato che ha spesso maggior rilevanza la confutazione o stroncatura di un’opera rispetto a una descrizione elogiativa della stessa». Insomma anche il sapiente web conferma che, almeno in parte, solitamente per critica s’intende dir male di qualcuno o qualcosa. Per una prima identificazione della critica leggiamo dalla stessa fonte: «Lo sviluppo storico delle forme culturali evidenzia una stretta connessione tra la critica sia con la creazione artistica sia con i modelli ed il pensiero filosofico, estetico ed etico. Quindi esiste una “saldatura” fertile fra le idee sviluppatesi in un contesto sociale nei riguardi delle attività artistiche e la produzione di tipo intellettuale che viene denominata “critica”, che consente un passaggio di influenze reciproche. Per quanto riguarda la cultura occidentale, la nascita della critica può coincidere con le prime tracce di valutazioni estetiche-critiche presenti nelle ope­

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re di Aristotele, di Platone e nelle commedie di Aristofane (http://it.wikipedia.org/wiki/critica). Oggetto del saggio

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In questa sede, oltre a smentire la suddetta rilevanza negativa, si vuole indagare sul significato più profondo del termine «critica», ovvero conoscerne la natura, la struttura, il suo statuto; e ciò al di là della «critica d’arte» che fa la parte del leone nell’uso del nostro termine, mentre nella real­ tà quotidiana si parla di critica a proposito di tutto l’agire umano, dalla religione alla politica, dai fatti della cultura a quelli dell’economia, dai mass-media alla cronaca da strapaese. Che proprio il mondo della critica d’arte abbia offuscato la critica nell’accezione più generale è già stato notato da qualche autore. «La maggior parte dei critici, assorbiti dal loro oggetto – le opere esistenti, o le opere da fare – dimenticano di interrogarsi sulle ragioni e le implicazioni della propria attività. Ai loro occhi è sufficiente che essa appaia come una risposta adeguata alle opere, senza che sia necessaria una messa in causa riflessiva del proprio statuto» [V. Branca-J. Starobinski, La filologia e la critica letteraria, Rizzoli, Milano 1977, p. 115]. All’osservazione appena citata fa seguito il consiglio di Doubrovski per cui «una critica degna di questo nome comincia con l’esser un’autocritica. Deve conoscere i propri postulati per rivendicare le proprie certezze» [S. Doubrovski, Critica e oggettività, Marsilio, Padova 1967, p. 16]. Avvertita l’esigenza di ricercare tale statuto e accantonata, ripeto, in questa sede, la critica d’arte (almeno fin dove è possibile, poiché da quest’ultima sono ricavabili assunti utili al più generale concetto di critica) va anzitutto posta la domanda se esista veramente una «sostanza» della critica o, almeno, un denominatore comune nell’esercizio critico nei campi più diversi. È lecito pensare che in presenza di tanti termini applicativi, ognuno legato ad uno specifico settore, esista un sostantivo che funga da univoco legame. In


altre parole, è così largo l’uso del termine «critica» e la funzione del criticare in ogni campo, da dover necessariamente ammettere l’esistenza di un concetto generale, donde derivano le critiche particolari. Alcune definizioni della critica «Termine con cui s’indica in primo luogo la facoltà intellettuale che rende capaci di esaminare e valutare gli uomini nel loro operato e il risultato o i risultati della loro attività per scegliere, selezionare, distinguere il vero dal falso, il certo dal probabile, il bello dal meno bello o dal brutto, il buono dal cattivo o dal meno buono, ecc. Il termine indica quindi anche il complesso delle indagini volte a conoscere e a valutare, sulla base di teorie e metodologie diverse, i vari elementi che consentono la formulazione di giudizi sulle opere dell’ingegno umano, in partic., specificando il campo dell’indagine: c. artistica (o c. d’arte), c. letteraria, estetica, musicale, teatrale, cinematografica; c. storica, politica; c. testuale, c. delle fonti». [Treccani.it, Enciclopedia on line]. In un altro testo si legge che la critica è un «esame rigoroso a cui la ragione sottopone le cose (e si riferisce in particolare a fatti, notizie, dottrine, istituzioni, opere scientifiche e artistiche) per determinare il loro grado di verità, certezza, bontà, bellezza, anziché accettarle immediatamente così come vengono proposte (dall’autorità, dalla tradizione, dall’opinione comune, ecc.). - Anche: il giudizio con cui si esprime il risultato dell’esame» [S. Battaglia, Grande dizio­ nario della lingua italiana, UTET, Torino p. 986]. Nel Lalande si afferma: «Critica. Originariamente la parte della logica che tratta del giudizio. “Critica, pars dia­ lecticae de judicio, quasi judiciaria” (Goclenius, 492a)». E inoltre: «Esame di un principio o di un fatto, nell’intenzione di portarvi un giudizio valutativo. In particolare vi sono una critica d’arte (estetica) e una critica della verità (logica). È definita da Kant in questo senso ampio: “Un libero e pubblico esame” (eine freie und öffentliche Prüfung). (Critica del­ la Ragion pura, Prefazione, 1a ed., nota). In questo senso si

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chiama spirito critico quello che non accetta alcuna asserzione senza dapprima chiedersi il suo valore, sia dal punto di vista del suo contenuto (critica interna), sia dal punto di vista della sua origine (critica esterna). Applicazioni particolari: critica storica, critica verbale». Anche il dizionario francese rimarca il significato di giudizio sfavorevole da attribuire alla critica. «Questo senso per il verbo criticare, è il più frequente» [A. Lalande, Dizionario critico di filosofia, ISEDI, Milano 1971, p. 179]. Nella raccolta delle definizioni non manca quella che considera la critica come aggettivo del tutto negativo, si dice infatti «momento critico», «situazione critica», «punto critico» per designare una fase difficile e/o di crisi. Passando ad alcune definizioni date da maestri della critica (d’arte), per Argan quest’ultima è una disciplina autonoma e specialistica, che opera secondo proprie metodologie, ha come fine l’interpretazione e la valutazione delle opere artistiche, e, nel suo sviluppo, ha dato luogo al formarsi non soltanto di metodologie appropriate, ma di un vero e proprio linguaggio speciale [cfr. G.C. Argan, Funzio­ ne e difficoltà della critica, in Critica in atto, Centro Stampa Accademia, Roma 1973]. Anche accantonando il riferimento alla critica d’arte, la definizione resta generica, a meno di quel cenno riguardante il carattere autonomo della critica. Secondo Dorfles, «può essere che il destino della critica sia in parte segnato, allo stesso modo di quello dell’estetica. Nel senso d’un loro convergere (dell’estetica e della critica) verso altri settori delle scienze umane: verso la psicologia, l’antropologia, la sociologia, la semiotica, la psicanalisi» [G. Dorfles, Il divenire della critica, Einaudi, Torino 1976, p. 7]. Anche Dorfles tocca il campo della critica d’arte, peraltro il suo intervento ricorda, per analogia, ciò che a suo tempo dichiarò Vitruvio: Architecti est scien­ tia pluribus disciplinis et variis eruditionibus ornata, non solo, ma il cuius iudicio probantur omnia quae ab ceteris artibus perficiuntur opera, vale a dire che tutte le altre arti sono sottoposte al suo giudizio, il che conferma il suo superiore prestigio; quasi che, per riportare il discorso nel nostro


campo, l’architettura valga come critica per gli altri settori. Per Garroni, la critica è come un procedimento che «consente di abbracciare in un’unica classe non totalizzante tutti i fenomeni linguistici e tutti i fenomeni non linguistici che possono essere tradotti entro certi limiti in fenomeni linguistici». [E. Garroni, Ricognizioni della semiotica, Officina Edizioni, Roma 1977, p. 41]. La citazione delle varie definizioni potrebbe continuare, risolvendosi quasi sempre in riferimento alla critica d’arte, nonché in una concezione della critica come facoltà intellettuale e/o come metodologia operativa. I criteri Alle definizioni della critica fanno seguito quelle dei «criteri», che, anticipando una conclusione, vanno considerati gli elementi costruttivi della critica, condividendo peraltro la stessa radice, κρὶνω (distinguo). Secondo Abbagnano: «criterio è una regola per decidere ciò che è vero o falso, ciò che si deve fare o non fare, ecc. Il problema di un criterio adatto a dirigere l’uomo si affacciò solo nel periodo post-aristotelico della filosofia greca, quando la filosofia assunse un carattere prevalentemente pratico. Così Epicuro fece della sensazione il criterio della verità e del piacere sensibile il criterio del bene (Diog. L., X, 31). Gli Stoici fecero della rappresentazione catalettica il criterio della verità (Ibid., VII, 54) e del vivere secondo natura il criterio della condotta (Ibid., VII, 87). E a loro volta gli Scettici, negando la validità di questi criteri, stabilirono come criterio loro proprio l’aderire ai fenomeni e il vivere secondo i costumi, le leggi, le istituzioni tradizionali e secondo le proprie affezioni (Sesto Em., Ip. Pirr., 21-24). È chiaro che ogni filosofia, anche se non elabora a tal proposito una dottrina esplicita, tende sempre a fornire all’uomo un criterio per dirigersi nelle sue scelte, e specialmente in quelle che hanno un’importanza decisiva per la sua vita. Kant ha usato, invece di criterio, la parola canone» [N. Abbagnano, voce «Criterio» del Dizionario di filosofia, UTET, Torino 1964].

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Comunemente si parla di criterio come parametro, guida per i comportamenti, le scelte e i giudizi. Legati alla critica, i criteri sono, tuttavia, in generale mutevoli nel tempo ed evidentemente condizionati dalla storia, dalla teoria, soprattutto dalla convenzione che costituisce la specificità del loro apporto alla critica. Detto diversamente, i criteri costituiscono i fattori più caratterizzanti il vario potenziale della critica e possono considerarsi le braccia operative di un cor­ pus, pensato come un denominatore comune a ogni tipo di applicazione della critica. Secondo Battaglia, il criterio è «1) Principio di distinzione e di scelta (fra il vero e il falso, il bello e il brutto, il bene e il male); regola, strumento di giudizio. 2) Principio informatore di un’attività, norma che determina un qualsiasi giudizio o scelta; intendimento, valutazione in senso generale. 3) Facoltà di giudicare rettamente, discernimento. - Anche: senso dell’opportunità e della natura, buon senso» [S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, UTET, Torino p. 985]. Tra i criteri più ricorrenti è il «gusto», che, a mio avviso, rappresenta uno dei più importanti per «costruire» il concetto di critica; caratterizzato per lo più in senso estetico, esso contribuisce a spiegare perché la critica d’arte continua a essere il campo critico più privilegiato. Ma è opportuno sottolineare che il gusto non riguarda solo l’artistico e l’e­ stetico, bensì ogni prodotto e comportamento di qualità. Proprio la ricchezza problematica del gusto costituisce, come vedremo, il cavallo di Troia per penetrare nella cittadella della critica tout court. Critica e filosofia

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Al fine di ricercare la sostanza concettuale della critica è d’obbligo tenere in gran conto l’apporto della filosofia, con un’avvertita premessa. Una delle maggiori difficoltà che ho incontrato nella ricerca dei materiali per comporre il presente saggio stava paradossalmente nel consultare i maggiori testi filosofici e letterari, perché sia negli uni che negli altri


lo specialismo era tale e le pretese, certamente legittime, così alte da offuscare la definizione stessa di critica. Voglio dire che sia i filosofi sia i letterati, più che far chiarezza su quest’ultima, la utilizzano ai loro fini. Ciononostante, il punto di partenza per conoscere il concetto di critica, fuori dalle sue applicazioni a questo o a quel fenomeno, resta quello del tardo-illuminismo e segnatamente del criticismo, ossia della sintesi di razionalismo ed empirismo. Richiamando alcune nozioni di filosofia, è noto che il razionalismo di Cartesio spiegava tutta la realtà tramite la ragione, partendo dall’autocoscienza, il cogito ergo sum, avvalendosi del solo strumento della conoscenza a priori, cioè prima dell’esperienza. Poco convincente risultava tuttavia la possibilità di affermare con certezza che il pensiero logico corrispondesse all’essere, che il piano logico corrispondesse a quello ontologico. Altrettanto noto è che l’empirismo di Locke, Hume e Hobbes affermava l’esatto contrario del razionalismo. Per essi la conoscenza della realtà circostante era affidata ai sensi e alle percezioni, ovvero ad un conoscere a posteriori. In tal modo però le idee che ne derivavano non avevano valore universale, ma solo quello legato a un certo momento e a una situazione particolare; donde l’impossibilità di conoscere qualcosa con certezza e lo scetticismo gnoseologico. Il criticismo di Kant opera una sintesi delle precedenti tendenze in base alla cosiddetta rivoluzione copernicana, ossia l’inversione dei rapporti tra soggetto e oggetto della conoscenza. Contro il precedente pensiero dog­matico, per cui le forme del soggetto si adattavano passivamente alla natura, col criticismo è l’esperienza sensibile a venir modellata dalle nostre strutture mentali. L’accordo tra la conoscenza dei razionalisti e quella degli empiristi si effettua come una sintesi tra gli elementi a priori, già presenti nella mente del soggetto (le categorie, o il concetto di spazio e tempo), e gli elementi a posteriori provenienti dal­ l’esterno, dall’oggetto da conoscere: il fenomeno. In questa nuova filosofia gioca il ruolo centrale il concetto di critica; per critica Kant intendeva lo studio dei limiti dell’intelletto umano, che lui chiamava ragione pura. Co-

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me s’è appena ricordato, la conoscenza come sintesi di elementi a priori e dati dell’esperienza sensibile è regolata dalla critica. «Il termine fu introdotto da Kant per designare il processo attraverso il quale la ragione intraprende la conoscenza di sé; e cioè “il tribunale che garantisca la ragione nelle sue pretese legittime ma condanni quelle che non hanno fondamento”. La critica non è pertanto “la critica dei libri e dei sistemi filosofici, ma la critica della facoltà della ragione in generale riguardo a tutte le conoscenze alle quali essa può aspirare indipendentemente dall’esperienza” (Crit. R. Pura, Pref. alla 1a ediz.). […] La critica così intesa appariva a Kant come uno dei compiti dell’età sua […] e costituiva infatti l’aspirazione fondamentale dell’Illuminismo che, deciso com’era a sottoporre ogni cosa alla critica della ragione, non si rifiutava di sottoporre la ragione stessa alla critica, in vista di determinarne i limiti e di eliminare dal suo ambito i problemi fittizi […]. Il titolo che Kant aveva pensato di dare alla Critica della Ragion Pura, e cioè I limi­ ti della sensibilità e della ragione […] esprime bene il significato che è rimasto attaccato alla parola “critica”» [N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, cit, pp. 196-197]. Il vero titolo della sua opera maggiore ci suggerisce che non lo statuto della critica cercava Kant, quanto piuttosto quei limiti della ragione umana ch’egli chiamava critica, ma che avrebbe potuto intitolare diversamente. Né molto di più si ricava dai suoi seguaci, per i quali la critica è un esame che accerta le capacità conoscitive della ragione, e non qualcosa contraddistinta da una propria struttura, chiamata poi in causa per distinguere, scegliere, giudicare e simili. Insomma, quella che cerchiamo, la definizione della critica tout court non risulta esaurientemente definita dalla filosofia. Critica e storia

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Notiamo anzitutto che con grande disinvoltura, molti autori usano il termine storia al posto di storiografia e viceversa, bollando come «scolastica» la distinzione fra res ge­ stae e historia rerum gestarum – recentemente definita sto-


ria-realtà e storia-studio – che resta invece il principale caposaldo di ogni riflessione storica. Per Croce, la filosofia non è altro che metodologia della storia, fino a sostenere l’identificazione dell’una con l’altra. Non condivido questa unità, semmai riconoscendo un legame della filosofia non con la storia ma con la storiografia, nell’ambito della quale è da collocare la critica che non è un fatto, ma appunto un discorso sui fatti: in più, un discorso metalinguistico se consideriamo l’oggetto d’arte, solitamente il più esaminato, come fenomeno linguistico. Tra le componenti della storiografia – la narrazione, la filologia, la statistica, le previsioni, ecc. – la critica assume, come s’è detto, un ruolo primario perché sottopone tutto alla ragione e nei limiti delle capacità conoscitive umane. Svolgendo questa funzione, la critica elimina dal suo ambito tutto il naturalismo, il mimetismo, i preconcetti ed altro. Tuttavia, neanche la storia-storiografia esaurisce l’esame delle potenzialità della critica, tale da fornire una sua esatta e generale definizione. La storiografia è, a sua volta, così ricca di aspetti problematici, da essere non sempre chiarificatrice del concetto di critica, quanto più spesso in debito rispetto a quest’ultimo. Peraltro, la storiografia è tanto ricca di ideologia, sia pure intesa come presa di posizione, da non consentire un esame univoco, con buona pace del «tribunale della ragione». Dobbiamo dedurre che dalla critica non possiamo pretendere l’oggettività del giudizio, salvo ad ammettere la sua dichiarata soggettività, ovvero una scelta selettiva quale caposaldo della stessa storiografia. Se, provvisoriamente, ammettiamo quella particolare critica rivolta all’arte, abbiamo conferma della soggettività della critica. Per Baudelaire, «la critica deve essere parziale, appassionata, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più ampio degli orizzonti» [Ch. Baudelaire, Scritti sul­ l’arte, Einaudi, Torino 1981, p. 57]. Restando nell’ambito del rapporto storia-critica è opportuno un cenno alla vicenda cronologico-concettuale di quest’ultima. Benché si ritenga che la critica sia nata in

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Grecia, «dev’esserci stata a un certo momento l’origine in cui qualcuno si è preoccupato di scrivere su quel che aveva scritto un altro. In occidente probabilmente ciò risale ai commenti medioevali sulla Bibbia e alla riscoperta dei classici, che porterà all’esegesi biblica e all’Umanesimo, due manifestazioni di rispetto del testo, posto a livello superiore della propria lettura, quasi si trattasse di fare agiografia o mistica del testo. Infatti uno dei fenomeni più interessanti, assolutamente non metodico ma di valorizzazione del testo in quanto tale, è quello del Talmud, che nell’intreccio di parole tra Torah, Mishnah e Ghemarah (e livelli successivi) offre anche una discussione di critica interpretativa» [http:// it.wikipedia.org/wiki/Critica-letteraria]. Queste osservazio­ ni, sia pure legate alla letteratura, contribuiscono a sostanziare la critica, assegnandole il ruolo di un denominatore comune a vari campi, ma come tale al di sopra della specificità di ciascuno. La cronistoria della critica prosegue, come già accennato, durante l’umanesimo e il rinascimento, finché, tramite le anticipazioni di Gianbattista Vico e sempre prevalendo nel settore letterario, ha il suo pieno e proprio sviluppo col Romanticismo. A tale sviluppo contribuisce altresì l’Estetica di Baumgarten, che teorizza l’arte e con essa la critica moderna. La critica secondo McKeon

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Un notevole apporto alla individuazione della sostanza della critica si deve al filosofo americano Richard McKeon. Questi individua una struttura o sistema culturale generale all’interno del quale agiscono tre fattori atti a fornire una definizione della critica. «Le diverse concezioni della figura del critico sono illustrate storicamente in una discussione che dura fin da quando ricevette la sua prima formulazione dai filosofi e retori greci, fra artisti, critici e filosofi. Nel corso di questa discussione, la funzione del critico fu talora limitata a compiti meno costruttivi e immaginosi di quelli dell’artista e meno teorici e intellettuali di quelli del filoso-


fo; talora fu estesa fino a includere le funzioni esercitate da entrambi, mentre ciascuno degli interlocutori rivendicava per sé le funzioni dell’altro; e le tre figure, di volta in volta, si sono fuse o separate» R. McKeon, Fondamenti filosofici dell’arte e della critica in Figure e momenti di storia della critica, Feltrinelli, Milano 1967, p. 99]. Cosicché, per questo autore, la materia delle discussioni sull’arte è formata da tre principi: in primo luogo, la determinazione del genere di cose che si convengono alla discussione è espressa nella forma di principi filosofici generali; in secondo luogo, la determinazione del modo di classificare tali cose dipende dalla definizione metodologica dei principi; in terzo luogo, la determinazione delle caratteristiche rilevanti nella valutazione delle cose stesse è espressa nei principi della critica. Il significato e l’oggetto di ogni giudizio critico dipendono da tutte le considerazioni, per quanto autori che usano termini uguali o simili possano concordare su una o più di esse, pur differendo in altre determinazioni dei loro significati. Filiberto Menna prosegue: «In sostanza, McKeon propone qui una definizione metacritica della critica, di cui individua il funzionamento costante nell’articolazione di diversi momenti che possiamo rendere ancora più espliciti e definirli, come un momento teorico (i «principi filosofici generali»), un momento storico (la ricerca delle cause e degli effetti nonché la determinazione metodologica dei principi) e un momento critico in senso proprio, riguardante il giudizio valutativo. Una ipotesi che non ha come oggetto di riflessione i contenuti della critica ma la sua struttura, appunto, la sua forma, non i suoi sensi pieni, storicamente variabili, ma, come direbbe Barthes, il senso vuoto che li sorregge tutti». [F. Menna, Critica della critica, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 54-55]. MacKeon precisa che il suo saggio tratta «rispettivamente degli oggetti della critica, della critica stessa, e dei termini della critica» e aggiunge che «il saggio non riguarda però direttamente la critica d’arte, ma la critica della critica». La stessa esigenza viene affermata da Dou­ brovski: «Come ogni tentativo innovatore la critica odierna suscita parecchie obiezioni, presta largamente il fianco essa

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stessa alla critica. Una critica della critica ecco precisamente ciò di cui ci sarebbe bisogno» [op. cit., p. 21]. Il modello McKeon viene fatto proprio e sviluppato da Menna che, sempre legato alla critica d’arte, avanza, come già accennato, una ipotesi per individuare lo statuto della critica riconducibile a tre cardini fondamentali, a tre momenti o funzioni costitutive: la funzione storica, la funzione teorica e la funzione critica in senso proprio [F. Menna, op. cit., p. 77]. Quanto alla prima, egli le riconosce il ruolo fondamentale in ogni atto critico; la capacità di cogliere la real­ tà concreta dei fatti, le loro relazioni verticali e orizzontali con il contesto in cui si manifestano e con quello più generale della cultura; il merito di collocare l’opera in una serie cronologicamente ordinata in modo da poter cogliere lo scarto eventuale che essa rappresenta; di qui anche la necessità di una indagine sui materiali che entrano a far parte dell’opera e sulla loro origine. Tuttavia, la funzione storica non è in grado di assolvere pienamente il suo stesso compito se non procede insieme alla funzione teorica che introduce nella serie continua e praticamente infinita dei fatti un elemento di pertinentizzazione e una ipotesi di definizione di campo, ossia dei limiti della serie di oggetti che si intende analizzare. A sostegno della sua tesi, Menna cita ancora Starobinski: «quel che manca maggiormente non sono i fatti in se stessi, ma i principi di selezione e di coordinamento. Non tarderemo ad accorgerci che il fatto non diventa pertinente se non attraverso il suo inserimento in un certo ordine di fatti (o piano di realtà) e che quest’ordine di fatti non si risveglia e non si configura che a seguito di una questione posta. È nella serie nella quale si coordina che un fatto diviene interessante» [V. Branca - J. Starobinski, op. cit., pp. 153-54]. E Menna precisa: «il momento teorico interagisce così con il momento storico contribuendo a delimitare un sistema generale di riferimento in cui l’opera si definisce per differenze e similarità. Ma vale esattamente il ragionamento reciproco: la teoria, da sola, non è in grado di cogliere il momento puntiforme dello scarto, della novità dell’opera, se non si rapporta, a sua volta, all’indagine storica che le


fornisce le indispensabili coordinate temporali» [F. Menna, op. cit., pp. 78-79]. Condivido pienamente queste considerazioni; dissento invece laddove, dopo aver chiamato in causa la componente storica e quella teorica della critica Menna ne aggiunge una terza, come già detto, ossia «la funzione della critica in senso proprio». Per motivare quest’ultima, l’autore adduce le più sofisticate ragioni, ma è sul piano logico che il terzo momento in esame non regge. Infatti che senso ha parlare della critica in senso proprio, parte di una triade, quando l’intero saggio vuole proprio definire un tutto, lo statuto della critica? Cosicché, posto che per definire quest’ultima, occorrano almeno tre momenti, il terzo va sostituito con un altro parametro con caratteri propri ma che consenta l’interazione con gli altri due. Questo fattore è, a mio avviso, la «convenzione consolidata». Convenzione consolidata Si dice basata sulla convenzione ogni dottrina secondo la quale la verità di alcune proposizioni valide in uno o più campi è dovuta all’accordo comune o alla stipulazione (tacita o espressa) di coloro che si servono delle proposizioni stesse. È il dibattito antico che, sebbene riguardando solo l’ambito linguistico, contrapponeva una semanticità per convenzione (thèsei) ad una semanticità per natura (physei). Ad esso è dedicato il dialogo platonico del Cratilo, in cui l’autore ironizzando su ciascuna delle due interpretazioni lasciava di fatto aperto il problema. Nell’età moderna il convenzionalismo è stato sempre più condiviso. Hume notava che la convenzione «deve essere intesa non come una promessa formale, ma come un sentimento dell’interesse comune, che ognuno trova nel suo cuore» [D. Hume, Enquiry Concerning the Principles of Moral, Edinburgh 1751, App. 3]; aggiungendo: «così due uomini muovono le vele di una barca con comune accordo per il comune interesse, senza alcuna promessa o contratto; così l’oro e l’argento sono fatti misure dello scambio; così

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il discorso, le parole, la lingua sono fissati dalle convenzioni e dall’accordo umano» [Ibid.]. Nel sostituire la «critica in senso proprio» indicata da Menna con la «convenzione consolidata», ci corre l’obbligo di definirla meglio, specificando l’interazione con la storia e la teoria. Anche la convenzione interagisce con il momento storico, con il contesto, rispetto al quale l’oggetto della critica si caratterizza per differenze e similarità; è comune esperienza del resto che «dalla storia non si esce». Analogamente, la convenzione interagisce con il momento teorico dal quale è nata e dal quale riceve fondamento. Beninteso, non va dimenticato che la convenzione è una proprietà della critica, una sua componente, e non la critica stessa. Che sia «consolidata» si spiega col fatto che, mentre i criteri – anch’essi soggetti alla storia e alla teoria – sono variabili sia nel tempo, sia in relazione al campo in cui si applicano, la componente della convenzione, riferita allo statuto della critica, presenta una certa costanza; si pensi alla longue durée teorizzata da Braudel per la storia. Sul concetto di convenzione, va detto che non si tratta di cosa da poco dal momento che la stessa lingua è considerata un sistema convenzionale. Torna utile al nostro discorso quanto ebbe a sostenere Cesare Brandi sul significato delle parole: «il monema, o, se si vuole essere meno esatti, la parola, non ha come significato la cosa, ma lo schema preconcettuale della cosa o al più il concetto empirico della cosa; questo schema o concetto tuttavia non è un surrogato o un simulacro della cosa, rappresenta bensì il risultato gnoseologico della cosa secondo che una determinata società – quella che parla la lingua – l’ha prelevato e sintetizzato dall’esperienza» [C. Brandi, Struttura e architettura, Einaudi, Torino 1967, p. 381]. In questo giudizio c’è un’indicazione preziosa: come il significato delle parole è il risultato gnoseologico che una determinata società assegna agli oggetti, così si potrebbe dire che la critica, almeno per una sua parte, quella della convenzione, è il risultato gno­ seo­logico-estetico di tutti i criteri ad essa assegnati dalla società.


Critica e gusto Il termine «gusto» presenta, se è possibile, più interpretazioni semantiche dello stesso termine «critica»; esso è definito giudizio, discernimento, criterio, disposizione individuale e soggettiva a percepire, a giudicare e apprezzare qualcosa; capacità di distinguere e di apprezzare ciò che è bello e conveniente, sensibilità estetica; insieme di tendenze, di scelte, di sentimenti, di miti, ecc., propri della cultura di un determinato periodo di tempo o di un determinato pae­se o di una cerchia o classe di persone, o di una corrente artistica o letteraria, o anche di un singolo artista, moda, voga, maniera, stile, modo con cui una cosa è fatta, aspetto col quale si presenta; abilità; capacità artistica; ecc. Per completezza di informazione e per avvicinare il suo significato a quello funzionale alla nostra ricerca sullo statuto della critica, risaliamo al più antico uso del termine. Nel­l’Orator di Cicerone, il gusto è presente e posto in contrasto con il giudizio, per cui esso non opererebbe per conoscenza razionale, ma avvertirebbe al modo del senso; «ci sono cose, scrive a sua volta Quintiliano in Institutio orato­ ria, che si giudicano non tanto con la ragione quanto col senso; e ai sensi non si insegna: c’è una capacità di apprezzare che non si trasmette con l’arte, esattamente come nel caso del gusto e dell’olfatto». Più tardi ai tempi di Isidoro di Siviglia si stabilirà un nesso fra «sapere e sapore». Come si vede, sin dalle sue prime apparizioni il gusto conserverà il suo doppio significato e in pari tempo la sua distanza dal sapere concettuale. La parola ricorre nel Rinascimento, sia in opere critiche e letterarie, sia presso gli artisti; essa si trova, nell’accezione di giudizio sull’arte, in Ariosto, Varchi, Michelangelo, Tasso, ecc. L’espressione «gusto», nel significato di una speciale facoltà o atteggiamento dell’animo, sembra trovarsi per la prima volta in Spagna nel ’600 ad opera del gesuita Baltasar Gracián. Anticipando molti altri, egli enuncia «un concetto del gusto come capacità di giudizio non riducibile a regole intellettuali, ma legata a una facoltà autonoma di orienta-

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mento, che si configura come un’abilità o un dono non ulteriormente spiegabile» [cit. in P. D’Angelo, Il gusto in Italia e Spagna dal Quattrocento al Settecento, ne Il gusto. Storia di un’idea estetica, a cura di L. Russo, Aesthetica Edizioni, 2000, p. 16]. Oltre a tale significato, in Gracián ne troviamo un altro che è storico in quanto la storiografia è anche scelta, ed etico in quanto riferito al comportamento. «Tutto il sapere umano si riduce oggi alla destrezza di una saggia scelta. Ma saper scegliere è uno dei doni più preziosi della natura, un dono che viene elargito a pochi. Perciò vediamo ogni giorno uomini dall’ingegno sottile, dal giudizio acuto, perfino studiosi ed eruditi, i quali, dovendo scegliere, si perdono e tutto questo perché manca loro il gran dono del saper scegliere: quindi non bastano né lo studio né l’ingegno là dove manca la capacità di scegliere. Ma incapacità di scegliere significa appunto difetto di gusto: nessuno conquisterà mai credito di eccellenza in una mansione qualsiasi senza la dote di un gusto attendibile» [Cfr. P. D’Angelo, op. cit.]. Si conferma così che sin dall’origine si attribuisce al gusto una valenza soprattutto critica e selettiva. Ho ragionato intorno al gusto in un precedente studio, nel quale definivo il «gusto», per i suoi legami al tempo e al luogo, «come convenzione storica nelle arti», qui ribadendo tuttavia che il gusto è riscontrabile in ogni campo del comportamento umano che implica il momento estetico e non solo quest’ultimo. Per il tema del gusto come convenzione, a sua volta indispensabile per definire la critica, è necessario smentire qualche luogo comune. È diffusa opinione che il gusto sia un sentimento così soggettivo da non ammettere alcuna discussione; donde il popolare slogan de gustibus non est disputandum. Se così fosse non ci sarebbe manufatto, comportamento, rapporto sociale avente qualcosa in comune; di più, non ci sarebbe il linguaggio e altro modo di comunicare, segno d’intesa, accordo su un tema, tutto riducendosi a quanto detta l’istinto personale. Viceversa, la presenza della componente del gusto è riscontrabile in ogni manifestazione sociale, dalla po-


litica alla cultura, dall’economia al lavoro, dagli usi ai costumi; il che già vale a indicare che il gusto non è tanto materia di opzione individuale quanto piuttosto fenomeno dotato di una certa invarianza collettiva. A che serve parlare del gusto quando ci occupiamo di cogliere lo statuto della critica? Serve non solo per le analogie che i due concetti hanno con la storia, le teorie e la convenzione, ma perché il fattore gusto ci suggerisce un’ulteriore e, a mio parere, fondamentale motivazione per definire la struttura della critica. Infatti, il gusto va inteso come criterio o canone per giudicare gli aspetti del sentimento. «Poiché solo nel ’700 il sentimento veniva riconosciuto come facoltà a sé, distinta dalla facoltà teoretica e dalla pratica, la nozione di gusto si è venuta determinando correlativamente nello stesso periodo come quella del criterio cui si adegua o deve adeguarsi tale facoltà nelle sue valutazioni. Alla facoltà del sentimento fu subito attribuita come attività propria quella estetica: così s’intese per gusto prevalentemente il criterio del giudizio estetico, nel qual senso la parola è rimasta nell’uso corrente. Nel suo significato più generale, il gusto è definito da Vauvenargues come “la disposizione a giudicare rettamente gli oggetti del sentimento” (Intr. à la connassaince de l’esprit humain, 1746, 12)» [N. Abbagnano, voce Gusto del Dizionario di Filosofia, cit., p. 436]. Anche David Hume in alcuni dei suoi saggi morali e politici (1741) connette il gusto col sentimento in generale. La bellezza è difatti un sentimento; e poiché ogni sentimento è giusto, non riferendosi a nulla al di là di sé, ogni spirito percepisce una bellezza differente. Questo tuttavia non impedisce che ci sia un criterio del gusto perché vi è una specie di senso comune che tende a oggettivare il gusto. Si ricava un criterio del gusto solo ricorrendo alle esperienze e alle osservazioni dei sentimenti comuni della natura umana senza pretendere che in ogni occasione i sentimenti degli uomini siano conformi a quel criterio. Il senso comune si ritrova in Kant. Alla domanda: posto che il gusto sia un modo di sentire distinto dalla facoltà teoretica e dalla pratica, come si concilia il modo di sentire soggettivo con quello

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oggettivo? Kant risponde, mediante il sensus communis: «per sensus communis si deve intendere l’idea di un senso che abbiamo in comune, cioè di una facoltà di giudicare che nella sua riflessione tien conto a priori del modo di rappresentarne di tutti gli altri, per mantenere in certo modo il proprio giudizio nei limiti della ragione umana nel suo complesso, e per evitare così la facile illusione di ritenere come oggettive delle condizioni particolari e soggettive, illusione che avrebbe una influenza dannosa sul giudizio» [I. Kant, Critica del giudizio, Editori Laterza, Roma-Bari 1979, p. 150]. Inoltre il senso comune nel suo significato più esatto si può definire come «la facoltà di giudicare su ciò che rende universalmente comunicabile, senza la mediazione di un concetto, il sentimento suscitato da una data rappresentazione» [Crit. del Giud., § 40]. Pertanto l’universalità del giudizio di gusto non è quella del giudizio intellettuale perché non si fonda sull’oggetto ma sulla possibilità della comunicazione con gli altri. In altri termini il giudizio di gusto è universale solo perché si fonda sulla comunicabilità del sentimento [Crit. del Giud., § 39]. In sostanza, la problematica definizione del gusto sta in ciò che, da un lato, si vuole distinguerlo dalla facoltà teoretica e dalla pratica e, dall’altro, si vuole intenderlo non limitato a un senso del piacere soggettivo, il che darebbe ragione al vecchio adagio de gustibus non est disputandum, per renderlo criterio oggettivo di scelte e rappresentazioni; ma com’è possibile una coesistenza tanto contraddittoria? Soprattutto come poterla spiegare? Una possibile motivazione, necessaria ma non sufficiente, è la distinzione fra l’«artistico» e l’«estetico», dove col primo termine s’indica un’e­sperienza che comporta un impegno di studio e di conoscenza, un «artificio», nell’accezione migliore del termine, sia da parte di chi opera, sia da parte di chi ne fruisce; col termine «estetico» s’intende invece una qualità che dà piacere indipendentemente dalla cultura e dalla preparazione; l’estetico è fenomeno naturale e pertiene ai sensi, l’artistico, invece, pertiene alla cultura. Con David Hume l’idea di gusto assume il carattere


prettamente estetico, donde l’esigenza di trovare alcune «regole del gusto», come tentò di fare il filosofo inglese. Nel famoso saggio Of the Standard of Taste del 1757, Hume non si preoccupa di definire l’idea del bello, ma di trovare i fondamenti del giudizio estetico del gusto che è alla base del piacere e del dispiacere. Con Kant il problema di cui ci occupiamo assume un carattere diverso: non si tratta più di vedere nel gusto solo una facoltà o capacità di sentire il bello e il brutto e basare sull’immediatezza di questo atto un giudizio, ma di fare «critica del gusto cioè l’arte o la scienza che riporta a regole il rapporto reciproco dell’immaginazione e dell’intelletto nella rappresentazione data» [I. Kant, Critica del giudizio, Laterza, Bari 1972, p. 142]. Riassumendo sul termine di gusto, esso nasce come fenomeno soggettivo salvo a modificarsi nel tempo come ogni altro fatto storico, acquistando una certa oggettività, quella cioè che denota le caratteristiche del contesto socio-culturale di una comunità. Se questo è vero il naturale istinto dell’inizio si trasforma in una convenzione, allo stesso modo di come si forma una lingua, che consente l’espressione individuale condizionata al tempo stesso da una codificazione, certo non meccanica, ma propria di una innere Spra­ chform, per dirla con Humboldt, che intende la lingua come una forma interna, espressione della visione del mondo del popolo che parla quella lingua. Possiamo quindi sostenere che il gusto è una convenzione, rispetto alla quale consentiamo o dissentiamo, ma che comunque si evolve, s’impara, si corregge; che è soggetto ad influenze, ad alterne fortune come tutti i fenomeni storici; che soprattutto, problematico com’è, risulta materia altamente discutibile. Non ancora sufficienti sono i legami tra critica e gusto in ordine alla storicità. «Il gusto è sempre storico, e varia col variare dei tempi, perché nel tempo variano le forme di civiltà e di spiritualità: l’esercizio del gusto segue quelle segrete affinità elettive, quelle nascoste parentele, quelle istintive congenialità che venano, anzi regolano tutta la vita spirituale, e collegano fra loro, in modo che appare sempre

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sorprendente e meraviglioso, le opere di diversi campi, o artistico o filosofico o pratico o religioso o politico, ma d’una stessa epoca, con vincoli occulti, ma non per questo meno reali» [L. Pareyson, Estetica, teoria della formatività, Zanichelli, Bologna 1960, p. 20]. Da quanto precede risulta che intorno alla critica e ai relativi criteri esiste una interpretazione semantico-concettuale varia e molteplice che giustifica il prevalente orientamento verso il campo dell’arte, a sua volta altrettanto problematico; è certo comunque che non tutta la critica possa risolversi in critica d’arte, specie in ordine all’arte contemporanea, insofferente ad ogni definizione e giudizio. Quanto alla crisi attuale della critica e del gusto, ritengo che essa stia, sia pure in parte, nella sua origine concettuale, in quell’assunto, condiviso dagli autori maggiori, per cui il gusto sarebbe la facoltà di giudicare ciò che rende comunicabile il nostro sentimento rispetto a una data rappresentazione, senza la mediazione di un concetto. Peraltro l’idea che il sentimento possa agire solo per se stesso senza l’apporto della ragione è per me incomprensibile quando la semplice percezione è già una presa di coscienza di una sensazione. Nonostante il ricorso al senso comune che contribuisce a rendere più oggettivo un piacere che si ritiene soggettivo, la separazione tra sentimento e concetto è inaccettabile. Lo è altresì il principio per cui la qualità che dà piacere non sta nell’oggetto della contemplazione quanto in quella che noi gli attribuiamo, vanificando così tutta la cultura dell’empatia. Non è casuale che, muovendo da questi illogici principi, nessuno, a mio giudizio, ha individuato un’utile e funzionale regola del gusto. Forma e funzione della critica

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Lo scarso interesse per lo statuto della critica da parte dei critici militanti non deriva forse dalla confusione tra la funzione critica – distinguere, scegliere, giudicare – e la sua «sostanza»? Poiché in qualunque settore si richiede sempre la stessa funzione critica, è possibile pensare che esista un


denominatore comune funzionale che tuttavia non può prescindere da un denominatore comune «formale», poiché non si dà funzione senza forma. Donde la possibilità che la critica, intesa in generale – oltre ad essere una struttura unitaria, un denominatore comune a tutti i campi, oltre ad avere componenti storiche, teoriche, linee della ragione, del sentimento, del senso comune, della convenzione, ecc. – vada colta nel binomio forma/funzione. La forma della critica è una sintesi dei modelli storici, filosofici, tipico-ideali, ecc. tale da formare una saldatura tra le idee sviluppatesi in ogni contesto socio-culturale; detta sintesi si integra con la definizione kantiana di critica, che comporta I limiti della sensibilità e della ragione; la forma della critica risulta quindi da una struttura invariante nei limiti del possibile. Dal canto suo la funzione della critica resta quella nata dall’etimo greco citato κρὶνω: distinguere, scegliere, giudicare; in essa risultano variabili quelli che abbiamo definito gli «elementi costruttivi della critica», ossia i criteri, che, come già detto, sono mutevoli non solo storicamente ma anche in ordine ai campi cui si applica la critica. Il dualismo forma/funzione nulla toglie alla nostra esigenza di pensare alla critica come «qualcosa in sé»; non sono infatti rari altri concetti che conservano la loro unità pur fondata su un binomio; valga per tutti il concetto di segno linguistico che si compone di significato e significante. Nel nodo formato dalla forma, dalla funzione e dai criteri, quest’ultimi non sono leggi, fisse ed immutabili nel tempo, somigliando piuttosto alle norme, delle quali, per dirla con Mukarovsky è sempre pensabile la modificazione. Tuttavia, pur ammettendo quest’ultima, i criteri non possono definirsi tout court delle norme (queste restando sempre nell’ordine pratico), in quanto appartengono a un livello concettuale superiore, alla dialettica propria di forma e funzione della critica. Parafrasando una citazione iniziale, sia la critica che i criteri devono conoscere i propri postulati per rivendicare le proprie certezze.

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L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale OLGA SCOTTO DI VETTIMO

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Oggi ancora proviamo a interrogarci sull’opportunità del riutilizzo di datate espressioni semantiche o sull’emergenza del conio di nuove denominazioni per consolidare le basi epistemologiche della critica d’arte, affinché il suo statuto non venga definitivamente negato con conseguenti crisi identitarie di gruppi e di singoli lavoratori della conoscenza. Ma, intanto, lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie digitali consente orizzonti inediti e traguardi ampi e democratici in grado di sovvertire regole, proporne di attuali o modificare ormai inadeguate vecchie soluzioni. A determinare un punto di non ritorno rispetto a modelli interpretativi precedenti è certamente non solo l’esistenza ma l’uso massivo della Rete, le cui caratteristiche sono state depredate e dispiegate in infiniti sviluppi possibili, tessendo una robusta ragnatela che tiene insieme l’arte e la comunicazione dell’arte. Si tratta di un fenomeno che procede contemporaneamente per ampliamento e riorganizzazione di utenti e pratiche, che scandisce tempi e spazi, orientando sensi e metodologie che investono trasversalmente tutti i saperi e le attitudini creative. Procedendo per una visione d’insieme e futuribile, si potrebbe affermare che l’arte e la comunicazione dell’arte trovino in questa recente svolta epocale una nuova – e impensabile ancora fino a pochi anni fa – vicinanza di intenti e pratiche, offrendo possibili contaminazioni esteti-


che, tematiche e tecniche, che faranno a breve ripostulare la semantica e l’epistemologia in uso per la stessa pratica artistica. Scaturita dall’implosione e dal sovraffollamento mediatici, la Rete ha offerto una visione articolata e complessa, che non parcellizza la conoscenza, ma la collega, la diffonde, la rende accessibile, proponendo soluzioni viziose e virtuose assieme, capaci, però, comunque, di produrre nuove relazioni e nuova creatività. Eppure per Tim Berners-Lee, inventore del Web, la Rete nel 1990 doveva soprattutto risolvere la frammentazione ancora in essere con l’uso della tecnologia Internet, già in funzione dagli anni Settanta ma troppo complessa per quanti non fossero esperti di informatica, e creare un luogo virtuale, uno spazio in cui l’informazione potesse esistere in permanenza e dove potevi andare a cercarla, cosicché Il World Wide Web, sovrapponendosi a Internet, avrebbe appunto regalato all’informazione questo spazio1. Cruciale, però, è comprendere se il Web possa limitarsi a essere osservato esclusivamente come luogo virtuale, appunto, in cui agevolmente (perché finalizzato da subito a questo) un flusso indiscriminato di informazioni possa supportare la conoscenza, creando una Rete di scambi conoscitivi, o, se, invece, il suo utilizzo si sia già prestato e più ancora si presterà nel tempo a diventare un vero e proprio elemento di creatività e, parallelamente, di comunicazione di ogni potenziale creativo. Diversamente dal ragionamento che seguirà per l’arte contemporanea, limitatamente all’ambito dell’architettura, Renato De Fusco ha già indicato equivoci ed elementi riflessivi da cui poter procedere anche per cogliere le necessarie differenze di orientamento da assumere nella valutazione critica del rapporto tra il Web e le Arti. Innanzitutto se Internet è informazione, questa non è la «materia prima dell’architettura»: al centro della teoria digitale è il concetto di «informazione» che è stato ipostatizzato, ovvero esagerato oltre le sue effettive possibilità, specie per quanto riguarda la nostra disciplina. […]

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Certo che tramite Internet si possano trasmettere informazioni riguardanti la nostra disciplina è indubbio, ma non ritengo che quello dell’architettura sia il campo più avvantaggiato da Internet a fronte di altri che ormai non ne possono più fare a meno. In secondo luogo – ed è qui il discrimine individuato dallo studioso con le altre Arti – La pittura e la scultura, che pure implicano un lavoro di conformazione, sono prevalentemente rappresentative; l’architettura e il design, che pure implicano un lavoro di rappresentazione, sono prevalentemente conformative. […] Ora, la gran parte dell’apporto digitale all’architettura va assegnato alla componente rappresentativa, che va dall’iconico al semantico, dal virtuale al possibile – e ricordiamo che il reale è solo un caso del possibile –, dalla comunicazione all’informazione. Tutte queste facoltà, evidentemente di grande importanza, per essere “architettoniche” devono sostenersi sulla componente conformativa, che va dallo spazio degli invasi interni alle singole fabbriche, penetrabili ed agibili, al volume dei loro involucri esterni, dalla solidità della materia alla sua trama, dal gioco tangibile dei pieni e dei vuoti al fenomeno per cui ogni architettura contiene uno spazio ed occupa uno spazio; insomma tutte cose che sono percepibili e che si toccano con mano2. Le caratteristiche conformative proprie dell’architettura e qui individuate, invece, non si danno come qualità necessarie e proprie dell’arte visiva, che, anzi, impossibilitata a mantenere le tradizionali categorie definitorie, si apre al digitale e al virtuale con la disinvoltura dovuta affinché possa dirsi sempre e necessariamente contemporanea. Non solo l’artista sperimenta la Rete, ma spesso subisce da essa condizionamenti strutturali imprescindibili che modificano il lavoro o che impongono ripensamenti sulla stessa possibilità di fruizione di esso. E questo avviene non solo quando, secondo una moda del più recente passato, le opere hanno «abitato» la Second Life –, il mondo virtuale (MUVE) lanciato nel 2003 dalla


società americana Linden Lab e creato dal fisico Philip Rosedale, in cui i vari utenti interagiscono con i loro avatar, vivendo una vera e propria realtà parallela dove si può lavorare, costruire (fare architettura, quindi), gestire attività, socializzare, viaggiare nel tempo e nello spazio, creare relazioni sentimentali ecc. –, ma soprattutto quando la capillarizzazione del Web si è manifestata attraverso la creazione di piattaforme di social network in cui, dalla finzione dell’altro da sé, si è passati al sé in versione Web 2.0. Questa nuova interazione, a differenza della precedente che costringeva ancora a un ‘gioco di ruoli’, si apre a nuove possibilità disvelatorie in cui l’arte e la comunicazione dell’arte si intrecciano applicando pur sempre modelli ‘rappresentativi’ della realtà ma su una piattaforma digitale che impone regole di interazione proprie di un sistema relazionale altro e autentico, benché virtuale. Se si volessero considerare alcuni dati utili per comprendere la portata della diffusione del social network più conosciuto, facendo riferimento alla sola bibliografia digitale, si apprenderebbe che secondo alcune stime Facebook avrebbe più di 800 milioni di utenti, ovvero una penetrazione pari all’11,4% della popolazione globale e che Secondo Audiweb nel giorno medio sono circa 14 milioni gli italiani che navigano su Internet e ben 13 milioni coloro che si collegano a Facebook (vanno considerate, in ogni caso, le diverse metodologie di rilevazione, in quanto Audiweb usa un panel di navigatori, mentre Facebook traccia gli utenti attraverso i suoi server)3. Diversamente dalla creazione di un sistema dell’arte parallelo di gallerie e artisti della Second Life, l’arte ai tempi di Facebook si presta a nuove incursioni concrete e immateriali in cui, però, l’ontologia dell’opera non viene messa in discussione. L’intenzione di Mark Zuckerberger, fondatore nel 2004 del programma da cui poi nascerà l’attuale Facebook, era proprio quella di ricreare un sito che avrebbe riprodotto ciò che accadeva quotidianamente nel mondo reale4, dove nessuno perde la propria identità, ma agisce e reagisce in prima persona (dove al più, talvol-

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ta, il «sé» si sostituisce all’«io»5) nell’infinita vetrina virtuale del Web. È in questo nuovo territorio che si potrà forse stressare ulteriormente quel progetto, già scaturito con gli happenings degli anni Cinquanta del secolo scorso e nato dall’esigenza per l’opera, riconquistata la superficie, di uscire dalla cornice per occupare lo spazio della vita e i luoghi del quotidiano6. La Rete si presenterebbe, così, come una nuova frontiera dove l’arte potrà abitare o dove, per parafrasare Jean-François Lyotard di Abitare la postmodernità, si potrà abitare la post-postmodernità, quindi l’oggi. In un recente pamphlet sull’argomento, in cui l’autore si interroga su che cosa sia Il mondo dopo la fine del mondo. Facebook, l’arte contemporanea e la filosofia, Tommaso Ariemma assume una posizione di cauto pessimismo, affermando che il Web, Prima di Facebook, era il luogo per eccellenza della crisi dell’identità e della sua sperimentazione. Era il luogo dove le persone potevano fingere di essere altro e altri. Un luogo certo insidioso, un vero e proprio mondo. Adatto soprattutto a esploratori, navigatori, pirati. Sul Web, una volta, si navigava. Oggi, con Facebook, le cose sono cambiate: come se si fosse toccato terra e si fosse invitato tutti. Il Web è finito, dando vita a Facebook7. E poco oltre: mentre l’arte contemporanea presenta una disidentificazione, negando ciò che mostra, Facebook avanza l’identificazione massima […]. Con la sua identificazione, Facebook produce una vera e propria fine del mondo del Web. Al contrario, la strategia dell’arte contemporanea si è rivelata una vera e propria apertura di mondo: contro le identificazioni, essa pone oggetti, situazioni, incontri, dove diventa evidente che c’è qualcosa di non evidente, che sfugge, che si sottrae, anche quando l’oggetto mostrato sembra essere comune e ben identificato8. Questo ragionamento si conclude con l’affermazione, non priva di qualche dubbio, che l’arte possa essere considerata come l’unico mondo possibile dopo la fine del mondo, così come la intese Marshall McLuhan nel 1964


con la pubblicazione di Understanding Media: The Exten­ sions of Man, coniando anzitempo l’ossimoro «villaggio globale». Nell’era digitale quest’espressione può essere assunta come necessaria premessa per la comprensione della destinazione ultima di ogni fenomeno che preveda un’azione umana consapevole. La pratica dell’arte, tra queste, si aggira con assoluta leggerezza nel mondo contratto narrato da McLuhan, capace com’è di adattamenti o di intelligenti assunzioni di metodologie, tecniche e pratiche. I social network diventano, pertanto, il luogo in cui agire, soddisfacendo soprattutto le urgenze comunicative legate all’opera; il luogo in cui l’artista privilegia ed esercita le sua capacità di esibizione, prevalendo sul lavoro stesso e mettendo tra parentesi quelle performative, in cui è artifex, sperimentatore di linguaggi, e che afferiscono alla riflessione sull’arte. Non si tratta qui, a ben vedere, di servirsi di nuove tecnologie per la produzione artistica (Internet Art, Net Art, Computer Art), secondo una pratica di utilizzo e di adeguamento a ‘materie e tecniche’ a noi contemporanee, ma di significativo slittamento di un punto di vista che crea un nuovo asse costituito da artista-opera-comunicazione dell’arte. Ma se, come si crede, l’arte oggi non può più limitarsi a una riflessione linguistica, perché le compete la nuova funzione di azione e di incidenza sul mondo (anche se questo debba intendersi non necessariamente come mondo fisico), ecco che si immagina come possibile se non addirittura necessaria una incursione negli spazi del virtuale, di cui si utilizzeranno non più solo la tecnologia ma soprattutto il metodo e il linguaggio. Si immagina, pertanto, come possibile una coincidenza tra fare arte e comunicazione dell’arte su territori alieni e nuovi – le piattaforme digitali – in cui la dissolvenza della fisicità dell’opera è accompagnata da un potenziamento delle sue capacità d’incidenza e di trasformazione del contesto in cui l’opera agisce (il network). L’artista, sempre più svincolato dalle griglie del sistema dell’arte tradizionale (opera, mercato, museo, ecc.) si fa demiurgo e insieme promoter, modificando, promuovendo, informando e

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comunicando, veicolando l’immagine di sé e dell’opera, socializzando e diffondendo: in una parola, agendo. Altro esempio di piattaforma relazionale che bene soddisfa queste caratteristiche è Pinterest. Fondato nel 2010 da Evan Sharp, Ben Silbermann e Paul Sciarra, nasce per crea­ re una sorta di catalogo online di fotografie, immagini e video e vanta attualmente più di 11 milioni di utenti che possono condividere i contenuti anche con gli altri social Web 2.0 (come Facebook, Twitter, Flickr). Solo i numeri dell’utenza obbligherebbero, ancora una volta, a una riflessione di ambito non più solo sociologico del fenomeno, ma di estesa valutazione e ricaduta dello stesso sul sistema articolato dell’arte, in grado di creare procedure stranianti per le consolidate esperienze. Certi che sia impossibile riferirsi all’opera senza il suo contesto, la virtualità dello stesso amplia gli orizzonti di analisi, facendo l’immaterialità l’espressione ‘concreta’ di un’esistenza. Lo stesso professionista, nella tradizionale accezione (gallerista, critico, ecc), utilizza la piattaforma LinkedIn, un networking che crea una rete di contatti professionali. Questa network activity, diffusissima anche in Italia, coincide sempre più con un’istanza ipertrofica del sé che si estende capillarmente nella Rete, lasciando ovunque tracce comunicative di un’esistenza artistica, estetica o professionale, in cui, però, spesso il discrimine qualitativo diventa ancora più impercepibile perché lasciato a una sapiente e avvertita lettura in filigrana non sempre possibile. Eppure, analisi più radicalmente orientate, che inducono a diversi ragionamenti e aperture, sono raccolte in un recente volume L’Arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post- tecnologica, in cui Andrea Balzola e Paolo Rosa affermano: Viviamo un’epoca cruciale dominata dalla tecnica, in cui dobbiamo far fronte a incalzanti emergenze ambientali, sociali e personali. […] È essenziale recuperare una grande generosità diffusa, capace di associarsi e mettersi in rete condividendo sapienze ed esperienze. Gli artisti possono essere catalizzatori di queste energie creative, esplorando e trovando percorsi inediti per


esprimersi, soprattutto nell’ambito dei nuovi media, delle nuove tecnologie interattive e della Rete. Ma per fare questo l’arte deve dimostrare di essere capace di cambiare rotta, ripensarsi radicalmente, andare «fuori di sé»9. L’artista plurale10, secondo gli autori, dovrà ritornare a operare un’azione artistica intesa come pratica del dono, capace di produrre nuove sensibilità e, quindi, nuovi comportamenti. Perché possa accadere, l’artista dovrà assumersi nuovamente responsabilità etiche ed estetiche11. Da questa prospettiva, l’arte non è politica, ma si fa politica, cioè produce un progetto di riconfigurazione dei comportamenti e delle sensibilità collettive; e non è tecnologia ma si fa tecnologia, usandone i dispositivi all’interno di un progetto poetico ed etico12. Queste complesse procedure, che in buona sostanza coincidono con il progetto artistico – quindi etico, estetico e politico – di Studio Azzurro, di cui Paolo Rosa è uno dei fondatori, appartengono, però, a un ambito di ‘resistenza’ rispetto all’uso altro, pure descritto nel volume citato, che si fa delle tecnologie e dei new media. Non a caso, quello degli autori vuole essere un manifesto dell’arte post-tecnologica, capace di orientare, riscrivere, rifondare; un manifesto che opponga all’arte che è fuori di sé – perché stretta in un sistema asfittico e autoreferenziale, perché si confonde con la comunicazione, perché confusa nella ricerca identitaria tra pubblico, opera e artista innescata dalla rivoluzione digitale –, un’arte che esce da se stessa per farsi relazionale, creazione collettiva, processo aperto e partecipato, secondo una sensibilità e un’urgenza politica (questa volta nel senso civico del termine) oggi molto diffuse e ampiamente condivise a cui spesso si accompagnano i concetti di difficile declinazione di «beni comuni» e di «democrazia partecipata». Il posizionamento radicale, chiaro e inequivocabile dei due autori scaturisce da una approfondita conoscenza pratica e di ricerca sui nuovi linguaggi artistici e sulle arti multimediali digitali, a cui segue l’impellenza di una rea­ zione avanguardistica (di qui la scrittura di un manifesto),

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che possa offrire riflessioni utili a dirottare su nuovi sentieri le procedure fin qui descritte. L’arte, quindi, deve sottrarsi all’estetica tradizionale e l’artista deve saper leggere i fenomeni, interpretarli, sviluppare la propria creatività senza subirli, deve lavorare su comportamenti sapendo che oggi sono iperstrutturati13, quindi ideologizzati e cristallizzati. La corretta interpretazione di questi fenomeni, tuttavia, non sempre aderisce alle attuali tendenze, spesso proprie di nuove generazioni di artisti, svincolati da urgenze di posizionamento, così come la Rete rende loro sempre possi­ bile. Esiste, cioè, una condizione minima, necessaria e sufficiente nel sistema attuale perché l’arte esista e questa è la comunicazione. Il paradosso vigente è che l’arte e la comunicazione dell’arte possano anche coincidere, spesso sovrapporsi, per cui comunicare ad arte potrà anche dirsi la nuova frontiera di esplorazione, bella o brutta che sia, sudicia o patinata, giusta o ingiusta, ma esistente, abitante di un mondo relazionale e virtuale. Pertanto non sarà più corretto affermare a proposito delle comunità di ragazzini nate e cresciute attorno ai computer game e ai giochi di ruolo fino ai dilaganti social network generalisti (Facebook, Myspace, Twitter ecc.) o tematici che assomigliano a un variegato formulario di quel processo di desoggetivazione di cui parla Agamben attribuendolo al dispositivo «contemporaneo»14. E questo non perché non sia vero, ma perché questo è già accaduto e già da tempo. Il passaggio dalla desoggettivazione alla creazione di un nuovo soggetto è ormai avvenuto e questo soggetto – a cui si oppone la cosiddetta massa critica15 – è imprescindibile perché viaggia sui grandi numeri, perché è capace di produrre nuove forme relazionali e artistiche, perché è privo di sensi di colpa (soprattutto se questi sono l’esito della cattiva coscienza delle generazioni precedenti), perché attrezzato per articolare nuovi pensieri cinici e interessati, perché per questo nuovo soggetto è davvero possibile affermare che rose is a rose is a rose is a rose e nient’altro che questo.


1  T. Berners-Lee, L’architettura del nuovo Web (1999), Feltrinelli, Milano 2001, p. 30. 2  R. De Fusco, Internet non si addice all’architettura, in “Op. cit.”, n. 112, a. 2001. 3   Quindi il collegamento a internet prevederebbe almeno un accesso giornaliero al social media con questa distinzione per regioni: in Lazio (2.624 milioni di iscritti), in Lombardia (1.399 milioni), Campania (719 mila), Piemonte (428 mila) e Sicilia (404 mila). Il 53% degli iscritti è di sesso maschile e il 47% è di sesso femminile. Infine, per quanto concerne le due fasce d’età più rappresentate, il 20% degli iscritti ha tra i 19 e i 24 anni, mentre il 19% ha un’età compresa tra i 36 e i 45 anni (http://www.adversa.it/blog/idati-sulla-diffusione-di-facebook-in-italia/). 4  B. Mezrich, Miliardari per caso. L’invenzione di Facebook: una storia di soldi, sesso, genio e tradimento (2009), Sperling & Kupfer, Milano 2010, p. 91. 5   Su questo concetto, traslato dall’ambito letterario, cfr. C. Franchi, Pastorelle occitane, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2006, p. 16. 6  A. Trimarco, L’arte e l’abitare, Editoriale Modo, Milano 2001, p. 39. 7  T. Ariemma, Il mondo dopo la fine del mondo. Facebook, l’arte contemporanea e la filosofia, et al. Edizioni, Milano 2012, p. 97. 8   Ivi, pp. 103-104. 9  A. Balzola, P. Rosa, L’Arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica, Feltrinelli, Milano 2011, p. 9. 10   Un artista è plurale non solo perché è all’interno del gruppo creativo, ma è colui che sviluppa un’attitudine al coinvolgimento e al dialogo. (…) L’artista plurale è interessato a lavorare (…) producendo condizioni in cui il partecipante all’evento artistico non è più soltanto spettatore ma diventa spett-attore, sperimenta gesti e comportamenti imprevedibili per l’artista stesso ed è sollecitato a condividere le sue esperienze con gli altri. Ivi, p. 13. 11   Ivi, p. 11. 12   Ivi, p. 176. 13   Ivi, p. 106. 14   Ivi, p. 156. 15   Il concetto di «massa critica», che in fisica individua la quantità di materiale fissile (uranio, plutonio) necessaria ad innescare una reazione a catena, viene utilizzato per analogia dalla nuova cultura emergente per indicare un processo di cambiamento sociale indotto da una minoranza attiva quando raggiunge un certo grado di numerosità o di intensità. N. Montecucco, La massa critica e il cambiamento globale, in E. Cheli, N. Montecucco, I Creativi Culturali, Xenia Edizioni, Milano 2009 (http://www.censimentoglobale.it/documenti/massa_critica.pdf).

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Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 GIORGIO PIGAFETTA

Quale un fanciullo, con assidua cura, di fogliolini e di fuscelli, in forma o di tempio o di torre o di palazzo, un edificio innalza; e come prima fornito il mira, ad atterrarlo è volto, perché gli stessi a lui fuscelli e fogli per novo lavorio son di mestieri; così natura ogni opra sua, quantunque d’alto artificio a contemplar, non prima vede perfetta, ch’a disfarla imprende, le parti sciolte dispensando altrove. E indarno a preservar se stesso ed altro al gioco reo, la cui ragion gli è chiusa eternamente, il mortal seme accorre mille virtudi oprando in mille guise con dotta man: che, d’ogni sforzo in onta, la natura crudel, fanciullo invitto, il suo capriccio adempie, e senza posa distruggendo e formando si trastulla.

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Questi versi della leopardiana Palinodia al marchese Gino Capponi, rinviano palesemente a un antico frammento di Eraclito, il numero 52 secondo l’ordine Diels-Kranz. Leo­ pardi, che probabilmente conosceva il frammento attraverso la mediazione di Clemente Alessandrino o di Ippolito, rende l’originale termine αίών con il termine «natura». Associa, quindi, il gioco del fanciullo all’incessante e tirannico «lavorio» della natura, sorda e indifferente alle invoca-


zioni e ai disegni umani. È la natura, dunque, che continuamente costruisce e distrugge, secondo una logica di gioco che sfugge alla ragione dell’uomo. Diversamente traduce Giorgio Colli. In sintonia con l’accezione omerica, Colli rende αίών con «vita». Il frammento, allora, suona così: «la vita è un fanciullo che gioca, che sposta i pezzi sulla scacchiera: reggimento d’un fanciullo». Dalla versione di Colli, quindi, traspare una correlazione col destino dell’uomo, con le vicende che innervano il trascorrere del tempo che è dato in carico ai mortali. In un’altra versione italiana dei frammenti eraclitei, curata da Alessandro Lami, lo stesso termine diviene: «il corso delle età». In questo caso, la parola eraclitea suona così: «il corso delle età è un fanciullo nel trastullo, che muove le pedine: il reame d’un fanciullo». Qui, aristotelicamente, il significato di αίών si schiaccia sull’idea di «età della vita», di aevum inteso come tempo del vivere, come parentesi fra nascita e morte che si manifesta nell’ordine naturale. «Si dice, infatti, αίών di ciascuno l’ultimo termine che circoscrive il tempo di ogni singola vita, al di fuori del quale non c’è più nulla secondo natura», scrive Aristotele nel De Caelo. Un ulteriore slittamento, allora, verso il senso biologico e vitale del termine, visto nella successione temporale delle età. Non è, perciò, un azzardo gratuito – anche se azzardo resta, come ammonisce Giorgio Agamben – rendere il termine αίών con una parola di grande successo negli ultimi due secoli: ‘storia’. È chiaro che, attraverso il termine αίών, non è assolutamente lecito trasferire surrettiziamente il nostro concetto di ‘storicità’ nelle pieghe del pensiero eracliteo. Il contesto in cui è calato originariamente lo esclude. Anche traducendo αίών con il «corso delle età» non vi è nessun riferimento all’ontologia della storia che ha caratterizzato l’ottocento e il novecento. Tuttavia, nello slittamento semantico appena evidenziato si possono simbolicamente collocare i due punti che qui ci interessano. Precisamente: la radice ‘tragica’ del concetto di storicità e l’indisgiungibile compromissione della storia con l’idea di morte.

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Infatti, la difficoltà di traduzione non deriva soltanto dall’intrinseca oscurità eraclitea. Il termine αίών, nella cultura greca, aduna su di sé l’ambiguo conflitto – che caratterizza l’antica sapienza – fra essere e divenire, fra nascere e morire, fra comparire e scomparire, fra porzione del tempo ed eternità. Non per nulla Αίών, nella tradizione orfica, è personificato in Dioniso. Il punto di fondo è che quel termine assume su di sé il confronto fra la tragicità dell’esistenza e l’intemporalità dell’essere-nulla da cui le cose, momentaneamente, sporgono per essere subito divorate dal divenire. «Pare che l’essere delle cose – scrive ancora Leopardi – abbia per suo proprio ed unico obietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono». Dunque, la vita, la natura, il corso delle età, la storia, compaiono solo in virtù della rovina a cui sono destinate. Poco importa se quel nulla da cui scaturiscono possa assumere il carattere della pienezza dell’essere o della divinità. L’evidenza originaria del divenire mostra come la rovina e la morte intessano il gioco del fanciullo. A questo sono destinati gli uomini, nel succedersi delle generazioni e del tempo. «Una volta nati – ammonisce ancora Eraclito –, vogliono vivere e incontrare destini di morte, ma ancor più vogliono riposare; e lasciano dietro di sé figli, perché nascano destini di morte». Solo in quest’ottica possiamo, con azzardo, assumere che l’oggetto di quel gioco fanciullesco sia ciò che noi chiamiamo storia. Anzi, più precisamente ‘storia dell’umanità’. Storia, cioè, di quella specie animale che articola il proprio destino mortale nel linguaggio (a cui appartiene la storia). Storia dell’uomo in quanto essenza dell’umanità o, altrimenti, ‘storia universale’. D’altra parte, su cos’altro, se non su quel momentaneo sporgere dal nulla, su quella rovina incessante si esercita la storiografia? Il sapere storico rincorre il gioco del fanciullo mentre affastella fogliolini e fuscelli che assumono forma di tempio, di torre e di palazzo. In ciò sta l’incedere della storia universale e in ciò sta l’oggetto della storiografia. Su quella provvisoria instabilità, su quella stratificazio-


ne di cose su cose, lo storico passa la sua vita affidandosi a opere di carta, alla scrittura e al metodo. Tuttavia, non è l’αίών con le sue trituranti mascelle a interessarlo. Non è il disperato aiuto che le parole del racconto storico danno agli uomini nella loro guerra contro il tempo, a esaltarlo. Non è il «reggimento del fanciullo» ad arrovellare chi sprofonda negli archivi, chi si perde in biblioteche, chi scava alla ricerca di gravi o lievi reliquie. È la scacchiera a interessare; è il fondamento razionale del gioco. Sono le connessioni strutturali attraverso le quali i pezzi si spostano in avanti, indietro, obliquamente, per salti o per continuità, verso la vittoria o la sconfitta… ad appassionare lo storico. Ma non solo. Il fanciullo, infatti, gioca su una scacchiera che è come liquida, difforme a ogni mossa, in cui le regole si negano e si riaffermano nel capriccio puerile di chi è comunque destinato a sancire la propria vittoria. È del tutto inutile, dunque, rincorrere la mobilità capricciosa del giocatore o fluttuare sulla liquidità della scacchiera. Soltanto fermando, sospendendo in una relazione provvisoria le mosse e le varianti, quelle regole assumono congruenza con la posizione delle pedine. È un intervallo minimo, di qualche ora o di qualche secolo. Un intervallo, comunque, quasi impercettibile di fronte all’infinita apertura del divenire. Tuttavia, è un intervallo assolutamente indispensabile per poter trasferire le mosse del fanciullo nell’ordine discorsivo a cui lo storico si affida. Inoltre, lo storico sa anche che basta spostare di pochissimo lo sguardo, variare la relazione fra gli stessi pezzi sulla medesima scacchiera, per donare al quadro i più diversi significati: in ciò sta il ‘progresso’ della storiografia. In questo modo soltanto – in bilico fra regole del gioco e liquidità della scacchiera – il divenire immobile della scrittura appare come un simulacro del divenire nelle mani del fanciullo. Solo così le parole della storia acquistano un senso. Altrimenti, quale linguaggio umano potrebbe star dietro alla logica del gioco? a che varrebbe dedicare la propria vita al rovistare tra le sporgenze del nulla? È, dunque, la ratio occulta del gioco, il vero obiettivo di un sapere, quello storico, che non ha a che fare con l’essere

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e le sostanze della metafisica tradizionale, con le leggi e le costanti della natura, ma con la rovina incessante del divenire. È chiaro che tale ratio si costruisce solo su ciò che è, ormai, un che di passato, un divenuto. Il movimento inestinguibile del gioco, infatti, appare allo storico, che guarda all’indietro, come congelato nella staticità dell’accaduto. In tale condizione immobile, le connessioni libere del gioco si possono anche vestire di necessità, facendo loro assumere carattere ‘oggettivo’. Naturalmente, tutto ciò sarà più convincente se ancorato a tracce e a reperti che rivelano intenzionalità, psicologie recondite ed espresse, interessi economici o di potere, passioni e paure. Inoltre, gli interpreti della storia devono apparire il più possibile ‘vivi’, calati nel contesto ‘storico’ a cui appartengono. Si ricercano, così, le connessioni più profonde, le motivazioni ‘strutturali’, le quasi-immobilità di lunga durata con le specificità individuali e culturali, con le ‘biografie’. S’intrecciano le discipline più disparate, pur di rendere più ‘umano’ possibile il movimento delle pedine sulla scacchiera. La storia, dice Simmel, «non ha da essere un gioco di marionette». Pazienza se gli uomini, come le marionette, sono mossi dai fili nella mano del fanciullo che gioca. Questo resta sullo sfondo; una volta gettato lo sguardo sulla storia, in bilico sul bordo del nulla, questa assume il carattere di necessità (e in ciò consiste il carattere ‘scientifico’ della storiografia).

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In ogni caso, strappare dalle mani capricciose del fanciullo il ‘senso’ della storia, senza l’aiuto delle sostanze o di Dio, appare un compito titanico. In quest’ottica la storia universale è un universale rivolgimento dell’uomo rispetto al proprio destino. Si comprende, quindi, perché la formulazione di una ratio occulta del gioco, impegni la cultura europea per parecchi lustri, fra XVIII e XIX secolo. Non si è trattato, semplicemente, di dotare la scienza storica di metodologie o di strumentazioni filologiche. La storia universale è la condizione sapienziale entro cui debbono ricadere le indagini storiografiche indipendentemente da questioni metodologiche o euristiche. Ciò non vuol dire, però, che sia solo questione


«da filosofi», come vorrebbe Fichte. Essa entra prepotentemente nella determinazione dei temi e degli ambiti d’indagine storiografica. Formulare la sensatezza del gioco fanciullesco e la natura della scacchiera apre quell’indagine alla riflessione sui contenuti profondi sul «corso delle età», sulla natura di αίών. Come ben chiarisce Troeltsch, la conoscenza storica chiama in causa sempre «un concetto universale del divenire» sul quale si stagliano le azioni del­l’uomo. Naturalmente, questo implica una visione del mondo in cui la dinamica del divenire sia ricercata in radice. Ossia, una visione in cui «i destini di morte» siano dialetticamente assunti quali elementi propulsori del divenire stesso nell’affermazione di quella vita, umana e non naturale, che è la storia. Occorre mettere in campo una visione che abbia la forza intrinseca di rompere il dominio dell’idea e dell’essere a vantaggio del divenire-divenuto che ospita i mortali sino a quando non siano «liberi dalla vita». Immaginare i tratti di una storia universale è, in questo senso, una decisione intimamente ‘tragica’. Vuol dire recidere l’alleanza con l’essere che ha guidato la metafisica occidentale e trasferire il sapere nelle maglie mobili del divenire. È guardare in faccia la negatività che sempre si riafferma, dove l’unica «legge è che ogni cosa distrugga se medesima» e dove «la vita di ogni realtà finita è la sua morte». Simbolicamente, si può individuare la temerarietà di questa posizione in un passaggio della Fenomenologia del­ lo spirito. «Secondo il mio punto di vista – scrive Hegel – che dovrà giustificarsi unicamente mediante l’esposizione del sistema stesso, tutto dipende dal concepire ed esprimere il vero non tanto come sostanza, bensì propriamente come soggetto». Il vero, dunque, non si esprime più come forma sostanziale, di per sé necessaria, sussistente e autonoma. Il vero si definisce nel processo, nel movimento della vita, nella «sostanza vivente» che media la sua natura individuale col divenire incessante. In questo modo Hegel accoglie, dentro la definizione stessa di sostanza, la negatività, il nulla e la morte. Allo sguardo hegeliano si rivela la possibilità del nulla poiché appare evidente che l’essere non è garanti-

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to da se stesso, dalla sua presenza. «Penso, dunque sono», è l’evidenza cartesiana con cui la modernità ha congiunto ragione e vita, coscienza ed essere; ma nessuna certezza, né di ragione né di vita, se dico: «penso, dunque sarò». Il soggetto, così, si apre alla coscienza della propria morte e della propria negazione. E questo è esattamente il carattere ‘storico’ del soggetto stesso, il segreto della sua individualità storicamente irripetibile. Solo in virtù della propria morte, annota Hegel, l’uomo è individuo e soggetto della storia. Anzi, proprio l’universalità della morte rende la vita dei singoli individui cospirante col cammino dello Spirito, vero soggetto della storia universale. «La morte, se così vogliamo chiamare quella irrealtà, è la cosa più terribile […] Lo Spirito conquista la propria verità solo a condizione di ritrovare se stesso nella disgregazione assoluta. […] Lo Spirito è invece questa potenza solo quando guarda in faccia il negativo e soggiorna presso di esso. Tale soggiorno è il potere magico che converte il negativo nell’essere». Solo in questo modo, con la coscienza della morte che lo caratterizza, l’uomo cessa di essere semplicemente «la malattia mortale dell’animale». Gli animali, in quanto esistenti, sono già da sempre presso la loro essenza. Solo l’uomo «si raggiunge» attraverso la dialettica del tempo storico. Per questo ha senso scrivere la storia dell’uomo come storia universale mentre, per le formiche o i batteri, si scrive una storia naturale. Se non fosse capace di stare presso la morte, presso questo «assoluto negativo», presso questa «libertà pura», l’uomo non potrebbe essere attore della storia. Da questa relazione, fra individuo libero e morte, scaturiscono le figure fondamentali della storia universale hegeliana: dalla Coscienza infelice alla Signoria/Servitù, al Terrore. In ognuno di questi passaggi fondamentali della storia europea la morte diviene elemento propulsore: dalla macerazione della Coscienza infelice, alla pienezza dinamica del conflitto servo/padrone, sino alla «libertà universale» della rivoluzione francese, dove la morte appare come «la morte più fredda e più piatta, senza altro significato che quello di tagliare la testa di un cavolo o di bere un sorso d’acqua».


Naturalmente, la questione non si esaurisce in Hegel e nella sua filosofia della storia. Ma, nel contempo, una riflessione sulla natura profonda del senso della storia è imprescindibile da Hegel. Oltre Hegel, ma da Hegel, infatti, discende sostanzialmente l’asse portante dell’ideologia novecentesca. Con l’immagine del lavoro salariato visto quale «morte differita» nel sistema capitalistico, la relazione morte-storia, che innerva la fenomenologia hegeliana, dilaga nel Novecento. Il lavoro che si oppone come una «morte lenta a una morte subitanea e violenta» (propria del rapporto servo/padrone) diviene la forza modificatrice e propulsiva della storia. Il lavoro garantisce il carattere ‘universale’ della specie umana e ne fonda la storicità. Inimmaginabile, senza questa premessa, il materialismo dialettico e l’enorme produzione storiografica che ne discende. Ma, più in generale, è inimmaginabile la coscienza storica novecentesca senza la dimensione tragica del divenire e della morte come fondamento dinamico della storia. D’altra parte, è agevole riconoscere che, se il dato e il documento non sono validi in sé ma solo in relazione alle serie iconiche o scritturali che precedono e seguono, il carattere diveniente della storia ne è l’imprescindibile orizzonte di senso. Inutile recalcitrare contro la ‘filosofia della storia’ e contro il racconto che ne deriverebbe. Non c’è storia senza una filosofia della storia e la coscienza storica novecentesca è un intreccio di filosofie della storia volte a comprendere il «reggimento del fanciullo». La coscienza storica novecentesca, appunto… La questione finale, dunque, è questa: esiste ancora una coscienza tragica della storia? Forse resta solo come mitica origine dell’attualità. Essa si esplicita nelle formule ormai trite del tempo ‘successivo’ a qualcosa: dopo le grandi rivoluzioni, dopo i totalitarismi, dopo Auschwitz, dopo la fine delle ideologie, dopo l’abbattimento del muro di Berlino, dopo l’economia industriale… sino alla globalizzazione, ossia sino al compimento del cammino, da oriente a occidente, della storia universale. È, ancora, l’immagine hegeliana del giro completo sulla sfera della terra da parte dello

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«Spirito del mondo» che coincide con la fine della storia universale. Il rapporto dinamico fra cammino dello Spirito, che si afferma stando presso la morte, e geografia giunge al­l’estremo passo. Tutto, dunque, diventa simultaneo, compresente e globale. Ha iniziato la scienza, seguita dall’economia e dai ‘diritti dell’uomo’. Tutto, perciò, è universale e compiuto nel disegno globale della Umanità, intesa come soggetto stabilmente abitante la terra. La morte, il tragico, il divenire sono ottusi nel differito, nell’ineffettuale, nel rimosso; ovvero, sono amministrati dalla scienza, dall’etica, dall’economia. La fine della storia, che Lukács vaticinava con l’avvento di una società senza classi, si realizza invece nella società del Soggetto globale. Un Soggetto che è ridotto a specie umana e che, proprio in quanto specie, può anche estinguersi ma mai morire. Un Soggetto senza morte e, quindi, senza storia. Aίών, così, ritorna all’antico significato platonico. Una «eterna essenza», predicabile solo al presente, senza passato e senza futuro. Un tempo storico immutabile in cui l’esistente si presenta come insuperabile perché totalmente compiuto. Il frammento eracliteo, allora, finisce per suonare così: «l’eterno presente è un fanciullo che gioca, che sposta i pezzi sulla scacchiera: reggimento d’un fanciullo». In questo orizzonte la storia, la storiografia e gli storici sono semplicemente residuali. Sono elementi di una visione del mondo non più essenziale; una visione della quale si può agevolmente fare a meno. Certo, restano il metodo, le discipline, le corporazioni per occuparsi ‘storicamente’ dei trastulli del fanciullo: il tempio, la torre, il palazzo. Hanno, appunto, un carattere residuale e inattuale, ma restano. Forse, anche l’Icar 18 resterà.

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Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri PASQUALE BELFIORE

Uno dei romanzi più recenti di Andrea Camilleri – Den­ tro il labirinto, Skira 2012 – affronta il tema della morte di Edoardo Persico. L’incursione nel genere delle storie del­ l’arte da parte d’uno dei narratori italiani di maggior successo non è inedita, essendosi egli già occupato di Caravaggio e Renoir1. Inattesa invece lo è nel caso di Persico la cui scomparsa nella notte tra il 10 e l’11 gennaio del 1936 è stata da sempre attribuita a una crisi cardiaca in soggetto già da tempo sofferente. Da quella data a oggi, in più d’una occasione il nome di Persico e le cause della sua morte sono stati riportati alla luce in ambienti non di architettura, con Gualtiero Peirce, Leonardo Sciascia (senza risultati) e Oreste Del Buono che ne scrisse sul supplemento «Tuttolibri» de «La Stampa» nel 19932. Il giudizio su questo ritorno più recente dell’enigma Persico è controverso. Il libro è stato accolto in ambiente letterario con il consueto favore riservato ad ogni uscita editoriale di Camilleri. È stato invece recensito con motivate riserve in sedi più specializzate da critici e storici dell’architettura con la sola, incomprensibile eccezione di «Casabella», la rivista di Persico. Ricorrendo per ora alla consueta formula valutativa degli spettacoli sulla stampa, si potrebbe dire che il libro ha riscosso successo di pubblico ma non di critica. Giudizi calzanti appieno, l’uno e l’altro, perché il romanzo è ben riuscito nel suo genere ma le riserve avanzate dalla critica ar-

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chitettonica appaiono ragionevolmente fondate. Ammesso (ma non concesso) che parole come enigma e labirinto siano del tutto confacenti alla biografia di Persico, alla fine della lettura si ha la netta sensazione che l’enigma non sia stato sciolto, dal labirinto non si sia usciti e la soluzione – per dichiarazione dello stesso Camilleri – sia stata affidata alla “invenzione narrativa”3 e dunque tutta dentro una finalità letteraria. Se le cose sono in questi termini, perché allora conferire al libro quel carattere di romanzo storico che in realtà non possiede? Perché moltiplicare in modo esponenziale le motivazioni della morte e poi ammettere che nessuna di esse è dimostrabile? Perché inserire dettagli narrativi alquanto sgradevoli che nulla hanno a che vedere con il Persico che conosciamo? E infine, riassuntivamente: c’era la necessità storico-critica dettata da nuove conoscenze, inediti documenti, tali da giustificare la ripresa dell’enigma Persico? La risposta all’ultima domanda è, ovviamente, no, non ci sono nuovi documenti e acquisizioni. Le altre risposte non ci sono per l’evidente natura retorica degli interrogativi. Si potrebbe chiudere qui il discorso, almeno da parte di chi si occupa di critica artistica e non letteraria e rubricare il libro nell’ambito di quei legittimi sperimentalismi letterari che si muovono tra realtà e invenzione, senza l’obbligo di denunziare di volta in volta l’ambito di appartenenza delle cose narrate. Si potrebbe, ma non è il caso di farlo: per il credito di cui gode Camilleri verso il quale un’archiviazione sbrigativa del genere sarebbe per certi versi irriguardosa; per la figura di Persico che viene proposta ad una dimensione al lettore, quella dell’ambiguità che alimenta ancora una volta l’enigma Persico. Non è il caso di farlo anche perché – ed è uno dei risvolti positivi di questa iniziativa editoriale – la ripresa di Persico ha riproposto il tema dell’ archivio e delle classiche «carte scomparse» del critico d’arte napoletano, questo sì un enigma, un giallo sul quale sarebbe opportuno indagare. Anche in questa nota dunque, è opportuno un supplemento di riflessione affidato dapprima ad una sintetica ricognizione del contenuto del libro del quale più


che la trama interessa portare in emersione le tre, quattro questioni che hanno costruito negli anni le zone d’ombra nella biografia di Persico puntualmente riprese da Camilleri e poi ad una rassegna delle recensioni che darà conto delle motivate riserve in precedenza citate. Il libro Intanto, come nasce, l’occasione. Lo racconta Camilleri in due interviste televisive rilasciate a Corrado Augias e a Mirella Serri4. Egli conosceva già qualcosa di Persico perché aveva letto moltissimi anni fa l’epistolario Dino Garrone-Persico e alcuni scritti di Alfonso Gatto. Di recente, è stato Maurizio Di Puolo a parlargli di Persico e soprattutto degli interrogativi ancora aperti sulla sua morte. Com’era naturale prevedere, nasce dapprima curiosità e poi interesse professionale in quel che viene considerato il maggiore giallista italiano. A Eileen Romano di Skira il compito di inviargli un voluminoso dossier per approfondire l’argomento. Dossier che diventa l’apparato filologico di riferimento con il quale si costruisce la vicenda romanzata di una vita personale, privata nella quale quasi tutto è sfuggente, ambiguo5. Con questa opinabile premessa prendono avvio tredici snelli capitoli, i primi nove dei quali dovrebbero contenere la parte documentaria, quella più certa. Il presentimento della morte, L’ambiguità politica, Ancora dell’ambiguità politica, Le congetture di Mariani, Il mistero di Mosca, sono alcuni titoli che non sembrano preannunziare trattazione di cose certe ma intendono ribadire – quasi ossessivamente – quel «quasi tutto è sfuggente, ambiguo» nella vita di Persico. Ambiguo è la parola più ricorrente, qui in questo libro come in tutti gli scritti che si sono occupati dell’enigma Persico. Ambiguità delle situazioni nelle quali egli s’è venuto a trovare, ma anche suoi comportamenti manifestamente ambigui, conferma Camilleri. Vediamo più in dettaglio alcuni di questi comportamenti/situazioni di ambiguità così come sono descritti nei primi nove capitoli.

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Il primo posto spetta di diritto alle cause della morte. Accanto a quella ufficiale della crisi cardiaca certificata dal medico si elencano altre tre, quattro possibili cause: il suicidio passivo (ammalato, s’è lasciato intenzionalmente andare e non s’è curato); l’omicidio a sfondo politico (ucciso perché antifascista, con la variante d’una semplice lezione che doveva essere impartita ma conclusasi tragicamente); omicidio a sfondo sessuale (per l’amicizia, naturalmente ambigua, con alcuni artisti omosessuali). Per ognuna di queste ipotesi, Camilleri cita circostanze reali e dichiarazioni di persone molto vicine a Persico, da Birolli alla Mazzucchelli a Gatto e al suo amico Peirce, ma deve ammettere che nessuna di esse ha una forza di convincimento tale da scalzare quella ufficiale. Che ha, è vero, qualche lacuna; ma le ipotesi alternative appaiono inverosimili allo stato attuale dei documenti conosciuti. Anche Camilleri sembrerebbe dunque arrendersi a questa realtà delle cose; ma da smaliziato narratore – come vedremo in particolare più avanti – nella parte documentaria del libro si astiene dal prendere posizione, e anzi avanza dubbi logicamente fondati sulla tesi del­ l’omicidio, e poi invece nell’epilogo «romanzato» svela il suo intimo convincimento sulla vicenda, cioè l’omicidio a sfondo politico. La prima, più importante e controversa questione della biografia di Persico, le cause della sua morte, trova in questo libro un singolare epilogo: dal punto di vista storico, non cambia assolutamente nulla perché la tesi della morte naturale emerge come quella più verosimile, per merito anche di Camilleri che con la sua riconosciuta acribia monta e smonta le tesi alternative; dal punto di vista letterario o dell’invenzione narrativa, l’enigma è sciolto perché Persico è stato ucciso per motivi politici. Altra zona d’ombra è costituita dal Persico formidabile, incredibile, fantasioso racconta-balle in servizio permanente effettivo6. La definizione è di Francesco Tentori che ha dedicato un saggio al Persico grafico e architetto. Camilleri sembra farla sua e dedica due interi capitoli ai numerosi arresti per motivi politici e viaggi all’estero che Persico dichiara di aver subito e fatto e qualche testimonianza, anche


autorevole, conferma. Ora, che egli fosse persona tanto riservata quanto fantasiosa è tratto caratteriale che molti hanno sottolineato. Con più verve linguistica Zevi, con più misura de Seta che parla di un uomo capace anche di dire bugie come fece con Gobetti o, in altre occasioni, inventate da altri (i viaggi a Mosca) ma del tutto refrattario a inseguire le insinuazioni o le calunnie di cui era bersaglio7. Nel caso degli arresti, c’è una ridda di ipotesi su date e motivazioni. Sembrerebbe che già a Napoli nel 1925 sia rimasto in carcere per qualche giorno, ma è nel 1929 e nel 1935 che a Milano avrebbe subito fermi di breve e lungo periodo, molti non confermati da documenti. Le cause vanno dalla sua comprovata attività antifascista all’altra più fantasiosa, esclusa da Camilleri, di informatore dell’Ovra che si accredita presso gli ambienti dell’opposizione al regime proprio attraverso la messa in scena degli arresti. Nel caso dei viaggi, l’accertamento di quanti e quali avesse fatto risulta ancor più laborioso. Sarebbe stato in almeno quattro, cinque nazioni straniere tra cui Francia, Inghilterra, Germania e Russia. Lo scrive anche la Veronesi ma non dimostra quando e perché. Per Camilleri, Persico sarebbe stato una sorta di viaggiatore sedentario8 che frequentava biblioteche consultando guide di città straniere per acquisire notizie e su queste costruire viaggi e incontri spacciati per realtà. Come l’immaginario viaggio-missione a Mosca nel 1924, qui descritto in un intero capitolo che presenta intrecci esilaranti più che labirintici con casi di omonimia tra Edoardo e Giovanni Persico e con un diplomatico russo dall’impegnativo cognome Pevsner. Come per il tema delle cause della morte, anche su arresti, viaggi e sospetti d’essere agente dei servizi, Camilleri mostra prudenza e dichiarato scetticismo (informatore dell’Ovra… non credo che Persico lo sia mai stato9). Ma, ancora una volta, nella seconda parte romanzata del libro, Persico diviene uno stimato agente dei Servizi sempre in giro tra Mosca, Berlino e la Jugoslavia, con l’attesa redenzione finale allorché, apprendendo con stupore d’essere stato complice di un assassino, Mussolini, che ha fatto ammazzare Matteotti e percuotere l’amico

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Gobetti, lascia l’organizzazione segreta. Siamo in ambiente romanzato, è vero, ma uno dei maggiori esponenti della critica d’arte del Novecento italiano non può passare per uno sprovveduto doppiogiochista politico. Le zone d’ombra più imbarazzanti riguardano la questione delle carte scomparse dell’archivio Persico e quella dei suoi nemici: questione che non lambisce ma entra addirittura di prepotenza anche dentro la redazione di «Casabella». Il primo tema ruota intorno alla figura di Riccardo Mariani le cui “congetture” occupano l’intero settimo capitolo. Per Mariani, letto da Camilleri, le ipotesi sulla fine di Persico passano dall’omicidio politico a quello a sfondo omosessuale al suicidio. Quanto ai sospetti di natura politica, non fu agente dell’Ovra ma delatore sì. Quanto ai sospetti di natura sessuale, i «giochi» e le «amicizie particolari» cui allude parlando con Maurizio di Puolo10 potrebbero entrare nel novero della tesi dell’omicidio. Mariani è lo storico dell’arte che probabilmente ha visto più carte «private» di Persico rispetto ad altri studiosi. È quello che – secondo Maurizio Cecchetti11 – ha avuto per le mani documenti prelevati dalla Fondazione Feltrinelli e mai restituiti, è quello che conosce e forse possiede l’archivio di Pietro Maria Bardi morto in Brasile tempo fa, intellettuale fascista di primo piano, mediatore tra gli architetti razionalisti e il regime, amico e protettore del critico napoletano. Cecchetti intuisce che sia una delle figure chiave dell’enigma Persico. Probabilmente, questo potrebbe rivelarsi il merito maggiore del romanzo sul piano storico-critico: riproporre con forza il tema delle «carte scomparse» che riguardano aspetti della biografia privata di Persico. Il secondo tema – i nemici di Persico dentro «Casabella» – è materia d’elezione per un autore di noir. Non ovviamente nemici che abbiano avuto un ruolo nella sua scomparsa ma che però abbiano contribuito a far nascere quel­l’omertà stupefacente attorno a Persico12 della quale ha parlato Mariani. Due episodi emblematici citati da Camilleri. Nei necrologi sul «Corriere della Sera» emerge subito come stranamente, non ci sia un annunzio autonomo della direzione e della redazione di «Casabella» o del di-


rettore Pagano. È un’assenza inspiegabile13. Qualche giorno dopo la Mazzucchelli viene chiamata da Pagano che le fa capire che forse sarebbe dovuta andare via14. La stessa Mazzucchelli confessa a Peirce il suo intimo convincimento che Persico fosse stato ammazzato per motivi politici. Un’ipotesi che senza dubbio era circolata nella redazione di «Casabella». Quindi, conclude Camilleri, la spiegazione del­l’o­ mertà sarebbe che, essendo circolata la voce che Persico era stato fatto fuori dalla polizia fascista, i suoi amici avrebbero avuto timore di restarne compromessi parlando o ricordando la memoria con troppa partecipazione15. Ovvero, una redazione di «Casabella» codarda perché impaurita. Altra deduzione logica non v’è alla ricostruzione di Camilleri e all’omertà di cui ha parlato Mariani. Prima di chiudere questo excursus sui primi nove capitoli del libro, un accenno va fatto ad alcuni dettagli narrativi alquanto sgradevoli dei quali si parlava all’inizio di questa nota. Il più insopportabile – tale perché associa a Persico una napoletanità d’accatto dalla quale s’è sempre tenuto lontano anni luce – riguarda la motivazione dell’arresto con l’accusa di aver collaborato alla creazione dei Gruppi antifascisti gobettiani. La motivazione che Persico propone ha un sapore tutto partenopeo. Dunque, trovandosi egli in un ristorante, il suo pasto veniva continuamente interrotto dai posteggiatori che intonavano «Giovinezza, giovinezza» ad ogni pie’ sospinto. L’esecuzione dell’inno fascista significava, per gli avventori, l’obbligo di smettere di mangiare e di alzarsi in piedi. Perciò avrebbe protestato vivacemente. Nasceva un tafferuglio con avventori di fede fascista e da qui l’arresto. Non antifascismo, dunque, ma il timore che gli spaghetti alle vongole diventassero immangiabili16. Il prologo agli ultimi quattro capitoli si ritrova in chiusura del nono. (E qui sono costretto a fermarmi. Ho percorso tutto il labirinto e mi ci trovo ancora intrappolato dentro. Non mi è stato possibile dare una risposta certa nemmeno a una delle tante domande, perché ogni risposta ipotizzata apriva altri piccoli labirinti che conduce-

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vano ognuno ad altre domande. Se dovessi insomma disegnare i percorsi fatti non ne verrebbe fuori la pianta di un labirinto, ma una serie di ghirigori ora sovrapposti ora a sé stanti non dettati da una necessità geometrica. Allora provo io a fare una mappa possibile. Che ha l’unico merito di intrecciare diversamente, attraverso l’invenzione narrativa, tutti i percorsi sin qui fatti ma tenendoli sempre in filigrana). La mappa possibile preannunziata è titolata «Appunti per un romanzo». Ma proprio nell’adozione della parola romanzo si nasconde la chiave interpretativa e la finalità del libro: allo stato attuale delle conoscenze sulla biografia di Persico, tutte le ipotesi, congetture, sospetti e illazioni che l’hanno immiserita non hanno trovato alcuna conferma che ne certifichi l’autenticità. Camilleri lo ammette in modo esplicito. La chiave romanzata è quella che gli consente tuttavia di accreditare il suo personale convincimento su alcuni dei tasselli che compongono l’enigma Persico. Così, se ne ricostruisce la biografia a partire dalla fine della prima guerra mondiale nel 1918 e fino alla tragica notte del gennaio 1936. C’è il Persico agente dei servizi segreti con i suoi viaggi in mezza Europa, ci sono i rapporti personali e di lavoro, quello tormentato con la moglie Cesira Oreste e quelli comunque problematici con amici, editori e gerarchiintellettuali fascisti. C’è la chiusura finale che in modo esplicito dà credito alla tesi dell’omicidio a sfondo politico. Inizia parafrasando il celebre passo della Veronesi sulla fine di Persico. La sera del 10 gennaio esce dalla redazione di «Casabella» con due amiche molto preoccupate per il suo stato di salute. Viene accompagnato da loro sino al portone di casa17. Si conclude nel momento in cui ritorna a casa dopo aver trascorso qualche ora da Nizzoli. La forma letteraria è senza dubbio efficace. A pochi metri dal portone, due uomini, sbucati dall’oscurità, lo affiancano. Alla luce di un lampione, Edoardo li riconosce. Sono i due che l’hanno massacrato nella cella di San Vittore. «Dobbiamo parlarti», dice uno dei due. “Andiamo su da te”. Edoardo infila la chiave nel portone. La mano non gli


trema. Improvvisa una preghiera dimenticata gli erompe dal cuore, sale a fior di labbra. Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona nobis pacem. Sarà esaudito18. Per completezza di informazioni sul contenuto del libro, va aggiunto che le 165 pagine contengono disegni e foto di Persico e delle sue opere e una bibliografia curata da Pasquale Guadagnolo, presenza del tutto inedita in un romanzo, tale ancor di più per la sua forma estesa che presenta tuttavia omissioni che non possono non essere segnalate. Come ad esempio il saggio L’idea di architettura. Storia della critica d’arte da Viollet le Duc a Persico di Renato De Fusco del 1964, che non è uno dei tanti contributi su Persico ma il primo ad inquadrare sistematicamente il suo pensiero nel novero della critica d’arte italiana ed europea. Le recensioni La rassegna stampa del romanzo riportata nel sito della casa editrice Skira e consultata nel luglio di quest’anno elenca circa 30 titoli tra recensioni vere e proprie, locandine e citazioni. In questa sede si prenderanno in rapida consultazione quelle più pertinenti all’ambito della critica d’arte e d’architettura19. Cesare de Seta interviene su “la Repubblica” con una ferma stroncatura redatta con ficcante puntigliosità e con incisi da far gelare (Mariani, che spedì Pagano «volontario» a Mauthausen, ebbe le carte20). Per quanto Camilleri si sforzi di convincerci che il romanzo non è una biografia, per de Seta lo è e ricorda con Croce che per far biografia è necessario avere simpatia per il soggetto, sentimento qui, con tutta evidenza, assente. Svela un’omissione di Camilleri, interessata perché non funzionale al quadro indiziario che ricostruisce: nel romanzo la Mazzucchelli rivela a Peirce il suo sospetto sulla matrice politica della morte di Persico e da qui prende corpo e autorevolezza la ridda di voci che entra dentro «Casabella». La smentita di queste confidenze è netta: …la signora smentì quando le lesse travisate, e lettere indignate sono nei documenti che la signora de-

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positò alla Biblioteca Centrale di Roma nel 1986. Imputa all’autore di non essersi avvalso delle testimonianze di una settantina di intellettuali di rango che alla sua morte lo ricordano con parole commosse e devote e del «bellissimo epistolario» che svela un Persico debole di carattere ma lontano dal delatore adombrato nel libro. Leggendo le pagine del romanzo si ha il fondato sospetto che Camilleri l’abbia scambiato per Pjotr Verchovenskij di Dostoewskij. Il contrappunto a questo elenco di falsità e illazioni ambiguamente validate nel romanzo è rappresentato dall’apertura della recensione, laddove Persico è definito il più geniale critico d’architettura attivo negli anni Trenta, e non solo in Italia. Fulvio Irace manifesta un’eloquente ritrosia a parlarne diffusamente attraverso una scelta editoriale che però contiene comunque il giudizio sul libro in esame. Su «Il Sole 24 ore» pubblica le recensioni dei due libri di Skira dedicati a Persico, il romanzo e la ripubblicazione di quattro testi. Per sé riserva quest’ultimo e lascia a Giuseppe Lupo il commento sul primo (decisamente positivo, con punte di enfasi e virate verso l’entusiasmo). In un inciso, con riferimento alla nota raccolta degli scritti di Persico pubblicata dalla Veronesi, Irace scrive: Di questo corpus – che costituisce di Persico l’unico «labirinto» di cui ci interessa veramente dipanare il filo – i quattro testi ripubblicati da Skira sono alcuni dei più significativi per il tono argomentativo che li rende più vicini al saggio breve che allo scritto d’occasione21. Fin troppo evidente il suo disinteresse per il labirinto di Camilleri. Rilancia invece un altro argomento difficile, i rapporti di Persico con «Casabella», osservando come i quattro saggi ripubblicati – il suo più implacabile j’accuse all’architettura italiana – non siano stati originariamente ospitati sulla rivista diretta dal diffidente amico Giuseppe Pagano. Maurizio Di Puolo e Flaminio Gualdoni propongono un’analoga staffetta su «Il Giornale dell’Arte». Di Puolo, come s’è detto, è stato per Camilleri l’ispiratore del romanzo. Il suo intervento è breve, per giudicare positivamente il


labirinto costruito da Camilleri ma non raccontare ai lettori il finale, anche perché in quel labirinto di ricerche ci sono passato e mi domando ancora se ne sono uscito22. Anche Gualdoni esprime favore incondizionato, scrivendo tra l’altro che Camilleri ci offre una spiegazione di straordinaria suggestione. Non meno credibile, va detto, di quelle effettivamente circolate sinora. In realtà, Camilleri non inventa nessun’altra spiegazione che fino ad oggi non sia circolata su Persico. Si limita a dar credito ad alcune di esse nella parte romanzata del libro. Quanto alla credibilità, la parola è del tutto fuori luogo. Neppure Camilleri ha avuto questa ambizione. Renato Nicolini, poche settimane prima della sua scomparsa, dedica una sua Cartolina al libro nella rubrica che da anni cura per la preS/Tletter di Luigi Prestinenza Puglisi. Ammette che il critico d’arte napoletano abbia avuto una vita privata ambigua e certamente non lineare ma sembra restio ad entrare nel labirinto proposto da Camilleri: Dieci capitoli di dubbi, d’interrogativi, di contraddizioni che alla fine il padre di Montalbano risolve scegliendo letterariamente la leggenda rossa di Persico come nemmeno Giulia Veronesi aveva fatto…Persico antifascista e martire…Io preferisco vederlo come il più lucido critico dell’architettura italiana del ’90023. Maurizio Cecchetti dedica al libro un lungo intervento su «Avvenire». Riconosce che Camilleri non ha sciolto nessun enigma e rilancia scrivendo che l’enigma, quello vero, è costituito dalle carte mancanti dell’archivio Persico. C’era qualcuno, e forse c’è ancora, che sa come stanno le cose, e magari ha in mano documenti che potrebbero aiutare a diradare le ombre24. Più oltre, questo qualcuno prende il nome di Mariani in una ineccepibile ricostruzione dei prestiti e spostamenti delle carte riguardanti Persico. Questa sintetica rassegna delle recensioni del libro si chiude con quella apparsa su «Casabella». In un breve Edi­ toriale si riassume il contenuto del romanzo e poi lo si commenta. Così facendo (Camilleri) non solo è giunto a spiegare come Persico morì, ma anche perché la sua tragica

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fine sia stata la conseguenza quasi inevitabile della sua contraddittoria personalità, delle sue tormentate vicende personali, della sua eterodossa cultura. Da tutto ciò è derivato un ritratto intellettuale di cui d’ora in poi dovranno tener conto quanti vorranno conoscere più approfonditamente quale contributo Persico diede alla cultura non soltanto architettonica del Novecento in Italia25. Seguono la pubblicazione in anteprima di alcune pagine del libro e la riproposta del ricordo di Persico che la rivista presentò nel numero 97 del gennaio 1936. Nessun accenno viene fatto alle ipotesi – non lusinghiere – sul comportamento della redazione della rivista all’indomani della morte del suo condirettore. Non ci si aspettava dall’Edito­ riale una difesa d’ufficio né si tratta di cimentarsi con verità storiche, convenienti o imbarazzanti che siano, che sono sempre argomenti e espressioni da maneggiare con estrema prudenza. Si tratta più semplicemente di «dire la propria» (opinione, versione dei fatti) su una tra le più gravi tra le tante illazioni che hanno afflitto la biografia di Persico e che il libro ripropone con calibrata ambiguità. Quanto infine all’assoluta necessità che d’ora in avanti tutti coloro che vorranno approfondire Persico non potranno non tener conto del «ritratto intellettuale» rappresentato nel romanzo, ebbene, questo è giudizio molto difficile da condividere, considerando da un lato alcuni tra i nomi di coloro che fino ad oggi si sono occupati di Persico – Giolli, Gatto, Vittorini, Veronesi, Mazzucchelli, Zevi, Tentori, De Fusco, de Seta, Canella – e dall’altro un narratore italiano, grande e geniale, ma pur sempre un narratore che scrive un romanzo, senza alcuna pretesa di innovare criticamente una biografia.

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1   Il colore del sole su Caravaggio per Mondatori e Il cielo rubato. Dossier Renoir per Skira. 2   “L’enigma Persico” e “Altre voci su Persico architetto di misteri”, “Tuttolibri”, supplementi de “La Stampa” del 10 e 17 aprile 1993. 3  A. Camilleri, Dentro il labirinto, Skira, Milano 2012, p. 20. 4  C. Augias intervista A. Camilleri nella trasmissione Questa se­


ra. Le storie. Diario italiano sulla Terza rete RAI del 2 maggio 2012; M. Serra intervista A. Camilleri per “La Stampa” on line del 10 maggio 2012. Entrambe le interviste sono disponibili su youtube. 5  A. Camilleri, op. cit. p. 20. 6   Ivi, p. 14. Si fa riferimento al libro di F. Tentori, Edoardo Per­ sico. Grafico e architetto, Clean, Napoli 2006. 7  C. de Seta, Nel labirinto di Persico, architetto geniale, in “La Repubblica” del 26 aprile 2012. 8  A. Camilleri, op. cit. p. 96. 9   Ivi, p. 94. 10   Ivi, p. 80. 11  M. Cecchetti, Il giallo della morte del critico. E che fine ha fatto l’archivio?, in “Avvenire” del 15 aprile 2012. 12  A. Camilleri, op. cit. p. 73. 13   Ivi, p. 71. 14   Ivi, p. 74. 15   Ivi, p. 78. 16   Ivi, p. 58. 17   Ivi, p. 148. 18   Ivi, p. 148. 19   Sulla stampa non specializzata, il libro viene presentato come un giallo tout court. Attesi, puntualmente arrivano titoli come Com­ missario Camilleri, il caso Persico è suo, di A. D’Orrico su “Sette. Corriere della Sera” del 12 aprile 2012. 20  C. de Seta, op. cit. 21  F. Irace, Contro l’architettura italiana, in “Il sole 24 Ore” del 15 aprile 2012. G. Lupo interviene con uno scritto dal titolo La solu­ zione di un giallo. 22  M. Di Puolo, Perdersi in Persico, F. Gualdoni, Camilleri ri­ apre il dossier Persico, in “Il Giornale dell’Arte” n. 319, aprile 2012. 23  R. Nicolini, Cartolina Persico, in “presS/T letter” del 18 giugno 2012. 24  M. Cecchetti, op. cit. 25   «Casabella» n. 812, aprile 2012

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Libri, riviste e mostre

Gillo Dorfles. Kitsch: oggi il kitsch, Triennale di Milano, 13 giugno - 10 settembre 2012, a cura di Gillo Dorfles con Aldo Colonetti, Franco Origoni, Lui­ gi Sansone e Anna Steiner. Ca­ talogo edito da Editrice Compositori, Bologna 2012.

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I premi alla carriera non piacciono a nessuno, specialmente ai premiati. Non per l’implicito ricatto nostalgico a cui ci si sottopone; ma perché celebrare la carriera significa, in senso neanche così lato, non averne più una davanti. Un po’ di ringraziamenti e il proprio lavoro viene archiviato, ai margini della contemporaneità. Un rischio, quello insito nell’idea stessa di «retrospettiva», che avrebbe potuto correre, almeno sulla carta, anche l’esperimento di Gillo Dorfles di mettere in scena alla Triennale il Kitsch oggi; per la sua carriera, appunto – classe 1910 – e per l’agio nel muoversi in un ambito che gli è proprio dal 1968, quando Gabriele Mazzotta pubblica il suo testo Kitsch: Antologia del cattivo gusto, vero innesco del­

l’interesse internazionale verso questa forma espressiva. Sarebbe stato facile aggiornare il censimento, attingendo da una contemporaneità non certo avara di novità al riguardo. Invece, non è stato così. La mostra, la prima di carattere scientifico in Italia su questo tema, rappresenta un progetto nuovo, a sé. Se il libro tentava di costruire un «catalogo ragionato» delle diverse forme di cattivo gusto corrente, che spaziavano dalla politica al turismo, la mostra prende le mosse dalle sue conclusioni. Dal riconoscimento dell’uso consapevole che alcuni artisti contemporanei facevano di elementi kitsch e dall’auspicata creazione di un ponte fra due mondi culturali, quell’Avanguardia e quel Kitsch che, invece, Clement Green­berg voleva costituzionalmente distinti (Avanguardia e Kitsch, 1939). La mostra vuole descrivere proprio questo ponte, perché solo oggi, mentre assistiamo a una presa di coscienza del concetto di cattivo gusto, senza alcun pregiudizio o esaltazione estetica, possiamo pienamente ricono-


scere che l’arte cosiddetta ufficiale […] ha acquisito nel suo dna una serie di elementi di cattivo gusto, accorpandoli al­ l’interno del proprio orizzonte estetico. […] Per questa ragione forse ci troviamo di fronte, da un lato, a una serie di oggetti e di comportamenti che, effettivamente, appartengono al «cattivo gusto»; dall’altro lato vediamo opere d’arte che utilizzano consapevolmente il kitsch per la loro produzione. Infine abbiamo anche alcuni artisti che volontariamente creano ope­re di un gusto deteriore o per lo meno discutibile, perché oramai tutti i confini rispetto alla definizione di arte sono caduti, il tutto in una sorta di generalizzante «atmosfera estetica» (Gillo Dorfles, catalogo della mostra, pp. 12-13). Una ricognizione che rappresenta anche l’ossatura del percorso espositivo: da una parte una serie di opere d’arte degli ultimi quarant’anni, in grado di segnalare la pervasività e la varietà formale dei contatti fra i due mondi; dall’altra gli oggetti, indubbiamente di cattivo gusto. In mezzo, nel corridoio, il loop della versione inglese di O sole mio cantata da Elvis Presley; ineccepibile trait d’union. L’allestimento di Franco Origoni e Anna Steiner, almeno per la prima parte, è rigorosamente impostato su una serie di scatole bianche; classico e quasi austero. Apparentemente contraddittorio con la materia che tratta, in realtà in profonda sintonia. Una specie di consonanza «strutturale» che richiama il ritratto che Federico Zeri fece di Wladziu Valentino Liberace, il pianista americano che del Kitsch musicale fu cam-

pione indiscusso (Orto aperto, 1990). Tuxedo di strass e mantello di ermellino, Liberace, tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, riempiva i teatri di Las Vegas di un pubblico adorante, venuto ad ascoltare la grandine di fioriture dei suoi arrangiamenti, tra sonate di Beethoven, polke da balera e jingle pubblicitari. Assurdità musicali giustificate dal suo dichiarato interesse per la sola melodia. Quasi una dichiarazione d’intenti dell’attitudine al Kitsch, in grado di definire lo svuotamento connotativo dell’atto estetico e la contemporanea esasperazione retorica del suo significato più immediato e seducente. Stile a parte, l’orchestrazione delle opere presentate segue proprio questa linea espressiva. Rinuncia all’armonia cui avrebbe portato la descrizione corale di un contesto artistico, economico o socioculturale. Così come al ritmo dettato da un ordine cronologico o da una più stretta scansione tematica. Il discorso sul Kitsch è tenuto in piedi solo dai solisti, dal loro virtuosismo nel­l’interpretare, più o meno con­ sapevolmente, il tema. E la scelta delle opere, come il loro allestimento, sottolinea con discrezione questo sviluppo melodico, aprendo a un gioco di rimandi anche inattesi. Così, nella prima sala, tra gli autori che hanno volutamente usato citazioni kitsch – tra chi ha materialmente iniziato a costruire quel ponte – troviamo anche Alberto Savinio, con un ritratto affettuoso di una Penelope (1933) matrona e zitella, rappresentante orgogliosa di tutte le «buone cose di pessimo gusto» di una volta. C’è Enrico Baj, che cerca un’altra figurazione usando brani di

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tappetini da bagno e passamanerie dorate (La Moscova, 2002 e Madame Garonne, 2003), proprio come quarant’anni fa faceva con lacerti di patetici paesaggi da bancarella. C’è soprattutto Antonio Fomez, l’unico, con tre quadri di metà degli anni Sessanta (Senza Titolo, Kriminal e Miche­ lino), ad avvicinarsi al respiro internazionale delle esperienze americane con personaggi da fumetto, colori accesi e un personale linguaggio, continuamente sospeso Tra Pop e Kitsch – come vuole il titolo di un suo ciclo pittorico del 2012 – che riflette e amplifica uno dei tratti più originali della lettura di Dorfles. Una sorta di distacco da una mitografia del Kitsch che è andata progressivamente a enfatizzare solo gli aspetti più ridicoli di questa produzione estetica. Forse influenzata dagli scritti di Hermann Broch, che rintracciava nel Romanticismo e nella sua assenza di valori medi la nascita di una tale attitudine (Poesia e Cono­ scenza, 1933), la critica si è prioritariamente soffermata sulle sue espressioni deteriori. Dorfles è sempre stato molto attento, invece, a evitare facili sarcasmi; volendo includere nella sua analisi una produzione artistica diffusa, quella che Ludwig Giesz chiama mid-cult e che è in definitiva l’unica arte (letteraria, musicale, figurativa) a essere davvero nota, a ricevere i riconoscimenti dei Premi Nobel […] e a venire propagandata su giornali e rotocalchi (Le oscillazioni del gusto, 1970, p. 26). Il suo sguardo si specchia in quello di Fomez, attento e divertito, ma mai irridente. Un approccio simile a quello

che ritorna nelle sale dedicate alla contemporaneità più stretta, a quelle opere che, intenzionalmente o meno, presentano elementi che fanno riferimento al Kitsch. In Corrado Bonomi, per esempio, che lo interpreta, però, con un repertorio tutto italiano; quello di una borghesia nata troppo tardi, arricchitasi troppo in fretta e sempre attratta da idolatrie nazional-popolari. Da qui, con altri autori, la lettura sembra articolarsi tentando di capire e demistificare le componenti mitagogiche – tema caro a Dorfles – della cultura Kitsch di oggi. Con i collage fotografici di Felipe Carden]a e gli omaggi a un Dalí popstar di Cracking Art Group, Alex Angi, Carlo Rizzetti e Kicco. Fino ai totem di gesso di The Bounty Killart, a comporre un’agiologia fatta di papi e Darth Vader, Veneri di Milo e suricati. Ogni autore con un linguaggio diverso, ma con la stessa consapevolezza; quella costituzionalmente introiettata dai nuovi media, che il ricorso al Kitsch permette all’arte di espandere il proprio pubblico, di comunicare senza fraintendimenti a una platea più ampia. Possibilità che, per certo, va a scapito della sua capacità di «significare», ma che forse non importa più molto. Un Kitsch che, però, nell’ultima sala «istituzionale», una sorta di Wunderkammer dedicata a Rut­ ger van der Velde, si trasforma in Camp assoluto, in quell’essenza che Susan Sontag, in Contro l’in­ terpretazione (1967), trovava nel­ l’amore per l’innaturale, per l’artificio e l’eccesso; il tutto con­ densato in piccoli mirabilia di re­­ cupero, degni di un Ferrante Imparato che collezioni le sorprese


dell’uovo Kinder. Una progressiva frammentazione del discorso che culmina nella sezione riservata agli oggetti di uso comune, proposta con la forza kitsch di una Gesamtkunstwerk romantica. La sala è quasi circolare, il pavimento sembra plastica fusa color lapislazzulo, al centro una vera giostra di tazze. Il lampadario di ordine gigante finto murano, finto barocco, cambia continuamente colore sulle foto ipersature dello street photographer britannico Martin Parr. Attorno alla giostra, invece, una gola luminosa taglia la parete semicircolare a metà. E qui una serie infinita di giocattoli, ricordini, statuette, accendini, lampade, madonnine, fiori, conchiglie e di tutte le infinite composizioni di questi oggetti, in ordine sparso dal XIX secolo a oggi. Tutti schierati, in fi­la sull’orlo della gola, come un’al­ lucinata natura morta di Zurbaràn. E l’effetto è straordinario perché è straordinariamente familiare; tutto parla di giornate al mare e di pranzi dalla nonna, di viaggi aerei e di vetrine di tabaccheria. Niente di meglio per descrivere quella «generalizzante atmosfera estetica» in cui la contemporaneità è immersa. Un carattere «atmosferico» che, d’altronde, appare ineludibile. Perché la mostra, come il testo del 1968, non ha l’ambizione di assolutizzare, una volta per sempre, il significato del termine, proprio perché in questo caso, si potrebbe parlare di un’assoluta e talvolta imprevedibile «oscillazione del gusto» (Gillo Dorfles, catalogo della mostra, p. 15). E di gusti, si sa, è rischioso discutere. J. L.

S. Ciranna, G. Doti, M.L. Neri, Architettura e città nell’Ot­ tocento. Percorsi e protagoni­ sti di una storia europea, Carocci, Roma 2011. Accanto a una copiosa letteratura specialistica su singoli autori, opere o tendenze, la produzione recente registra una rinnovata fortuna di lavori di sintesi sull’architettura degli ultimi secoli. Dopo la Storia dell’architettura con­ temporanea di Marco Biraghi (Einaudi, Torino 2008) che ripercorre l’intera parabola dal 1750 al 2008, l’editore Carocci propone, in una collana rivolta a un pubblico di studenti e studiosi, volumi impostati su una scansione secolare, dapprima con il contributo di Guido Montanari e Andrea Bruno jr. su Architettura e città nel Novecento. I movimenti e i protagonisti (2009) e ora con la pubblicazione a firma di Simonetta Ciranna, Gerardo Doti e Maria Luisa Neri dedicata all’Ottocento. Riprendendo un’osservazione già avanzata su questa rivista (n. 81, maggio 1991) a proposito della Storia dell’architettura oc­ cidentale di David Watkin per smentire l’apparente maggiore “neutralità” di trattazioni a carattere generale, è possibile, anche stavolta, sottolineare non solo i nodi problematici che si propongono al lavoro storiografico, ma soprattutto le ricadute delle scelte e dei criteri adottati. Peraltro, occorre premettere – con gli autori – le difficoltà specifiche che oppone l’Ottocento ai tentativi di “ridurre” la sua vicenda architettonica, tra le quali va annoverata una ricchezza di formule stilistiche e una frammentarietà di

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sperimentazioni formali che im­ pediscono di approdare a una definizione formale unica e coerente. A differenza dei secoli caratterizzati da una ben individuata facies stilistica, si registra, infatti, la compresenza di soluzioni che, se da una parte sono debitrici verso i repertori tradizionali, dall’altra anticipano, anche se in misura e con caratteristiche differenziate da nazione a nazione, le future tendenze, manifestando, in entrambi i casi, quel senso generalizzato di inquietudine e incertezza, tipico di una stagione creativa vissuta nel segno dell’eclettismo. Tale condizione ha contribuito ad alimentare la radicata convinzione di una presunta dicotomia tra un Ottocento “moderno”, legato alla cultura degli ingegneri e proiettato verso l’avvenire, e una cultura storicistica e romantica, additata, secondo il giudizio “di parte” pronunciato nel corso del Novecento, quale testimonianza di una resistenza inerziale dell’architettura nei confronti delle profonde modificazioni della società industriale, quasi un’area residuale dell’Antico Regime sei-settecentesco. Peraltro, la consuetudine di considerare l’Ottocento come premessa del secolo successivo – a iniziare dal celebre Space, Time and Architecture di Sigfried Giedion del 1941, che fondava ampiamente nei fenomeni del XIX secolo “lo sviluppo di una nuova tradizione” – o an­ che di saldare l’architettura del­ l’Ottocento e del Novecento in un’unica narrazione (come per l’altrettanto nota opera di HenryRussel Hitchcock del 1958) ha contribuito a “indebolire” l’immagine propria di un’epoca e a

rendere incerti o parziali i tratti della sua autonoma fisionomia. Per ricomporre il quadro, apparentemente contraddittorio, ma certamente sfaccettato di un secolo percorso da grandi tensioni, fase germinale dei valori nuovi e autentica cerniera nelle grandi trasformazioni dell’età contemporanea, nella prima par­ te del volume (Temi e problemi) gli autori ne tagliano trasversalmente la vicenda, affrontando que­ stioni emergenti ordinate in quattro capitoli (Territori, città, architetture; Utopie, teorie, pro­ fessioni; Arte, scienza, tecnica; Archeologia, storia, progetto): dall’igiene urbana alla creazione di parchi pubblici, dalle elaborazioni teoriche ai problemi della formazione delle figure professionali (architetto e ingegnere), dalla celebrazione del progresso nelle Grandi Esposizioni universali e dalle innovazioni tecnicocostruttive consentite dai nuovi materiali (il ferro e il cemento armato) all’archeologia, all’esperienza odeporica, alla nascita del restauro e del concetto di patrimonio urbano. I primi capitoli fungono così da introduzione e quadro di sintesi della seconda parte, dedicata a Città e architet­ ture. A costituire lo sfondo costante dell’intero volume è appunto la città, alla quale vengono costantemente rapportati gli interventi dei protagonisti. L’approccio di storia urbana, proprio di un’accreditata tradizione di studi, appare in questo caso particolarmente pertinente, dal momento che la trasformazione della città in metropoli, con la conseguente modificazione di assetti e pratiche d’uso dello spazio, costitui-


sce l’aspetto nuovo della cultura dell’Ottocento. Ma, come enuncia il titolo dei volumi della collana, l’oggetto resta comunque l’ar­chitettura, nella sua realtà for­ male e costruttiva: un’architettura non più isolata, concepita come catalogo di singole opere, ma un’architettura nella città, quale contesto indispensabile per la corretta lettura dei suoi significati storici, campo nel quale porre in atto le principali innovazioni tipologiche e tecnico-costruttive, misurare le competenze delle rinnovate figure professionali e confrontare i linguaggi, riscattando persino l’eclettismo – a lungo incompreso e deprecato – a espressione congeniale alla dimensione “plurale” dello spirito del tempo. Limitandoci a segnalare le altre scelte storiografiche che caratterizzano, in maniera distintiva, questo nuovo “manuale”, l’am­bito geografico preso in esame è a scala euromediterranea, con specifici capitoli dedicati a quelli che gli autori considerano paesi-guida, vale a dire Inghilterra, Francia, Germania, includendo anche l’Italia, la cui debolezza strutturale, manifestata dagli evidenti ritardi nei confronti del processo di modernizzazione tecnica e sociale, è compensata dalla funzione culturale ancora svolta dal suo variegato mosaico for­ mato da tante “piccole patrie”, costituente comunque un panorama composito di soluzioni e valori lasciati in eredità alla cultura urbanistica e architettonica del Novecento. Completano il quadro due capitoli di sintesi, il primo riguardante l’Europa settentrionale e centro-orientale, in cui vengono recuperati, ma in un ruolo minore, Belgio,

Olanda, la stessa Austria e Ungheria, e l’Impero russo; il secondo relativo al mondo mediterraneo, comprendente la Spagna accanto al Nord Africa e all’Impero ottomano. Tra le esclusioni, merita di essere segnalata quella – mitigata da singoli puntuali riferimenti a casi ed esempi d’oltreoceano – relativa all’America del Nord, verso la quale si erano proiettate, invece, le già citate trattazioni dell’Ottocento di Giedion e di Hitchcock (si considerino le pagine sul classicismo americano, sulla cosiddetta Scuola di Chicago o sulla Esposizione Colombiana del 1893) sulla scorta di una tradizione inaugurata addirittura dall’Outline di Pevsner che, a dispetto dell’esplicita limitazione all’Europa enunciata sin dal titolo, introduceva sia pur brevi cenni alla realtà americana. La scelta è congruente con l’intento di radicare la vicenda architettonica nel più generale processo storico del XIX secolo, nei cui equilibri (politici, economici e culturali) il Nuovo Continente non era ancora entrato con quella rilevanza che si manifesterà nel secolo successivo. Per le stesse ragioni, la trattazione si estende al bacino mediterraneo, ancora baricentrico nella circolazione di uomini, idee, modelli, segnalando le trasformazioni prodotte nei confronti delle tradizioni autoctone in termini di “modernizzazione” urbana, di tipologie edilizie e di linguaggi, tanto a seguito della politica di colonializzazione delle principali potenze europee, quanto in conseguenza dello sfaldamento dell’Impero ottomano, in cui l’assunzione di modelli occidentali assume il carattere di legittimazione internazionale.

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Da segnalare anche le scelte di periodizzazione, coerenti a una concezione storiografica che tende a privilegiare la vitale continuità tra i secoli rispetto alle presunte rotture. In maniera meno marcata rispetto alla storia del­ l’architettura dell’Ottocento di Robin Middleton e David Watkin del 1980, la cui prima parte è interamente dedicata all’Illuminismo in Francia e Inghilterra, l’e­ sposizione si riaggancia, comunque, al secondo Settecento, razionalista e neoclassico oppure pittoresco e neogotico, considerato premessa ineludibile sia per i processi di astrazione e razionalizzazione (Durand) sia per la loro conversione sub specie romantica (come evidenzia esemplarmente John Soane). Assai più sfumato il terminus ad quem, a proposito del quale il volume travalica i limiti assunti dagli autori ricordati – che si arrestano ai Profeti del XIX secolo: Pugin, Ruskin (ma non Morris), Semper e Viollet-le-Duc – per gettare un ponte verso la “modernità”, senza tuttavia assecondare, tout court, una visione di Ottocento “lungo” che si addentra nel secolo successivo fino al primo conflitto mondiale, ma proponendo traguardi variabili, funzionali allo svolgimento delle vicende esaminate. Il focus d’attenzione sulla città comporta, ad esempio, l’accenno a Tony Garnier, ma conduce a “sezionare” il fenomeno dell’Art Nouveau, tralasciando le architetture di Horta a Bruxelles, ma dedicando spazio alle esperienze maturate da Van de Velde in Germania, alla Secessione viennese (ovviamente, in primo luogo, al Wagner architetto, con Olbrich, della Stadtbahn)

e allo Jugendstil della Künstlerkolonie di Darmstadt o di August Endell, e includendo Gaudì, considerato un precursore dell’urbanistica moderna. Tra questi due estremi, la materia viene sviluppata in maniera documentata e agile al tempo stesso. Il pregio maggiore del volume è infatti la sua ricchezza informativa, che integra ampiamente i contenuti consueti dei manuali, coniugata a una notevole chiarezza espositiva grazie alla struttura molto articolata (10 capitoli con paragrafi e sottoparagrafi), in modo da condensare ciascun argomento in poche pagine, rendendo agevole la lettura per un diversificato pubblico di fruitori. Tra la parte prima e la seconda un inserto fotografico a colori ripropone architetture del XIX secolo in rapporto (o in contrasto) con una flagrante contemporaneità. Belle immagini (quasi tutte degli autori) che, oltre ad arricchire l’ampio repertorio iconografico, raffinato e mai scontato, a corredo del volume, contribuiscono a rimarcare la presenza dell’eredità dell’Ottocento nei contesti urbani attuali e a proporre la questione del loro destino. C. L. R. Pasini, Il sacro nell’arte con­ temporanea, QuiEdit, Verona 2011. L’arte contemporanea è contro il sacro? Roberto Pasini, noto in campo internazionale come storico dell’arte, critico d’arte e scrittore, nonché Professore di Storia dell’arte contemporanea all’Università degli Studi di Ve-


rona, apre con questa domanda la sua più recente pubblicazione. Una domanda che è lecito porsi in tempi come quelli in cui viviamo: cosa può esserci, infatti, di sacro in un mondo che gioca tutte le sue carte sulla scienza e la tecnologia, sul progresso e sulla mer­ cificazione dei sentimenti? «Dio è morto» ha decretato Nietzsche, sancendo la condizione di un’u­manità che ormai da tempo non guarda più verso l’alto. E allora perché mai gli artisti dovrebbero interessarsi ancora al sacro? Da decenni, secoli, l’arte non è più al servizio della religione e senza ombra di dubbio il passaggio dal­l’epoca medievale alla moderna alla contemporanea si contraddistingue per una progressiva laicizzazione della pratica artistica. Ma, se è vero che l’epoca contemporanea immette nella storia dell’arte problematiche nuove, che comportano una diminuzione dell’attenzione verso il sacro, ciò non significa che venga meno la necessità, l’ansia, il bisogno di rapportarsi con qualcosa che è oltre, al di là e al di sopra della realtà del mondo. Con il suo libro Pasini ci accompagna in un viaggio tra le pagine della storia dell’arte, dal Romanticismo a oggi, per scoprire che il sacro non ha mai abbandonato l’orizzonte creativo degli artisti. Quindi no, l’arte contemporanea non è contro il sacro, anzi, c’è ancora in essa una potente richiesta di sacro, il quale però, necessariamente, non passa più attraverso la religione: una metaformosi endogena alla società stessa ha fatto sì che l’arte riducesse drasticamente l’opzione ico­ nologica, che in epoca moderna

portava ancora sulle tele episodi della Bibbia e dei Vangeli, a favore di un potenziamento dell’opzione metaforica, che svincola il sacro dal religioso e mette in campo una sensazione di sacralità, un’emozione del sacro, che non ha più bisogno di essere veicolata dalla figurazione. È questa la grande novità del­ l’arte contemporanea: se sul versante iconologico non aggiunge nulla a una tradizione rappresentativa che era in vigore con maggior robustezza nelle epoche precedenti, sotto il profilo metaforico introduce una dimensione che prima era totalmente inedita. Con questa preliminare distinzione in due facies del sacro (iconologica e metaforica), il testo apre su una riflessione implicita, che trascende i limiti del comparto storico artistico, per investire il significato, la concezione stessa di sacro, il quale non necessariamente coincide con la religione e la religiosità, assumendo le valenze di qualcosa che non scende su di noi dall’alto (come il religioso), ma che troviamo dentro di noi. Nell’arte contemporanea si rimuove la componente istituzionale del divino, sostituendola con una componente emozionale, che non ha più alcun rapporto diretto con la Chiesa o le premesse religiose del fare artistico, in quanto si sottrae dalle immagini ogni valenza cultuale, e si inserisce invece un’alta dose di sentimento del divino, dove il divino non è di derivazione tradizionale, legata alla religione, ma di impianto interiore, come partecipazione del­l’artista alla sfera più nascosta e indicibile del mondo e della vita.

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Ciò non toglie che si possano incontrare, in pieno Otto e Novecento, artisti che si sono confrontati con temi religiosi (vedi ad es. i Cristi gialli e verdi di Gauguin), ma i presupposti e le finalità con cui questi temi vengono trattati non possono essere paragonati alle esigenze culturali che guidavano i pennelli degli artisti medievali e moderni: mancano ora i codici istituzionali, i rapporti con il potere, la Chiesa, il papato, la committenza…, tutti quei fattori che avevano sancito per secoli la fortuna dell’arte sacra. Più spesso ci imbattiamo in ar­ tisti che riecono a esprimere, attraverso forme che non hanno nulla a che fare con la rappresentazione di fatti, oggetti o personaggi sacri, qualcosa che lo spettatore percepisce come sacro, so­no artisti che suscitano in noi «emozioni sottili, inespri­mibili a parole», come direbbe Kandinsky. Così, lungi dal voler ridurre la ricerca su questa problematica a una sterile catalogazione di tutti quegli artisti e quelle opere di epoca contemporanea che possono aver avuto una qualche tangenza con il sacro, Pasini propone una campionatura eccellente di personalità artistiche che in maniera molto varia si sono confrontate con questo tema, senza mai prescindere dalle ragioni profonde che giustificano il valore e il significato da esso assunti nell’operatività di ognuno; ragioni che spesso trovano un corrispettivo omologico nella letteratura, nella filosofia, nella scienza, secondo un modus operandi molto caro all’autore. Questo tipo di approccio emer­ ge con estrema chiarezza fin dai primi capitoli, in cui Pasini dà il

via alla sua trattazione occupandosi del Romanticismo, una situazione culturale complessa, in cui trionfano, in letteratura, come in filosofia, il senso di una compartecipazione panica del­l’uo­mo con l’universo e l’idea di Sublime, concetto di cui l’arte si appropria immettendone il grande respiro sulle tele. Da Novalis a Schelling, tra poesia e filosofia, si disegna una nuova mappa del percepire, che fa irrompere sulla scena creativa il bisogno di Assoluto. Nel Romanticismo la religione diventa religiosità diffusa, senso panico dell’universo, adesione al mistero cosmico. I due artisti che maggiormente incarnano queste mozioni, sono Caspar David Friedrich e Joseph William Turner: l’uno il “Sublime matematico”, la spettacolarità vissuta interiormente, nei suoi uomini spettatori di un mondo immobile, cristallizato, spesso desolato; l’altro il “Sublime dinamico”, l’emozione di una natura in tempesta, una dimensione più esteriore forse, ma ugualmente sintonizzata sul bisogno di rapportarsi al senso delle cose per cercare di decifrare l’a­ spetto criptico della vita. Nelle loro opere si evidenzia una sacralità in parte iconologica, ma soprattutto metaforica, che apre il grande scenario della contemporaneità; e se con Friedrich la facies metaforica si serve di scenari irripetibili, grandiosi, eclatanti per convertire quel brivido epidermico negativo in percezione della grandezza del cosmo, della sua potenza, del suo meraviglioso ma­nifestarsi in forme che sembrano partecipare del divino; con Turner il sacro spazia su


orizzonti meteorologici di burrasche, tempeste di neve, albe impalpabili… In entrambi i casi la tensione religiosa si trasforma in bisogno di Infinito e di Assoluto. La trattazione di Pasini prosegue seguendo un percorso cronologico che dalle Avanguardie giunge fino ad anni recenti, individuando quelle “teste di serie” che assumono particolare rilevanza nell’ambito del tema indagato. Tra questi artisti possiamo distinguerne alcuni che hanno scelto di lavorare sul versante iconologico e altri che si sono lanciati nel­ l’avventura metaforica, pur essendo impossibile tracciare dei limiti netti, dal momento che spesso le due varianti sono compresenti o strettamente interconnesse. Il già citato Paul Gauguin appartiene sicuramente al versante iconologico: tra le sue opere troviamo un Cristo giallo (1889), un’Ave Maria (Ia Orana Maria, 1891) e veri e propri episodi biblici (La lotta di Giacobbe con l’angelo, 1888), ma si tratta solo di pretesti per lavorare sulla forma espressiva: è evidente che in queste opere il tema è messo in ombra dall’innovazione linguistica. In realtà l’esigenza di religiosità non riprende in senso letterale i criteri religiosi del tempo passato, ma sta a indicare un bisogno di sacro che, non trovando forme già pronte per sostituire le immagini della storia dell’arte, continua a fare riferiemento ad esse, o meglio le rinnova. Diverso è il caso di Salvador Dalì, che a partire dagli anni ’50 mette in campo l’iconografia del sacro più sfacciata e palese che

un artista abbia prodotto nel Novecento. Le sue Madonne e i suoi Cristi in croce non sono il veicolo di un rinnovamento della materia pittorica: si tratta, come nelle opere prodotte in precedenza, di immagini sgranate e ben definite e di colori netti e imperiosi. Risulta tuttavia impossibile stabilire quanto di sincero e quanto invece di provocatorio sia all’origine di questa “conversione” al cattolicesimo del­l’ar­ tista. Probabilmente il cambiamento di rotta di Dalì muove da un presupposto che è sempre stato alla base della sua operatività, la stupefazione: bisogna stupire il pubblico, e qual è il miglior modo di farlo se non reintroducendo nell’arte immagini che erano state negate dalla logica stessa della contemporaneità? Di maggiore complessità sono i casi di Francis Bacon e Hermann Nitsch, appartenenti a due diverse generazioni di artisti e lontani anche dal punto di vista operativo, ma accomunati da un senso drammatico del sacro, che nel primo scende dalla croce e si traduce in dolore fisico del­l’u­ manità, perde ogni valenza religiosa per caricarsi invece di pre­gnanza emotiva (dramma nel senso comune), e nel secondo si fa azione (drama nel suo significato etimologico) recuperando il tema del sacrificio animale finalizzato al conseguimento di una purificazione della carne e dello spirito. In entrambi i casi avviene un’equiparazione fra carne spirituale e carne materiale. Più sottile si fa la trattazione nell’affrontare quegli artisti che lavorano sulla facies metaforica. I primi esempi si trovano agli inizi del Novecento, quando, nel

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clima di superamento della referenzialità e dell’immagine instaurato dalle Avanguardie, la tensione al sacro viene spostata da ciò che c’è a ciò che non c’è, […] da ciò che si vede a ciò che non si vede. Scompare dalle tele ogni tentazione di referenzialità, lasciando il posto a quelli che Kandinsky definisce «gli elementi essenziali della pittura»: colore e forma. Kandinsky, Mondrian, Malevic, ci portano al di là del visibile, per trovare qualcosa che non ha nome: la dimensione materiale viene sostituita con quella spirituale. Il primo, in realtà, promuove un’idea di sacro che sposta il baricentro dall’opera all’artista; sacro è il compito, la missione dell’artista, il quale è portatore di una qualità divina che deve essere assolutamente tradotta nel poiein più responsabile. Mondrian e Malevic invece portano avanti una poetica rigorosamente concentrata sul processo astrattivo, per cui il sacro nelle loro opere si configura come ciò che resta alla fine del processo di spoliazione del mondo. Un sacro fortemente laico quindi, scoperto al di là del fenomeno, un noumeno definito dagli elementi stessi della pittura. Tra i due, Malevic è forse il più rigoroso, per lui il sacro è qualcosa che emerge dal bisogno di nettare l’operazione artistica, con una volontà d’acciaio che porta l’esito pittorico all’off limits della creatività: il Suprematismo. Ogni atto pittorico, per Malevic, deve essere sacro e per esserlo deve svincolarsi da qualsiasi contatto non solo con il mondo (Mondrian), ma anche con la forma del dipingere come

è stata praticata sino a lui. L’arte diventa un mezzo per arrivare il più in alto possibile. Sacro come supremo e supremo come sacro. E infine la triade degli Informali: Lucio Fontana, Barnett New­man, Ad Reinhardt. Enormi le differeze fra i tre. Fontana muove nella direzione più laica possibile, postulando anzi un aggancio omologico con la scienza e la tecnologia. Con il ciclo Fine di Dio (1963) denuncia una necessità storica e culturale, quella appunto di laicizzare l’arte, in quanto sorella della scienza e della tecnologia, al­l’entrata di una nuova era, in cui i mezzi di comunicazione di massa e le scoperte scientifiche consentono di rivalutare la posizione dell’uomo sul pianeta. La fine di Dio è per Fontana la nascita del­ l’Uomo e di un’arte che può vivere una realtà empirica e spirituale nuova. Una rinnovata simbiosi tra l’umano e il divino la troviamo in Newman: è proprio il divino nell’umano che acquista il significato più decisivo. È così ad esempio in un’opera come Vir Heroicus Sublimis (1950-51) in cui emerge una dimensione di sacralità che non rimanda ad una divinità arcana e incommensurabile ma alla forza dell’Uomo, Energia pura vista come il motore primo e ultimo del mondo. Con opere come The Beginning o Genetic Moment, invece, Newman si schiera sul fronte degli archetipi, cercando di andare in profondità nella analisi delle mozioni primarie dell’essere: la sua intenzione è quella di fare tabula rasa del presente, della cronaca, del quotidiano per andare a recuperare il valore anti-


co delle cose, soprattutto nella loro dimensione cosmica. A chiudere la disamina sugli artisti che si sono occupati del sacro nella sua veste metaforica, Reinhardt, che dopo la stagione informale porta la pittura verso il grado zero del fare arte: i suoi Black Paintings (1960-1966) sono il raggiungimento ultimo, non modificabile, non superabile, ripetibile solo all’infinito della ricerca di un artista che fa della nozione di sacro una caratteristica consustanziale al suo operare. La pittura per Reinhardt è un credo, il suo scopo è porre l’Assoluto Pittorico come supremo valore sacro dell’arte medesima. Questi e altri gli spunti di riflessione dell’analisi di Pasini, che muove da un tema affascinante e quanto mai controverso come quello del sacro nell’arte contemporanea per gettare nuova luce sui percorsi creativi di artisti che, al di là di ogni differenza, ci sembrano accomunati da un punto fondamentale: la sacralità con cui affrontano l’operare artistico. Così, in ultima istanza, non ci sembra sbagliato concludere dicendo che l’arte contemporanea ha portato a compimento un processo, una mutazione, che dalla pittura religiosa porta alla reli­ gione della pittura. J. B.

TDM5: Grafica Italiana, Triennale Design Museum, Milano, dal 14 aprile 2012 al 24 febbraio 2013. Lo scorso aprile il Triennale Design Museum ha inaugurato la

sua quinta edizione, dedicata que­ st’anno alla grafica italiana. Con questa edizione il museo prosegue il suo percorso di indagine della storia e delle caratteristiche del design nel nostro paese e consolida un modello museografico decisamente interessante e innovativo. Aperto alla fine del 2007, il Triennale Design Museum è il primo museo del design in Italia; alla base del progetto vi è la convinzione che il design sia un fenomeno profondamente radicato nella cultura italiana, e per tanto molteplice, sfaccettato, e soprattutto, proprio in virtù di questo rapporto biunivoco, una realtà in continua evoluzione. Che cos’è dunque il “design italiano”? Come rappresentarlo in un museo? E come comunicarlo a un pubblico ampio e non necessariamente specializzato? Sono queste le domande principali cui il Triennale Design Museum da cinque anni con le sue diverse edizioni tenta di dare una risposta. Queste stesse domande possono essere ricondotte a questioni di carattere generale con cui si trovano a confrontarsi oggi la maggior parte dei musei contemporanei, ed ecco dunque che le diverse edizioni del Triennale Design Museum, non solo offrono interessanti spunti di riflessione di per sé, ma nel loro insieme propongono un modello di museo che si apre a diverse interpretazioni e possibili sviluppi. Sono sempre di più infatti i musei che indipendentemente dal loro ambito disciplinare devono oggi rispondere a domande nuove, nuove esigenze e tematiche e nuovi pubblici, per continuare ad assolvere quel ruolo sociale ed

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educativo che da sempre gli appartiene. Ma questa revisione pone inedite problematiche museologiche e museografiche legate alla definizione e rappresentazione del contemporaneo, alla rinuncia alla presunta oggettività ed esaustività del messaggio museale, e non da ultimo, soprattutto in periodi di difficoltà economica come quelli attuali, al rischio di una troppo rapida obsolescenza del museo stesso e dei suoi contenuti. La soluzione ideata cinque anni fa per il Triennale Design Museum è quella di un museo che po­ tremmo definire ibrido, una real­ tà che cerca un equilibrio tra la permanenza e l’autorevolezza di un’istituzione museale e la flessibilità e l’attitudine divulgativa di una mostra temporanea. Il museo ha una sua collezione permanente, che si arricchisce costantemente tramite donazioni e acquisizioni di pezzi contemporanei, e che è virtualmente ampliata da un articolato network che mette a sistema una rete di “giacimenti” costituiti da collezioni aziendali e private, archivi e musei diffusi sul territorio. Il museo ha anche una sede, in un’ala della Triennale di Milano, ristrutturata da Michele de Lucchi, dove si trovano i nuovi uffici della fondazione, il book­ shop e il caffè e dove vengono ospitate mostre temporanee dedicate al design italiano e internazionale. Quello che il museo non ha è un allestimento permanente, sostituito invece da edizioni annuali, curate e allestite di volta in volta da diversi studiosi, architetti, designer e artisti, e dedicate a rappresentare ogni volta un diverso aspetto, tema e interpretazione del design italiano. L’o­ biettivo,

attraverso uno strumento comunicativo mutevole quale un allestimento temporaneo e monografico, è quello di rappresentare nel museo tutte le componenti delle arti contemporanee (design, architettura, arti visive, moda…), per raccontare la storia del design come quella di un multisfaccettato “mosaico” che in diversi modi è parte integrante della nostra società, del nostro gusto e della nostra cultura. Le prime quattro edizioni – Le sette Ossessioni del design Ita­ liano, Serie e Fuori Serie, Quali cose siamo e Le fabbriche dei so­ gni – hanno lavorato in questo senso e hanno offerto quattro diverse interpretazioni del design Italiano. La quinta edizione recentemente inaugurata, curata da Giorgio Camuffo, Mario Piazza e Carlo Vinti e allestita da Fabio Novembre, si differenzia dalle altre abbandonando il codificato territorio degli oggetti, ma si inserisce anch’essa coerentemente nel progetto generale del museo e ad esso contribuisce con una fresca e stimolante incursione nel più inesplorato graphic design. Dopo alcune iniziative dedicate dal museo alla grafica contemporanea (tra cui le due edizioni di Spaghetti grafica del 2008 e del 2009 e la mostra Graphic Design Worlds del 2011 già a cura dello stesso Camuffo) la scelta di dedicare un’edizione alla grafica italiana, alla comunicazione visiva e alla loro storia intende completare e ampliare il percorso nel design italiano intrapreso dal Triennale Design Museum. Più di mille sono le opere esposte, in gran parte non provenienti dalla collezione permanente o dai cosiddetti giacimenti, ma acquisite


da aziende o studi professionali: il che rende questa edizione anche un’occasione per il museo per ampliare la propria collezione. Attraverso questa raccolta di progetti straordinariamente eterogenea, Grafica Italiana racconta la storia della comunicazione visiva italiana dal secondo dopoguerra, la ricostruzione e il boom economico – cuore della mostra – fino agli anni Ottanta, con riferimenti al razionalismo, accenni ai primi del Novecento e alle avanguardie e incursioni verso il contemporaneo. La mostra si sviluppa secondo una narrazione tematica, con l’obiettivo non tanto di interpretare un fenomeno o rappresentarlo in maniera specialistica ed esaustiva, quanto di introdurlo, presentarlo a un pubblico vasto e, soprattutto, di riscattare una disciplina che, come sottolineano Silvana Annichiarico e i curatori, è spesso considerata una pratica ancillare rispetto al design in senso stretto. Il percorso è organizzato in nove sezioni principali – Lettere, Libri, Periodici, Cultura e Politica, Pubblicità, Imballaggi, Identità Visiva, Segnali, Film e Video –, nove ambiti di intervento che vanno a configurare una mappa dei lavori più significativi prodotti dai grafici italiani. La mostra apre rievocando le radici culturali della grafica italiana: dalle opere Ottocentesche e le produzioni bodoniane, passando per la cartellonistica dei primi del Novecento e arrivando al Razionalismo e al Futurismo degli anni Trenta. Nelle seguenti nove sezioni, in un percorso che rileva le numerose sfaccettature del mondo della grafica e delle sue applicazioni, troviamo manifesti, pie-

ghevoli, riviste, opuscoli, manuali, enciclopedie, etichette, segnaletiche, caratteri tipografici, marchi e molto altro ancora, tutte testimonianze del profondo rapporto tra grafica e prodotto, tra grafico-designer e imprenditori illuminati, ma anche tra grafica e immaginario collettivo, memoria sociale e storie personali. Parallelamente la mostra delinea la figura del grafico nel nostro paese e dei suoi molteplici ruoli, non soltanto come progettista di libri, riviste o manifesti, ma anche come tecnico e intellettuale, come regista ed editore, come agitatore politico, come operatore artistico e culturale (G. Camuffo, M. Piazza e C. Vinti nel­ l’Apertura della mostra). Opere come i prototipi di Carlo Scarpa del 1969 per la targa per Maria Toso alla tomba Brion a inizio mostra e i progetti di allestimento per i padiglioni fieristici in conclusione del percorso, ci ricordano il legame tra architettura e design; altri lavori ci parlano della peculiare relazione tra design e industria in Italia, e del rapporto tra prodotto, innovazione e comunicazione, sottolineando il ruolo della grafica nel­ l’avvicinare la cultura tecnicoindustriale che si stava sviluppando in quegli anni con quella umanistica e artistica della tradizione del nostro paese. L’intero racconto vuole testimoniare il ruolo comunicativo, ma anche politico, sociale e culturale, svolto dalla grafica in Italia e il contributo che essa ha dato alla costruzione dell’identità, della crea­ tività e della cultura italiane del Novecento. La comunicazione è vista come opera totale, e anche l’allestimento della mostra cura-

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to da Fabio Novembre incarna questa stessa visione. Novembre ha ridisegnano l’aspetto delle sale e dei percorsi all’interno del Triennale Design Museum riflettendo su come la grafica, per quanto pervada svariati aspetti della nostra vita, sia sfuggente quando la si vuole raccontare e rappresentare, e immaginando quindi un viaggio tra l’immateriale e il fisico, tra il cielo e la terra. Attraverso il ponte ricurvo di ingresso del museo si entra in un libro bianco; i cui contenuti si sono staccati dalle pagine aperte del libro per prendere forma tridimensionale nella parte curva dello spazio espositivo; qui, in un climax cromatico che richiama una mazzetta pantone – come quella che costituisce il flyer della mostra – o, come Novembre stesso lo ha definito, un “arcobaleno di profilo” – sono ospitati i vari materiali, su pannelli colorati e in cubi, “solidi platonici associati alla terra” (Fabio Novembre, inaugurazione della mostra). E mentre l’allestimento si propone come un libro bianco “sviluppatore di fantasia”, il catalogo, realizzato dallo studio Leftloft e prodotto dall’editore Corraini, è organizzato secondo le nove aree tematiche della mostra, utilizzando i colori abbinati nell’allestimento a ogni sezione che formano sui tre lati di taglio del libro lo stesso spettro cromatico che ritroviamo all’interno del percorso museale. Il progetto allestitivo, semplice ed efficace, aggiunge così un’ulteriore interpretazione ludica e colorata al messaggio della mostra, con un intelligente gioco di richiami tra allestimento, collezione e catalogo. I lavori di Stei­

ner, Noorda, Testa, Mari, Munari e di molti altri designer e progettisti noti e meno noti ci accompagnano in un racconto denso e ricco ma mai pedante o noioso, dove la nostra attenzione è incuriosita ora dall’efficacia di uno sconosciuto manifesto, ora dalla familiarità di una copertina, una pubblicità, un logo: l’elenco del telefono del comune di Milano, il cane a sei zampe dell’ENI, le segnaletiche della metropolitana milanese, la Linea della Lagostina – primo esempio di animazione grafica – le confezioni della pasta Barilla, i font dei nostri pc, il logo e le campagne pubblicitarie di Esselunga, i libri di Zanichelli, Mondadori, Feltrinelli, fino alle immagini e ai suoni del mondo del cinema e della televisione, “appunti per una storia tutta da scrivere”. F. L. F. Mauri, The End, mostra a cura di F. Alfano Miglietti, Palazzo Reale, Milano 19 giugno - 23 settembre 2012. In un’epoca, qual è la nostra, dominata da un’ossessione verso tutto ciò che riguarda la memoria, individuale e collettiva, la retrospettiva dedicata a Fabio Mauri al Palazzo Reale di Milano rappresenta una conferma del fenomeno. Artista poliedrico, protagonista dell’avanguardia italiana a partire dagli anni Cinquanta e fondatore di due riviste critiche (Il Setaccio e Quindici), Mauri concepisce l’arte come un potente mezzo di espressione di una coscienza etica, interrogandosi sul­ le questioni scomode della


cultura e della storia europea: il dramma della guerra e degli amici ebrei morti nei campi di concentramento. A testimoniare il valore di questo straordinario artista e intellettuale scomparso nel 2009, qualche giorno prima del­ l’apertura della mostra di Milano, in occasione di DOCUMENTA (13) a Kassel, è stata riproposta la perfomance Che cos’è la filosofia. Heidegger e la questio­ ne tedesca. Concerto da tavolo. La scena è ambientata in un interno borghese anni Trenta, come quelli dell’alta società nazista. Durante la cena, uomini e donne dialogano in tedesco mentre l’artista che impersona Heidegger legge brani tratti dal libro Che cos’è la filosofia. In sottofondo una concertista suona Mozart, Bach e la musica dodecafonica di Schoenberg, Berg e Webern. A raggelare quest’atmosfera da salotto culturale, ogni tanto interviene una voce che legge alcuni estratti del processo Eichmann in cui vengono conteggiate economicamente le parti del corpo di una vittima uccisa in un campo di concentramento. Il processo Eichmann e quelli di Francoforte, nei primi anni Sessanta, hanno messo in evidenza la centralità del testimone nella costruzione di una storia condivisa. Il corpo del sopravvissuto diventa una sorta di corpo pubblico «memore dei tanti che non possono più parlare: che non hanno più occhi, orecchi, numeri da mostrare incisi sulla pelle» (Antonella Tarpino, Geografie della memoria, Torino 2008, p. 15). La performance inscenata per la prima volta nel 1989 rappresenta un affresco delle catastrofi della modernità e di quella

«banalità del male», titolo del famoso libro di Hannah Arendt. È negli anni Settanta che e­merge in particolare l’interesse dell’artista verso il tema dell’i­deo­ logia che affronta in opere come Ebrea (1971), Ideologia e Natu­ ra (1973), Manipolazione di Cul­ tura (1976) e nella performance Che cosa è il fascismo (1971). In quest’ultima Mauri costringe il pubblico a partecipare a una riunione fascista: giovani in camicia nera parlano il linguaggio del­ l’epoca e lodano il duce. Un processo anacronistico dove il pubblico conosce già la fine della storia, anche quando la ragazza con la stella ebrea entra in scena a fine spettacolo. È stupefacente comprendere quanto i temi affrontati nella mostra siano estremamente attuali: la grandiosità di Mauri è stata anche di trasmettere la storia recente, con i suoi orrori, utilizzando un linguaggio discreto, perché non c’è bisogno di fare rumore, basta leggere i titoli delle opere per provare qualche brivido (Francesca Alfano Miglietti). Nel­ le sale sono presenti performance, installazioni, oggetti e disegni personali: «quelle di Mauri sono opere come viaggi, un itinerario di conferme di zone del pensiero». Filo conduttore della mostra è il «The End» che l’artista coglie dal mondo del cinema: è presente nella prima sala come ricamo in stile boettiano e si ritrova con altri linguaggi lungo tutto il percorso espositivo. Il «The End» non segna una fine vera e propria, quanto un ripetersi di qualcosa, la riproposizione di ciò che è stato rimosso e che Mauri vuol far tornare alla mente. Gli Schermi (1957), opere monocrome fatte

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di carta bagnata e poi di tela tirate su telaio rettangolare con una parte aggettante, sono il secondo segnale dell’artista verso la società delle immagini, verso i mezzi di comunicazione che di li a poco avrebbero cambiato la vita delle persone: se l’ideologia è considerata da Mauri l’oggetto di consumo europeo, lo schermo ne evidenzia un aspetto fondamentale: la possibilità di reagire a una forma di comunicazione azzerata che continua a sopravvivere in forme più sottili (Francesca Alfano Miglietti). La mostra è un viaggio nella storia e in un memoria ferita e inquieta, tra spazi di tensione e spazi di emozione. L’ideologia di cui parlano le opere dell’artista è «l’equivalente del prodotto di consumo, l’Europa era ed è una grande produttrice e consumatrice di ideologie». Questo tema è particolarmente caro all’artista che ha vissuto gli anni della guerra, del fascismo e della ricostruzione: ho visto il terrore dell’i­ deo­logia, come l’ideologia possa dare un’idea di un mondo interamente falso e mascherare le potenzialità distruttive, perchè l’ideologia, ahimé, è un modo in cui l’uomo pone attorno a sé una serie di campi minati, per interdire l’accesso al resto del mondo. L’ideologia totalitaria pensa il mondo per te, obbligatoriamente. In mostra non sono presenti solo le performance relative al nazismo e al fascismo: una sala è interamente dedicata alla Cina Asia Nuova (1996). Di particolare significato il muro formato da valigie moderne, o come lo definisce l’artista «un quadrato di muraglia», presente al centro della sala e che si con-

trappone al Muro Occidentale o del Pianto (1993), una delle opere principali di Mauri, anch’essa presente in mostra. La valigia rappresenta l’uomo con le sue storie, i suoi ricordi, è il racconto di una vita. Le valigie cinesi utilizzate per questa installazione sono tutte uguali, senza peso, vuote: la valigia moderna che uso, senza eccessiva metafora, asiatica, introduce una modernità inossidabile, a ripetizione impassibile, frigida per il vuoto che contiene, un feroce involucro. Il Muro Occidentale o del Pianto, al contrario, è composto da valigie vecchie, ciò che resta degli spostamenti e degli esili forzati, è l’oggetto che racchiude tutto quello che c’è di più personale per un uomo costretto a fuggire. Quest’opera venne esposta per la prima volta alla XLV Biennale di Venezia del 1993 e riallestita nel gennaio 2005 nel Teatro Sociale di Bergamo, dove una musica dal carattere mitteleuropeo accompagnava il visitatore all’interno di un’architettura altamente evocativa per il suo stato di abbandono. All’interno del muro compatto di valigie cresce una pianta, simbolo della continuazione della vita dopo il dolore e la morte. Il dramma degli ebrei uccisi nei campi di concentramento emerge anche nella performance Ebrea, opera a cui viene dedicata un’intera sala nella mostra e che fu messa in scena per la prima volta nel 1971 nella Galleria Arozzi di Venezia. L’artista aveva ricreato l’atmosfera di un salotto buono all’interno del quale entrava una donna che iniziava a spogliarsi fino a rimanere nuda e pian piano si tagliava ciocche di


capelli che attaccava in un secondo momento su uno specchio, fino a formare la stella di Davide. Lo sguardo dell’osservatore si soffermava poi sugli oggetti presenti nella sala realizzati con materiale umano. La mostra ripropone gli stessi oggetti-sculture della performance con l’intento di evocare una sorta di museo di un campo di concentramento. Apparentemente neutrali, dalla lettura dei titoli emerge la loro inquietante provenienza umana: pelle, ossa, capelli, denti di ebrei morti nei campi di sterminio nazisti, in Ebrea l’operazione è fredda e indelicatamente culturale. Ricompio con pazienza, con le mie mani, l’esperienza del turpe. Ne esploro le possibilità mentali. Estendendone l’at-

to, invento nuovi oggetti fatti di nuovi uomini. Le opere di Mauri parlano dell’uomo e attraversano spazi, luoghi e tempi diversi. Il suo lavoro possiede molti riferimenti culturali, ogni costruzione è una stratificazione di tormenti e angosce. Il percorso creato per la mostra a Palazzo Reale è poetico e potente allo stesso tempo: la memoria non si rivolge solo al passato ma diviene un monito per le generazioni future: scrive Mauri, noi siamo un condensato di memoria, proiettiamo continuamente una memoria, per riconoscere il mondo; nel­ l’artista la memoria si scontra con il mondo. M. B.

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Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 79.  Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80.  Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81.  Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82.  Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre N. 83.  Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre N. 84.  Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85.  Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86.  Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87.  Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88.  L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89.  Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre

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N. 90.  L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre


N. 91.  «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92.  Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93.  La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94.  Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95.  Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96.  Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97.  Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98.  Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99.  Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre N. 100.  Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101.  Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102.  Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103.  Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104.  La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105.  L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106.  Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Bien-

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nale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107.  Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108.  Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109.  Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110.  Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111.  Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112.  Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113.  Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114.  L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115.  L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre N. 116.  Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117.  Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118.  Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119.  L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120.  Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre

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N. 121.  La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori


N. 122.  L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123.  Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125.  Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126.  L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127.  Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128.  Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129.  Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 131.  Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132.  Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133.  Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134.  Abitare la razionalità - Per una nuova clas­si­ficazione delle arti - Il design ae­ro­nautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135.  Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137.  Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138.  Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­ l’ADI N. 139.  Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­ l’ADI N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998

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«Grafica Elettronica» - Via Ferrante Imparato, 198/F4 - 80146 Napoli


Le pagine dell’ADI ASSOCIAZIONE PER IL DISEGNO INDUSTRIALE a cura di Maria Antonietta Sbordone e Dario Moretti

Passaggi di scala ADI, per ragioni storiche, è nata con una matrice fortemente legata alla cultura e al territorio italiani; e nel corso della sua storia ultracinquantennale gli sforzi per compiere la missione dell’associazione entro i confini nazionali hanno certamente impegnato gran parte delle energie di presidenti e di singoli soci. Non che la tensione a comunicare all’estero l’eccellenza del design italiano sia mai stata trascurata: lo documenta nelle pagine che seguono, con la cronaca delle sue alterne fortune, un’esauriente relazione di Giuliano Molineri, rappresentante di ADI presso ICSID International Council of Societies of Industrial Design. Oggi tuttavia questa concentrazione sul mondo occidentale del design si rivela non come un limite ma come una linea di peso strategico diverso rispetto al passato nel quadro della cultura del design contemporaneo: accanto alle relazioni tradizionali di pertinenza dell’ICSID, che riguardano i paesi in cui, in parallelo all’Italia, il design si è sviluppato nell’ultimo mezzo secolo, è diventato essenziale avere contatti e scambi con paesi che si affacciano in modo prepotente o semplicemente promettente al mondo dell’industria e della produzione degli oggetti. La missione dell’ADI (la diffusione della cultura del progetto) – al di là della ricerca di risorse e di rapporti necessari alla professionalità dei designer italiani e al successo dei Made in Italy – oggi passa, per una semplice questione di scala ormai globale, a includere i nuovi sistemi produttivi dell’Asia e dell’America latina. Dell’attenzione che l’ADI dedica oggi a questo orizzonte internazionale testimonia qui lo scritto di Giovanni Cutolo, presidente della Fondazione ADI Collezione Compasso d’Oro e vicepresiden-


te di ADI: l’associazione italiana ha un suo importante e riconosciuto contributo da dare allo sviluppo di nuove culture del design, dal punto di vista delle idee come da quello organizzativo, mentre la strategia di diffusione della cultura italiana del design attraverso il patrimonio rappresentato dalla Collezione storica del Compasso d’Oro diventa un filone sempre più cruciale da seguire con attenzione e risorse importanti. Manca da questo panorama una serie di iniziative che sono rivolte in specifico alla Cina e che sono tuttora in fase di sviluppo, con un impegno che rappresenta sotto molti aspetti uno sforzo organizzativo e culturale inedito per ADI, che coinvolge considerazioni culturali (con il tema della formazione e della ricerca), economiche (con quello del sostegno al progetto italiano e alle imprese italiane), giuridiche (con il grande filone della proprietà intellettuale). Degli sviluppi di questa strategia ci riserviamo di dar conto su queste pagine in uno dei prossimi numeri.

Giovanni Cutolo Oltre l’oggetto La definizione di una strategia di internazionalizzazione del­ l’ADI richiede una riflessione, dal punto di vista culturale e da quello economico, circa il ruolo dell’Associazione all’interno del mondo del design italiano. Osservandolo da quest’ultimo punto di vista, appare evidente che il design italiano non può che trarre giovamento dalla continua riflessione teorica e dalla crescente conoscenza e dalla susseguente maggiore accettazione e diffusione dei valori che caratterizzano la sua pratica. Valori che devono essere intesi innanzitutto come alternativa progressista contro la prevalente tendenza a produrre per reiterazione, quella aporia creativa che inibendo l’innovazione spinge i produttori, industriali e non, a rifare continuamente le stesse cose, in una sorta di coazione a ripetere di stampo conservatore. Io credo che sia importante illustrare e poi spiegare, al di là dei confini nazionali, ciò che caratterizza il design italiano e che ne rappresenta la vera e più caratteristica originalità. Intendo riferirmi a quella capacità che l’Italia ha saputo dimostrare costruendo il


“Sistema design”, un grande e duraturo movimento culturale capace di andare oltre i prodotti, senza negare l’importanza che evidentemente essi hanno avuto e ancora continuano ad avere. Sappiamo bene che i prodotti, quando sono di buona qualità, sono i migliori ambasciatori di se stessi, la loro più efficace ed economica forma di pubblicizzarli e promuoverli, come ripeteva continuamente Dino Gavina. Basti pensare all’enorme capacità di comunicazione della quale è depositaria la Collezione storica del Compasso d’Oro, con la sua raccolta di oggetti accumulati nell’arco di quasi sessant’anni, dal 1954 a oggi. Ciò nonostante i prodotti, da soli, non sarebbero mai riusciti a trasformare il design italiano in quel fenomeno sociale, economico e culturale che esso oggi rappresenta. Quello che pertanto l’ADI deve fare è contribuire, con la sua attività internazionale, a dare una risposta capace di spiegare quali sono le ragioni per le quali, nel nostro paese, il design sia riuscito a diventare in pochi decenni uno degli elementi caratterizzanti della nuova Italia. E per farlo occorre evidenziare che il successo del design italiano non si spiega soltanto con la qualità dei suoi prodotti, quanto piuttosto con il complesso reticolo di azioni convergenti attraverso il quale si è andata costruendo quella affascinante narrazione che è l’essenza del fenomeno italiano del design. Per ritrovare le ragioni del successo del nostro design occorre comprendere quali sono gli elementi costitutivi di questo originale discorso. E queste ragioni i prodotti non riescono, da soli, a spiegarle dato che essi di queste ragioni rappresentano esclusivamente gli esiti, i risultati finali. Alle sorgenti del design italiano Il design italiano può essere paragonato a un grande fiume la cui portata e il cui corso sono divenuti imponenti per essersi arricchiti dell’apporto virtuoso di numerosi affluenti. Tra questi possiamo individuare quello della Progettazione, quello della Produzione, quello della Distribuzione, quello della Comunicazione e quello della Formazione, adduttori tutti che hanno contribuito a formare il fiume del design così come noi lo vediamo oggi. Difficile quanto stabilire se sia nato prima l’uovo o la gallina, dire se il


design sia nato prima nella testa di un designer, che è riuscito a incantare e sedurre un potenziale produttore, o di un produttore che si è poi posto alla ricerca di un designer. Se penso alla nascita del fenomeno design nel settore dell’arredamento, mi verrebbe da dire che l’incontro tra mamma azienda e papà designer ebbe luogo grazie alle condizioni eccezionali che nell’ultimo dopoguerra trasformarono una piccola area a tradizione manifatturiera al nord di Milano, la Brianza, in un giardino dell’Eden pieno di Adami desiderosi di dare nuove forme alla mele e di Eve pronte a partorire i nuovi frutti. Sia come sia, i due principali affluenti sono certamente da individuare nel grande fiume dei designer e contemporaneamente in quello non meno importante delle aziende produttrici e/o editrici. I primi designer sono, in larga maggioranza, intellettuali e architetti che si fanno carico di reinventare il paesaggio domestico e quello urbano, progettando e dando vita a quella “foresta artificiale” che si è venuta costruendo a sostituire la primigenia foresta naturale. Sono loro a progettare i nuovi prodotti, ma anche ad avviare l’elaborazione di quella narrativa raffinata e colta che è divenuta il tratto maggiormente distintivo del design italiano. Quella narrativa che, sin dall’inizio, si sviluppa a partire dai prodotti ma non si ferma a essi, aprendosi anche ai processi, ai materiali, ai modi d’uso, ai comportamenti, ai modelli di comunicazione e di consumo e via andando, nella intelligente costruzione di un “Sistema Design” fondato sulla parola e destinato a definire un “linguaggio”. Il fiume affluente dei produttori e/o editori è guidato all’inizio da un manipolo di capitani coraggiosi che trova nella fiducia per l’innovazione e nella comune passione per il cambiamento il terreno di incontro con i designer. E dietro questi versatili pionieri una selva di piccolissime, piccole e medie imprese – i cosiddetti “terzisti” – imprenditori competenti e intraprendenti, capaci di interpretare con entusiasmo il determinante ruolo di fabbricanti di parti componenti, ma anche quello di instancabili sperimentatori di forme, materiali e processi di avanguardia. Resta ancora da scrivere una storia del design italiano che dia il meritato rilievo al ruolo determinante delle centinaia e centinaia di queste sconosciute imprese “terziste” che, pur rimanendo nell’ombra, hanno consentito al design italiano di raggiungere i suoi esiti nel mondo intero.


Altro apporto di grande momento quello offerto dagli addetti alla distribuzione, tra i quali va ricordata innanzitutto quella manciata di negozianti che furono capaci di trasformare i loro spazi commerciali in vivaci luoghi di incontro e non solo di compravendita, aprendoli alla presentazione e al dibattito dei nuovi prodotti di design, ma anche di opere plastiche, letterarie e artistiche in genere. Riuscendo in tal modo a comunicare al grande pubblico le valenze culturali e non solo funzionali e commerciali delle nuove merci e contribuendo in tal modo a dotare dei suoi riti e dei suoi miti, anche il mondo nuovo del design. Coraggio e spirito pionieristico, eclettismo e passione che hanno guidato anche molti addetti alla distribuzione impegnati in altri ruoli, interni alle aziende produttrici o al servizio del mercato. Il saper fare e il far sapere C’è poi la comunicazione, all’inizio soprattutto quella dei mensili di architettura e di arredamento, ma poi anche dei libri e degli altri media. Grazie a essa si sviluppa, attraverso la parola scritta più ancora che con le immagini, quel discorso critico che da sempre accompagna e amplifica il design illustrandone le caratteristiche di fenomeno sociale moderno e complesso, affacciato tanto sul mondo dell’economia quanto su quello della cultura. Da sottolineare l’importanza di taluni eventi divulgativi e promozionali che si sono andati sviluppando sino a divenire appuntamenti periodici come, per esempio, quel movimento corale che durante i giorni del Salone del Mobile trasforma, una volta all’anno, la città di Milano in un grande spazio di informazione e di dibattito innervato proprio dalla comunicazione. Di grande importanza infine il ruolo della formazione, che partecipa alla costruzione del sistema sin dalle sue origini, dato che l’apparizione delle prime scuole di design risale ai primissimi anni Sessanta e che cresce rapidamente con l’apparizione nelle maggiori Università del paese dei corsi di Design prima e delle Facoltà di Design a seguire. E non importa se non tutti i diplomati e laureati in Design potranno trovare lavoro come designer: quel che conta è che comunque si immettono sul mercato e nella società civile ogni anno migliaia e migliaia di persone che sanno che cos’è il design e


che, se non hanno talento sufficiente per divenire designer di successo, hanno comunque conoscenze sufficienti per trovare lavoro nella comunicazione, nella distribuzione, all’interno delle aziende produttrici e che, al limite, possono utilizzare le competenze acquisite per elevare il livello del consumo arricchendo il mercato di consumatori qualificati, liberi dai condizionamenti pubblicitari, capaci di effettuare le scelte di acquisto avvedute possibili soltanto a coloro che hanno lavorato per divenire Edonisti Virtuosi. Va infine ricordata la funzione svolta da alcuni organismi come il Cosmit, l’ente ideatore e organizzatore del Salone del Mobile di Milano, e da talune Associazioni come AIAP, AIPI e in particolare ADI, l’Associazione per il Disegno Industriale. Da quasi sessant’anni quest’ultima riunisce insieme come suoi soci, designer, produttori, distributori, ma anche giornalisti, insegnanti, critici e storici, scuole, università, enti e editori, mettendo insieme parti del sistema design che nel mercato vivono una dialettica di confronto talvolta anche vivace, mentre all’interno dell’associazione lavorano congiuntamente per lo sviluppo della loro comune passione e professione: il design. All’ADI (1956) si deve poi l’organizzazione del Premio Compasso d’Oro (1954) e la conservazione dei prodotti premiati, che vengono custoditi dalla Fondazione ADI (2001) e che nel 2004 sono stati dichiarati “beni di interesse nazionale”. Più che un ambasciatore, occorre un narratore Il design italiano è tutto questo e non può pertanto essere rappresentato esclusivamente dai prodotti che ne sono comunque gli autorevoli ambasciatori nel grande mercato globale, che è il mercato naturale anche di tutte le merci di design. Perché il design è un linguaggio universale, comprensibile da tutti e ovunque, come la musica e come l’arte e come un bel panorama; un linguaggio accessibile a tutti anche se non provoca in tutti il medesimo apprezzamento e le medesime emozioni. Nel suo processo di internazionalizzazione l’ADI deve mirare alla divulgazione di questo fenomeno. Deve andare oltre la semplice esibizione dei prodotti per raccontare al mondo come si è venuto formando il Grande Fiume del Design italiano. Perché, se i prodotti possono essere copiati, non è invece possibile riprodurre


l’“Unicità d’Italia”, quella fantastica fusione di creatività diverse che ha visto il design italiano, proprio grazie a questa sua unicità, essere chiamato l’anno scorso a celebrare con due grandi mostre l’unità del paese in occasione del centocinquantesimo anniversario della sua fondazione. Resta ancora molto lavoro da fare per promuovere e diffondere i valori positivi del buon design italiano, che resterà italiano anche se, come già avviene, sarà coniugato da designer stranieri e fabbricato all’estero da produttori stranieri. Perché nella dialettica futura tra locale e globale si esporteranno sempre meno manufatti e sempre più conoscenza, realizzando in tal modo quella trasformazione necessaria per superare le anguste prospettive dell’attuale crisi economica e finanziaria, che è anche e soprattutto crisi di modelli e di valori.

Giuliano Molineri Sinusoidi È arduo riassumere in poche pagine la complessità dei rapporti intercorsi fra ADI e ICSID, l’International Council of Societies of Industrial Design, nel corso di oltre cinquant’anni di collaborazione e di reciproco coinvolgimento. L’ADI si costituisce nell’aprile del ’56 e da subito il direttivo e il suo presidente, Alberto Rosselli, si impegnano per favorire la costituzione di una federazione tra le diverse associazioni nazionali di disegno industriale. Di fatto l’ICSID1 nasce a Londra nel giugno del 1957, con un accordo sottoscritto da rappresentanti di Stati Uniti, Canada, Francia, Italia, Germania e Giappone; e viene registrato a Parigi, prima sede della Segreteria generale, che si trasferirà nel 1974 a Bruxelles e nel 1981 a Helsinki fino al 2003, operativa quest’ultima anche come segreteria dell’ICOGRADA, l’International Council of Graphic Design Associations, l’ente mondiale per il communication design.   Il primo acronimo di ICSID, poi modificato nel ’59 a Stoccolma, fu: International Council of Societies of Industrial Designers. 1


Intento del Council è sintonizzarsi sulle politiche del design, una piattaforma universale degna di essere applicata con finalità e metodologie affini. Sono via via chiamati ad aderire, oltre alle associazioni di promozione, i professionisti della disciplina, il mondo della formazione, le corporate design oriented, il settore editoriale e della critica e, per la sfera pubblica, le istituzioni e le ONG. Per statuto l’ICSID si affida a un Board con mandato biennale, che deve concludersi con un’Assemblea generale dei soci membri chiama­ti a dibattere le tematiche professionali preminenti, a valutare il consuntivo operativo, strategico e amministrativo della gestione conclusa e a procedere all’elezione del nuovo presidente e dell’organo direttivo. A lato dell’Assemblea generale ogni paese ospitante è tenuto a curare l’organizzazione di un congresso internazionale rivolto non solo ai soci ma a tutti gli esponenti del mondo del progetto, dell’impren­di­toria, della formazione e dell’informazione, a economisti, sociologi e psicologi, a esperti di marketing, a ricercatori attenti a carpire i sintomi dei fenomeni evolutivi economico-sociali e comportamentali. In effetti le associazioni o le istituzioni nazionali con qualche anno di anticipo predispongono un dossier di candidatura da sottoporre a un’apposita commissione. Per l’ ICSID che – come l’ ADI – si regge sulle ridotte risorse rimediate dalle quote annuali degli iscritti e dal sostegno di alcuni sponsor, il congresso è assurto a veicolo di visibilità e promozione di una disciplina dimostratasi spesso dinamica e attenta a estendersi in nuovi ambiti della società. L’affermazione del “fenomeno italiano” Agli albori le due associazioni paiono agire all’unisono. Il successo del design italiano, la creatività e la qualità dei progetti e dei prodotti evidenziati dalle edizioni del Premio Compasso d’Oro sono oggetto di attenzione, di studio, di emulazione su scala mondiale. Il “fenomeno italiano” e la dinamicità dei suoi interpreti vengono presto sanciti dall’assegnazione all’Italia da parte dell’ICSID del secondo congresso e dell’assemblea che, sotto la regia dell’ADI, si svolgeranno a Venezia nel settembre 1961 (la prima edizione si era tenuta due anni prima a Stoccolma).


Alla Fondazione Cini, che ospita l’evento, viene verbalizzata una nutrita sequenza di interventi molto critici verso le concessioni di un certo design sedotto dalle tentazioni del mercato e poco incline a darsi e a rispettare un proprio codice deontologico. È Alberto Rosselli a insistere sul ruolo del designer come intermediario tra produzione e mercato orientato verso l’interesse precipuo della collettività. I segnali di un’attenzione e di una politica di apertura internazionale sono reperibili su più fronti, se il direttivo ADI 1963-64 si accorda con la rivista “Forme” perché includa le principali news sull’attività svolta da ICSID e dalle altre associazioni di design di tutto il mondo. Sotto l’impulso del direttivo e della giuria del Compasso d’Oro ’64, costituita da Dante Giacosa, Vittorio Gregotti, Augusto Morello, Gino Valle e Bruno Munari, la mostra viene allestita in concomitanza con l’apertura della XIII Triennale e viene integrata al Palazzo dell’Arte di Milano con una selezione di prodotti europei premiati da analoghi organismi esteri. Il tutto favorisce il conferimento all’ICSID di un inedito Gran Premio Internazionale. Intanto gli interessi della comunità del design italiano sono rappresentati da iniziative autonome mirate a valorizzare l’immagine del paese, le peculiarità della nostra imprenditoria e gli stimoli ideologici che la sorreggono. Vanno lette in questa chiave le quattro edizioni biennali di Eurodomus promosse dall’Editoriale Domus con intenti promozionali e commerciali dal 1966 al 1972, a cura di Cesare Casati e di Emanuele Ponzio. È la prospettiva europea a focalizzare l’attenzione internazionale del­l’ADI. A seguito del Trattato di Roma e della liberalizzazione della circolazione delle merci e dei servizi nei sei paesi comunitari, l’ADI si impegna a stilare una regolamentazione del lavoro professionale nell’area comunitaria e a promuovere l’istituzione di una federazione europea degli industrial designer. Nel gennaio 1970 i delegati delle sei associazioni nazionali (belga, fran­cese, inglese, italiana, olandese e tedesca) costituiscono il BEDA, Bureau of European Designers Associations, con il mandato di stabilire i collegamenti con le autorità della CEE, informarli dei problemi della professione e delle implicazioni economiche che la pratica del design fa registrare nel vecchio continente.


A partire dal 1971 l’ICSID lancia un progetto che nel tempo risulterà decisamente funzionale alle sue prospezioni internazionali: gli Interdesign Workshops, appuntamenti che coinvolgono gli organismi nazionali per approfondire tematiche peculiari del territorio, ma anche di ampio respiro: eco-sostenibilità, progetti per user groups, nuovi materiali, azioni di sostegno all’evolversi della disciplina del design, all’aggiornamento della legislazione in materia sul piano locale e internazionale. Invitati agli Interdesign anche i rappresentanti delle amministrazioni pubbliche, dei governi, del mondo della ricerca scientifica, della tecnologia, del diritto e della cultura. La prima edizione del 1971, si tiene in URSS, a Minsk, sul tema The production and distribution of bread. Le edizioni fra le più recenti si sono tenute in Sudafrica nel 2005 su un tema pertinente, Sustainable rural transport; in Argentina nel 2006, Retail Design; in Svezia nel 2009, City Move (un paese e una comunità a economia mineraria costretti a traslocare e riposizionarsi su un’altra parte del territorio). Un secondo progetto ICSID che coinvolge interessi transnazionali è costituito dai Regional Meeting, lanciati con l’intento di approfondire le relazioni fra aree economiche affini in paesi limitrofi. Dal cucchiaio alla città L’Italia non ha sinora mai ospitato nessuno di questi due programmi coordinati dall’ICSID, dimostrando di voler puntare sul­ l’efficacia dei rapporti bilaterali consolidati spesso dallo scambio di mostre – la più richiesta quella del Compasso d’Oro – dalla promozione di convegni fra atenei e istituzioni, ecc.2   Una conferma dell’adesione “ad andamento alterno” dell’ADI ai progetti e agli eventi promossi dal Council è data dalla constatazione che, pur fornendo costantemente delegati e relatori ai congressi, la rappresentanza italiana ha promosso l’elezione di un ridotto numero di membri del Board: Enrico Peressutti (1957-59), Angelo Cortesi (1989-92 e 1992-93), Augusto Morello (1995-97), Giuliano Molineri (2003-05 e 2005-07); di vicepresidenti (Enrico Peressutti (1957-59), Alberto Rosselli (1961-63), Marco Zanuso (1963-65), Gino Valle (1967-69 e 1969-71), Rodolfo Bonetto (1971-73 e 1983-85), Carla Venosta (1979-81) e di presidenti (Rodolfo Bonetto, nell’81-83, Augusto Morello (1997-99 e ’99-2001). Legate al movimento italiano ma di fatto figure 2


L’inizio degli anni Settanta fa registrare un calo di “pressione” nei rapporti fra ADI e ICSID, al punto da provocare in via Montenapoleone, storica sede dell’ADI, il dibattito sulla convenienza o meno di confermare l’adesione al Council. In una lettera al direttivo del settembre 1974 Rodolfo Bonetto sottolinea come l’ADI “subisca” l’ICSID senza portarvi alcun diretto contributo “ad eccezione della quota annuale”. Questa voglia di camminare da soli per le strade del mondo trova sostegno dal successo della rassegna organizzata nel 1972 da Emilio Ambasz al MoMA Italy, the new domestic landscape. Achie­ vements and Problems of Italian Design. La creatività, la curiosità interpretativa – ironica e provocatoria – della visione del futuro, la metodologia progettuale e produttiva dei marchi italiani del design occupano la scena mondiale e confermano un ruolo di leadership capace di attrarre su Milano e l’Italia nuove relazioni e potenzialità di business da parte di molti Paesi europei, del Giappone, della Corea… L’indicatore torna verso l’alto con la nomina a vice-presidente del Board ICSID di Carla Venosta, in occasione dell’XI Assemblea del Council che si tiene a Parigi al Centre Pompidou. La Venosta e l’ADI formalizzano il progetto di ospitare gli appuntamenti biennali dell’ICSID a Milano. Nel corso della successiva XII Assemblea, a Helsinki, su candidatura ADI, Rodolfo Bonetto viene eletto presidente del Council e favorisce la proposta italiana di designare Milano come sede delle due manifestazioni per l’autunno dell’83. Con l’apporto di ADI, del Comune di Milano, della Triennale, di Assarredo (sponsor la Philip Morris), i convenuti alle giornate di Milano si interrogano sul ruolo e sulle responsabilità del design all’insegna di un tema tanto affascinante quanto impegnativo: Dal cucchiaio alla città. Un fitto calendario di incontri e dibattiti predisposti dal comitato pro­motore e da un comitato scientifico (Antonio Barrese, Rodolfo Bonetto, Angelo Cortesi, Gillo Dorfles, Gianfranco Frattini, Carla Venosta) si ripartisce fra il Teatro Dal Verme e il Palazzo internazionali, quelle di Tomás Maldonado, membro nel ’65-67 e presidente nel ’67-69, e di Gianfranco Zaccani, di Design Continuum (tre volte membro nel ’92-93, nel 93-95 e nel 2003-2005).


delle Stelline, mentre al Palazzo dell’Arte al parco Sempione è allestita la mostra ufficiale del congresso: Dal cucchiaio alla città nell’itinerario di 100 designer, una selezione di studi, di scuole, di industrie, di gruppi/la­boratorio e movimenti sotto la curatela di Carla Venosta. Il Padiglione di Arte Contemporanea ospita la mostra/manifesto È design. La grafica, materia a tutti gli effetti appartenente alla sfera del design – promossa con passione in molteplici circostanze in sede nazionale e internazionale (nel BEDA) da Giancarlo Iliprandi – coglie l’oppor­tunità dell’incontro milanese per presentare il proprio stato dell’ar­te con una rassegna alla Galleria del Sagrato: Visual design 1933-1983 – cinquant’anni di pro­ duzione in Italia. Accanto a testimonianze sul car design sottolineate dall’allestimento di Alfa Romeo nell’ottagono della Galleria (tema: La for­ ma dell’auto nel tempo e nello spazio), alla Galleria del Naviglio una rassegna ordinata da Gianpaolo Pavesi ha il pregio di ufficializzare l’ingresso dello strategico comparto della moda nell’Italia del design. Per l’impegno critico, l’autorevolezza dei relatori, la profondità e coralità dei temi affrontati, quello di Milano rimarrà uno dei Congressi più citati e apprezzati nella storia dell’ICSID3. Vent’anni dopo Devono trascorrere quasi vent’anni per registrare un ritorno di fiamma nei rapporti fra le due associazioni, quando a fine anni Novanta Augusto Morello assume la presidenza ICSID per il 1997-99 e la man­tiene – caso unico, difficilmente ripetibile – anche per il mandato successivo, 1999-2001. L’impegno di Morello in ADI, i rapporti con il mondo imprenditoriale, le relazioni internazionali a sostegno del design italiano, l’attività congressuale ed editoriale di questo indiscus­so testimone della disciplina, tanto avvezzo a vola  Il n. 2 del fascicolo ADI Notizie del febbraio 1974 è stato dedicato ai rapporti ADI-ICSID. Per approfondimenti sulla tematica sviluppatasi tra ADI e ICSID e sulla dialettica culturale ad essi sovrastante, si consiglia la consultazione del volume L’Italia del Design. Trent’anni di dibattito di A. Grassi e A. Pansera, Marietti, Milano 1986, cui la presente succinta analisi fa spesso riferimento. 3


re alto sul­l’onda di metafore e colte citazioni letterarie quanto pratico nell’inda­gare i fenomeni del marketing e a suggerire strategie perseguibili dall’industria del design, non possono essere qui affrontate4. Constatiamo invece che, sul piano geopolitico, dopo il “regno” di Augusto Morello è venuto ad affievolirsi il ruolo eminentemente eurocentrico dell’ICSID. Dopo Parigi e Bruxelles, con il mandato di segretaria generale a Karina Pohto, l’headquarter del Council si era trasferito a Helsinki per rimanervi per quasi vent’anni. Con la nomina a presidente di Luigi Ferrara (2001-2003), cattedratico canadese di origini italiane, subentra alla segretaria generale Dilki De Silva, che predispone un progetto volto a individuare una nuova sede mondiale del Council logisticamente più rispondente al mutato scacchiere mondiale del design. Nel 2005 l’ICSID lancia un bid per sollecitare la candidatura di quelle città del mondo interessate ad ospitare la sede del segretariato e ad offrire nel contempo benefit e/o sostegni economici. Ben 34 sono state le città e le capitali partecipanti alla selezione operata da una giuria internazionale. Montreal e Torino risultarono le finaliste. La capitale del Québec, sostenuta dall’ente pubblico per l’internazionalizzazione si aggiudicò la nomina. L’elegante sede che si affaccia sulla centrale St. Antoine West viene inaugurata nel maggio 2005. I locali ospitano, oltre a quella dell’ICSID, anche la segreteria generale dell’ICOGRADA e fungono da sede centrale anche per l’IFI, Federation of Interior Architects/Designers, sinergica per attuare collaborazioni multidisciplinari verso istituzioni mondiali (in primis ONU e UNESCO), governi, il mondo della cultura, del­l’in­for­ma­ zione e degli affari mantenendo come primaria la qualità della vita sociale. Le tre associazioni dialogano da anni con l’intento di giungere a una “fusione”. Per il momento, con l’istituzione collegiale del­ l’IDA, l’International Design Alliance (fondata ufficialmente nel 2003 fra ICSID e ICOGRADA, allargata nel 2008 all’IFI) le tre istituzioni risultano coordinate per le politiche generali e la promozione di parecchie iniziative comuni.  A. Morello. Visioni della Modernità, Triennale di Milano-Electa, Milano 2009. 4


Le capitali mondiali del design Sotto la presidenza di Peter Zec del Design Center del Nord Reno Westfalia di Essen (2005-2007), nel 2005 ha preso avvio il programma “World Design Capital” per individuare e dare visibilità al movimento del design così come si fa strada in più scenari del mondo. L’aggiudicazione della nomina ICSID WDC avviene a concorso e a sottoposizione di dossier di candidatura da parte degli organismi nazionali. Solo per Torino, amministrazione civica e comunità del design che si erano favorevolmente distinte nel concorrere per la Segreteria, l’ICSID ha agito con una nomina diretta, considerando il capoluogo piemontese una “città pilota” in grado di sperimentare e collaudare le potenzialità del progetto. In effetti nel 2008, anno di Torino WDC, il designato comitato organizzatore ha promos­so e coordinato un numero importante di mostre, eventi, convegni a testimonianza della vitalità del design non solo locale ma nazionale. L’ADI che a suo tempo, presidente Carlo Forcolini, in mancanza di una reazione positiva da parte del Comune di Milano al bando dell’ICSID, aveva incoraggiato Torino a concorrere per la designazione della sede della Segreteria generale dell’ICSID, ha assicurato, sotto la presidenza di Luisa Bocchietto, tutto il sostegno alla città deliberando che anche l’edizione del XXI Premio Compasso d’Oro con la mostra storica della Collezione del Compasso d’Oro dal 1954 al 2004 e la mostra della ventunesima edizione, fossero allestite alla Reggia di Venaria Reale sotto le stupende arcate delle Scuderie juvarriane (cerimonia finale di conferimento dei premi nel piazzale della Reggia). Dopo Torino la nomina a WDC è passata a Seul nel 2010 ed è in corso Helsinki 2012. Cape Town sarà la World Design Capital del 2014 avendo superato in finale le candidature di Bilbao e Dublino. Il programma WDC si sta dimostrando strategico per l’ICSID sul piano geo-politico con focolai di visibilità decisamente efficaci e con ritorni economici a sostegno del proprio budget annuale. Il rischio che la pre­dilezione della Segreteria e del Council si orientino verso quelle realtà del design sorrette da straordinarie risorse governative (vedi Seul) è in parte scemato con la nomina della metropoli sudafricana, che attuerà un progetto basato sul contesto economico-sociale non solo del Sudafrica ma dell’intero con-


tinente. Tema prescelto per il congresso di Città del Capo Live De­ sign Transform Life. Non si esclude che a concorrere in futuro per la nomina a WDC possano essere più città e nazioni in rappresentanza di un vasto contesto economico-geografico (l’America del Sud, ad esempio). Quanto agli appuntamenti mondiali a Taipei, nel settembre 2011, sono stati indetti l’Assemblea generale ICSID e il I Congresso IDA aperto in forma collegiale alle tre associazioni partner. La prossima XXVIII Assemblea ICSID e il II Congresso IDA 2013 sono stati assegnati a Istanbul e verranno organizzati dalla Technical University della metropoli turca. Scaduto a Taipei il mandato del presidente americano Mark Breitenberg (2009-11) è attualmente in carica per il 2012-2013 il coreano Soon-In Lee. L’assemblea sull’isola taiwanese ha ratificato anche la posizione di President Elect per il 2014-2015 del giovane australiano Brandon Gien, che in precedenza aveva rivestito la carica di tesoriere5. ICSID e l’EXPO Ed eccoci ai nostri giorni: terminata a fine 2007, per scadenza del mandato di chi scrive, la presenza di un membro italiano nel Board ICSID6, l’attuale Comitato direttivo ADI, sotto la presidenza di Luisa Bocchietto, ha mantenuto costanti rapporti con la Segreteria generale e il Council e ha ottenuto che uno dei quattro meeting annuali del Board previsti per il 2013 si tenga in aprile a Milano, in concomitanza con il Salone del Mobile. Il disegno a medio termine   Il bilancio annuale dell’ICSID, società non-profit, si mantiene su quote piuttosto modeste: le uscite nel 2005 erano state di € 294.000, nel 2010 di € 457.000 e le entrate 2010 sono risultate 562.000, con utili destinati a finanziare nuovi progetti e in parte agli accantonamenti. I proventi arrivano per il 54% dalle quote di membership, il 40% sponsorship e il resto sono ricavi dalle città WDC e sussidi vari. Il numero dei membri risulta costante fra dimissioni e nuove entrate. A fine 2011 i membri erano 173 (3 Africa, 66 Asia, 63 Europa, 12 America Latina, 23 Nord America, 6 Oceania). Per appartenenza: una larga maggioranza gli atenei e tutto il settore Educational e a seguire le associazioni di promozione, Promotional, con un ridotto numero di associazioni di categoria, Professional, e di Corporate. 6   Nominato, unitamente ad Angelo Cortesi, ICSID Advisor per l’Italia. 5


è quello di coinvolgere ICSID in una serie di eventi italiani da programmare per l’EXPO 2015, capaci di confermare il prestigio e la vitalità dell’intero nostro mondo del progetto. Ciò non toglie – questa è una riflessione di carattere del tutto personale – che, in ragione della drammatica crisi economico-finanziaria attraversata dal nostro paese, l’ADI non possa pensare di farsi promotrice di iniziative non solo mirate al sostegno della professione e al consolidamento delle relazioni internazionali ma anche alla vitalizzazione commerciale del settore del design. Ben vengano le referenze culturali, sociali e storiche dell’erigendo museo della Collezione storica del Premio Compasso d’oro di Milano e l’Esposizione Permanente del Made in Italy e del Design Italiano aperta al Palazzo della civiltà italiana all’EUR, promossa dalla Fondazione Valore Italia e dal ministero dello Sviluppo economico. Se esse sono e saranno in grado di certificare ai visitatori e agli operatori in visita da noi le peculiarità della nostra vicenda, pare giunto il tempo di incoraggiare con convinzione la nascita di strumenti mirati a promuovere collegialmente le vendite del prodotto di design italiano all’estero. Si potrebbe pensare a un contenitore da progettare e da affidare in franchising a tutti gli investitori internazionali che credano nella qualità e redditività dei nostri prodotti. Oscar Farinetti con Eataly sta dando segnali forti nel settore alimentare: governo e istituzioni lombarde e italiane unitamente alle organizzazioni espositive della nostra categoria debbono lanciare questo progetto di department store del Made in Italy che avrebbe anche la funzione di liberare i produttori dalle angustie della distribuzione monomarca. Se la collaborazione con ICSID potrà procurarci risultati obiettivi, la complessità e le angustie del nostro contesto, ci impongono ancora una volta di inventare ulteriori strumenti idonei alle nostre specificità.



ISSN 0030-3305

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