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gennaio 2013
numero 146
Common Ground - Per il centenario di Jackson Pollock - Design: segni del tempo - Interni d’avanguardia. - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli
Electa Napoli
Selezione della critica d’arte contemporanea
rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Emma Labruna, Livio Sacchi Segreteria di redazione: Ciro Olisterno Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 081/7690783 Amministrazione: 80146 Napoli, Via F. Imparato, 190 - Tel. 081/5595114 Un fascicolo separato e 9.00 (compresa IVA) - Estero e 10.00
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A. Castagnaro, R. Pasini, P. Nunziante, I. Forino,
Common Ground Per il centenario di Jackson Pollock Design: segni del tempo Interni d’avanguardia Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI
Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Jacopo Leveratto, Dario Russo, Paola Scala, Massimo Visone
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Common Ground ALESSANDRO CASTAGNARO
La tredicesima Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale di Venezia, dal titolo Common Ground è stata affidata in questa sua edizione 2012 alla direzione artistica di David Chipperfield. Anche se l’esposizione è ormai conclusa tratteremo con questo scritto le sue innovazioni e criticità nella misura in cui rappresentano, o cercano di rappresentare, la complessa ed articolata situazione dell’architettura oggi. L’idea guida dell’esposizione è chiara con il suo duplice significato legato all’architettura nella sua accezione più vasta, profonda e complessa: esplorare il terreno comune dell’architettura; da un lato lo spazio fisico che lega le architetture tra loro, dall’altro lo spazio intellettuale che lega architetti di diverse generazioni e luoghi attraverso storie, esperienze, culture, tecniche, materiali. Infatti, secondo il presidente della Biennale, Paolo Baratta il titolo-tema ha l’obiettivo forte di ridare una valida connotazione al ruolo dell’architetto, segnato da una frattura sempre più marcata e visibile con l’ambito della vita individuale e sociale: per sanare tale frattura La Biennale può dare il suo contri buto innanzitutto ponendo questi come suoi temi. Senza negare che esiste il problema del rapporto fra architettu ra ed ecologia, architettura e tecnologia, architettura e urbanistica, il nodo centrale è rimediare allo scollamento tra architettura e società civile. A partire dalla provoca zione di Aaron Betsky per il quale l’oggetto costruito è la
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tomba dell’architettura, per arrivare a Kazuyo Sejima, che considera l’architettura attraverso il linguaggio del la sua civiltà e costruisce opere il cui messaggio è l’assen za di gerarchie e il rispetto delle funzioni ottenuto attra verso trasparenze e semplicità di forme. Da lì a Com mond Ground, […] il passo è breve ma nella stessa dire zione: tornare a parlare di architettura per aiutare gli architetti a uscire dalla crisi d’identità che stanno viven do, e nello stesso tempo offrire al pubblico di guardare dentro l’architettura, rendersela familiare e scoprire che ad essa si può chiedere qualcosa, che il diverso è possibi le, che non siamo condannati alla mediocrità1. Indubbiamente l’intento dichiarato è forte e pretenzioso ed è da verificare quanto l’esposizione sia riuscita a tener fede alle finalità citate: non solo quindi a trasmettere il messaggio, per cosi dire, agli addetti ai lavori, ma a tener fede al più arduo compito di incidere in qualche misura sulla società nell’accezione più ampia del termine. Ritornando al titolo Common Ground, la necessità dichiarata di Chipperfield è quella di ritrovare al di là delle diverse storie, tradizioni, interessi ed aspetti specifici un comune denominatore che può considerarsi la base di quella che potremmo definire una cultu ra architettonica. Inoltre è una piattaforma di partenza per il dialogo, il dibattito, l’opinione. […] Non voglio smarrire il tema dell’architettura in un pantano di spe culazioni sociologiche, psicologiche o artistiche, ma piut tosto cercare di ampliare la comprensione del contributo specifico che l’architettura può dare nella definizione del terreno comune della città. Il tema è un atto deliberato di resistenza all’immagine dell’architettura diffusa oggi dalla maggior parte dei media fatta di singoli progetti che scaturiscono dalle menti di talenti individuali già pienamente compiuti. Vorrei promuovere il fatto che l’architettura è fortemente legata, intellettualmente e praticamente, alla condivisione di problemi, influenze e intenti2. Non vi è alcun dubbio che tramutare degli intenti teorico-ideologici in una mostra espositiva spesso è un compito
arduo, difficile e talvolta anche impossibile. Pur ricercando nella storia dell’architettura matrici comuni, opere paradigmatiche che hanno avuto l’intento di rappresentare dei «modelli» che hanno evidenziato talvolta un linguaggio comune di qualità, non possiamo trascurare il divario oggi esistente tra opere dello star system ed il territorio circostante, il paesaggio e l’edilizia corrente, priva talvolta, di qualsiasi valenza architettonica. Con questo intento di ricerca si è anche tentata a Venezia una retrospettiva sul mestiere dell’architetto fondato su un sapere comune, su una scienza che da secoli si tramanda non solo attraverso testi e trattati ma soprattutto attraverso gli edifici che costituiscono le nostre città. Per dimostrare ciò è stato chiesto ad ogni personalità coinvolta nell’esposizione Common Ground di realizzare un’installazione capace di rendere fisico, divulgabile, il dialogo tra l’architettura personale, fatta dai singoli, e tutte le istanze che concorrono alla gestazione di quell’opera. Infatti Chipperfield sostiene: Il tema della Biennale era una provocazione rivolta ai miei colleghi affinchè dimo strassero il loro impegno in questi valori comuni e condi visi; li incitava ad abbandonare la presentazione mono grafica della loro opera per mirare invece ad un ritratto delle collaborazioni e affinità presenti dietro il proprio lavoro. La grande energia e impegno con cui essi hanno aderito a questa iniziativa sono una testimonianza del loro proposito e una conferma di ciò che sappiamo ma non esprimiamo con sufficiente evidenza, ossia che nono stante la diversità dei nostri interessi, storie e idee, condi vidiamo di fatto un “terreno comune”3. Proprio nella individuazione e nell’interpretazione di queste matrici accomunanti vanno ricercate le maggiori originalità, che dovrebbero caratterizzare quel fil rouge auspicato dal curatore, ma che invece talvolta divengono elementi artistici volti sopratutto alla ricerca della propria individualità. Nei lavori dei personaggi dello star system internazionale sono evidenziati i maggiori interessi ma anche le maggiori contraddizioni. La mostra affidata a Peter Eisenman – che mette in essere una squadra costituita da Eisenman Architects, da stu-
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denti della Yale University, da Jeffrey Kipnis e dallo sudio di architettura belga Dogma – propone una risposta al lavoro di Piranesi sul Campo Marzio a Roma, con plastici uniformati in foglia di oro, ma con l’intento non di dare una lettura di tipo archeologico della Roma Antica, bensì di attuare un “esperimento architettonico” alla ricerca di matrici fondanti della progettazione. Nel lavoro di Zaha Hadid, pur riconoscendo le sue prime sperimentazioni nell’analisi e nella reinterpretazione del suprematismo russo, sono state in seguito abbandonate per privilegiare la generazione del la forma algoritmica quando lo studio ha preso ad ap prezzare la creazione di pionieri come Frei Otto che ha realizzato i progetti più eleganti per mezzo di processi materiali-strutturali di individuazione della forma. […] ZHA ha ampliato il metodo di Frei Otto contemplando logiche ambientali oltre che strutturali e spostandosi dalle simulazione materiali a quelle computazionali. Il campo specifico di ricerca esplorato nella presente in stallazione coincide con il territorio degli involucri leg geri combinati con strutture in tensione. […] Qui, per la prima volta, i due mondi si integrano, con un involucro di metallo pieghettato4. Da un estremo all’altro si passa al rigorismo minimalista di Alvaro Siza Vieira – insignito, in questa edizione veneziana del Leone d’Oro alla carriera – ed Eduardo Souto de Moura, un sodalizio vincente che accomuna con progetti e ricerche i due architetti portoghesi da quasi un quarantennio. Qui reinterpretano il “sistema muro”, visto attraverso l’impianto urbano di Venezia: tre pareti sfaccettate, senza collegamenti, ma intrecciate, creano lo spazio compatto ricavato dalle calli lagunari. Mentre il piccolo percorso di Souto de Moura trova posto lungo il canale e sembra nascere dalla gialla terra che ricopre il suolo del passeggio, incornicia particolari ‘quadri veneziani’, inducendo il pubblico alla meditazione e alla riflessione sul costruito, i purpurei muri di Siza, che già dal colore richiamano le strutture esistenti nel complesso dell’Arsenale, inducono al silenzio e alla concentrazione, alla meditazione necessaria alla frui-
zione di uno spazio. Radix è il nome della installazione rea lizzata dagli architetti portoghesi Francisco e Manuel Mateus, i quali lavorano l’architettura con la ricerca di percezioni sensoriali; essi hanno realizzato un’aggiunta alle Gaggiandre dell’Arsenale – i due cantieri navali che si affacciano sulla grande darsena interna e che furono progettati da Jacopo Sansovino tra il 1568 e il ’73 – costituita da un arco sostenuto su tre punti, mentre il quarto angolo è sospeso sull’acqua, con una leggerezza apparentemente impossibile. Notevole il valore dell’allestimento dei tre gruppi Grafton Architects con Paulo Mendes da Rocha, Toshiko Mori e Valerio Olgiati. I due architetti irlandesi, appena terminato il progetto per un campus universitario a Lima in Sud America, hanno esplorato le radici formali comuni a due culture molto lontane tra loro: attraverso il confronto tra la forma del complesso monumentale di Machupicchu in Perù e lo Skellig Michael Monastery in Irlanda, arrivano a definire come la tipologia dello ‘stadio’ sia la rappresentazione emblematica dello spazio della comunicazione. Con modelli dalla scala paesaggistica a quella del dettaglio, decostruiscono il loro lavoro confrontandolo con il celebre edificio dello stadio Serra Dourada di Paulo Mendes da Rocha evidenziandone le comuni radici concettuali e formali. Un esercizio manifesto di una metodologia di lavoro che accomuna in maniera trasversale nel tempo grandi maestri a “giovani” architetti. Nell’eterogeneità delle mostre, particolare attenzione merita quella interpretata da Rafael Moneo, che vede nella città “common ground” un terreno comune e un ambiente fertile in cui le idee degli architetti trovano ispirazioni e divengono realtà5. Infatti, esplicita il suo contributo con l’esposizione di una serie di progetti realizzati lungo il Paseo de la Castellana di Madrid: il Bankinter, il Banco di España, il Museo Thyssen-Bornemisza, l’ampliamento del Museo del Prado e la stazione ferroviaria di Atocha, interventi tutti rappresentativi di casi paradigmatici sulle tematiche del terreno comune nel rapporto tra antico e nuovo nei centri storici europei, i quali possono, qualora ce ne fosse
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ancora bisogno, confermare non solo la possibilità ma anche la necessità di analoghi interventi che vadano a segnare il libro della storia delle città con la pagina della contemporaneità. Toshiko Mori, avendo avuto l’opportunità di avere in maniera diretta o indiretta rapporti con maestri del calibro di Marcel Breuer, Philip Johnson, Frank Lloyd Wright, Paul Rudolph e Ludwig Mies van der Rohe, rappresenta cinque particolari a grande scala dei suoi progetti ritrovando nelle opere dei “grandi” una sorta di terreno comune che gli consente di instaurare dialoghi paralleli. Tra le mostre di maggiore attrazione con un forte ed interessante taglio critico interpretativo è quella curata da Fulvio Irace che, grazie alle foto di Pino Musi, ai disegni di archivio ricercati da Gabriele Neri, e da tre filmati di Francesca Molteni della Muse Factory legge le interpretazioni di un significativo momento dell’architettura italiana del secondo dopoguerra. Si espongono opere milanesi di Caccia Dominioni, Ponti, Gardella, Magistretti, Mangiarotti, Morassutti e Asnago e Vender quando Il condominio divenne la forma più attraente della moderna metropoli […] Sul la superficie di quelle strutture l’ideale di essere “assolu tamente moderno” prese la forza di un manifesto. Le fac ciate stavano a indicare un mondo di esattezza e di preci sione tecnica. Esse costituivano un paesaggio di luci scin tillanti dove tutto sembrava non toccare il suolo6. Diverso il caso di Alberto Campo Baeza che si pone il problema di trovare un terreno comune nella progettazione della casa; la ricerca in quella di Adamo nell’Eden descritta da Joseph Rykwert, nella capanna di Laugier, ma anche nella rotonda palladiana, o in casa Muller di Loos, in villa Tugendhat di Mies o in altre di Kahn o di Alvaro Siza Vieira, sostenendo che queste case esposte sono diventate degli archetipi dell’architettura domestica: espressioni puris sime delle idee architettoniche del passato e del presen te, ma anche fonte di ispirazione per l’innovazione futu ra. Egli sostiene che noi architetti dobbiamo creare le migliori case possibili per il nuovo millennio. I nuovi tipi di case7.
Interessante anche scoprire il mondo di architetti come Peter Zumthor apparentemente poco aperto al dialogo e al confronto che ora si affida ad un maestro della cinematografia architettonica, Wim Wenders, per la realizzazione di un docufilm intitolato ‘Peter Zumthor at work’ da cui emerge la figura dell’autore carico di emozioni, di dubbi, di sensibili gesti che si riflettono con immediatezza nelle sue raffinatissime architetture; il film svela un carattere dalla forte sensibilità che difficilmente si concilia con l’immagine talvolta costruita attorno alla sua figura. Tante altre mostre di autori noti e meno noti collaborano a dare un quadro della situazione sia interpretativa che di lettura molto variegato, che spazia da matrici ora ricercate nella storia dell’architettura, ora nella più esasperata tecnologia, ora in un forzato minimalismo ora nell’accentuata ricerca del verde, del paesaggio o di una ecologia, talvolta esasperata. Non molto diversa è apparsa la situazione di eterogeneità espositiva dei 53 padiglioni a partecipazione nazionale da quello dell’Albania a quello del Venezuela. Certamente nello scenario generale colpiscono paesi come la Russia, un tempo ritenuti il fanalino di coda rispetto ad una globalizzazione tecnologica dei paesi occidentali. In questa edizione Grigory Revzin, commissario del padiglione e Sergei Tchoban curatore della Mostra, hanno proposto una soluzione espositiva innovativa, che combina l’architettura evoluta ed i progetti urbanistici attraverso una concezione unitaria basata sull’uso dei più recenti mezzi di visualizzazione. Infatti, le superfici murarie del padiglione, compresa la cupola semi sferica del salone centrale, sono rifinite con pannelli in acciaio a disegni perforati che corrispondono ai codici QR. Attraverso dispositivi elettronici personali è possibile visionare disegni, filmati e foto della moderna città innovativa di Skolkovo. Anche la Romania, pur avendo un profondo e radicale attaccamento al territorio reale e geografico, presenta delle utopie che trascendono i confini nazionali creando un Common Ground tramite l’esigenza di offrire soluzioni a problemi universali im pellenti di natura ecologica, sociale, tecnologica o urba
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nistica. Il progetto crea un paesaggio onirico, una corni ce espositiva per una serie di opere locali che illustrano, ciascuna a modo proprio, le possibilità di miglioramento della realtà8. Se da una visione generalizzata non possiamo trascurare una avvertita sensazione di eterogeneità oscillante tra accenti di neoeclettismo ed una spiccata ed avanzata ipertecnologia, ci corre d’obbligo un approfondimento sull’esposizione curata da Luca Zevi in collaborazione e sinergia con l’Inarch ed intitolato Le quattro stagioni. Architetture del Made in Italy da Adriano Olivetti alla Green Economy nel vecchio ma suggestivo padiglione alle Gaggiandre dedicato all’architettura italiana per volontà della DARC, la direzione generale per l’architettura e l’arte contemporanea del Ministero per i Beni e le attività culturali e inaugurato con la mostra Vema curata da Franco Purini nel 20069. Nonostante la qualità dell’allestimento e l’attenta cura espositiva del Padiglione Italia, alcune perplessità sono emerse in maniera diffusa. Illustrare il “prototipo” Olivetti, attribuendogli la paternità e la “prima stagione” del Made in Italy, significa in primo luogo comprenderlo e scrostarlo dai luoghi comuni con cui una concezione riduttiva della modernità l’ha avvolto: Adriano è un sognatore, certamente, ma la sua visione è rigorosamente pragmatica, da un lato, e proiettata verso un futuro comune, capace di non ignorare – e anzi di far tesoro – della molteplicità delle “differenze” italiane. Lungi dal l’essere alimentata da una sorta di nostalgia pre-moderna, la sua assunzione di Ivrea, ovvero di una città di dimensioni contenute, quale campo di sperimentazione di una prefigurazione illuminata del futuro del nostro Paese è dettata da una consapevolezza profonda del carattere plurale dell’“Italia delle cento città”, tutte potenzialmente facenti parte di un sistema-paese integrato eppur gelosa, ciascuna, della propria originalità e della propria, legittima e proficua, autonomia10. La scelta di dedicarlo all’opera di Adriano Olivetti – un personaggio che ha sempre spaziato dall’imprenditoria al
pensiero sociale e politico, dall’urbanistica all’architettura, dal design alla grafica, dall’arte alla letteratura, che con la sua azione ha prefigurato scenari allora del tutto inediti di una imprenditorialità sicuramente innovativa – è apparsa vincente e in linea con quei principi voluti da Chipperfield. La spiccata personalità, la stretta sinergia instaurata con i Nizzoli, il gruppo BBPR, Figini e Pollini, Eduardo Vittoria, Ignazio Gardella, Luigi Cosenza, Pietro Porcinai e tanti altri, è tangibile nelle fabbriche Olivetti da Ivrea a Pozzuoli ed in tutte le architetture collegate. L’opera di Olivetti portò la sperimentazione architettonica italiana ad essere apprezzata e studiata da politici, da industriali e soprattutto dalla gente comune, che usufruiva e godeva di tali architetture, sia nei luoghi di lavoro che in quelli domestici, mirando a quella riduzione del divario tra architettura e società, oggi tanto auspicata. Se, un tempo, Adriano Olivetti poteva apparire un utopista, oggi – con le critiche situazioni economiche generali, con i tempi che sono mutati repentinamente, con l’attuale carenza di finanziamenti pubblici e nella sempre più sentita esigenza di interventi privati fondamentali per un ruolo pregnante nell’economia del paese – la sua figura di imprenditore colto, intelligente, dalla moderna visione dell’imprenditoria privata, assume più di prima un ruolo di grande importanza. Ed infatti a Venezia, nel padiglione Italia ampio spazio è stato dato a progetti da lui voluti, con plastici e disegni, molti dei quali forniti dalla Fondazione Olivetti di Ivrea. La gran parte del Padiglione, denominato Un padiglione Italia sostenibile, è stato dedicato alla Green Economy compreso il lavoro di Michelangelo Pistoletto Italia riciclata 2012 tant’è che Luca Zevi scrive Oltre a documentare le “quattro stagioni” dell’architettura Made in Italy, abbia mo cercato di coordinare una lettura multidisciplinare di una realtà complessa. Ma non aspiriamo a cambiare mestiere. Il common ground che offriamo nella mostra e nelle pagine che seguono, rappresenta per noi, in termini edilizi, nient’altro che il basamento sul quale edificare una prefigurazione visionaria e concreta di assetti terri
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toriali inediti alla quale, dopo tanto aver assorbito da al tri campi del sapere e dell’operare, non ci si può sottrar re. Agli albori del secolo passato e nei primi decenni se guiti alla seconda guerra mondiale grande è stato l’im pegno degli architetti italiani nel tentare di delineare itinerari di modernizzazione possibili per il nostro paese. Un impegno che è andato affievolendosi prima a causa dell’iper-politicizzazione dell’attività professionale e poi con l’illusione che il libero gioco del mercato avrebbe ri solto come per incanto i gravissimi squilibri territoriali di cui soffriamo11. L’intento prevalente, che ha caratterizzato il padiglione Italia, è stato quindi quello di esporre verde, verde, verde, Green Economy, pur avendo presentato su supporti video, dalla non facile ed immediata lettura, una serie di interventi legati alla produzione industriale di qualità, suddivise in diverse sessioni: Architettura della Fabbrica, Direzionale Diffuso, Architettura del paesaggio Agricolo, Recupero e Riconversione Produttiva, e Densificazione. Tra queste lo Stabilimento e Uffici Sambonet di Orfengo (No) su progetto del 2012 di Frigerio Design Group; gli uffici direzionali I Guzzini a Recanati su progetto di Mario Cucinella del 2002; il progetto del complesso Brin 69 su progetto dello studio Vulcanica, realizzato nell’ambito dell’iniziativa Naplest, a Napoli che con qualità sta segnando la rinascita dell’area orientale della città, un’area un tempo industriale ma poi abbandonata e degradata. Concordiamo pienamente con il quadro contestuale italiano espresso da Bernardo Secchi più di 20 anni fa sulle pagine di «Casabella»: Lo spazio entro il quale vivremo i prossimi decenni è in gran parte già costruito. Il tema è ora quello di dare senso al futuro, attraverso modifica zioni alla città, al territorio, ai materiali esistenti12. Non crediamo però che le sperimentazioni prevalenti italiane, adottate negli anni più recenti, siano state basate sull’architettura del paesaggio, sul trattamento del verde agricolo, al pari di altri paesi, dalle analoghe caratteristiche ed esigenze come la Francia, l’Olanda, la stessa Germania, che recente-
mente hanno prodotto interventi di grande qualità ed innovazione, legati tra l’altro all’ecologia, all’impatto ambientale, caratterizzando in maniera positiva il paesaggio, il territorio, il verde, la Green Economy. Se l’intento della Biennale in genere, è quello di esporre i prodotti dell’arte di avanguardia, intesa come prodotto di sperimentazione e di anticipazione, e non quello di assumere un carattere intenzionale che tenta una prefigurazione visionaria, non sarebbe stato più opportuno puntare ad esporre quei lavori che mirano all’esaltazione e alla caratterizzazione dell’arte italiana? La ricchezza e la specificità ottenuta dai beni culturali da restaurare, salvaguardare e valorizzare, grazie a contributi teorici e progetti del “costruire nel costruito” ha portato l’Italia a quella innovazione studiata e assunta a modello da culture differenti. In altre parole, forse sarebbe stato più opportuno puntare su quei caratteri di italianità dell’architettura italiana, che conferiscono al nostro paese l’unicità che nell’esposizione di questa Biennale sembrano alquanto trascurati.
P. Baratta, Introduzione, in Common Ground catalogo della Biennale Architettura 2012, Marsilio, Venezia 2012. 2 D. Chipperfield, Introduzione, ivi. 3 D. Chipperfield, op. cit. 4 Z. Hadid, Arum, in Common Ground, cit., p. 158. 5 R. Moneo, The Architects of the City, in Common Ground, cit., p. 108. 6 F. Irace, Facecity, in Common Ground, cit., p. 92. 7 A. Campo Baeza, An Architect is a House, in Common Ground, cit., p. 46. 8 Romania Head Up, in Common Ground, cit., p. 254. 9 Cfr. L. Sacchi, Vema, in «Op. cit.», n. 128, gennaio 2007. 10 La Mostra del padiglione Italia è riportata sul catalogo L. Zevi (a cura di), Le Quattro Stagioni. Architetture del Made in Italy da Adriano Olivetti alla Green Economy, Electa, Milano 2012, p. 17. 11 L. Zevi, op. cit., pp. 24-25. 12 B. Secchi, Le condizioni sono cambiate, in «Casabella», n. 498/ 499; 1984. 1
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Per il centenario di Jackson Pollock Roberto Pasini
1. On the road, again
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Siamo di nuovo on the road, insieme a Jackson Pollock. Ricorre il centenario della nascita (Cody, Wyoming, 1912) e occorre dire che pochi se ne sono accorti. Fine di un mito? La follia iconoclasta del grande avventuriero venuto dal l’Ovest, ipersensibile al fruscio del muto universo che lo pervade, inclemente con sé e con la vita, immerso nel vuoto panico delle cose, strangolato dalla propria inadattabilità esistenziale, che conclude la sua via crucis contro un albero nell’estate del 1956 a soli 44 anni… è passata definitivamente in archivio? Viviamo in tempi così indifferenti al l’eroismo da non perdere nemmeno un minuto per ragionare (ancora, sì) su questa figura così bizzarra e eteroclita, affascinante e demoniaca, ricca e ineludibile? Nel nostro piccolo, non ce la sentiamo. Abbiamo speso troppe energie su quella stagione, sui suoi ritmi impazziti, sulla bellezza fugace del suo sguardo malinconico, sulle vette irraggiungibili della poetica che ha liberato l’arte dalla sudditanza a se stessa, trasformandola in qualcosa di autre, per non fermarci un attimo, in questa occasione, come in raccoglimento, a pensare di nuovo Jackson Pollock nel contesto dell’Informale1. Lungi da noi ovviamente la celebrazione astorica di una continuità. Quella poetica, con le sue meravigliose proce-
dure nullificanti, è terminata, essa sì, e non si è posizionata oltre il 1962, a essere precisi, dandoci quasi per magia un secondo anniversario, i cinquant’anni dalla sua conclusione. Ma è anniversario senza soggetto, in realtà, e dunque solo circostanziale, mentre quello del 1912, per ricordare il nostro artista, ha un sapore più autentico, lontano i cento anni canonici dal nostro presente inquieto e allarmante. Jackson Pollock nasce nell’anno in cui nasce anche John Cage. È un dato di fatto che le celebrazioni per quest’ultimo sono state abbondanti, a significare un’attenzione del mondo musicale (più che di quello artistico) per un genio della dissonanza, del risveglio materiale del suono, della ricerca infinita dentro il segreto introvabile della realtà prima e ultima. I due non sono simili, occorre dirlo subito, e non li possiamo nemmeno allineare in una sincronia perfetta, ma hanno in comune il germe generazionale della sfida. La loro strada è impervia perché lasciano abbastanza presto le ragioni sicure della convenzione linguistica per inoltrarsi in una waste land in cui non potranno mai acclimatarsi perfettamente, sebbene Cage abbia dimostrato una maggiore confidenza e resistenza rispetto a Pollock, che invece si è sentito portare via poco dopo i quarant’anni da un vento senza fine. Li unisce un’idea di dripping, il termine chiave dell’operatività pollockiana: lasciare che il gesto o il suono si avvalgano della facoltà di essere liberi e incontaminati. Li affascina la casualità, matrice di una nuova poetica irrazionalistica. Li pervade un senso ineffabile del silenzio, ultima spiaggia umana e umanistica prima del tramonto dell’Occidente, peraltro già iniziato e di cui non si vede ancora il peggio. I punti in comune sono parecchi e stanno lì a dirci che arte e musica possono incontrarsi senza conoscersi direttamente, secondo un ideale che rimonta a Kandinsky, non a caso artista tenuto in alta considerazione da Pollock. Ma quello che soprattutto li identifica come maestri di una nuova concezione creativa è la presa di coscienza, più esplicita in Cage e più implicita in Pollock, che la creatività vada svincolata dalla sudditanza alla razionalità e al suo ferreo dettame progettuale, facendo uscire l’opera dal suo ghetto
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circostanziale per aprirla a nuovi orizzonti, che in pittura saranno la tridimensionalità e in musica la serialità. Uomo dolcissimo e fragile, “indifeso come un gattino”, secondo le sue stesse parole, Pollock ha un’adolescenza difficile, che lo porta a ribellarsi alle semplici regole del vivere sociale, a non sopportare i vincoli posti dalle istituzioni, facendosi espellere da scuola e sperimentando il carcere. Ha però un’idea forte che lo guida, quella di diventare un artista “in qualche modo”, ma questa idea si scontra con le difficoltà del presente, nel quale – siamo agli inizi degli anni Trenta a New York – sbarcare il lunario non è affatto semplice. È la città sporca, uggiosa, fumosa, buia descritta da Henry Miller nella straordinaria trilogia Sexus, Plexus, Nexus in cui viene a trovarsi, squattrinato e alla ricerca di sé, il giovane venuto dal Wyoming: provinciale, timido, scontroso, già destinato a un avvenire problematico e irto di difficoltà, a cominciare da quelle con se stesso e il proprio carattere. Del resto la sua idea di artista ha ben poco di intellettuale o convenzionale: stranamente la pittura è fuori dai suoi interessi principali, che invece sono indirizzati alla scultura. Nei suoi intendimenti l’opera dovrà nascere dal badile o dal piccone: come artista, il giovane Pollock si vede più affine al contadino o al minatore che non al pittore in senso specifico2. Questa predisposizione al lavoro fisico e alla fatica che nasce dalla pratica manuale rappresenta un prezioso anticipo sulle scelte che l’artista farà negli anni d’oro della sua produzione, quando eliminerà il pennello a vantaggio del coltello o della stecca e si cimenterà come un danzatore dentro-fuori la superficie, confermando nella propria operatività qualcosa che già si legge, in nuce, nelle dichiarazioni giovanili. A correggere tale forza selvaggia ci pensa almeno in parte Thomas Hart Benton, dal quale Pollock desume l’attenzione verso la pittura rinascimentale e soprattutto per la linea curva, ellittica, sinuosa. Benton è un pittore tradizionale, e per di più fortemente conservatore nella scelta dei cosiddetti valori rurali contro quelli cittadini, è un cantore della sana America contadina, delle ballate al chiaro di luna fra un bicchiere di vino e una suonata di chitarra, e questa
poetica della mungitura non troverà nel giovane allievo un terreno fertile: l’utilità di Benton sarà proprio – per stessa ammissione di Pollock – di averlo indotto a una reazione assai veemente. Tuttavia l’elemento della curvilinearità, che pervade l’opera di Benton facendo ondeggiare le sue scene campagnole come se fossero viste attraverso un acquario, si trasmetterà a Pollock, che lo utilizzerà in un magma caotico di energia pulsionale ben distante dalla ruvida ma ordinata impostazione del maestro. Possiamo considerare il rapporto con Benton come ossimorico: da un lato Pollock ne respinge la dimensione strapaesana, il fior fiore del Regionalismo, dall’altro ne eredita suo malgrado la dimensione curvilineare, che troverà letterale applicazione nelle prime prove, come il leggendario Going West, del 1934. In quest’opera tutto è mosso, ondulato, flessibile e l’epopea del cowboy risponde a un generale rammollimento figurale, sebbene le forme siano di per se stesse incapaci di uscire da una fragilità acerba e remota. Seppure la curva, come archetipo della contemporaneità, entri con il giovane Pollock per una porta secondaria, traslata attraverso l’incedere dolcemente sbandante assorbito dalla figurazione del maestro, non dobbiamo dimenticare che a essa spetta un ruolo primario nei destini della ricerca, da quando Turner ne ha fatto il perno attorno al quale ruoterà tutto l’orizzonte della nuova morfologia lineare. Il nesso Turner-Pollock costituisce un “tramando” (ci sia consentito di riprendere la parola arcangeliana) di raro conio, misurato nel valore di adozione di una scelta che rispetta e traduce la filigrana nascosta nelle pieghe del mondo artistico omologicamente in sintonia con quello scientifico e tecnologico. I campi elettromagnetici (Breton ne farà il titolo della sua più ardua raccolta) sono alla base del destino che vedrà Turner sciogliere le vele dentro tempeste irriferibili per coraggio disfigurale, arrivando a dare la scossa silente ma impetuosa che poco alla volta farà montare una ben diversa tempesta, collocata al centro del secolo breve, in una postazione talmente avanzata da non potersi scorgere nulla al di là di essa se non un ritorno “alle cose stesse” (per
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usare l’espressione cara alla nuova fenomenologia critica), nella temperatura apparentemente rasserenante e banalizzante dell’oggetto di consumo. Il discrimine Informale-Pop Art sta tutto racchiuso nel bisogno di cercare il profondo nonsenso della realtà, da un lato, e di farsi una ragione che la realtà di sensi non ne ha, ma proprio per questo vale la pena divertirsi ad ammirarne le parvenze colorate, succulente, immorali. Pollock vuole stordirsi dentro la superficie, perché sa che lì, in un punto misterioso che non troverà mai, c’è la ragione antica e sempiterna del suo esistere; Warhol costruisce un teatrino del presente, partendo da nostalgie costumistiche e difetti nasali, per arrivare a giocare con poche varianti figurali, che rappresentano il mondo che c’è, perfetta delusione della mente, massima gioia dell’inconsapevolezza. Eppure, entrambi questi mostri del ’900 sono similmente imprendibili nella depressione di un vortice che, vorace o lento, li ha consumati senza scalfirli. Pollock è on the road e la sua è (come quella di tutti noi) una vera “road to nowhere”, direbbe David Byrne. Che cosa ci attende alla fine del viaggio? Non lo sapremo mai. Ma intanto ciò che conta è andare, con la stesa foga del camminatore boccioniano che attraverso le sue forme (rigorosamente uniche) descrive il continuum della vita accogliendo nel suo cammino tutto ciò che incontra: fagocitare il mondo in questa maniera significa essere una specie di blob, e tale sarà anche il Pollock del dripping, che troverà la propria infinita ribellione solo nel gesto inutile del braccio che perlustra lo spazio senza arrivare mai a definirlo. E del resto questo annaspare nel vuoto sa di albatros baudelairiano che “avvezzo alla tempesta”, quando sia messo in mezzo agli uomini, “camminare non può per le sue ali di gigante”. 2. Confessione
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Fu in una densa e profumata mattina di primavera che scoprii Pollock. Grazie a quello che nel gergo studentesco si chiamava “un fughino”. Era il 1975, a Bologna. Era il
Liceo Classico Luigi Galvani. Erano i Giardini Margherita (una specie, per chi non li conosca, di micro Central Park, con il laghetto, i cigni, le anatre, le rane, il ponticello, i vialetti, gli abeti e i cedri ormai secolari e una marea di sfaccendati come il sottoscritto). Era l’inizio di un grande amore. E tutto nacque dal fatto che quel giorno a lezione non si sarebbe fatto niente (fate conto un’ora di ginnastica, una di religione, e quella ridicola doppia ora di matematica a risolvere problemi inesistenti). Bene, trafugato dalla libreria paterna (mio padre, intellettuale, professore, poeta, appassionato d’arte, aveva messo insieme una vera e propria fucina artistica) un libretto bianco con un quadro materico sulla copertina, su cui spiccava il nome, un po’ buffo e rotondo, di Pollock (pensai subito a un pollo, un pollo che si unisce a un uovo, un uovo appunto alla cock o, per meglio scrivere, alla coque), uscii di casa come un clandestino, con un sorriso un po’ scemo sulle labbra: quello di chi sa che non andrà al liceo, come tutti i giorni, ma al parco, per immergersi in una lettura dalla quale si aspetta, non sa bene il perché, qualcosa di nuovo e importante. Fu una mattinata epica. All’ombra di un vecchio e maestoso Cedrus Atlantica Sempervirens, mi raccolsi dentro un palmo di mano per penetrare il nuovo enigma che il libretto (scritto da Italo Tomassoni, e pubblicato da Sansoni, 1968, nella collana “I Diamanti dell’arte”) mi propinava, non deludendo affatto le mie confuse speranze. E fu un’agnizione. La visione dei quadri di Pollock mi dette subito la percezione di un mondo imprendibile che le mie mani avrebbero desiderato ardentemente di afferrare, mentre gli occhi scorrevano audaci e insaziabili quelle parole difficili, ma così affascinanti. Subito mi colpì una frase: Pollock “anela allo spazio allo stesso modo che chi soffoca cerca disperatamente l’aria”3. Lo spazio vitale, in altri termini: ovvero la vita in se stessa come esigenza biologica: ovvero ancora il disperato bisogno di esistere, di non essere soffocati dal “muro della terra” (questo il titolo, assai emblematico, di derivazione dantesca, del libro di poesie che allora stavo leggendo, di Giorgio Caproni). Come preso all’amo, la mia lettura si
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convinceva sempre più che quel pittore era il mio amico segreto, che avevamo un sacco di cose in comune, compresa l’idea, blanda e potente allo stesso tempo, di consumare la vita in un vortice centripeto di emozioni e concluderla nel suicidio (parola grossa, ma spesso risuonante nella mia testa di allora, presa a rimbalzo dalla lettura del mio filosofoscrittore compagno intimo, il buon Albert Camus). Camus più Caproni più Pollock. Un triangolo perfetto. Il mito di Sisifo divenne all’improvviso nella mente più sfacciata che possiamo immaginare, perdutamente alla ricerca dell’inesistente, risolta a giocare anonisticamente con le parole, il dito di Sisifo, che invece di spingere il masso in cima al monte per vederlo rotolare a valle e doverlo riportare su per rivederlo rirotolare a valle, ora lanciava segni nello spazio, su una superficie stesa per terra (che idea geniale!), fino a camminarci attorno e dentro, e sentirsi tutt’uno con essa, nel vortice senza fine del corpo che non ha più materia, perché è diventato la materia. Parole come avventura, rischio, angoscia; l’heideggeriano “essere per la morte”; la prensione percettiva immediata e organica di Whitehead; l’“esperienza” di Dewey; e poi, dulcis in fundo, “il gesto di Pollock è appunto quello del prigioniero, del condannato a morte, della belva avida di libertà che misura con rabbia inesausta e feroce i pochi metri della sua gabbia”4: l’entusiasmo confuso e felice del giovane neofita lettore era alle stelle. Libertà. Questa la parola chiave. Che cosa sia la libertà, in relazione all’arte, è tema che abbiamo già trattato, anche se in maniera certamente insufficiente rispetto alla vastità del concetto5. Arte e libertà vanno a braccetto, come principio, perché l’artista esprime di per sé una mozione, che spesso diventa un’emozione, a essere libero: dagli standard della vita normale, dalle strettoie del lavoro abitudinario, dai canoni della frustrazione che la società generalmente impone ai suoi sudditi perbenisti. Eppure non sempre l’artista è davvero libero, o almeno percepisce un senso di libertà totale. Kandinsky dice che l’artista è libero nella vita, ma non nell’arte, perché ha ricevuto dei talenti e deve farli fruttificare, quindi è legato a un compito da realizzare, tanto
che non può considerarsi indenne da un giogo. Ma è una posizione di profonda saggezza, e al tempo stesso di religiosa (nel senso etimologico, da re-ligio, legame) attenzione al proprio ruolo. Al contrario, Van Gogh è stato inconsapevole paladino della visione opposta: l’artista si libera dalle grettezze del piccolo mondo borghese e dai suoi pseudovalori reazionari attraverso l’uscita da se stesso, che può esprimersi compiutamente solo in due maniere: l’arte e il suicidio. L’artista olandese le ha praticate entrambe. “Io sono quel cane”, scrive in una lettera al fratello Theo: quel cane, Van Gogh lo fa correre libero nella brughiera, a dispetto dei lacci che la famiglia voleva imporgli, delle regole della vita sociale tradizionalista, di tutto ciò che può ostacolare la creatività sorgiva e ineludibile. Pollock li ama entrambi. Kandinsky per la scelta di uscire dal tracciato figurativo; Van Gogh per la follia solipsistica, peraltro assai poco autosufficiente, ma spesso propensa a richieste di solidarietà (come nel caso sfortunato del sodalizio, ampiamente cercato e voluto, con l’amico Gauguin). Il segno libero di Kandinsky e il gesto demenziale di Van Gogh: una miscela esplosiva nelle mani di Pollock. La libertà dentro l’arte, o fuori dall’arte? Entrambe. L’americano è troppo legato al suo nucleo di interiorità terrestre per poter scindere le due cose: essere libero per lui significa trovare la via dell’arte, riversarci dentro ogni angoscia, pulendosi alla fonte del gesto creativo. La sua formazione passa per Picasso e Mirò. Dobbiamo prendere atto di una fascinazione per i due principali artisti della prima metà del ’900, e non sia detto in termini squisitamente valutativi, ma solo in relazione alla quantità di mostre tenute negli Stati Uniti durante gli anni in cui Pollock si apre all’interesse artistico; tuttavia questi due campioni delle avanguardie non possono fornirgli che una grammatica di superficie, assai utile e ben introiettata, eppure non consentanea (nel profondo) con le esigenze di un giovane che cerca la traiettoria più breve per arrivare al centro della creazione. E poi ci sono i messicani e il muralismo, anch’essi presenti come stimoli a uscire dal seminato tradizionale. Ma
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dietro, già si avverte che l’inconscio inizia a giocare le sue carte, e le fisionomie irrisolte, digrignanti, lunari, eccitate parlano di un tarlo che rode (come il verme sartriano) l’anima dell’artista e rimanda alla maledizione di Bosch. Il mondo è un giardino delle delizie e del peccato, luogo promiscuo del piacere e della colpa e Pollock vive il senso di colpa come una condanna biologica, sentendosi un fallito prima ancora di iniziare la carriera artistica: ha il disagio del buono a nulla, colui che non risponde alle richieste concrete della società ma fantastica di diventare artista, e questo è un caso difficile perché obbliga a sentirsi, già in partenza, diversi. Jackson Pollock è quello che in gergo edulcorato si chiama “un ragazzo difficile”. Non smetterà mai di esserlo. A trentasette anni, davanti all’obbiettivo fotografico di Arnold Newman, che lo riprende nello studio di East Hampton a Long Island, sul suo volto quella “difficoltà” c’è ancora tutta, scavata nelle rughe della fronte, assiepata nelle fosse delle guance, confermata dalla maschera del teschio alla destra dell’artista. Uno sguardo dolente; di più: scontento; di più: insoddisfatto; di più: disancorato. Number One di quell’anno è un dipinto come gli altri, ma forse più impellente proprio per il titolo, che è solo un numero in attesa dei successivi, eppure nella nostra immaginazione riflette la condizione di irreciproca e insondabile colluttazione fra il bisogno implicito di superomismo che anima il pittore alla ricerca del proprio Vello d’oro e invece la ricaduta autoironica, che smorza ogni velleità, pungendo la carne fino a straziarla dolcemente. Che Pollock sia poi diventato, senza poterlo davvero capire, il numero uno, e non solo nell’ambito dell’Informale, è un dato di fatto difficile da discutere. Lungi da noi lo stilare eventuali improbabili graduatorie, ovviamente; tuttavia la lezione estetica e morale (si può anche leggere: anti-estetica e immorale) di quest’uomo è rimasta scolpita nella nostra mente e nel nostro corpo e ha dato un imprinting duraturo a tutta la ricerca (o almeno a quella che è uscita dal quadro) dei decenni successivi alla sua precoce scomparsa. Oggi siamo qui a chiederci che cosa ne è rimasto; quali ere-
dità ci portiamo dietro, seguendo l’avvertimento già chiaro di Kaprow a due anni dalla disgrazia-suicidio6. La ricerca si è dimenticata, oggi, di Pollock? No, non se ne è dimenticata. Semplicemente lo ha talmente introiettato in precedenza che ora non lo vede più aggallare alla superficie. Ma il suo messaggio di introverso dolore esistenziale, di muto raccoglimento dentro l’opera, di vigile anatema sul vissuto è stato troppo forte per essere assorbito in breve: sono passati vari decenni, attraverso i quali l’arte ha anche dismesso i panni dell’avventura romantica dentro e fuori la tela per divenire una forma di approssimazione dell’esistente, chiusa al senso imperscrutabile del Dasein, e non sentire veramente il nulla, ma cercare di esorcizzarlo attraverso un tutto fatto di ninnoli, vacanze, souvenirs. Quegli anni, attraversati come una scarica elettrica dalla fissione dell’atomo e dal ritmo impazzito del jazz, sono finiti irrimediabilmente. La storia, e la storia dell’arte insieme a essa, mutano rapidamente, salvo poi ritrovarsi a punti già attraversati, sebbene in morfologie leggermente o ampiamente modificate. L’Informale è terminato nel 1962, sei anni dopo la fine tragica di Pollock, e i mad men di allora oggi sono un pallido ricordo. In un presente sbottonato sulla deriva di un femminismo capitalistico che ha preso possesso delle nostre anime imponendoci l’oggetto di consumo e il consumo dell’oggetto, la lezione di un artista venuto dall’ovest per compiere la sua missione nella Grande Mela e avvertire il mondo che l’arte sta tutta dentro un gesto infinitamente ripetuto nella sua incoercibile follia, stride. Pollock è violento, non ha paura di esserlo, perché è uomo: ma è anche dolce, come forse nessuna artista sarà mai, soprattutto da quando il femminile si è proiettato su deiezioni fisico-organicistiche, nella maggioranza dei casi chiuse su se stesse in una durezza di pseudodenuncia. Eppure Pollock è anche femminile: il suo segno vortica feroce, in apparenza, ma non incide, si lascia cadere come una matassa di morbida lana, come un labirinto della mente, come una discesa nel grembo materno. E la sua ambiguità lo rende ancora più attraente.
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3. Deiezione
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Pollock si è buttato via. La sua furia iconoclasta lo ha bruciato in un vortice senza fondo. L’artista scende nel baratro con la consapevolezza della propria finitudine, anche se il messaggio che ci lascia è fatto di speranza, apparentemente. La sofferenza si può esorcizzare, sembra dirci l’uomo del dripping, attraverso il gesto liberatorio, la pulsione energetica primaria, l’eiaculatio infinita. Ma resta sempre il dopo: quello che per la femmina è uno sblocco di energie, un ravvivarsi biologico, una rinascita che la rende radiosa, per il maschio è la piccola morte, il viaggio nel tunnel del l’oblio, dal quale però si torna troppo presto, ritrovandosi a candele spente. In fondo l’esigenza è di cancellare. Qui ci ricolleghiamo al tracciato che viene da Alexander Cozens e dal suo trattato del 1785: il blotting come antenato del dripping. E blot non è solo “macchia”, ma anche “cancellatura”, appunto. Il gesto del pittore che butta macchie confusamente sulla superficie per poi riportarle a una referenzialità paesaggistica si rinnova nell’artista americano attraverso l’eliminazione dell’esito finale, in quanto non c’è alcuna immagine da ritrovare oltre le macchie, ma solo la grande, incomprensibile cancellatura universale. In effetti, Pollock con il dripping cancella il vuoto della superficie, che probabilmente lo angoscia come la pagina bianca Mallarmé. Bisogna allora rovesciarsi corporalmente dentro quell’arena (il termine-chiave di Rosenberg) e cercare la via di fuga dalla presenza a se stessi: Pollock dichiara di controllare la propria azione, di non cedere alla genericità del caso, eppure viene da pensare che quel gesto sempre ripetuto, sempre intessuto, sempre vissuto sia il mezzo per raggiungere la pace finale, il moto perpetuo che si affranca dal tempo e dallo spazio. L’artista si dimena come un animale in gabbia. Danza, vortica, aggredisce, si ritira, attacca di nuovo, semina fendenti, è in continuo movimento, e tutto questo in una incessante operazione verso il basso: la pittura va a incon-
trare il suolo, perde ogni altezza regale ed eleganza progettuale; si disancora apparentemente dal mondo, ma in realtà lo intenziona come desiderio. È l’inseguimento di Moby Dick, o del Colombre (per dirla con Buzzati): la sfida a qualcosa che non si conosce ma che si vuole a tutti i costi raggiungere. Il fallimento alla sommità dell’ossessione. In questa ricerca di una conciliazione con la realtà, il cui aculeo punge senza tregua, al di là del sema che non si concede, Pollock sperimenta la solitudine dell’uomo contemporaneo con una limpidezza che raramente si è dato riscontrare. Essere soli con la propria finitezza, ma allargarsi fino a superarla nel tentativo di giungere al di là dell’immediato pulsare vitale: dipingere la fisicità della pittura, veicolandola come action per essere certi che non rimanga nulla di visibile, ma il mondo si sia trasformato in un grido. Pollock si butta nel gorgo, ha una stella cometa che lo guida, s’immola al gesto come salvezza. Prima del dripping il dipinto che celebra al meglio questa condizione è Eyes in the Heat, 1946. Vi si incontra il gorgo panico dell’esistenza, groviglio infinito di materia ribollente, luogo della con-fusione totale, già illustrata da Turner, a cui l’americano in definitiva si riallaccia, pur senza esserne pienamente conscio; ma vi incontra anche il passaggio intermedio fra i due, ossia il Monet delle Ninfee, attraverso l’aggallare di una serie di “occhi-ninfea” che designano il contatto epiteliale con il mondo, da cui non sono più distanti, anzi vi sono caduti dentro. Esattamente come Monet aveva posto il suo studio sull’acqua, in gioventù, per scendere poi direttamente nello stagno di Giverny con primi piani spiazzanti, consentendo all’arte contemporanea di passare dai valori visivi a quelli tattili, allo stesso modo Pollock abbandona il concetto di separazione fra Soggetto e Oggetto. Nell’Informale, in generale, e nell’Action Painting in particolare, le due entità tendono a incontrarsi-scontrarsi, amarsi-odiarsi, fare tutt’uno coniando una nuova identità: il S-Oggetto. Questa modificazione ontologica rientra nel processo di
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avvicinamento al mondo messo in atto dalla ricerca contemporanea nei suoi vari campi, tra cui in modo esemplare quello artistico. Non esiste più uno spazio contenitore e un Soggetto che lo occupa prendendone contezza a distanza, mentalmente, attraverso una griglia di categorie che lo pongono al centro delle operazioni, ma si dà un involucro indistinto in cui lo spazio si è trasformato in campo e tutto quanto vi succede ha la medesima importanza: sparita la distinzione metaforica fra primo piano e sfondo si è affacciata sulla scena culturale del ’900 l’ipotesi, confermata dalla scienza e dalla tecnologia, che ogni separatezza debba essere considerata fuori gioco, sino alla fase che attualmente stiamo attraversando di “pesci nella rete”, in un indistinto grande meccanismo di collegamento reciproco dal quale è ormai quasi impossibile tirarsi fuori. Pollock si sente già dentro la rete, invischiato nel gorgo, incapace di reagire, con la sola opzione di trasformare il muto disagio in violenza. Tuttavia la violenza del dripping, come s’è detto, è dolce. Ben altrimenti più icastica quella di Kline, il cui gesto appare come un knock out, un fendente che tramortisce, in spatolate perentorie e nere che non lasciano speranza; il segno di Pollock è invece filamentoso, si aggira su se stesso, cola come una lacrimazione infinita, ha il sapore amaro del gioco chiuso fra le quattro mura. Eppure vi si riscontra una molla potente di protesta verso la società, l’esistenza, il destino. Pollock si scaglia come Achab contro la sua balena imprendibile, sa che non potrà mai venire fuori dalla condizione di emarginazione in cui si trova, eppure cerca la salvezza, comunque. È bloccato, braccato, insicuro, tuttavia deve agire, reagire, interagire: ecco lo scatto felino del leone in gabbia, che morde le sbarre e ruggisce. C’è qualcosa di dolente in tutto ciò, che ci rattrista mentre osserviamo la sequenza di capolavori che l’artista ci ha regalato fra il 1947 e il 1951. Eppure ci coglie anche un moto di felicità, perché quel segno vorticoso ci ha preso per mano e ci trascina nel vortice, regalandoci alcuni istanti di libertà sfrenata, gioiosa, impazzita. Andiamo al tempo stesso verso il basso (la terra su cui è posta la superficie che Pollock viene via via
riempiendo) e verso l’alto (non sappiamo se il cielo o solo il soffitto) nel binomio ossimorico che in ogni caso accompagna la nostra esistenza. Caduta e salvezza, come a suo tempo qualcuno più autorevole di noi ha scritto. Pollock non si limita a dirci che è esausto della vuotaggine del suo essere-per-la-fine, cerca anche di sollecitare nello sguardo del fruitore la partecipazione emotiva che possa svincolarlo dal debito verso la vita: buttati, sembra gridargli, buttati nel gorgo anche tu, molla gli ormeggi, fai questo folle volo perché tanto non vai da nessuna parte se resti ancorato ai tuoi solidi principi di impiegato dell’esistenza. 4. Eredità di Pollock Allan Kaprow dice che l’eredità di Pollock sta nell’aver aperto la strada all’happening. Vero, se ci limitiamo all’eredità immediata, tradotta in spazio che da bidimensionale si fa tridimensionale. Il gesto di Pollock è un orizzonte nuovo sulla scena mondiale della ricerca, catapulta l’artista al di là del quadro, segna il punto di (apparente) non ritorno della prassi operativa. Tuttavia, come sappiamo, l’arte ha tradito questa eredità più di una volta, in base al principio della pendolarità, per cui in genere a un momento esplosivo ne segue uno implosivo: la scena si è spostata sul versante dello spazio reale a partire da Pollock, ma poi ha ritrovato una propria ragione d’essere anche nello spazio virtuale della tela, dentro le logiche citazioniste del postmodernismo. Ebbene, dagli anni Ottanta a oggi sembra che il mito di Pollock abbia subito una certa eclissi, causa l’incessante rincorrersi delle situazioni e il complicarsi dell’operazione creativa, che ha aperto a ventaglio le sue opzioni, relegando la pittura in una zona di indubbia periferia. Se questo è vero, non si deve trascurare il fatto che proprio la testimonianza di Kaprow definisce una traiettoria, all’inizio della quale Pollock rimane indiscusso promotore, i cui effetti – come nel domino – non sono mai terminati: tutta l’apertura delle ricerche extra-pittoriche si trova già, in nuce, dentro il gesto pollockiano, come tutto il filone di avvicinamento all’og-
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getto che contraddistingue il ’900 si trova già, in nuce, dentro le Ninfee di Monet. L’eredità è quindi presente nella ricerca artistica, sebbene molta parte di essa non ne abbia consapevolezza. Uscire dal quadro è stata una delle scelte più radicali e fruttifere del secondo Novecento, con qualche anticipazione già in precedenza, dove però non era in pratica contemplato l’elemento che invece Pollock chiama a esprimersi in diretta e senza ambage: il corpo dell’artista. Con lui per la prima volta nella storia dell’arte non conta solo il risultato finale, il cosiddetto quadro (termine assai improprio, a ben vedere, dato che le sue misure sono quadrate sono in una percentuale minima di casi) ma l’azione fisica del pittore, se così possiamo ancora chiamare chi ha eliminato sostanzialmente il pennello e il contatto con la superficie. Del corpo di Raffaello o Rubens o Canaletto o Courbet non ci interessa granché: sappiamo che era lì, insieme alla mano che tratteggiava quelle forme e alla mente che la guidava, ma non ci siamo mai interrogati sulla sua entità, il suo apporto, le sue prerogative. Con Pollock siamo chiamati a farlo, invece: non si tratta infatti soltanto, come sempre, di azione della pittura, ma di qualcosa che pone l’esito finale in un piano secondario rispetto al processo fisico che ha portato ad esso, e che trova il proprio riscontro nella definizione di pittura d’azione, appunto. Il quadro che pur sempre ne emerge è il referto di quell’azione, come la pagina di un diario, dove l’artista ha confessato le sue più intime emozioni (aspetto riscontrabile molto bene, al di fuori del contesto americano dell’azione diretta, in Soulages, che mette spesso come titolo il giorno in cui ha realizzato l’opera) e dunque l’incontro con la superficie nelle forme di una danza libera a cui non si chiede di portare le macchie e i segni verso una definizione disegnativa (ciò che succedeva nel New Method di Cozens), ma di trovare proprio nel vortice gestuale la ragione del suo manifestarsi. La pittura non è fatto ma fieri. Questa acquisizione ci porta su un piano molto differente rispetto alla pratica consueta del dipingere, che dopo Pollock troverà la propria negazione attraverso il superamento della semplice operazio-
ne di collocare dei pigmenti su una superficie in un determinato ordine o disordine e secondo un determinato progetto. Quest’ultimo viene rilevato dal processo, siamo nello stream, Pollock nuota nella corrente di una rapida, il suo entrare nel quadro trasferisce al presente in forma drammatica (nel senso etimologico, dal greco dran, fare) l’atto espressivo, liberandolo dalle strettoie della distanza mentale per inserirlo direttamente dentro il campo, che segna la scansione omologica con le conquiste della scienza e della tecnologia. Pollock vive nell’attimo, come faceva Monet, ma adesso si tratta di un’azione, non di una visione, il rapporto con il mondo è mutato radicalmente: il pieno della natura è stato sostituito dal vuoto della mente, che annaspa alla ricerca del senso e, non trovandolo, gira su se stessa all’infinito. Nasce così una consapevolezza spaziale nuova: il quadro si apre all’esterno, idealmente, in quanto il gesto del dripping non finisce ai margini della superficie se non per necessità, ma potendo andrebbe oltre, tracimerebbe nell’ambiente e lì si configurerebbe come il nuovo agente universale. Siamo in una situazione di rinnovamento globale dell’atto creativo, che non sottostà più al dettato della superficie verticale ma si anima di nuova energia per solcare la superficie orizzontale e da lì espandersi nel mondo circostante. La definizione di Action painting, introdotta da Rosenberg nel 1952, racchiude già il destino della nuova scena: sarà sufficiente eliminare il secondo termine, far apparire in tutta la sua dirompente vitalità la semplice azione, traducendo il gesto in evento. Il primo a rendersi conto di questo potenziale è Kaprow, attraverso la forma aleatoria e quindi suggestiva dell’happening, poi negli anni seguenti arriverà sulla scena l’Azionismo viennese, che non a caso partirà da posizioni informali, infine all’interno dei due decenni Sessanta e Settanta si animerà la stagione del corpo, dalla Body art alla Performance, nel quale il germe pollockiano troverà compiuta realizzazione, trasformandosi da vettore per la pittura in vettore autonomo. Nel frattempo, dopo il dripping, che occupa gli anni 1947-51, la parabola dell’artista scende inesorabilmente.
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L’angoscia esistenziale lo corrode, i problemi con la moglie e con l’alcool lo privano di energie vitali importanti per concentrarsi sul lavoro: egli stesso avverte ineluttabilmente che ha ormai dato il meglio di sé e che forse non potrà più ripetersi. Nonostante questo declino psicofisico e creativo, negli ultimi anni Pollock ci regala alcuni capolavori assoluti, anzi forse i prodotti più alti di tutta la sua esperienza creativa: The Deep, Blue Poles, White Light. Sono opere intense, in cui la gestualità sfrenata si è calmata, anestetizzata, quasi paralizzata. Che cos’è “Il Profondo”? Forse il crepaccio in cui l’artista, e prima ancora l’uomo, sentono di scivolare a poco a poco? Quella materia bioccolosa, lattiginosa, organica sembra lasciar apparire un vacuum che potrebbe inghiottire Pollock da un momento all’altro; in realtà non sai bene se la brisure (direbbe Agosti) si sta aprendo o se invece la materia indefinita ma coalescente la stia suturando. In ogni caso o c’è lo spalancarsi del baratro o l’invasione materica che rischia di soffocare tutto. È un’opera strana perché inconsueta, distante dai drippings e magari in sintonia con il Fontana dei tagli, le cosiddette Attese: la differenza sta nel fatto che l’italiano recide materialmente le tele, mentre l’americano metaforizza l’apertura, ma non la pratica; il primo sfoga l’istinto testosteronico, il secondo lo trattiene sino a soffocarne e non riesce a tramutarlo in liberazione istintuale (ignorando l’aspetto positivo di tutto ciò: la pratica, o la capacità, della ritenzione del seme, che consente di prolungare l’atto indefinitamente). Blue Poles è un inestricabile groviglio neuronico, come tutti i drippings degli anni 1947-51, ma con in più le fenditure della mente, ormai dilaniata da un vuoto irrimarginabile. Tutto va scomparendo, la vita si affievolisce, eppure il vecchio leone ruggisce ancora, nella gabbia che lo sta paralizzando per sempre. È un canto epico e romantico, che giunge a noi come una litania senza voce, qualcosa che non riusciamo nemmeno a comprendere tanta è la disperazione “profonda” che l’anima. Pollock è già scivolato nel baratro, la sua esperienza di artista geniale e controverso è al limite, le sbarre della prigione lo chiudono senza speranza al di qua
del limite invalicabile della pittura. In questo gioco finale il suo amore per la superficie si riempie di una felicità inaspettata, che dura pochissimo, ma è lì a sancire che il gesto vola ancora alto, prima di scendere nel nulla. Infine, White Light. Il groviglio si è ispessito, il crepaccio è chiuso, siamo rimasti immobili nella materia ridondante e piena che si assiepa davanti a noi: Pollock ha un sentore di purezza, in fondo al suo percorso, vicino a quello di Eyes in the Heat di otto anni prima, ma con in più il senso nuovo della luce che riscalda il mondo, lo accarezza, lo vivifica. È davvero un passo felpato quello con cui Pollock esce di scena, sebbene denso di un iletismo panico che ne fa un capolavoro di interiorità esteriore. La luce è lì, serena, ultima: non come Light in August del collega de Kooning, assillato in un bianco e nero sfrigolante di calura estiva, no, qui la luce è endogena, cresce da dentro la materia, è la materia. Forse Pollock vede per la prima volta la sua illuminazione: un uomo, un artista, che sta per uscire di scena, e che in limine mortis si rende conto della bellezza del mondo, del suo segreto imperscrutabile, della sua meravigliosa incomprensibilità. Questo messaggio di luce è l’eredità più profonda, a saperla cogliere, che il guerriero alla fine della sua battaglia ci potesse lasciare.
1 Per un approfondimento della figura di Jackson Pollock (19121956) nel contesto dell’Informale e al tempo stesso per un panorama globale della poetica, sia negli Stati Uniti, sia in Europa, sia in Italia, rimandiamo al nostro L’Informale. Stati Uniti, Europa, Italia (1995), Clueb, Bologna 20037. 2 La corrispondenza di Pollock, in particolare con il padre e i fratelli, e le sue principali dichiarazioni sono in parte visibili su Jackson Pollock. Lettere Riflessioni Testimonianze, a cura di E. Pontiggia, SE, Milano 1991. 3 I. Tomassoni, Pollock, Sansoni, Firenze 1968, p. 8. 4 Idem, passim e p. 12. 5 Cfr. Forme del Novecento. Occhio Corpo Libertà, Pendragon, Bologna 2005. 6 Si veda A. Kaprow, The legacy of Jackson Pollock, in «Art News», ott. 1958.
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Design: segni del tempo Pietro Nunziante
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Da sempre il Design si colloca all’interno dello sviluppo tecnologico, ne rappresenta un fattore essenziale, ne è l’elemento principale di propulsione, e si sviluppa alla frontiera di diverse attività. Il Design svolge dalla sua nascita il ruolo di disciplina di coordinamento di saperi complementari, e sostanzialmente distinti1. Economia e arte, tecnologia e humanities, marketing e ingegneria, sono solo alcuni dei campi che entrano in gioco nell’universo del Design; simultaneamente questa disciplina riveste un ruolo di fondamentale raccordo tra il sistema produttivo e quello degli usi materiali dei beni di consumo e di quelli strumentali. A partire da queste premesse, non si può trascurare il contributo che la specificità del Design fornisce alla costituzione dei saperi pratici, di quella sfera che con un’espressione sintetica viene indicata dalla nozione di cultura materiale. La nozione di cultura materiale continua ad essere, di fatto, imprecisa e insieme contraddistinta dall’illusio ne della trasparenza; con la coscienza che dell’espressio ne viene fatto un uso tanto diffuso quanto indefinito, al lora la strada da seguire non può scendere da un a priori che «non terrebbe conto in modo esauriente dei significa ti concreti» e dell’uso che i vari autori hanno fatto di questa idea. Per prima cosa la recensione degli usi; quin
di, il bilancio; infine le considerazioni che se ne potranno trarre2. L’ambiguità della definizione è ulteriormente potenziata oggi dal progredire della dimensione digitale della cultura, e contemporaneamente dalla realtà della socialità informatizzata. Questa infatti presuppone che uno degli ingredienti principali della cultura materiale contemporanea sia proprio la sfera della comunicazione. Grazie alla diffusione capillare dei sistemi informatici, la relazione continua con programmi e algoritmi risulta indipendente dalla nostra stessa volontà. L’operazione più semplice e consueta nell’universo digitale, quello della ricerca di contenuti, di immagini o di qualsivoglia materiale informativo è infatti subordinata a regole di classificazione informative, le quali sono governate da processi algoritmici. Oggi, dopo più di un secolo di tecnologia elettrica, abbiamo esteso il nostro sistema nervoso centrale fino a farlo diventare un abbraccio globale, abolendo limiti di spazio e tempo per quanto concerne il nostro pianeta. Il concetto che sta alla base di questa affermazione è la cre denza dello studioso nel fatto che la tecnologia elettroni ca sia diventata un’estensione dei nostri sensi, partico larmente la vista e l’udito. Le nuove forme di comunica zione, specialmente radio e televisione, hanno trasfor mato il globo in uno spazio fisicamente molto più con tratto di un tempo, in cui il movimento d’informazione da una parte all’altro del mondo è istantanea. La forma zione di una comunità globale ampia ma anche molto integrata nelle sue diverse parti incoraggia lo sviluppo di nuove forme di coinvolgimento internazionale e di corre lativa responsabilità. Il termine villaggio globale è inte so, a tal proposito, in due sensi diversi: 1) da un punto di vista più letterale, ci si riferisce alla nozione di un picco lo spazio in cui le persone possono comunicare rapida mente tra loro e in tal modo l’informazione diviene mol to più diffusa e immediata. Infatti, mediante i nostri “sensi estesi” ognuno di noi fa esperienza in tempo reale di eventi che possono avvenire fisicamente sull’altra fac cia del pianeta; 2) da una prospettiva più ampia, s’inten
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de una comunità globale, in cui tutti sono interconnessi all’interno di uno spazio armonioso e omogeneo3. Si è andato affermando un principio, una posizione teorica iniziale, che sostiene che occorre ammettere che, con la comparsa dell’informatica, qualcosa di radicalmente nuovo è in procinto di nascere4, e se la miniaturizzazione ne rappresenta l’aspetto fisico, bisogna sottolineare come, dal punto di vista cognitivo, la tecnica che l’informatica dispone mostra una espansione delle capacità, apparente e reale al tempo stesso. Qui non è la disposizione fisica ma la pre-disposizione simbolica che entra in gioco. Le qualità del sistema sono irriducibili al livello della singolarità, ma devono essere analizzate sempre nelle relazioni, nei rapporti reciproci tra fattori fisici e ordini simbolici. L’idea di artefatto muta fino a comprendere quei prodotti che per loro caratteristica sono esclusivamente virtuali come i software. In questo quadro il significato stesso di cultura materiale assume una dimensione contraddittoria, indicando simultaneamente la sfera intangibile delle idee e quella misurata delle cose. La fondazione di un’archeologia del presente presuppone il superamento dell’idea che il materiale precede la forma, forma e materia si misurano continuamente, attraverso un ciclo continuo di rimandi da cui si evince che la nozione di materia è mutevole, ed è essa stessa utile alla comprensione dei caratteri di una determinata cultura o civilizzazione. In un primo tempo tecnica e meccanizza zione industriale sono state collegate, ma dopo più di mezzo secolo le due si sono trovate su fronti opposti. L’industrialesimo ha sviluppato un sistema centralizza to, gerarchizzato, a crescita lineare, che prevede la divi sione del lavoro… La meccanizzazione creava occasioni di lavoro supplementari, aumentava l’assorbimento del lavoro umano, funzionava per riproduzione costante e sviluppo delle masse di uomini integrati nell’industria lizzazione. La Tecnica moderna contraddice punto per punto queste caratteristiche: lasciata libera di agire, essa porta alla decentralizzazione, alla flessibilità, all’elimi nazione della gerarchia, della divisione del lavoro (in
particolare la Tecnica esige l’eliminazione della separa zione tra funzioni esecutive e direzionali), presuppone una crescita polivalente e non lineare, reintegra fini e mezzi, sopprime occasioni di lavoro ed economizza effet tivamente sul lavoro. Ciò che produce valore non è più il lavoro umano ma l’invenzione scientifica e l’innovazione tecnica. Pertanto l’analisi di Marx secondo la quale tutto l’insieme economico regge grazie al plusvalore prodotto dal lavoro salariato dell’operaio non può più essere ap plicata. Il mondo industriale è un mondo chiuso, che evolve in modo lineare e ripetitivo. Il sistema tecnico è necessariamente aperto ed evolve in modo polivalente e non ripetitivo5. Già nel 1987 Daniel Miller si riferiva alla cultura materiale come componente sorprendentemente illusoria del la cultura moderna6, ci mostrava cioè che lo studio delle cose è primariamente dovuto a ragioni metodologiche ed epistemologiche, e che questo genera un interesse finalizzato a mettere in evidenza il processo culturale che le produce, i comportamenti, le azioni e la mentalità, finendo così per produrre un’idea de-materializzata degli artefatti, in particolare di quelli che incorporano elementi di tecnologie avanzate, perché ricondotti ai loro valori culturali piuttosto che alla loro costitutiva presenza immanente, ai loro caratteri riproduttivi, al loro portato tecnico. Se alcuni filosofi si sono interessati alla significazione delle tecnologie, al punto stesso di ridurre il mondo degli oggetti a un sistema di segni che possiedono una propria coerenza7, questa questione è stata tralasciata tra le pre occupazioni della sociologia della tecnica. Tutte le cor renti di ricercatori impegnati a mostrare la costruzione sociale degli artefatti ci permettono di comprendere per ché i dispositivi tecnici rivestono tale o tal’altra forma, come si diffonde, in che modo riescono ad interessare gli attori che ne hanno bisogno etc.8. Gli studiosi che riflettono sul ruolo della tecnologia e dell’impatto del sistema tecnico sulla cultura stanno giungendo sempre più alla consapevolezza che non è possibile
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studiarne esclusivamente le idee. I filosofi e i sociologi della tecnologia sono sempre più interessati agli artefatti, al loro impatto sugli stili di vita, all’influenza che le nuove tecnologie hanno sulla dimensione sociale della produzione e del consumo. Qui nasce un punto d’incontro trans-disciplinare, tra la sfera del design e quella degli studi sociologici, semiologici e storici. È l’intero mondo artificiale, inteso come mondo in cui si manifesta il progetto, che si dispone davanti agli occhi dello studioso per essere reinterpretato e ricondotto alle proprie motivazioni generative. Dal punto di vista del design, cioè del progetto, e contestualmente del progettista, dobbiamo rilevare una minore intensità di quegli approcci che si presentano in forma di mera speculazione fenomenologica, espressi da posizioni che sostengono che il modo migliore per studiare il de sign è considerarlo come una pratica della cultura mate riale che, a sua volta, agevola o rende possibili pratiche ulteriori9, mentre sempre più diventano necessari gli approcci teorici progressivi e critici alla formazione di una teoria unica del Design, quella che tende ad isolare i caratteri propri del progettare, del produrre, del consumare10 e dell’usare. Baudrillard nella sua definizione del concetto di consumo aveva sostenuto che si può concepire il consumo come una modalità caratteristica della civiltà industria le, a condizione che si tolga di mezzo una volta per tutte ogni accezione corrente: processo di soddisfazione dei bisogni. Il consumo non è una modalità passiva di sod disfazione dei bisogni. Il consumo non è una modalità passiva di assorbimento e di appropriazione da opporre al processo produttivo per equilibrare schemi ingenui di comportamento e di alienazione. Bisogna affermare a chiare lettere fin dall’inizio che il consumo è una moda lità attiva di rapporto non soltanto con gli oggetti ma con la collettività e con il mondo, una modalità d’attivi tà sistematica e di risposta globale su cui l’intero siste ma culturale contemporaneo si fonda11. La definizione di una matrice entro cui collocare il racconto storico e la cultura del progetto è oggi un’esigenza portante degli studi
teorici sul design. Nel 1991 Frateili aveva proposto un’interessante ipotesi, articolata attraverso la strutturazione su due livelli: le massime grandezze di influenza che deter minano per convergenza fra loro l’essenza del design: la creatività figurativa, la tecnoscienza, e i comportamenti umani come fattore socio-antropologico visti come elementi portanti di una griglia esogena, e parallelamente dall’interno, come misura endogena la disarticolazione pluridisciplinare del design nelle sue molteplici componenti attive: modulazione del linguaggio, innovazione tecnologica e tipologica, i trend del consumo, la lettera tura e la saggistica, la cultura dell’immagine, la cultura della comunicazione12. Questo impianto sarebbe stato di grande utilità per poter chiarire la duplice accezione del termine design, quella di sostantivo e quella di predicato. Invece abbiamo assistito alla volgarizzazione del termine che sempre più nella pubblicistica contemporanea è stato usato come attributo. Il consumo, se mai ha un senso, è un’attività di mani polazione sistematica dei segni. L’oggetto-simbolo tradi zionale (strumenti di lavoro, mobili, abitazione) l’oggetto che porta chiaramente impressa nella sua sostanza … sempre vivo grazie al suo rapporto di transitività con il fatto o il gesto umano … e nella forma quest’oggetto non è mai consumato. Per diventare oggetto di consumo de ve diventare segno13 dunque non più oggetto materiale, ma privo di coerenza con il rapporto concreto, carico di senso e detentore di un valore astratto. Dunque l’artefatto diviene nell’epoca informatica un elemento ambiguo, rivolto simultaneamente alla concreta realtà produttiva e alla sfera dei convincimenti ideali. Il mutamento della materialità convive con l’apertura alla sperimentazione progettuale più astratta, in cui le qualità conformative e quelle rappresentative finiscono per coincidere14. Carlo Martino si è concentrato su queste pagine15 ad approfondire il panorama che la cultura progettuale del design contemporaneo ha percorso sino alle aporie delle de-
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rive presenti; vogliamo qui riprendere il filo del discorso dal punto in cui lo lascia Martino, l’idea cioè che il learning by doing dei nuovi makers sia l’orizzonte a cui rivolgere l’attenzione per poter nuovamente affermare il ruolo del designer in seno all’industria. Se osserviamo l’operare isolato del designer possiamo facilmente cadere nella convinzione che la sostanza del suo operare non sia tutto sommato mutata nel corso delle ultime due rivoluzioni industriali. In sostanza il designer è chiamato a dare un contributo che sempre più è quello dell’innovazione, cioè del miglioramento di un processo consolidato per produrre, o nella innovazione di prodotto, nel qualificarne i valori materiali e d’uso, economici e simbolici di una determinata tipologia o categoria merceologica. Se approfondiamo il tema ci troviamo sempre più di fronte ad un panorama dove le vecchie strutture produttive e quelle interpretative entrano in crisi. I makers nella loro espressione più radicale sono infatti irriducibili ad una dimensione industriale, essi rappresentano l’affermazione di un’idea di bricolage totale il cui orizzonte è la sparizione del designer, cioè di colui che controlla processo e prodotto, funzione e forma. Il maker è un artigiano moderno, ma in definitiva rimane un artigiano che assembla componenti avanzati, elettronica, nuovi materiali e forme sperimentali, capaci di produrre qualunque cosa ma privi della possibilità di intervenire sul piano dell’economia del progetto. Essi rappresentano certamente un’interessante possibilità ma solo sul piano della sperimentazione, devono cioè diventare agenti strategici della ricerca o trasformare le loro piccole imprese, i loro garage laboratori in centri produttivi per poter intervenire in modo essenziale sugli usi ed i costumi contemporanei. Sembrano cioè essere ridotti ad un uso eterodiretto delle tecnologie, in gran parte informatiche, di cui sono agenti e riproduttori. Il luogo però delle invenzioni è inaccessibile, fintanto che non accedono alla dimensione dell’invenzione; chiusi nei loro laboratori possono diventare artisti dell’autoproduzione ma molto raramente riescono a fare il salto da smanettoni a progettisti del
nuovo. Già Maldonado ci aveva avvertito di questa deriva che circa un secolo fa sembrava dominante nell’affermarsi della diffusissima figura dell’inventore bricoleur, dell’in ventore che pensa e fa da sé, che lavora con pochi mezzi e su scala domestica, l’inventore più o meno anonimo, che mai (o solo marginalmente) è menzionato dalle sto rie della tecnica. Viene da chiedersi: perché, nel secolo scorso, ha inizio una smodata proliferazione di questo tipo di inventore, una sorta di esplosione demografica di persone, normalmente sprovviste di conoscenze tecni che, che si impegnano nella ricerca febbrile della trovata divinatoria. È probabile che, in mezzo alla voragine della rivoluzione industriale e di fronte all’invadenza di un ca pitalismo ancora rozzo e spietato, il ricorso all’invenzio ne e al brevetto potesse essere visto come un tentativo, quasi sempre illusorio, di ridefinire creativamente una propria, calpestata identità16. Nel giugno 2009 è stato pubblicato dall’università Bocconi di Milano il volume Libro bianco della Creatività17, questo studio è il frutto del lavoro d’inchiesta della Commissione di studio ministeriale sulla Creatività e Produzione di Cultura in Italia. Il rapporto affronta il quadro della produzione culturale italiana approfondendo il contributo che questo macrosettore fornisce al complesso della produzione del paese (poco più del 10% del Pil con circa 2.5 milioni di addetti), raccoglie poi in sezioni specifiche la messa a fuoco dei diversi settori della produzione culturale, analizzandone criticità ed opportunità. Il Design, la Moda, l’Architettura, la produzione di Software, il Cinema, l’Industria del gusto, l’Arte contemporanea e il Patrimonio culturale sono gli ambiti che definiscono l’insieme degli argomenti della ricerca. A loro volta riordinate in tre macro-aree quali quelle della cultura materiale (design, moda e gusto), della comunicazione e del patrimonio. In premessa il curatore Santagata, che è un analista economico d’alto profilo, ci avverte, in qualche modo anticipando le conclusioni, che lo sviluppo economico delle industrie culturali è forte
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mente debitore al fenomeno della creatività. La creativi tà rappresenta uno degli asset dello sviluppo economico per diverse ragioni: I. perché è un input dei processi estetici, decorativi e di design e quindi ha un impatto sulla componente in tangibile e di proprietà intellettuale dei prodotti; II. perché è un input dei processi tecnologici innova tivi e quindi ha un impatto sull’innovazione, sulla pro duttività e sulla qualità tecnica dei prodotti; III. perché aggiunge ai prodotti una componente simbolica e quindi ha un impatto sulla domanda e sulla competitività. Il primo capitolo d’approfondimento ha per titolo Design e Cultura Materiale: un Binomio Italiano, e sancisce definitivamente il ruolo del design nel sistema italiano della creatività; porta avanti un’analisi carica di alcuni malintesi, ma orientata ad alcune proposte tese al rilancio del settore con azioni bottom up piuttosto che con le note operazioni di cosmesi finanziaria fatte negli ultimi anni per rilanciare il settore18, accorpando alcuni dei principali marchi del design italiano. Eppure nessuna politica specifica a sostegno di questo valore sembra discendere dal ben documentato rapporto ministeriale, fintanto che gli stessi organismi istituzionali, come il Consiglio Superiore del Design, commissione ministeriale istituita nel 2007, con lo scopo di coordinare azioni sistemiche del rilancio produttivo, appaiono ancora oggi come un convitato di pietra attorno alle spoglie di un sistema produttivo e culturale del design italiano. Il rapporto di Santagata individua alcune criticità proprie del sistema design: la scarsa consapevolezza, non tanto a livello individuale ma piuttosto a livello sistemi co, dell’importanza di questa componente artigianale diffusa nel territorio quale elemento caratterizzante del la qualità del design italiano, può incidere sulle sue pro spettive future e sulla possibilità di trasmissione di que ste conoscenze alle generazioni future. Più alti costi-op portunità, cioè una maggiore attrattività di altre profes sioni in termini di migliori aspettative di remunerazione,
potrebbero disincentivare le giovani generazioni ad inve stire il proprio tempo nell’acquisizione del know-how locale e a proseguire l’attività svolta, se non dalla loro stessa famiglia, da gran parte dei residenti nel loro terri torio d’origine. Può sorgere quindi un problema di tra smissione generazionale di conoscenze espressione della cultura materiale del territorio che, vista anche l’elevata componente tacita della conoscenza, può non essere compensata dall’ingresso di nuove forze, esterne al terri torio stesso. Affinché ciò sia possibile, è opportuno che a livello sistemico, i diversi attori locali, privati e pubblici, si sforzino di rendere quanto più possibile codificato e in quanto tale più facile da preservare e valorizzare il patri monio di conoscenze tacite espresse dal territorio. A tal fine, potrebbe essere utile intensificare il ricorso all’isti tuzione di scuole e corsi di formazione specializzati non ché di strumenti di certificazione della qualità della pro duzione locale quali i diritti di proprietà collettiva19. L’opposizione tra sistema tecnico e sviluppo industriale emerge dall’analisi come elemento conflittuale, tra le istanze del progetto e la sua effettiva praticabilità. Il design, quello orientato a svolgere la funzione di stile della produzione, storicamente privo di una teoria e ripiegato sulle pratiche, non può che essere rapidamente superato, mentre un design sensibile, non cosmetico, ricerca ancora oggi nella tecnica le opportunità per avanzare. Analizzando le caratteristiche dell’economia contemporanea vedremo che essa mescola cultura, conoscenza, arte e merce: in essa le com ponenti materiali e immateriali, reali e virtuali, formano un nodo inestricabile che non è possibile separare20.
1 Cfr. F. Celaschi, Il design come mediatore tra saperi, in Germak C. (a cura di), Uomo al centro del progetto, Umberto Allemandi & C., Torino 2008. 2 Maddalena Dalla Mura nel suo blog all’indirizzo http://www. maddamura.eu/maddamura_2006-2008/2007/05/27/cm1_tentativo_ di_definizione_1/.
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3 M. McLuhan, Gli strumenti del Comunicare, Il Saggiatore, Milano 1976. 4 T. Maldonado, Cultura materiale di fronte alla sfida informatica, in Atti dei Dialoghi di Milano. 5 J. Ellul, Il sistema tecnico, Jaca Book, Milano 2009. 6 D. Miller, Material Culture and Mass Consumption, Blackwell, Oxford 1987. 7 Cfr. J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti (1968), Bompiani, Milano 2004. 8 M. Akrich, De la sociologie des usages, in «Technique et Culture», n. 16, 1990. 9 G. Marrone, Dal design all’interoggettività: questioni introduttive. 10 Cfr. R. De Fusco, Storia del design, Laterza, Roma-Bari 1985. 11 J. Baudrillard, op. cit. 12 E. Frateili, Storia, progetto, questioni di metodo 1991, ora in Enzo Frateili, Architettura Design Tecnologia, a cura di Piercarlo Crachi, Skira, Milano 2001. 13 J. Baudrillard, op. cit. 14 Cfr. R. De Fusco, Parodie del design, Umberto Allemandi & Co., Torino 2008. 15 Cfr. C. Martino, Design: verso una riscoperta della cultura materiale, in «Op. cit.», n. 143, giugno 2012. 16 T. Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1995. 17 AA.VV., Libro bianco della Creatività, a cura di W. Santagata, Bocconi, Milano 2009. 18 Ci si riferisce qui alla unificazione mediante operazioni finanziarie delle imprese del design italiano come il fondo Charme di Montezemolo e Della Valle, operazioni che hanno finito, piuttosto che rilanciare il settore con il chiuderlo all’interno di una malintesa sfera del lusso. 19 AA.VV., Libro bianco della Creatività, cit., cap. 3 Design e Cultura Materiale: un Binomio italiano. 20 S. Maffei, Verso un’economia finzionale. Il design di fronte alla cultura (im)materiale contemporanea, in «Sistema Design Magazine», n. 3, 2006.
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Interni d’avanguardia Imma Forino
Il riflesso dell’avventura artistica delle avanguardie1 si coagula espressivamente in lampo esplosivo, che balugina per brevi e circoscritti istanti in progetti, realizzazioni, ambienti abitati e spazi allestiti durante tutto il Novecento. Più che un’analogia diretta, strutturale o metodologica fra poetiche figurative e interni architettonici, ricerchiamo le corrispondenze ideali che animano l’attività innovativa di artisti e progettisti operanti nel medesimo lasso di tempo, privilegiando le emergenze progettuali della storiografia architettonica rispetto ai paradigmi teorici. Dall’inizio del XX secolo al primo dopoguerra, nascono, si confrontano, si superano a vicenda correnti artistiche, personalità, tensioni emotive molto diverse. Il rapporto che si instaura fra le avanguardie storiche e il Movimento Moderno è esplicito, evidente, flagrante, anche perché il più delle volte ricercato apertamente dagli stessi artisti e architetti. Fra questi protagonisti del resto alcuni, come Theo van Doesburg, Le Corbusier, El Lissitskij, Kazimir Malevic,] Max Bill, spaziano liberamente fra l’architettura, la scultura, la pittura. Supponendo un terreno comune di scambi fra arte figurativa e architettura degli interni, talora complementare nonostante le specificità disciplinari, là dove un manipolo di agguerriti sostenitori dell’arte ne insegue una nuova e rivoluzionaria idea – offrendosi al «fuoco nemico» di critica e pubblico –, a poca distanza altri artisti si cimen-
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tano nel rompere con una tradizione consolidata del progettare per dar vita a spazialità, che al contempo prefigurano altri modi di abitare. Se l’avanguardia è tale «solo se rimane nell’ambito dei disegni, progetti e teoria, ovvero quando si possono ascrivere ad essa solo opere rimaste irrealizzabili»2 e se l’architettura per concretizzarsi deve invece giungere al compromesso con le direttive socioeconomiche della società, gli interni – per lo più opere effimere come gli allestimenti o emblemi della brevitate vitae come gli arredamenti – si prestano a poter essere giudicati come vividi e autentici riflessi di avanguardia in architettura. Trasferito dal gergo militare nella realtà dell’espressione artistica3, il termine avanguardia individua gli artisti che vogliono rompere del tutto con l’arte del passato, in particolare con la tradizione classica, e innovare totalmente l’e spressione del presente: nel dare per scontato il superamento del passato, l’avanguardia prende atto della crisi del presente. Caratterizzata dall’idea di anticipazione, avanscoperta, innovazione radicale, la sua ideologia è altresì contestazione globale: l’avanguardia «si muove “contro” quasi tutto e tutti»4. Fra quelle storiche sono compresi i vari -ismi, per lo più legati alla pubblicazione di un pungente Manifesto d’intenti. I diversi movimenti artistici hanno in comune la presa di distanza dal concetto di rappresentazione della realtà – ora è l’artista a creare la sua realtà – e il perseguimento del «programma sociale» dell’arte – l’artista opera nella società –, benché i due concetti siano differentemente intesi da ogni -ismo. Se le avanguardie storiche sono legate indissolubilmente al XX secolo, la nozione di avant-garde è in realtà già presente sulla scena artistica della seconda metà dell’Ottocento, come «una novità non di forma ma di sostanza, … un fenomeno veramente d’eccezione nella storia della cultura»5. Théodore Duret è fra i primi a usare il termine per intitolare la raccolta di scritti Critique d’avant-garde (1885) sulla pittura e le opere di James Abbott McNeill Whistler, Édouard Manet e degli impressionisti. L’autore si riferisce soprattutto alla dialettica fra rottura e innovazione di un pa-
norama artistico consolidatosi da tempo attraverso le Accademie di Belle Arti (soprattutto l’Ecole des Beaux-Arts a Parigi e la Royal Academy a Londra) e le esposizioni ai Sa lon francesi e all’accademia inglese. Trent’anni prima, con l’opera L’atelier du peintre: Allégorie réelle déterminant une phase de sept années de ma vie artistique – rifiutata dalla giuria dell’Exposition Universelle di Parigi (1855)6, ma esposta dall’artista nel suo Pavillon du Réalisme con ingresso a pagamento7 –, il realista Gustave Courbet allude ancora a un mondo privato e dalla selezionata partecipazione8, ma che sta cambiando. A cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, infatti, in Europa le tendenze artistiche affrontano una realtà diversa da quella accademica. L’unità spirituale e culturale del XIX secolo è ormai sorpassata: artisti, letterati, architetti contrastano la stasi intellettuale ricercando un’idea d’arte capace di interpretare lo spirito dell’uomo contemporaneo. I nuovi obiettivi del fare arte sono ora individuati nell’abbandonare i modelli storici, nell’integrare le arti maggiori e le arti minori, nel riabilitare la decorazione e aspirare a un linguaggio artistico internazionale. Se l’anticipazione dell’avanguardia da parte degli impressionisti è ancora legata a una rappresentazione del reale, ancorché in movimento, d’altra parte essi rappresentano per Duret i primi «artisti di ricerca»9. Ostili all’arte narrativa o celebrativa delle accademie, gli impressionisti vi oppongono un’azione creativa inedita, tesa a distruggere quello «spazio cubico» che, dal Rinascimento in poi, aveva condizionato la rappresentazione pittorica. La loro ricerca recupera comunque il valore dell’immagine come tale, nel tentativo di esprimere l’istantaneità e l’irripetibilità degli eventi con l’interpretazione del divenire della realtà attraverso un modo nuovo di trattare il colore. La prima vera avanguardia storica è l’espressionismo con l’aspirazione a svelare la realtà interiore dell’artista, secondo due principali tendenze: colore e luce (i Fauves, 1905) e pura interiorità (Die Brücke, 1905). A queste poetiche sembrano rifarsi Hans Poelzig, Bruno Taut, Hugo Hä ring, Erich Mendelsohn con il desiderio di riscattare una
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società meccanica basata sull’ossessione del tempo. Cominciano a operare nell’anteguerra, ma sviluppano le loro idee a partire dal dopoguerra: non accettano la scatola architettonica, ma perseguono una spazialità capace di entrare in relazione con il corpo. Il padiglione di vetro di Taut (Esposizione del Deutscher Werkbund, Colonia, 1914) è dedicato alla luce e al colore quanto La desserte rouge (1908) di Henri Matisse. All’interno della struttura, persino la scala in vetro deve riflettere l’estensione e la potenza luministica. Il vetro è altamente simbolico: la trasparenza è allegoria di una nuova purezza collettiva; la rarefazione della materia simboleggia il trapasso dal reale all’irreale, dal pesante al leggero, e metaforizza la liberazione cosmica. È, però, soprattutto Poelzig con il progetto del teatro berlinese (Teatro di massa, 1919) a coagulare l’espressionismo quale rappresentazione del movimento interiore in un interno, grazie al denso insieme di stalattiti che sembra colare dal soffitto e che rammenta la tensione claustrofobica di alcune opere di Ernst Ludwig Kirchner come, per esempio, la sua Alpine Kitchen (1918). La distruzione dello spazio cubico è completata dal cubismo: rompendo le sovrastrutture culturali ufficiali e sconfinando in ambiti più vasti, dà vita una rivoluzione concettuale che muta radicalmente il concetto di spazio. Pablo Picasso e Georges Braque concentrano la loro attenzione sulla realtà in quanto soggetto della rappresentazione, senza trascenderla; ma in effetti muta il loro modo di osservare il mondo reale per rappresentarlo secondo nuove percezioni spaziali. La moltiplicazione dei punti di vista e la libertà dal vincolo della figurazione realistica affrancano i pittori cubisti dallo spazio empirico. Il cubismo non ha un immediato riscontro in architettura, a meno delle prove praghesi di Josef Goc]ár (Casa della Madonna nera; casa bifamiliare a Tychonova ulice, entrambe a Praga nel 1911-12), dove l’aspetto scultoreo è dominante, e di altre esperienze ceche, come per esempio le architetture di Josef Chochol (edificio residenziale Hodek, Praga 1913-14). Negli interni cecoslovacchi sono gli arredi e gli oggetti
di Goc]ár, Chochol, Vlatislav Hofman e Pavel Janák a declinare con più evidenza la poetica cubista attraverso «un fenomeno unico nella produzione del mobile»10. Bisogna attendere gli anni Venti per altri interni con ascendenze cubiste, come quelli di Robert Mallet-Stevens (Villa de Noailles, Hyres 1923-28), e in particolare le sue scenografie per il film L’inhumaine (1924) con la regia di Marcel L’Herbier11. Nei giardini dell’armeno Gabriel Guevrekian, invece, la tradizione orientale del tappeto intrecciato è trasformata dall’influenza cubista in forme geometriche accompagnate da luci e suoni. Il suo giardino triangolare per la Villa de Noailles (1924 circa) o il Jardin d’eau et de lumière all’Exposition Internationale des Arts Décoratifs di Parigi (1925) sono «interni a cielo aperto», da contemplare secondo più punti di vista, più che da attraversare. Dopo la prima guerra mondiale la pluralità del punto di vista cubista è un’ipotesi di ricerca che guida tutto il Novecento e che si riflette nei suoi spazi. Se è palese nel Raumplan loosiano, dove l’abitante è un voyeur che trapassa con lo sguardo gli ambienti interni (casa Moller, Vienna 192728; casa Müller, Praga 1928-30), pure è declinata da Le Corbusier12. È infatti il polemista di Aprés le cubisme (scritto con Amédée Ozefant nel 1918) che, attraverso un tentativo di razionalizzazione geometrica dello spazio energico e frammentario di Picasso, sembra traghettare il cubismo verso la modernità. Nella Maison La Roche (Parigi 1925), per esempio, l’atrio dell’ingresso è alterato da Le Corbusier e Pierre Jeannaret in dinamicità quadrimensionale per la vista e per il corpo, che lì si muove, sosta, si affaccia, guarda fuori, si riflette nuovamente all’interno. Lo spazio si scandisce attraverso il tempo e la promenade architecturale dalla galleria verso lo studio è un altro stratagemma architettonico per portare a compimento tale idea. D’altra parte, Siegfried Giedion paragona il cubismo di Picasso all’edificio del Bauhaus di Walter Gropius (Dessau 1926): Due delle più urgenti istanze dell’architettura trovano qui adempi mento: (…) il raggruppamento sospeso e verticale dei piani che soddisfa il nostro senso dei rapporti spaziali; e
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la trasparenza, realizzata in pieno, tanto che siamo in grado di vedere simultaneamente interno ed esterno, en face e en profile, come «L’Arlésienne» di Picasso del 1911-12: molteplicità di livelli di riferimento o di punti di riferimento, e simultaneità – per dirla in breve, la con cezione spazio-tempo13. Il critico nota come in entrambe le opere sia abolita la percezione prospettica di tipo tradizionale e introdotta la dimensione spazio-temporale, esaltata da planarità, trasparenza, punti di vista multipli, richiesti per apprezzare le nuove composizioni. Qui il cubismo diventa «dematerializzazione, ma anche profezia di un nuovo Zeitgeist»14. Dinamismo, accelerazione, cambiamento, spinta verticale, linee-forza sono i temi che trapassano i quadri futuristi per diventare architettura. Il Manifesto dell’architettura futurista (1914) è stilato da Antonio Sant’Elia, ma la città futurista trova espressione soprattutto in opere figurative. Sono piuttosto alcuni interni a portarne in evidenza le idee, operando una sintesi fra superficie muraria e la corrispondente pittorica: tutto lo spazio è percorso da un cromatismo che accende ogni dettaglio dell’invaso e in cui predominano la mobilità dei colori e i materiali effimeri, come cartone e fogli metallici. Il progetto Studio per un ambiente futurista (1912) di Giacomo Balla può essere considerato il primo intervento globale futurista su un interno, mentre la Saletta Trentina (I Mostra Internazionale delle Arti Decorative alla Biennale di Monza, 1923) di Fortunato Depero esplicita l’intensa relazione fra le opere esposte e il contenitore architettonico, su cui sembrano prolungarsi. Gli interni di Casa Zampini (Esanatoglia 1925-26) di Ivo Pannaggi coagulano poi l’esperienza futurista con quella del cubismo, dando vita a un’opera d’arte totale, dove non è possibile scindere l’arredamento dall’intervento artistico: il soffitto è costruito come un’architettura altra, che si prolunga nell’invaso architettonico, e le pareti si animano con rientranze e sporgenze. «L’enigma di un quadro privo di codici di identificazione, e tuttavia dotato di un “grande fuoco interiore”»15 è il codice principale dell’astrattismo. Si traspone attraverso la
dissoluzione dell’immagine realistica sino a divenire puro colore, traducibilità fra colori e suoni, istanza di frammentazione e riarticolazione data dall’instabilità della natura, relazionalità dei fattori cromatici e, infine, rinnovato rapporto con la natura, non compromesso da filtri culturali. L’astrattismo quale progressiva semplificazione della forma di Piet Mondrian, espressa per esempio nella serie pittorica degli alberi (The Red Tree, 1909; The Grey Tree, 1912; Aplee Tree in Flower, 1912; Trees in Blossom, 1912) è trasformato da Theo van Doesburg, che ne forza l’impianto concettuale in teoria architettonica. Per quest’ultimo il gioco dei piani colorati struttura lo spazio, trasformando l’architettura in plasticità. Con il progetto e i modelli della Maison Particulière e della Maison d’Artiste, esposti a Parigi nel 1923, Cornelis van Eesteren e van Doesburg assemblano in modo dinamico nelle tre direzioni cartesiane le lastre rettangolari delle pareti verticali e dei piani orizzontali attorno ai fulcri dinamici di scale e camini, a circoscrivere ambienti in cui l’interno e l’esterno si compenetrano. Anche il cabaret-caffè Aubette (Strasburgo 1927-28) di van Doesburg cerca di tradurre il medesimo linguaggio, ma rimane circoscritto dal contenitore architettonico, risolvendosi in un insieme di elementi colorati resi dinamici dalle linee diagonali, peraltro aborrite da Mondrian. La scatola architettonica è invece de-oggettivizzata da Gerrit Th. Rietveld: la casa Schröder (Utrecht 1925) scompone lo spazio in piani e dematerializza l’architettura (come dimostra la finestra ad angolo del soggiorno); inoltre propone una nuova cultura dell’abitare, scevra da formalità e tesa a un comunitario e socievole spirito famigliare. Con il Quadrato nero sul fondo bianco (1913), esposto nell’angolo fra due muri e vicino al soffitto alla Seconda esposizione futurista di quadri 0,10 (Pietrogrado 1915), Kazimir Malevic] dà vita al suprematismo. Il Quadrato nero è l’«icona del moderno», che rinnega definitivamente ogni legame con la natura. Nel Manifesto del Suprematismo (1915), scritto da Malevic] con il poeta Vladimir Majakovskij, l’artista nuovo deve guardare a un’arte liberata da fini
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pratici ed estetici e lavorare solo assecondando la pura sensibilità plastica16. L’astrazione si riversa in architettura: come un quadro si riduce a una superficie bidimensionale e una scultura a un volume tridimensionale, un’architettura diventa oggetto spaziale. Nell’allestimento Der Sturm (Berlino 1921) Ivan Puni accumula opere in modo imprevisto: non le allinea sull’asse ottico, in alto o in basso, ma le disperde per tutte le superfici della galleria, a soffitto, a pavimento, su porta e finestre, a parete. Ricopre ogni elemento architettonico con lettere, disegni, figure, numeri, dipinti e forme geometriche: «il risultato è una costellazione visuale, […] l’impatto polifunzionale»17. I presuppostivi figurativi del costruttivismo sono simili ai contemporanei movimenti del cubismo, del dadaismo e del futurismo. Come in quest’ultimo, vi è il rifiuto dell’arte borghese e il progetto di individuazione del nuovo linguaggio nelle proposte della tecnologia e della meccanica del l’industria. È la prospettiva politica di un’arte nuova per una nuova società. Di intensa sperimentazione, il costruttivismo architettonico dura sino al 1933, ma solo in pochi casi supera lo stadio del progetto. Nella casa-studio (Mosca 1927-29) di Konstantin Mel’nikov, generata dall’intersezione di due cilindri, prevale la fascinazione simbolica guidata da un’idea eversiva dell’abitare. L’intimità è quasi negata grazie a «una particolare integrazione famigliare degli spazi del sonno, con letti fissi raccordati a guscio al pavimento»18. Lo spazio del letto coniugale è schermato solo da brevi setti murari rispetto ai letti del figlio e della figlia, mentre i loro piccoli ambienti per il gioco e lo studio e gli arredi del guardaroba personale sono lasciati al piano inferiore. El Lissitskij, discepolo di Malevic], cerca invece di conciliare quarta dimensione, suprematismo e costruttivismo. Alla Grande Esposizione di Berlino (1923) sia lui che Kandinskij non si presentano con quadri o sculture, ma propongono esempi ambientali: nel Proun di El Lissitskij vi è assoluta coincidenza fra la «macchina allestitiva» e l’opera d’arte. Meno fortuna critica ha la relazione fra architettura e arte dadaista e surrealista, ma a lungo vitali sono i loro ri-
flessi e rimandi negli ambienti. In particolare, Dada non rea lizza architetture, a meno di due interni: l’una è Porte: 11, la porta dello studio di Marcel Duchamp a Rue Larrey (Paris 1927), che è nello stesso tempo aperta e chiusa, poiché incernierata a metà di due vani posti fra loro a 90 gradi. L’altra è il work-in-progress del Merzbau (Hannover 1923) di Kurt Schwitters: costruito con oggetti, ricordi di altri artisti e rifiuti, è «a metà fra un oggetto tridimensionale esistenziale e un’opera di interni»19. Quanto il dadaismo elabora il gioco, la contraddizione, il senso dell’assurdo e del non-sense, tanto il progetto surrealista lavora per sommatoria, per accumulo, per aggiunta. È un addensamento di significati che René Magritte sintetizza ponendo un corpo di donna dentro l’altro, e questi dentro un altro ancora e così via, in una moltiplicazione di meraviglie (L’importance des merveilles, 1927). È un’immagine da lui riproposta in dettaglio persino nella copertina che disegna per la rivista Minotaure (n. 10, 1937), diretta da André Breton: «dove uno scheletro di toro, in mantello nero, in cui si è identificato il marchese Charles de Beistegui, passeggia su una terrazza, che traguarda un arco di trionfo»20. Si tratta in realtà della trasposizione dell’attico che Le Corbusier realizza a Parigi, fra il 1929 e il 1931. Il debito di Le Corbusier al surrealismo si solidifica proprio nel progetto per de Beistegui, dove l’architetto usa la tecnologia per far sparire siepi, azionare il movimento di porte e pareti, permettere proiezioni cinematografiche sullo schermo mobile del soggiorno. La luce elettrica vi è però bandita, poiché solo la candela emette «luce viva» secondo il marchese. Il panorama parigino può essere interamente colto con un periscopio, perché al culmine del percorso attraverso la casa – la chambre à ciel ouvert della terrazza finale – alti muri lasciano solamente intravedere i dettagli dello skyline urbano, come la sommità dell’Arco di Trionfo e della Torre Eiffel. Qui il flâneur cittadino può guardare con elegante distacco al gran teatro delle merci offerto dalla rutilante città – o almeno è ciò che desidera fare intendere l’architetto21.
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Negli anni in cui lavora presso lo studio di Le Corbusier, il pittore cileno (laureato in interior design) Roberto Sebastian Matta si interroga sull’interno onirico, trasferendo le sue pittoriche Morfologies Psycologiques nel project-maquette per un appartamento («Mathématique sensibile: Architecture du temps», 1938)22. Rispetto all’imperante idea razionalista, sono eros, tattilità e visceralità, le emozioni sensoriali, a generare lo spazio come un visionario paesaggio domestico dell’inconscio, dove l’artista rende visibile l’invisibile. Prevale un’idea materna, femminile dello spazio: cavità accogliente e umorale, secondo un archetipo caro ai surrealisti, cui corrisponde un’ideale visione della società e della «relazione armonica dell’individuo con il tutto»23. Infine, in tale interno domestico l’arredo è concepito in funzione della persona che deve, a sua volta, accogliere. Nello stesso anno, il 1938, all’Exposition Internationale du Surréalisme, organizzata da Breton con Paul Eluard alla Galerie Wildenstein di Parigi, Marcel Duchamp appronta un allestimento che fa leva sui medesimi principi sensoriali. La scatola architettonica del contenitore è soppiantata da un’atmosfera densa e onirica, che quasi soffoca le opere d’arte esposte. I milleduecento sacchi di carbone, appesi al soffitto della «grotta» che così si viene a generare, e i manichini di donna allestiti da ciascun artista provocano choc, paura, piacere nei visitatori24. E ancora, l’interno sopravanza le opera d’arte esposte, nell’allestimento che lo stesso Duchamp compone a New York per la mostra Miles of String (First Paper of Surrealism, 1942): una tela di ragno quasi le soffoca. La componente pulsionale surrealista emerge in tutta la sua intensità nella galleria The Art of This Century (New York 1942) di Frederick Kiesler per Peggy Guggenheim: nel contrasto fra la Surrealist e l’Abstract Gallery, progettate in modo difforme per i differenti contenuti che ospitano, così come nella concezione spaziale di ognuna di esse. La Surrealist Gallery recupera le Morfologies di Matta accendendole di luci intermittenti e di suoni (il fischio di un treno in partenza). Avvolgendo il visitatore (le contropareti late-
rali curve che supportano con bracci movibili i quadri), lo conduce in un mondo onirico e quasi primigenio. L’Abstract Gallery, dall’intenso color blu oltremare, filtra invece lo sguardo di chi la attraversa per contemplare le opere attraverso fili tesi che ne segmentano i passi – non più tele di ragno, ma reti dipanate nel vuoto. La qualità di paesaggio avvolgente, materno, sognante dell’interno è accentuata nel successivo progetto di Kiesler, con Armand P. Bartos, della Word House Gallery a New York (1956-57). Qui le intuizioni spaziali della teoria del correalismo – che si oppone alle idee funzionaliste predicando un ritorno alle origini nell’architettura e ponendo al centro l’uomo –, a lungo inseguita da Kiesler nel progetto della Endless House, sembrano concretizzarsi sotto forma di pura astrazione, abolendo gli angoli retti e modificando lo spazio esistente in un guscio continuo. Ma lo «spazio senza fine» generato dalla galleria d’arte Word House deve molto anche all’espressionismo astratto americano, le cui opere ospita nei suoi ambienti. Con i suoi sette manifesti pubblicati dal 1947 (Manifesto Blanco) al 1953, lo spazialismo sembra sviluppare alcune premesse del futurismo, proponendosi di rinnovare il linguaggio della pittura e scultura per adeguarlo al progresso scientifico ovvero elaborare nuovi strumenti di comunicazione che si avvalgono della tecnica moderna (luce nera, radio, televisione) per dar vita a forme, colori, suoni attraverso gli spazi. Del resto, è … sintomatico notare come, già in quel periodo, [Lucio] Fontana avvertisse l’urgenza di constatare l’insufficienza del «quadro da cavalletto» e della trita distinzione tra quadro e statua, affermando l’importanza di un’arte capace di protendersi oltre i li miti della tela o della creta per spaziare in dimensioni più vaste ed inesplorate25. A Milano in via Fiori Chiari 2, la Galleria del Fiore (1953) del gallerista Luciano Cassetto, tinteggiata nei toni del bianco e nero, semplice e lineare, è dedicata dall’architetto Vittoriano Viganò agli amici astrattisti. Cassetto, che in precedenza si era dedicato all’arte ottocentesca, apre infatti lo spazio a pittori come Alberto Magnelli, Enrico Pram-
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polini, Mario Radice e Mauro Reggiani. Chiusa in un interno angusto e introverso, che si sviluppa in lunghezza, la galleria ha cavalletti, tavoli, montanti e supporti in ferro laccato nero. Sottili lampade fluorescenti sono sospese nello spazio con cavi tensori in acciaio mentre l’illuminazione delle vetrine è realizzata con lampade orizzontali o schermate, mobili dall’alto al basso lungo due rotaie verticali: «Poche cose insomma, ma spero tutto il necessario», scrive in proposito Viganò26. Simile nell’impostazione ma dalle dimensioni più ridotte, la Galleria Apollinaire (1956, in Via Brera 4 a Milano) del gallerista Guido Le Noci, sviluppa maggiormente il tema della «spazializzazione»: nel progetto non vi è solo il riferimento alle opere coeve di Fontana – che guadagnano appunto lo spazio superando il bidimensionalismo del piano pittorico –, ma risuona altresì l’eco di Bruno Zevi sulle ragioni dell’architettura, incentrata sullo spazio interno: il carattere precipuo dell’architettura […] sta nel suo agire con un vocabolario tridimensionale che include l’uomo. […] L’architettura … è come una grande scultura scava ta nel cui interno l’uomo penetra e cammina27. Una posizione teorica avallata anche da Giulio C. Argan, che scrive su Metron, rivista diretta da Zevi: il processo dell’architet tura, la costruzione, non è altro che il processo del porre o determinare lo spazio, dello «spazieggiare»28. Viganò applica tali concetti all’allestimento delle opere d’arte nella Apollinaire: è «un gioco plastico per spazializzare anche la pittura, il tutto in termini di arte povera»29. La galleria si sviluppa in una sola stanza quadrata, con porta e vetrine in cristallo sulla strada. L’aspetto è semplice e austero: le pareti sono lasciate a intonaco grezzo, configurandosi cioè come incolore fondale per le opere, esaltandone materie e colori, specie se prive di cornici. I quadri sono fissati a montanti di alluminio sospesi e staccati dal soffitto (dipinto di bianco) e dal pavimento (in legno). L’illuminazione è a vista, posizionata a poca distanza dal soffitto. Una porticina, anch’essa staccata dal pavimento, conduce a un piccolo ripostiglio e al bagno.
La neoavanguardia si coagula intorno agli anni Sessanta. Il 1956 segna il decollo presso la galleria newyorkese di Lucio Castelli della generazione Pop, mentre in Inghilterra si apre la mostra This is Tomorrow, che consacra la Pop Art e il New Brutalism quali nuovi influssi per l’arte e l’architettura. Un ulteriore apporto alle avanguardie radicali è dato dal musicista John Cage e dai situazionisti. Cage le influenza attraverso «la passione per gli eventi casuali della vita, la poetica dell’indeterminato, […] la sua capacità di inserire elementi extradisciplinari quali rumori e silenzi all’interno dell’opera [musicale]»30. I situazionisti – il cui primo rappresentante è il Guy Debord del movimento Lettrista, salvo poi rinnegarlo in seguito (La société du spectacle, 1967) – elaborano invece «il tentativo di strappare l’arte all’utile e alla funzione»31. La loro ricerca poetica è posta come deriva (dérive) e dislocazione (détournement), come tensione verso il gioco, come distacco per il senso compiuto. In ambito architettonico emergono problematicamente la contestazione dei principi del Movimento Moderno, la crisi dei linguaggi, il rifiuto dei comportamenti consolidati, altresì segnalati dalla definitiva rottura dei Congressi Internazionali di Architettura Moderna (CIAM). Nuove visioni spaziali e abitative vengono alla luce: la New Babylon di Constant (1959) è un insediamento urbano «dove l’homo ludens vagherà liberamente, creando e cambiando a piacere il proprio habitat»32. È un’architettura che fa leva su tutti i sensi, dove le case hanno moltissime stanze, spazi vuoti, percorsi ciechi: sono spazi da attraversare avventurosamente. L’anti-monumentalità, l’autarchia, la flessibilità, la mobilità sono, peraltro, i valori che Reyner Banham, portavoce del gruppo degli Archigram, chiede alla nuova architettura. Rispetto al progetto di Plug-in City (1964-65), in cui l’interno è ridotto a cellula da assemblare, il Living-Pod (1965) di David Greene e il Cushicle (1966) di Mike Webb rappresentano le proposte più vicine al concetto di habitat personale: capsule autonome, tende autosufficienti, che consentono la dislocazione. L’architettura radicale italiana porta, infine, alle estreme
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conseguenze la cultura neoavanguardistica: le proposte di Archizoom, Superstudio e Sturm al Musem of Modern Art di New York (mostra Italy: The New Domestic Landscape, 1972) propongono un ideale non più traducibile in termini meramente architettonici. I precedenti modelli sono infatti azzerati: a essere modificata è ora la scala dimensionale dell’abitare. Con questi progettisti è, anzi, il territorio a essere concepito come un interno. È la proposta radical che, raccogliendo la sfida della Land art, libera il progetto dal l’architettura. Ne consegue l’ampliamento, o meglio la rettifica, del concetto di spazio abitabile: l’interno non è più un volume, serrato da limiti precisi, ma un’estensione. Nei fotomontaggi concepiti dagli Archizoom e da Superstudio l’utopia perseguita è l’inutilità della figuratività: nomadismo, mutazione e indefinitezza sono, invece, i presupposti dell’avvenire con cui dovrà confrontarsi l’abitare. Il voyeur del Movimento Moderno si trasforma così in voyageur33: allo spazio progettato subentra la dimensione del dislocamento, del movimento, della perdita del centro predicata dai situazionisti. La Pop art di Andy Warhol e di Claes Oldenburg, il ready-made di Duchamp, la sensibilità decostentualizzante dei Dada influenzano i primi interni di Frank O. Gehry: la casa dell’architetto (Los Angeles 1978) e gli uffici Mid Toyota Atlantic (Maryland 1979). In questi ultimi lo spaesamento è indotto da elementi diagonali che intersecano lo spazio, che fanno perdere ogni relazione con il contenitore architettonico. Le pareti ritagliate degli ambienti cellulari consentono il dialogo visivo fra gli utenti, mentre gli impianti e l’illuminazione artificiale sono a vista: l’assemblage e la sovrapposizione governano quest’ufficio così come l’abitazione personale. Alla deriva situazionista, Gehry sembra rispondere con la concretezza del cheap-scape americano. Rispetto a un mondo di crisi, la sua prima soluzione è sviluppata «nell’interno»: qui l’artista canadese cerca un rinnovamento della ricerca architettonica, azzerandone i manierismi e vivificandola con un linguaggio libero da regole e costrizioni. Alla fine degli anni Settanta, Gehry sembra
essere l’ultimo combattente «in prima linea», ma già sembra sorridere a quella battaglia virtuale che, d’ora in poi, si esperirà quasi esclusivamente attraverso lo spettacolo delle immagini.
Il testo rielabora e amplia il saggio a mia firma: I. Forino, Lampi d’avanguardia e bagliori di interni, in G. Cafiero, a cura di, Lezioni, E.S.I., Napoli 2012, pp. 137-145. 1 Con Avanguardie storiche si indica una precisa periodizzazione, che va dal primi anni del Novecento al primo dopoguerra (circa al 1925), per distinguerle dalla Neoavanguardia, relativa agli anni Sessanta, e dalla Transavanguardia, neologismo coniato da Achille Bonito Oliva negli anni Ottanta. 2 R. De Fusco, L’architettura delle quattro avanguardie, Arte Tipografica Editrice, Napoli 2005, p. 22. 3 Dal fr. avant-garde, prima della guardia, cioè le frange dei soldati in prima linea che precedono l’esercito per aprirgli un varco fra le linee nemiche. 4 R. De Fusco, op. cit., p. 13. 5 R. Poggioli, Teoria dell’arte d’avanguardia, Il Mulino, Bologna 1962, p. 27. 6 L’Exposition Universelle di Parigi del 1855 sostituiva i Salon del 1854 e del 1855. 7 Cfr. A. Negri, L’arte in mostra: Una storia delle esposizioni, Bruno Mondadori, Milano 2011, p. 48. 8 Nel quadro è raffigurato anche Charles Baudelaire (figura al l’estrema destra), immerso nella lettura di un libro. 9 Cfr. D. Riout, L’arte nel ventunesimo secolo. Protagonisti, temi, correnti (2000), Einaudi, Torino 2002, p. 7. 10 O. Herbenva, Interni e mobili: Teoria e prassi, in Cubismo cecoslovacco. Architetture e interni, a cura di F. Burkhardt e M. Lamarová, Electa, Milano 1982, p. 142. 11 L’inhumaine, 1924, regia di Marcel L’Herbier, soggetto di Pierre Dumarchais, Georgette Leblanc e Marcel L’Herbier, scenografie di Robert Mallet-Stevens e Fernand Léger, interpreti principali: Jaque Catelain, Léonid Walter de Malte, Philippe Hériat, Fred Kellerman, Georgette Leblanc, Marcelle Pradot. 12 Cfr. B. Colomina, The Split Wall: Domestic Voyeurism, in H. Cornelissen, a cura di, Dwelling as a Figure of Thought, SUN, Amsterdam 2005, p. 69. 13 S. Giedion, Spazio, tempo e architettura. Lo sviluppo di una nuova tradizione (1948), Ulrico Hoepli Editore, Milano 1984, p. 484. 14 L. Prestinenza Puglisi, Forme e ombre. Introduzione all’architettura contemporanea, 1905-1933, Testo&Immagine, Torino 2003, p. 54. 15 D. Riout, op. cit., p. 22.
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16 Cfr. M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano 2005, p. 390. 17 G. Celant, «Una macchina visuale: L’allestimento d’arte e i suoi archetipi moderni», in Rassegna, n. 10, 1982, p. 8. 18 G. Ottolini, La dissoluzione della stanza nella modernità, in G. Ottolini, P.L. Cerri, a cura di, La stanza, SilvanaEditoriale, Milano 2010, p. 51. 19 L. Prestinenza Puglisi, op. cit., p. 143. 20 A. Gorlin, «The Ghost in the Machine: Surrealism in the Work of Le Corbusier», in Perspecta, vol. 18, 1982, p. 61. 21 Cfr. M. Tafuri, «“Machine et mémoire”: La città nell’opera di Le Corbusier. 1», in Casabella, n. 502, maggio 1984, p. 44. 22 R.(S.) Matta (Echaurren), «Mathématique sensible - Architecture du temps» (adaptation de G. Hugnet), in Minotaure, n. 11, a. V, 1938, p. 43. Del progetto di Matta ho già accennato su questa rivista, cfr. I. Forino, «Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee», in Op. cit. Selezione della critica d’arte contemporanea, n. 125, gennaio 2006, pp. 37-39. 23 G.C. Argan, Progetto e destino, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 27. 24 Cfr. A. Greco, Quando la mostra è allestimento, in L. Altarelli, a cura di, Allestire. Attraversamenti Temi Territori Ibridazioni, Palombi Editori, Roma 2005. 25 B. Castello, S. Zampini, “La Crisi del Supporto”, in XÁOS: Giornale di confine, a. I, n. 3, 2002-2003, www.giornalediconfine. net/n_3/art_13.htm [febbraio 2012]. 26 V. Viganò, «Una galleria in bianco e nero», in Edilizia Moderna, n. 54, 1955, p. 73. 27 B. Zevi, Saper vedere l’architettura (1948), Einaudi, Torino 1951, p. 21. 28 G.C. Argan, «A proposito di spazio interno», in Metron, n. 28, 1948, p. 21. 29 V. Viganò, «Allestimento di una mostra, allestimento di una galleria», in Domus, n. 315, 1956, p. 35. 30 L. Prestinenza Puglisi, This is Tomorrow. Avanguardie e architettura contemporanea, Testo&Immagine, Torino 1999, p. 17. 31 Ibidem. 32 Ivi, p. 63. 33 Cfr. G. Bruno, Atlante delle emozioni: In viaggio tra arte, architettura e cinema (2002). Bruno Mondatori, Milano, p. 16.
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Libri, riviste e mostre
M. Ferraris, Lasciar tracce: documentalità e architettura, Mi mesis, Milano-Udine 2012. Il saggio si inserisce nella collana Mimesi - Nuovo Realismo, curata da Mario de Caro e Maurizio Ferraris, e riporta in versione integrale la Lectio Magistralis tenuta dallo stesso Ferraris il 19 gennaio del 2011 nella Facoltà di Architettura di Napoli. Il testo della lezione è introdotto da uno scritto di Federica Visconti cui fa seguito una presentazione curata da Renato Capozzi; nella terza parte del libro viene infine riportata la trascrizione del dibattito che ha fatto seguito alla lezione di Ferraris e che ha visto coinvolti numerosi docenti e studenti della Facoltà di Architettura. La lezione del filosofo sull’architettura, discussa e interpretata da architetti, ripropone l’intensità di un dialogo difficile, complesso che, come viene sottolineato nella quarta di copertina, si è talvolta tradotto in “casi fertili” in cui la filosofia e il filosofo si pongono delle do mande su una certa disciplina cui la disciplina stessa non sa
prebbe rispondere con i suoi propri mezzi, e tali risposte pos sono consentire all’Architettu ra, antica disciplina, di progre dire nelle sue specifiche ed auto nome indagini sulla realtà e sul mondo. Ogni contributo del libro è corredato da numerose note che completano il testo e rimandano ad una ricca bibliografia che consente al lettore di approfondire ciascun tema e di orientarsi nel difficile dibattito. La lezione di Ferraris, scritta nello stile semplice e lineare che caratterizza le comunicazioni del filosofo, ricca di aneddoti, affronta numerose questioni, prima tra tutte quella del rapporto tra architettura e filosofia che, talvolta, si traduce in un progressivo allontanarsi della prima dalla realtà fisica delle cose; in fondo – sostiene Ferraris – è come se l’architettu ra andasse a cercare nella filoso fia una specie di ‘sogno’. Nel Manifesto del nuovo Realismo, il libro di Maurizio Ferraris uscito qualche mese dopo la lezione tenuta a Napoli, il filosofo sostiene la necessità che il pensiero filosofico torni a concentrarsi sulla ve-
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rità in quanto istanza primaria, come superamento della condizione postmoderna. Dal “non esistono fatti ma solo interpretazioni” di Nietzsche al “la verità non esiste al di fuori del testo” di Jacques Derrida, il pensiero filosofico si è infatti declinato come “pensiero debole” non più basato su certezze assolute e sull’idea di verità intesa come adeguamento del pensiero alla realtà, ma come continua interpretazione del mon do. La condizione postmoderna è legata alla fine delle grandi ideologie: la filosofia, di fronte a questa condizione umana così profondamente mutata, ha cercato di abbandonare qualsiasi pretesa globale o totalizzante e si orientata verso un tipo di conoscenza che si attua a partire da un processo di decostruzione della realtà. Questa condizione è, secondo il pensiero debole, l’unica forma di conoscenza possibile che emancipa l’uomo dalla pretesa di oggettivazione del sapere, vissuta come un atto potenzialmente violento, consente una pluralità di verità e appare perciò sostanzialmente democratica. Per Gianni Vattimo, uno dei teorizzatori del pensiero debole, la nascita di una società post-moderna è fortemente influenzata dall’enorme diffusione dai mass media che non descrivono la realtà ma ne moltiplicano le possibili interpretazioni. Queste posizioni secondo Ferraris si sono tradotte in un “populismo mediatico” che è direttamente connesso agli avanzamenti tecnologici della nostra società dove la “rete” riduce la dimensione del tempo e dello spazio e dove i “documenti” hanno perduto il loro carattere “fisico” e sono divenuti “virtuali”: migliaia di byte conservati su
memorie che secondo Ferraris sono più “deboli” dei documenti fisici e dunque espongono la nostra società a una perdita di senso perché, laddove questa la memoria si perdesse, si perderebbe anche la realtà sociale. Per comprendere meglio questo passaggio è necessario soffermarci un attimo su questo “nuovo realismo” che distingue tra gli oggetti sociali, che esistono solo nella misura in cui le persone sanno che esistono, e gli oggetti naturali che esistono anche senza di noi. In realtà nel manifesto del nuovo realismo Ferraris parla di tre tipi di oggetti, sociali, naturali, e ideali ma nella lezione napoletana affronta solo i primi due. Gli oggetti sociali, dunque, sono quelli che per esistere necessitano della memoria, che rispondono alla legge dell’Oggetto = Atto inscritto. Vale a dire che gli oggetti sociali – cioè cose come i documenti, le conferenze, le opere d’arte – sono il risultato di atti sociali che coinvolgono al meno due persone. Gli oggetti naturali al contrario esistono indipendentemente dalla memoria sociale, il Vesuvio, il mare, ma an che gli artefatti che, una volta fabbricati esistono al di là di noi, che esistono anche se noi non sappiamo nulla di loro e della loro esistenza. Dunque nel momento in cui una società perde i suoi documenti, perde la sua “realtà”, sopravvivono solo i “fatti”, cioè quelli che esistono indipendentemente dai documenti. L’architettura è così importante perché il suo valore come “documento” è sostanzialmente il più solido e duraturo sicuramente capace di sopravvivere alla società che l’ha creato: l’architettura è
un uso della solidità del fatto ar chitettonico come supporto per l’eternizzazione di un oggetto sociale perché è ovvio che nel momento in cui tu dici: “cosa fai?” e rispondi “Faccio un mo numento” sai quello che stai fa cendo, sai che stai facendo qual cosa destinato a durare. Alla naturale domanda: ma se la società che l’ha creata scompare e l’architettura sopravvive qual è il suo valore come documento? In altre parole se non c’è più nessuno capace di ricordare il motivo per cui quella cosa è stata fatta, anche se essa continua a sopravvivere qual è il suo senso? La risposta di Ferraris è che, in assenza di uomini, l’architettura ritorna (ma quando lo è stata?) a essere un oggetto naturale: pensiamo a Chichén Itzá in Yucatan e immaginiamo che lì non ci fossero state popolazio ni di nessun tipo: la giungla len tamente si sovrappone alle pira midi e se a quel punto non ri mangono ad abitare il luogo che gli animali, che quindi non han no contezza degli oggetti sociali, le piramidi tornano ad essere natura. Nel momento in cui ri compare il primo essere umano, sia esso turista o indio, che rico nosce quest’opera esso ritorna ad essere un oggetto sociale. Ma se tra questi due momenti “sociali” c’è un vuoto “naturale” – cioè la scomparsa di una società capace attraverso il proprio codice di decifrare il “valore sociale” di cui quell’architettura è documento – come fa chi viene “dopo” a ritrovare questo valore? A questa domanda prova a rispondere Renato Capozzi nell’intervento di apertura del dibattito che segue la lezione. Il monumento che co stituisce la tradizione dell’ar
chitettura è ciò cui noi conti nuamente andiamo a ‘chiedere’ un insegnamento ed è quell’og getto di architettura che supera il suo livello d’uso … questo ac cade perché la forza della sua forma è tale da superare la sua condizione d’uso e questo può avvenire solo quando ad un og getto architettonico sia ricono sciuta la bellezza in termini ‘so ciali’ … è il momento in cui l’opera è condivisa e riconosciu ta come una testimonianza del la capacità di mettere in forma, in pietra in questo caso, delle leggi che hanno un carattere non transitorio. In altre parole esiste un “valore sociale” che prescinde la società contemporanea e rimanda a delle leggi “universali”, a un’ideale di bellezza non transitorio e duraturo, riscontrabile in quelle opere che declinano queste leggi stesse. A questo punto appare chiaro che uno dei principali punti di incontro tra la filosofia e l’architettura del nuovo realismo sta nella critica diretta a quella parte del l’architettura contemporanea che sembra concentrarsi soprattutto sulla produzione di immagini in cerca di un consenso estetico basato non su leggi universali ma sul “gusto” della società contemporanea. Per meglio chiarire la sua tesi, Ferraris propone una riflessione sul design che in fondo è una specie di architettura a scala ridotta che è parte della vita delle persone perché noi tutti siamo circondati da oggetti di design. La differenza tra un normale oggetto di uso comune e quello di design sta, a quanto sostiene Ferraris, in un dettame estetico che finisce col sacrificare la funzionalità alla bellezza. Pas-
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sando poi dal design all’Architettura in senso vero e proprio, si rileva che lo stesso fenomeno si riscontra anche in questo campo, come testimoniano la “scomparsa” dei treni dalle stazioni che vengono trasformate in gallerie commerciali da attraversare prima di riuscire a raggiungere i binari. Lo stesso fenomeno investe i musei dove però la questione appare essere innescata da uno strano cortocircuito tra contenitori e contenuti. Alla domanda di uno studente, Giuliano Ciao, se la maggior parte delle opere contempora nee, troppo influenzate da una certa vicinanza con il marketing o con la moda, che cercano l’ine dito della forma per rimbalzare da un punto all’altro del globo, non siano piuttosto destinate a non lasciar tracce dal momento che prima o poi il gusto cambie rà, Ferraris risponde appunto che se queste opere dovessero essere ritrovate tra qualche millennio da una società che non è a “conoscenza” del contesto di riferimento esse non potrebbero essere ricondotte a un’idea di bello. Oggi infatti per lui l’architettura contemporanea preferisce adeguarsi a fenomeni transitori che sono alla base della ricerca di immagini insolite destinate a creare “stupore”, anziché riflettere sulle ragioni profonde che hanno determinato un repertorio di forme “riuscite” e consolidate che sono testimonianza di valori collettivi. Questo è, secondo Valeria Pezza, il vero motivo della crisi della disciplina che non lavora con gli strumenti che le sono propri ma preferisce attingere ad altri immaginari. Infatti, poiché le forme riuscite non catturano l’attenzione e si ac
compagnano in modo naturale ai gesti della nostra vita, fino a diventare una seconda natura … la tendenza corrente e più redditizia è, lavorare o sul con testo o sull’immagine, sull’ec cesso di immagine che si impo ne oggi alle costruzioni di cui è difficile oggi liberarsi. La lettura del libro offre numerosi spunti di riflessione critica. Innanzitutto che è necessario sempre ricordare che il dialogo tra architettura e filosofia, come sottolinea Renato Capozzi, può essere produttivo se avviene su “territori di confine”, sul limes, sulla lira che al tempo stesso se para e unisce, congiunge campi di pertinenza differenti e non confondibili. Come Derrida non legittima Eisenman, le tesi di Ferraris, che propongono un “superamento” della condizione postmoderna (peraltro praticata in passato dallo stesso filosofo) possono essere un utile spunto di riflessione ma non possono essere prese a pretesto per rivendicare la legittimità di un “ritorno” a un realismo privo di aggettivi: non socialista quindi, come quello russo, né magico, come quello di Bontempelli, né “neo” come quello dell’Italia postbellica. Forse, nonostante quanto sostenuto da Federica Visconti e Renato Capozzi che giustamente rivendicano il loro diritto a riconoscere tra i loro maestri Vittorio Gregotti, il realismo di cui si parla nel libro non è neanche “critico”, capace cioè di lavorare su quella “distanza” dalla realtà che porta Gregotti a proporre un nuovo equilibrio tra ontologia e epistemologia, sottolineando la tesi che almeno per la pratica artistica non ci sono fat ti senza interpretazioni. Certo le
nuove generazioni affermano con forza e passione la necessità di un’architettura che non abbia solo un valore estetico ma anche etico, ma talvolta questa legittima aspirazione non sembra immune da una pretesa oggettivazione del sapere: come il pensiero greco ci ha insegnato, sottolinea Federica Visconti, queste due cose (etica e estetica) dovrebbero stare insie me nel concetto di Kalón che è un bello oggettivo che può deri vare solo da un pensiero razio nale che, in quanto tale, assurge alla dimensione del classico. Questa idea di bello oggettivo sembra voler ri-portare l’architettura a ragionare su forme e principi immutabili, espressione dei valori della collettività, individuabili sulla base di un principio di autonomia della disciplina. La realtà dell’architettura sarebbe dunque il suo essere cosa fisica. Chi fa questo mestiere, sostiene Renato Capozzi, fa un atto per fetto e apollineo nel progetto, in cui tutto torna, tutto è perfetto, ma poi si scontra violentemente con la realtà quando il manufat to si deve costruire. Ci sarebbe dunque un prima, l’atto dell’ideazione, e un dopo, quello della costruzione. Il rapporto di Gregotti con la realtà è più complesso ed è quello che l’architetto sottolineava già nel 1984, quando propose dalle pagine di Casabella l’idea di progetto di modificazione capace di declinare attraverso la propria forma l’interpretazione che l’architetto dà del luogo e della realtà in cui va ad operare. C’è il rischio, nell’assimilazione tra le due posizioni in nome di una Scuola, che la “distanza critica” che le separa venga annullata dalla cifra “stilistica” che in entram-
bi i casi rimanda, per ragioni diverse, a un’esigenza di Normali smo, contro l’Eccezionalismo e lo Straordinarismo imperanti nella contemporaneità. Lo stesso rischio si corre accomunando la ricerca di Peter Eisenman con quella di Rem Koolhaas, laddove il primo, proprio a partire dall’autonomia della disciplina, lavora sulla realizzazio ne di un’architettura come di scorso indipendente libero da valori esterni mentre il secondo, come sottolinea Marco Biraghi nella sua “Storia dell’architettura contemporanea”, proprio partendo da un’accettazione del reale fino alle sue estreme conseguen ze finisce per assumere la crisi quale forma generale della real tà contemporanea. Non che si tratti di un errore, per carità, solo di una differente interpretazione dei fatti. ?. ?. K. Fallan, Design History. Understanding Theory and Method, Berg, Oxford - New York 2010. Design History. Understanding Theory and Method fa il punto sulla storia del design, un fenomeno relativamente recen te, che ha raggiunto un livello di professionalità, organizzazione e istituzionalizzazione molto meno rilevante in rapporto ad altre discipline (umanistiche) più consolidate. Come disciplina accademica, prende campo principalmente in Gran Bretagna, tuttora considerata il cuore della storia del design. Qui, dagli anni settanta, molti politecnici e scuole d’ar-
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te hanno attivato corsi in Storia del design, per coadiuvare i propri programmi didattici d’arte e design. Nel 1977 è stata fondata la Design History Society; e nel 1988, lanciato il “Journal of Design History”: una rinomata e fondamentale pubblicazione. Anche gli Stati Uniti hanno contribuito a movimentare il dibattito internazionale, con il Design History Forum, fondato nel 1983 (Design Studies Forum dal 2004), il giornale “Design Issues”, lanciato nel 1984, e “Design and Culture”, il giornale del Design Studies Forum, nel 2009. In Italia, si sono svolti due importanti convegni sulla storia del design: “Tradizione e Modernismo: Design 1918/1940” (1987) e “Design: Storia e Storiografia” (1991); mentre l’Associazione Italiana degli Storici del Design è stata costituita nel 2009. Negli ultimi decenni, con convegni e pubblicazioni, queste istituzioni hanno cercato di fare luce su un equivoco sostanziale: il design non si risolve necessariamente in oggetti di elevata qualità estetica, non è una questione di forma, di look né tanto meno di “cosmesi del prodotto”; non si tratta, per forza, di cose “sfiziose”, di mobili “stilosi”, Art nouveau o rossi e blu à la Gerrit Rietveld. Come rileva Fallan, citando Gillo Dorfles (1987), anche se tutti sanno che le “Avanguardie storiche” dell’inizio del Nove cento – Futurismo, Cubismo, Purismo, Prounismo, Costrutti vismo, De Stijl ecc. – sono state di vitale importanza per il suc cessivo sviluppo delle arti visive – e quindi non soltanto pittura e scultura ma pure architettura e mobilio – non credo, franca
mente, che lo studio di questi movimenti sia molto utile quan do si considerano gli oggetti prodotti industrialmente. Al contrario, il design sta nelle cose quotidiane. […] Quotidiano: una parola straordinaria che suggerisce la profondità e la ric chezza del luogo comune; perché la cultura del design non è elitaria; è una cultura quotidia na. Ecco l’oggetto della ricerca storica. Più precisamente, cos’è questa cosa chiamata design? In altre parole, cos’è la storia del design, la storia di cosa? In effetti, è molto problematico formulare una definizione universale e unanime di design, anche perché la storia del design è diventata sempre più complessa nel tempo, arricchendosi di multiformi e trasversali apporti teorici (tecnologia, sociologia, antropologia ecc.). Per di più, alcuni fattori esterni alla disciplina contribuiscono a problematizzare il design e la sua storia. Il principale consiste nel significato che la gente dà al termine: il design è diventato una specie di parola d’ordine, so prattutto nel marketing e nei mass media, che sembra assu mere valore positivo di per sé, trasformando come per magia prodotti comuni in oggetti esclu sivi e alla moda. Così, il “mobile di design” può essere contrapposto al mobile prodotto industrialmente, “bruto”, cioè non (esteticamente) progettato; mentre un pretenzioso parrucchiere arriva a fregiarsi di essere un “hair designer” (capovolgendo la critica di Max Bill nei confronti dei designer “parrucchieri” dello Styling americano), e costosi falli artificiali diventano “design sex toys”
(locuzione usata da Leto, un’a zienda svedese di “oggetti di piacere” disegnati da Carl Magnuson e Aric Kalén). Va da sé che quest’uso eclettico e discrimina torio […] non ha molto a che vedere con la storia del design. Un secondo fattore consiste nei grandi cambiamenti che hanno mutato la pratica del design. Basti pensare alle trasformazioni che investono la tecnologia, le strutture produttive, le tecniche di rappresentazione. La storia del design deve tenere conto di tutto ciò, mettendo in discussione alcune categorie convenzionali e tradizioni tecnologiche che stanno alla base della disciplina. Ancora, persiste la convinzione che il design non abbia limiti. La più in fame e universale definizione recita: design è ogni strategia volta a cambiare la situazione esistente in una migliore (Herbert Simon). Secondo Margolin, invece, il design è l’ideazione e la progettazione dei prodotti, intendendo per prodotti gli oggetti materiali e immateriali fatti dal l’uomo, le attività, i servizi, i si stemi complessi […] che costi tuiscono il dominio dell’artifi ciale. Che si tratti di formule sintetiche oppure più articolate, il problema è che una definizione che non esclude nulla è presso ché inutile. […] Se ogni defini zione differenziale si contrap pone al mondo naturale, c’è il rischio di riempire il termine di ogni significato sostanziale. […] Se ogni aspetto artificiale del nostro mondo può essere defini to un designed product [“prodotto di design” non rende il senso], allora ogni genere di storia eccetto quella naturale diventa storia del design. Anche la vene
randa storia politica deve essere usurpata dalla storia del design, perché che cos’è la storia politi ca se non la storia dei sistemi politici che sono stati designed? Ma, continua Fallan citando Wittgenstein: È sempre un vantaggio rimpiazzare un’immagine indi stinta con una nitida? Non è forse quella indistinta ciò di cui abbiamo spesso bisogno? Considerata la difficoltà – per non dire l’impossibilità – di formulare una definizione netta di design, non si potrebbe ricorrere a un concetto sfumato? Forse la cosa migliore è dire con Jenrok Ibsen: “Non mi forzare, amico, ad agire co me un negromante; piuttosto chiedo; non do risposte”. A partire da queste considerazioni, il saggio di Fallan si articola in tre parti: Storiografia, Teoria e metodologia, ed Epistemologia. Nella prima parte, l’autore considera la natura eterogenea e la ricchezza di apporti disciplinari che confluiscono nel design. Gli storici del design, peraltro, oltre ai classici prodotti industriali, studiano la produzione pre-indu striale e quella non-industriale, spaziando nella grafica, nella moda, nei tessuti, nell’architet tura d’interni, nell’artigianato; campi, insomma, che non si prestano a definire un quadro teorico e metodologico omogeneo. Co s’hanno in comune gli studi sui vestiti di corte del XIX secolo con quelli sulle automobili del XX secolo? Fatto sta che il design mantiene una sua ambiguità intrin seca, una sua essenziale tensio ne tra ideologia e pratica, tra idea e materia, tra cultura e commercio, tra produzione e consumo, tra utilità e simbolo, tra tradizione e innovazione, tra
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reale e ideale. Così Fallan suggerisce che il design non è arte; quindi, la storia del design non è – o non dovrebbe essere – storia dell’arte. Non a caso, la forzata discendenza della storia del design da quella dell’arte, implicando una sorta di “storia artistica del design”, genera tre grandi fraintendimenti: per prima cosa, un’eccessiva enfasi sull’estetica rispetto ai molti altri aspetti del design (ovvero si tiene conto soltanto di quello che Peter Dormer chiama high design, un ambito ristretto e lussuoso); in secondo luogo, la tendenza a considerare il designer alla stregua dell’artista e il prodotto come opera (d’arte) o “creazione”, secondo un approc cio eroico (Hazel Conway); terzo, la mancanza di considerazione degli oggetti privi di alto valore estetico, anonimi e in generale fuori della sfera domestica. Anche per questo (ma non solo), al di là dell’analisi estetica, è utile inquadrare la storia del design fuori dell’ombra della storia dell’arte. Nella seconda parte, sono descritti i concetti metodologici e le più recenti prospettive teoriche specificatamente inerenti alla disciplina. In particolare, si rileva come il design, quale fenomeno culturale, abbia più in comune con la tecnologia che non con l’arte; e per certi versi anche con la progettazione architettonica. Design e tecnologia, dunque, sono due facce della stessa medaglia, per quanto la cosa potrebbe suonare sorprendente qui, in Italia, considerato che la gran parte dei designer italiani che hanno fatto la storia erano architetti (come i fratelli Castiglioni, Ettore Sottsass e Vico Magistretti). Al-
largando appena la prospettiva (senza però abbracciare l’intero mondo artificiale), il design può essere considerato all’interno di un flusso ininterrotto, con implicazioni di carattere sociale, economico, politico che riguardano lo sviluppo tecnologico: parafrasando la metafora consolidata nella storia della tecnologia – “flusso ininterrotto di socio-tecnologia” – anche qui è possibile ragionare in termini di flusso ininterrotto di socio-design, nel senso che il design non è una monade nella società, ma design e società si formano e si trasfor mano simultaneamente e in cor relazione. Ecco perché la vecchia nozione di “arte applicata” è ora quanto mai inappropriata: perché il design (come processo) non si risolve nella messa in forma delle cose, ma investe la società, trasformandola per adattandosi a essa, di continuo; e addomestica la tecnologia, se così si può dire, mentre vi si adegua, alla ricerca di interfacce sempre migliori. Pertanto, c’è molto da guadagnare […] nell’esplorare una più stret ta integrazione e interazione tra la storia del design e quella della tecnologia. Qui e nella sociologia, gli storici del design possono trovare un quadro teorico molto appropriato e un repertorio me todologico per lo studio del de sign, nonché ottimi modelli per comprendere il processo del de sign al di là della mistica della creazione artistica. Nella terza parte, sull’epistemologia, si affrontano importanti questioni di carattere definitorio; in particolare, il controverso termine modern (che nel design vale un po’ come “classico”) e gli “ismi” come concetti categoriz-
zanti e strumenti di analisi. Parlando di progetto (ma non solo), Modernismo è un termine sor prendentemente inclusivo e quindi impreciso. In architettura, si riferisce alla versione spagnola dell’Art nouveau (Modernismo catalano) ma anche al cosiddetto Brutalismo di molte periferie realizzate in tutto il mondo negli anni settanta. Nel design, addirittura, l’ambiguità del termine trova culmine nel punto d’intersezione – inesistente – tra le due principali traiettorie progettuali degli anni trenta: lo Styling americano (o streamlining), la cui Modernità si risolve nella forma aerodinamica indipendentemente dalla funzione “statica” di certi oggetti da scrivania, e il Funzionalismo (o Razionalismo) dell’Europa centrale, contrassegnato dall’estetica meccanica e un’idea ben più radicale di Modernità. Ebbene, queste due ideologie del design possono es sere etichettate, rispettivamen te, come “kitsch” e “avanguar distica”. Nondimeno, le avanguardie, quando si consolidano in ismi, tendono a diventare stili conservativi benché i loro prin cipali e potenti argomenti fosse ro basati sul rigetto di questo sviluppo. I pionieri rivoluziona ri di un movimento abbastanza presto diventano una sorta di clero reazionario pronto a con dannare ogni sviluppo dell’ismo che eccede o trascende l’inten zione originaria. Gli ismi, insomma, diventano stili (storici) “statici”, mentre il design è un processo che va dall’ideazione alla realizzazione, allo sviluppo, alla produzione, alla comunica zione e al consumo. Ci troviamo ben al di là – o al di qua – della miopica dimensio-
ne del “good design” o dei “grandi designer” che un tempo dominavano la disciplina (in continuità con l’ideale rinascimentale del genio-creatore); si tratta di un ambito molto più concreto (ma non per questo circoscritto), dinamico e plurideterminato, che riguarda la “cultura del design” nell’accezione più ampia. In breve, la storia del design è diventa ta una disciplina complessa e di ampio respiro. ?. ?. L’architettura del mondo. Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi, Triennale di Milano, 9 ottobre 2012 - 10 febbraio 2013, a cura di Alberto Ferlenga. Catalogo edito da Editrice Compositori, Bologna 2012. Le esposizioni universali non hanno sempre avuto la forte impronta tematica che oggi mostrano. Per novant’anni, dal 1851, anno della grande esposizione di Londra, rappresentarono il luogo in cui lo stato dell’arte della scienza e della tecnologia incontrava l’industria manifatturiera e i suoi potenziali clienti. In seguito, dal l’esposizione di New York del 1939, Building the World of Tomorrow, il senso di queste manifestazioni si è andato evolvendo di pari passo con l’idea stessa di museo, costruendo prima uno spazio per il dialogo interculturale e poi per la promozione dell’immagine dei paesi partecipanti. Intanto il loro ruolo originario veniva gradualmente interpretato dalle iniziative non coordinate di alcune istituzioni nazionali o locali. Come la Triennale di Milano, che,
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dal 1923, ha inteso rappresentare uno stimolo per l’interazione tra industria, mondo produttivo e arti applicate, assumendo il compito di catalizzare il confronto tra questi mondi disciplinari e di promuovere l’innovazione italiana in campo internazionale. Un ruolo che oggi, in tempi di crisi, richiederebbe un ripensamento strategico degli attori in gioco nel processo produttivo. La risposta della Triennale, imponente anche se non molto coraggiosa, è stata quella di dedicare una grande mostra al tema delle infrastrutture; provando a conciliare quel vizio tipicamente italiano di considerare il comparto edilizio come unico volano di una ripresa a basso costo con il favore internazionale di cui gode il sistema Made in Italy. La cura scientifica di Alberto Ferlenga tenta, così, di dipanare i nodi del rapporto tra architettura, ingegneria, infrastrutture e territorio, secondo un’ottica di natura prettamente qualitativa. Perché, all’assun zione, di fatto, di un ruolo fun zionalmente egemone da parte di infrastrutture su cui si tra scorre una parte importante della vita degli abitanti della terra non corrispondono anco ra, almeno in modo diffuso, in terpretazioni che ne studino a fondo le potenzialità progettuali […]. L’impressione è che, mal grado il moltiplicarsi delle rea lizzazioni in tutto il mondo, l’a vanzamento della qualità pro gettuale abbia segnato il passo (Alberto Ferlenga, catalogo della mostra, pp. 24-25). La stessa qualità che ha caratterizzato in forme diverse l’intero arco del secolo scorso e che oggi è rilevabile solo episodicamente. Per questo moti-
vo la mostra, con lo spirito tipico di un’esposizione universale, mette in scena la relazione odierna fra le infrastrutture e l’architettura, contrappuntandola con una sezione «storica» che ne detta il canone ideale; lo spirito concreto di una selezione che si focalizza quasi esclusivamente su opere fisiche e tangibili, ma anche lo spirito pedagogico di voler tramandare un «saper fare» che interessa entrambi i termini di quest’incontro. Più che di incontro, infatti, occorrerebbe parlare di un mutuo scambio; perché se c’è una cosa che i disegni esposti di Eliel Saarinen, Hans Poelzig, Paul Bonatz e Antonio Sant’Elia dimostrano, è che le infrastrutture – e in particolare quelle legate alla mobilità – sono state, sia dal punto di vista simbolico che dal punto di vista funzionale, il tramite diretto fra architettura e modernità. Una modernità che non si è esaurita unicamente nella sperimentazione di nuovi materiali e tecnologie, ma che ha significato anche la perdita di identità fra progetto e gesto artistico unico e irripetibile, trasformando la serialità da vincolo in valore. Per contro, l’architettura ha insegnato all’ingegneria che esiste un modo di disegnare le reti diverso dall’estrusione potenzialmente illimitata di una sezione tipo. La strategia operativa dei grandi progetti della prima metà del Novecento – come il viadotto abitato del Plan Obus di Le Corbusier (1930) o la riforma delle vie d’acqua di Lubiana operata da Jože Plec]nick fra gli anni Venti e Trenta – che hanno ibridato la dimensione urbana e quella territoriale, interpretando l’infrastrutturazione del territorio come «concatenazione di luoghi».
L’atlante contemporaneo che la mostra presenta cerca proprio di ritrovare questi riferimenti, in un periodo in cui un’abusata visione dell’idea di «non-luogo» ha permesso ai progettisti di declinare ogni responsabilità sul tema. Il percorso espositivo, che si sviluppa linearmente lungo la galleria curva che abbraccia la scena del Teatro dell’Arte, si articola in tre sezioni tematiche – le opere prodotte al di fuori del nostro paese, il panorama nazionale e le infrastrutture globali – che determinano una progressione pressoché continua che va dalla taglia small all’extralarge. Ed è proprio da queste due opposte dimensioni che emergono i progetti e le tematiche più interessanti: da una parte il recupero della possibilità di una fruizione «lenta» e sostenibile di paesaggi urbani o territoriali, che si intersechi con le grandi reti per renderle finalmente permeabili e integrate ai luoghi che attraversano; dall’altra le strategie e le opere – già da tempo in atto in Africa come in Cina, a Bering come a Panama – a difesa delle sabbie o del vento, destinate all’approvvigionamento idrico o energetico e a una circolazione globale. Il tutto attraverso un numero di disegni, stampe, maquettes, fotografie e videoinstallazioni così abbondante da disorientare lo spettatore. Forse è proprio questa straordinaria abbondanza a mettere in luce la parziale mancanza di una struttura forte da cui emerga un pensiero netto sul tema. Sembra quasi che la mostra sia solo un passaggio interlocutorio in un discorso che è appena iniziato e che sta ancora raccogliendo il maggior numero di voci possibile; e forse è proprio così, vista la con-
ferenza internazionale che il curatore ha organizzato per l’anno prossimo sullo stesso argomento, con la collaborazione della Triennale e del Politecnico di Milano. Ma la mostra, oggi, si regge principalmente sulla qualità quasi sempre eccellente dei singoli progetti, non riuscendo a spingersi oltre a un meccanismo di accumulo quasi ipertrofico, come quell’Atlante Farnese la cui gigantografia apre la mostra. E proprio come l’interpretazione antropomorfa dell’Atlante mette in luce l’incapacità di immaginare al di là del visibile, l’indagine sulle infrastrutture disegna un paesaggio piuttosto consueto, costituito esclusivamente da una serie di grandi opere ingegneristiche; quasi ci fosse un limite figurativo troppo difficile da oltrepassare. Solamente Marco Biraghi, che ha partecipato alla cura della sezione storica, prova a sottolineare come, dopotutto, l’essenza stessa della modernità […] [sia] priva di forma, intesa nel senso della configurazione finita, definita. Sua strutturazione caratteristi ca è piuttosto la connessione, sue azioni peculiari sono il fluire, il trascorrere. E se di tali at tributi, la strada […] rappresen ta la versione più semplice ed elementare […] ad essa vanno affiancate le altre modalità di collegamento e di scorrimento che il progresso tecnologico ha via via messo a disposizione (catalogo della mostra, pp. 54-55). In realtà non è niente di così rivoluzionario come può apparire. È lo spazio che va dai tubi e dalle condutture della Un-House di Reyner Banham e Francois Dallegret (1965), alla scala mobile e al l’aria condizionata di Rem Kool
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haas (Junkspace, 2001). È l’infrastruttura pressoché invisibile della nostra quotidianità che, grazie alla sua dimensione sempre più prostetica, è in grado di proiettarci in quello che Manuel Castells chiama lo «spazio dei flussi» globale (The Information Age, 1996). È la forma del mondo disegnata da quella «nuova» architettura, che trova definizione in un recente saggio di Maria Luisa Palumbo, Paesaggi sensibili (Palermo, Duepunti Edizioni, 2012). Un’ar chitettura che ha principalmen te a che fare con l’esperienza e la progettazione, di nuove for me di convergenza o di connessione tra corpi distanti nello spazio o diversi per appartenen ze di specie, tra corpi e spazio, tra cose e sensi (p. 20). Un’infrastruttura, in altri termini, fatta di cavi, schermi e sensori, capace di mettere istantaneamente in relazione chiunque con qualsiasi altro individuo, le cui modalità di strutturazione del mondo hanno trovato, poi, un’esplicazione più compiuta nell’allestimento re-Made, curato dalla stessa autrice all’interno del Padiglione Italia dell’ultima Biennale veneziana. Rovesciando la dinamica classica di una operazione curatoriale, reMade ha presentato una riflessione progettuale sui temi della città, dello spazio pubblico e delle pratiche di altra economia, attraverso la costruzione di una rete di persone e di relazioni che ha alimentato le tematiche e le informazioni del padiglione e che ha prodotto una nuova serie di progetti partendo dal basso. Piccoli progetti e pratiche forse ancora marginali, che possono, però, dare qualche suggerimento su ciò che potrà essere.
Ma si sa, Milano non è Venezia; né si può ignorare, tornando al principio del discorso, che L’architettura del mondo sia anche un gesto politico, non solo di un’istituzione, ma anche di una città più preoccupata – e forse non a torto – di quello che possiamo fare oggi piuttosto che di quello che potremo fare domani. Come rileva lo stesso presidente della Triennale, infatti, a coloro che da una parte ritengono le opere realizzate elementi priori tari per lo sviluppo e la crescita si contrappongono coloro che, sostenitori della indispensabili tà di investimenti in infrastrut ture virtuali e reti telematiche, affermano che non è il tempo risparmiato negli spostamenti a essere strategico. È vero, invece, che la competitività e lo svilup po dell’Italia hanno a che fare proprio con la sua dotazione in frastrutturale […]. Se mai, il problema è riprendere l’abitudi ne, un tempo tutta italiana, di coniugare infrastrutture e qua lità estetica (Claudio De Albertis, catalogo della mostra, pp. 12-13). Ma se il succo del discorso è tutto qui, viene da chiedersi se ci sia davvero bisogno dell’architettura. D’altronde basterebbe un buon «truccatore» a rendere le autostrade gradevoli. In realtà, come aveva già rilevato Peter Cook nel 1967, in un luogo complesso do ve vi sono troppi elementi per ché ciascuno di essi abbia un valore simbolico, la maglia che li tiene insieme diventa impor tante tanto come simbolo che come meccanismo (Architecture: Action and Plan, 1967, p. 41); e forse è proprio a questa dimensione simbolica che l’architettura dovrà provvedere, più che a un’in-
definita qualità estetica. Perché è probabilmente l’unica dimensione che nessuna complessità e nessuna specializzazione potranno relegare in secondo piano. J. L. C. de Seta, Ritratti di città. Dal Rinascimento al secolo xviii, Giulio Einaudi editore, Torino 2012. «Quando ci si accosta alla storia, lo si fa in primo luogo perché si desidera capire, con tutta l’onestà intellettuale di cui si è capaci, come siano andate effettivamente le cose. In questo senso la ricerca storica non si esaurisce nella paziente e minuziosa ricostruzione del passato; lo sforzo erudito, la raccolta del materiale documentario forniscono semplicemente lo strumento che ci permette di cogliere i nessi tra i vari frammenti di realtà, consentendoci di formulare giudizi di valore e di tentare un’opera di sintesi» (p. xv). Così il giovane Cesare de Seta apriva la premessa al suo primo libro (Cartografia della città di Napoli. Lineamenti dell’evolu zione urbana, Napoli 1969), avviando un percorso di ricerca metodica sull’iconografia urbana che dura da oltre quarant’anni e che ora trova il suo ultimo frutto nel bel libro Ritratti di città, edito nella celebre e longeva collana dei Saggi einaudiani. Con lo stesso spirito critico con cui aveva iniziato in maniera pioneristica la ricostruzione storiografica del vedutismo a Napoli, si ricorda la riproduzione anastatica di Alessandro Baratta curata dallo stesso de Seta (Napoli
1986), questi amplia in forma erudita la propria attenzione verso l’iconografia urbana prima all’interno del contesto italiano – si fa riferimento in particolare ai suoi imprescindibili contributi sul Grand Tour (Storia d’Italia. Paesaggio, Torino 1982; L’Italia del Grand Tour. Da Montaigne a Goethe, Napoli 1992) – per poi intraprendere una ricomposizione della mappa e della diffusione del medesimo fenomeno in Europa in età moderna. Secondo una fortunata definizione, i ‘ritratti di città’ rappresentano «l’immagine della città nella sua magnificentia, splendor, pulchritudo, magnitudo e simili aggettivazioni insistentemente ricorrenti nei titoli, nelle legende o nelle dediche che sono di corredo alle immagini urbane» (p. 3). L’autore padroneggia con rigore una vasta bibliografia sull’argomento, come attestano le dettagliate note a margine dei capitoli e il ricco apparato di chiusura, e racconta così una storia visiva del vecchio continente: dalle vedute rinascimentali a quelle moderne, attraverso la descrizione iconografica delle città più rappresentate dai grandi vedutisti e cartografi italiani e stranieri. Un testo ricco di illustrazioni, in cui de Seta ripercorre la nascita del genere, a partire dalle riproduzioni quattrocentesche di Napoli, Firenze, Roma e Costantinopoli, e ridefinisce le diverse tipologie di rappresentazione che si sono sviluppate nel corso del tempo (piante prospettiche, ritratti su modello, profili, mappe, planimetrie, etc.), la cui periodizzazione «è strettamente legata all’invenzione della prospettiva» (p. 10) e alla sua evoluzione. Oggi, grazie ai risultati di nu-
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merosi studi, l’iconografia urbana si è smarcata dalla posizione di ancella sussidiaria alla storia urbana, per conquistare una piena dignità e uno spazio autonomo nel mondo della ricerca, anzi ne costituisce uno degli approcci più innovativi, come dimostra questo libro. Il lavoro, infatti, si inserisce pienamente all’interno di un filone di studi che vede l’autore tra i principali protagonisti di riferimento per gli sviluppi scientifici che hanno fatto seguito alle sue ricerche sulle fonti iconografiche per la storia della città, grazie a una costante promozione di mostre e convegni internazionali e a una ricca produzione bibliografica, con monografie, curatele e saggi sempre attuali, come, tra le tante opere, l’Atlante della Storia d’Italia (Torino 1976), la collana da lui curata delle Città nella storia d’Italia (Roma-Bari, dal 1980), le pubblicazioni sull’iconografia della città europea (1996 e 2001), nati sulla base del progetto Atlas pour la ville européenne da lui diretto presso la Maison des Sciences de l’Homme di Parigi, e quelle che hanno gravitato intorno al Centro Interdipartimentale per la Ricerca sull’Iconografia della Città Europea presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, da lui fondato nel 1998, e che illustrano criticamente le città Tra Oriente e Occidente (Napoli 2004), l’Iconografia delle città in Campania (Napoli 2006 e 2007) e I centri storici della provincia di Napoli (Napoli 2009) e, infine, L’iconografia delle città svizzere e tedesche (Napoli 2012), spesso in collaborazione con enti e istituzioni straniere. In base alla considerazione per cui i documenti cartografici non
hanno solo un interesse topografico, ma sono anche indizi preziosi per comprendere le strutture e i modelli mentali attraverso cui, nel tempo, si è vista e, quindi, si è raffigurata la città, l’autore prosegue il primo tentativo di sintesi della raffigurazione dell’Italia nello specchio del Grand Tour e illustra l’evoluzione dei ritratti urbani nei secoli fondamentali della sua rappresentazione in Europa: la città dipinta, la diffusione a stampa e la nascita del ‘libro di città’, la grande diffusione del ritratto, tra veduta e topografia. Un soggetto, in qualche maniera profano, che trova fortuna e diffusione sempre maggiore, al di là di una mera funzione allegorica o decorativa, e trova altresì una moltiplicazione delle sue applicazioni sempre più eterogenea. Come sottolinea de Seta, «in una strategia che renda più calzante ed efficace il messaggio che propagandano le immagini, il supporto materiale delle stesse non è certo secondario, così anche la loro collocazione». In tal senso, grazie a un mercato in continua espansione, dove troviamo esponenti della politica, della diplomazia, dell’aristocrazia e del clero, condottieri in giro per l’Europa nel Seicento delle guerre di religione, connoisseurs in viaggio di formazione e collezionisti di varia natura, l’iconografia urbana si evolve assumendo nuove soluzioni. Si contano quindi riproduzioni su materiali sia preziosi che poveri, come ad esempio rilievi marmorei o bronzei, arazzi, modellini in argento e medaglie in leghe metalliche, incisioni su avorio e osso, rilievi e tarsie lignee, lavorazioni in pietre dure, stucco, scagliola, vetro o cera e certamen-
te ricerche future potranno ritrovarne altri ancora. Per quanto riguarda gli affreschi e il loro forte valore rappresentativo, de Seta rileva come, a partire almeno dal xv secolo, la «raffigurazione assume una connotazione perenne […], i problemi interpretativi si sfioccano in una serie di varianti che sono determinate dalla qualità della superficie: va da sé che l’inclinazione della superficie è quasi sempre verticale, ma in altri casi è variamente curva», inoltre «le strategie di percezione sono assai diverse per la lettura dello spazio raffigurato e, di conseguenza, muta il senso che ne ha il fruitore» (p. 29). Paradigmatica è la Galleria delle Carte geografiche in Vaticano, con il suo lungo elenco di città riportate dall’autore, che «deve considerarsi prototipo prescrittivo, modello monumentale e insuperato che precede numerose imprese con analogo tema» (p. 89). Ma altre collocazioni per le ‘geo iconografie murali’ sono anche le sale per le udienze e quelle del consiglio, e l’autore si sofferma in particolare sul caso eminente di Palazzo Vecchio a Firenze, nonché le sale da pranzo, i refettori, gli studioli e le biblioteche, con l’evidenza dall’Atlante di città affrescato a Palacio El Viso del Marqués nella Mancia. Principale volano della diffusione della veduta è certamente la stampa. «Per ogni città europea le indagini sull’iconografia testimoniano che si diffonde una vera e propria moda, un’accelerazione che è sollecitata evidentemente da un fiorente mercato, così da consentire l’affermazione di un artigianato artistico particolare
che è l’incisione a tema urbano. E si usa la qualifica d’artigianato perché essa è la più pertinente a indicare un’attività di disegnatori, incisori e stampatori, ma anche editori e librai che vivono, almeno fino ai primi del Cinquecento, ai margini di quello che si può definire il mercato dell’arte, ovverossia della pittura di interesse vedutistico e della trattatistica architettonica, urbanistica e militare» (p. 112). Si ricordano i primi prodotti di questo mercato: Hartmann Schedel (1493), Sebastian Münster (1544-50), Leandro Alberti (1550), l’attività di Antoine Lafréry e, infine, i sei volumi delle Civitates orbis terrarum (15721617) di Georg Braun e Franz Hogenberg, In particolare, quando nel Seicento la diffusione del genere raggiunge livelli quantitativi e qualitativi mai visti prima, l’autore disamina in un approfondito capitolo la sua apoteosi in ambiente fiammingo, dove si registrano grandi imprese editoriali come quelle dei Merian. Con questo libro, Cesare de Seta conferma la sua presenza in campo internazionale negli studi sull’iconografia urbana, anche perché a lui si deve la formazione di una scuola molto numerosa di ricercatori che lavora in sinergia nel già ricordato centro interdipartimentale, quasi una bottega medioevale, in cui è possibile ritrovare affermati professori in diverse università italiane e straniere e giovani studiosi come Daniela Stroffolino, Francesca Capano, Maria Beatrice Bettazzi, Maria Iaccarino, Marco Iuliano e chi firma questa nota. M. V.
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Sommario dei fascicoli pubblicati
N. 79. Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80. Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81. Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82. Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre N. 83. Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre N. 84. Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85. Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86. Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87. Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88. L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89. Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre
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N. 90. L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre
N. 91. «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92. Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93. La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94. Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95. Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96. Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97. Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98. Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99. Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre N. 100. Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101. Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102. Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103. Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104. La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105. L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106. Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Bien-
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nale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107. Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108. Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109. Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110. Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111. Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112. Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113. Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114. L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115. L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre N. 116. Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117. Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118. Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119. L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120. Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre
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N. 121. La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori
N. 122. L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123. Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125. Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126. L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127. Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128. Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129. Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 131. Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132. Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133. Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134. Abitare la razionalità - Per una nuova classificazione delle arti - Il design aeronautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135. Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
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N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137. Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138. Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 139. Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine del l’ADI N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998
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«Grafica Elettronica» - Via Ferrante Imparato, 198/F4 - 80146 Napoli
Le pagine dell’ADI Associazione per il disegno industriale a cura di Dario Moretti
Autoproduzione e design italiano Di autoproduzione si parla da qualche anno come di una promessa: anche su queste pagine, in occasione dell’ultimo Salone del Mobile di Milano – dove l’autoproduzione è stata uno dei temi che più hanno incuriosito professionisti e pubblico del fuori salone – alcuni giovani progettisti intervistati da Maria Antonietta Sbordone hanno espresso la loro speranza che, grazie alle tecnologie digitali e al comune denominatore tecnico che oggi unifica progettazione, produzione, comunicazione e commercio del prodotto, si apra uno sbocco diverso a una professionalità il cui orizzonte appare tutt’altro che sereno. Non sono solo le oggettive difficoltà ad affermarsi sul sovraffollato mercato del progetto a rendere difficile il percorso dei giovani designer, ma anche alcuni aspetti di cultura professionale non puramente economici: tra questi l’aspirazione a riconquistare un’incisività sociale del progetto (che appare incanalata dall’economia dei produttori e dei distributori verso esiti spesso deludenti per i progettisti) e la coscienza della responsabilità culturale del progettista e quindi del suo ruolo di intellettuale (anch’esso percepito come impoverito e marginale, a causa della crescente visibilità rivendicata nell’ultimo decennio dalle aziende nei confronti dei designer). L’autoproduzione, in questo contesto, viene più o meno coscientemente a essere percepita come lo strumento di una riscossa sociale (e, perché no, politica) della professione del designer, che potrebbe permettere ai progettisti di tornare ad avere un ruolo di primo piano, riprendendo in mano il destino della loro professione. Mettere in moto l’evoluzione del ruolo del designer è tuttavia meno semplice, anche concettualmente, di quel che la disponibilità
di strumenti come le stampanti tridimensionali farebbe supporre: le esperienze, sviluppate in Gran Bretagna e negli Stati Uniti e già oggi verificabili nei primi concreti risultati di mercato, parlano di innovazione ma anche di incertezza e di ampie oscillazioni nella collocazione di questi designer-imprenditori nella filiera del prodotto e del servizio (cfr. Jonathan Olivares, Studi di design d2d, in “Domus”, dicembre 2012). Se si concentra poi l’attenzione sulla situazione italiana, la questione si fa ancora più complicata: l’assenza storica di strutture industriali forti fa pensare ad alcuni che questa autonomia e questa pluralità di funzioni da assumere da parte del designer da noi non siano un’esperienza poi così nuova, e che un’“autoproduzione all’italiana” parta da premesse differenti (e forse non del tutto sfavorevoli) rispetto a quelle dei paesi anglosassoni. Pubblichiamo perciò nelle pagine dell’ADI, come materiali di informazione e di riflessione, un intervento di Carlo Forcolini, designer, imprenditore, Past President di ADI e attuale amministratore delegato di IED Istituto Europeo di Design; e un articolo di Stefano Maffei, della Scuola del Design del Politecnico di Milano. Il primo intervento puntualizza alcuni aspetti peculiari del ruolo del designer in Italia tra progetto, produzione e mercato, distinguendo elementi nuovi ed esperienze acquisite nella storia dell’ultimo mezzo secolo; mentre Maffei, che da qualche anno lavora sul tema dell’autoproduzione (e al Politecnico di Milano ha organizzato tra l’altro il 10 e 11 ottobre 2012 un Laboratorio di Sintesi Finale della Laurea Magistrale intitolato Autoproduzione oggi), approfondisce le articolazioni attuali del nuovo ruolo del designer-produttore.
Autoproduzione e futuro dei giovani designer di Carlo Forcolini Nelle pagine dell’ADI di questa rivista (n. 144) ho letto l’articolo di Maria Antonietta Sbordone relativo al Salone del Mobile e ai suoi interessanti esiti, riferiti soprattutto alle tendenze emergenti tra i giovani designer. Queste tendenze sono diversamente definite sotto i nomi di artidesign, selfdesign e fit-product design e, secon-
do la sua opinione, rivestono una indicazione utile per il futuro. Ovviamente la constatazione dello stato dell’arte e l’offerta di una sua chiave di lettura sono un tentativo lodevole e in certa misura anche utile. Tuttavia, ogni qualvolta sento o leggo magnificare l’autoproduzione come possibile strada per i giovani designer, provo un certo imbarazzo, dovuto – penso – alla limitatezza della descrizione del solo fenomeno senza alcun approfondimento delle sue altre e complesse implicazioni. Come dire, limitiamoci a osservare quanto succede e chiudiamola lì. La mostra organizzata da Andrea Branzi alla Triennale nel 2010, citata da Sbordone, ancorché corredata da contenuti teorici di tutto rispetto, aveva ai miei occhi, e forse non solo ai miei, un limite palese nella generale modestia dei manufatti esposti, salvo pochissime eccezioni. L’ambizione della mostra era mostrare in certa misura il futuro del design italiano e il superamento dell’idea che il design sia un fenomeno in stretto connubio con l’industria e come, finalmente liberi da questo legame, i designer siano ora in grado di mettere in campo una libertà creativa e una qualità oggettiva tali da poter considerare l’autoproduzione un viatico importante per il loro futuro e per quello del design italiano. A mio parere non è così, per nessuno dei due casi. Può l’autoproduzione assumere la consistenza economica per essere riconosciuta nel tempo come un punto di svolta di vero rinnovamento del design nel nostro paese? Un fenomeno che dura da più di mezzo secolo e che, almeno nei numeri, è ancora così importante per l’Italia? Non lo credo, e sono propenso a considerare questo fenomeno la foglia di fico di altre questioni come, per esempio, il fatto che il design non sia diventato una cultura nazionale per arretratezza della nostra classe dirigente; come l’astrattezza del mondo della formazione rispetto a tutti i saperi necessari alla professione e a interpretare le reali necessità del mondo produttivo; come, infine, il persistere di una mentalità professionale poco incline all’allargamento dei saperi e che ne perpetua la separatezza. Così capita sovente di incontrare designer – e sembra incredibile dirlo – che sanno ben poco di architettura, di arte, per non parlare di letteratura e filosofia, di economia, di marketing e così via. Ecco allora che tutte queste questioni arrivano a valanga sulla
testa del giovane designer, al quale si svela improvvisamente un mondo dove il design non è affatto protagonista (lo è solo sulle riviste e nella comunicazione) e le opportunità di lavoro sono davvero molto difficili. Ci siamo trovati più o meno tutti in questa drammatica situazione, e abbiamo provato in molti a iniziare a produrre e poi cercare di vendere per realizzare qualcosa che si chiamasse impresa. Io ed Enrico Baleri, quando abbiamo fondato Alias senza soldi, non pensavamo certo di fare autoproduzione per vendere ai familiari e agli amici, o a una galleria d’arte che richiedesse il conto deposito. Ma oltre che a noi penso a Riccardo e Sandra Sarfatti e a Paolo Rizzatto di Luceplan, e ancora prima a Giulio Castelli e alla Kartell, a Ernesto Gismondi e Sergio Mazza con Artemide, a Luigi Caccia Dominioni con Azucena e a tanti altri che identifichiamo come le aziende del design italiano. Per tutti noi il termine ‘autoproduzione’ era sinonimo di un fare artigianale che non eravamo in grado di esibire: sarebbe stato inconcepibile perché il fare artigiano, soprattutto in Italia, implica una qualità oggettiva tipica dell’esecutore e, a parte alcuni fortunati, un’economia ristretta all’ambito familiare (parlo dell’artigianato alto, d’eccellenza, e non della paccottiglia da mercatini turistici). Penso che il design trovi la sua qualità intrinseca nel numero e nell’impiego di molti saperi produttivi, commerciali, amministrativi e finanziari che concorrono, con gli investimenti necessari, alla buona riuscita del prodotto e alla crescita collettiva del lavoro. Ora le vie del design saranno pure infinite, ma equivocare sul rapporto arte-design soltanto perché si ripetono le modalità dell’arte (opera unica o moltiplicata) e del suo mercato mi sembra un approccio diminutivo sia per il design sia per l’arte. Se usciamo dalla definizione generica di design italiano (quasi fosse un corpus teorico ed espressivo unico) e consideriamo il design italiano come un insieme eterogeneo di personalità diverse che, finalmente libere dall’autarchia fascista, hanno interpretato in modo originale gli stimoli provenienti da altri paesi, possiamo capire opere come la Taccia dei Castiglioni, oggetto di design originato dalla cultura surrealista: una vera opera d’arte, ancorché moltiplicata. E che dire di Marco Zanuso e di Richard Sapper, che rappresentano l’approccio americano con oggetti che dal punto di
vista tecnologico avevano poco di innovativo, ma erano davvero tali in quanto l’innovazione era nella rappresentazione della tecnologia stessa? In questo senso ritengo si possa parlare di artidesign in modo proprio, e di esempi ne abbiamo tanti, anche in tempi più recenti di quelli citati. Ma, se anche queste declinazioni del design (artidesign, self design, fit-product design) sono più utili alle riviste che ai loro protagonisti, che cosa si può fare per dare una prospettiva al design italiano evitando di vivere delle antiche e anche delle più recenti glorie? Una breve considerazione deve essere fatta sul cambiamento di ruolo del designer e delle imprese nel mercato globale. Un tempo capitava che le aziende fossero valutate in relazione ai nomi dei designer con i quali collaboravano in esclusiva. E questo è stato per molti anni un fatto importantissimo per la valorizzazione dei marchi stessi. È successo con il tempo – e oggi siamo in questa situazione – che le aziende e i designer non si sono più considerati parte di una reciproca identità. I designer hanno iniziato a collaborare con aziende magari concorrenti tra loro e le aziende hanno da sempre (come è ovvio che sia) tentato di allargare la collaborazione ai designer che ritenevano più interessanti per sviluppare il loro fatturato e per ridurre il rischio di un’eccessiva identificazione con i designer. L’abile Philippe Starck è l’unico a essere riuscito a creare un marchio di se stesso, alla maniera degli stilisti di moda. Starck a parte, oggi il ruolo più importante spetta al marchio e certamente i nomi sono importanti ma non determinanti come un tempo. Questo cambiamento ha portato, a parte – ripeto – alcune eccezioni, a un generale depauperamento del lavoro del designer, il quale è sempre più una sorta di prestatore d’opera occasionale e sempre meno un professionista parte dell’identità dell’azienda medesima. Un cambiamento strutturale non da poco, verificabile dalla maggior parte dei designer, soprattutto giovani, nel pessimo rapporto contrattuale con le imprese. A questo cambiamento, forse inevitabile considerato il grande numero di designer e il limitato numero di imprese del design, si aggiungono la grande crisi della distribuzione e la possibilità di competere sui mercati internazionali delocalizzando la produzione. A volte quest’ultima condizione
vale più per massimizzare i profitti che per le ragioni addotte, e comunque massimizzare i profitti, entro i limiti socialmente sostenibili, è nel legittimo ruolo dell’impresa. Ora, a me sembra che affrontare questi temi, cercando di dare risposte plausibili, sia il compito di tutti noi e in particolare del nostro mondo associativo e del mondo della formazione. Il primo perché il declino della politica (si badi bene: non è un problema contingente) dovuto all’irrompere della rete implica il cambiamento della sua forma organizzativa per eccellenza – i partiti – e di conseguenza il nuovo ruolo protagonista dell’associazionismo. Il secondo perché è necessario porsi il problema del superamento del sapere verticale e affrontare con una visione olistica e non sequenziale la questione del design. Voglio dire che non si può affrontare questo tema solo dalla parte della progettazione, né tanto meno lasciare il monopolio della formazione imprenditoriale alle sole università di economia. Dobbiamo, e siamo già in grande ritardo, formare gli imprenditori del design (produttori, distributori e comunicatori) in grado di rilanciare il design italiano moltiplicando il numero delle imprese e creando opportunità nuove per i futuri designer. Questi sono a mio avviso i temi urgenti da affrontare per dare una prospettiva sistemica al design italiano. Il resto mi sembra cronaca forse utile ma dal futuro incerto.
Autoproduzione oggi di Stefano Maffei Autoproduzione è una parola omnibus. Porta con sé significati molto diversi a seconda della visione che la accompagna. In questo momento è una parola politica, nel senso che indica potenzialmente un percorso d’azione per lo sviluppo della cultura disciplinare (ma non solo). Connota e descrive un incrocio tra la cultura del progetto e la cultura dell’impresa che è sempre esistito ma che ora sta assumendo un rinnovato e originale carattere.
È un fenomeno vivo e in grande espansione che cerca di rispondere ad alcuni grandi mutamenti che stanno modificando, arricchendola, la relazione tra design e industria ed in particolare il legame caratteristico tra il ruolo professionale del designer (designer a servizio-supporto dell’impresa) e la natura della sua committenza (la dimensione complessa del fare industria nel contemporaneo). Questa relazione sta infatti modificandosi progressivamente in conseguenza della sempre più forte evoluzione dei sistemi di produzione-distribuzione dei paesi economicamente avanzati: il cambiamento ha a che fare sia con la modificazione (già avvenuta) del sistema che con il cambiamento futuro dell’industria stessa, il cambiamento dei prodotti-servizi, il cambiamento nel mercato e della distribuzione. Se vogliamo credere all’“Economist” [Economist, 2012] possiamo parlare di una terza rivoluzione industriale: una rivoluzione che, a detta loro, cambierà il modo con cui le economie avanzate produrranno e distribuiranno beni e servizi. Basata sull’idea di una nuova fabbricazione digitale che cambierà il processo tradizionale attraverso la miniaturizzazione, integrazione, reticolarizzazione e interconnessione dei processi di produzione e distribuzione. Questa transizione, unita al progressivo disequilibrio tra persone con competenze di design e domanda di progetto da parte delle imprese (causato, come sostiene Andrea Branzi, dalla formazione di massa di nuovi designer), crea le condizioni per un surplus cognitivo ed operativo che funziona da innesco per processi che abilitano nuove forme di intrapresa individuale, ovvero nuove forme di autoproduzione di prodotti e servizi. Queste nuove intraprese si ri-focalizzano in maniera prepotente su di una rinnovata attenzione ai processi del fare: la cultura dei fablab e del fabbing [Gershenfeld, 2005; Menichinelli, 2011; Micelli, 2011] recita un ruolo importante per la ridiscussione critica dei modelli di produzione legati a concetti di scopo e scala. Il modello del fablab infatti integra, attraverso la fabbricazione digitale, le potenzialità (ancora inesplorate) della produzione personale e distribuita che partono anche dalla radice storica dell’approccio del bricoleur e del thinkerer [Antonelli, 2011] e che hanno radici storiche profonde nella cultura del design così come nella cultura
materiale del DIY tipica delle forme di produzione alternativa-controculturale [Levine, F. e Heimerl, C., 2008]. Possiamo immaginare come fa, evangelisticamente, Chris Anderson [Anderson, 2010; Anderson, 2012] che queste trasformazioni siano pilotate dalla categoria dei makers (coloro che fanno materialmente; forse dovremmo parlare di loro come di una categoria di ritorno) con una aggiunta di una (peraltro non completamente nuova) tecnologia. Ma sbaglieremmo a considerare questa riappropriazione della dimensione individuale e quotidiana del fare come di una dimensione esclusivamente naïf o tecnologica. Il movimento dei fabbricatori che si affolla attorno alla rivista “Make” o a importanti eventi pubblici come la Maker Faire [Micelli, 2011] o in generale attorno alle community di prodotti-piattaforma come Arduino crea delle opportunità per un ripensamento delle barriere disciplinari e una nuova possibile ecologia del progetto/produzione. In questa nuova economia di micro-piccoli e medi fabbricatori è compresa anche tanta parte di quella piccola e media impresa [Micelli, 2011; Antonelli, 2012] che ha caratteristiche legate ad un fare artigianale che caratterizza la tradizione produttivo-distributiva europea e soprattutto italiana. In questo quadro complessivo parlare del fenomeno dell’autoproduzione significa quindi non concentrarsi esclusivamente su alcune dimensioni dei prodotti-servizi che da essa scaturiscono quanto, piuttosto, comprendere la sua struttura. La discussione tradizionale tende infatti a confondere questo con il tema-questione della relazione tra design e artigianato e con altre storiche questioni disciplinari che riguardano piuttosto la natura dei processi e dei risultati con cui si producono le merci come il rapporto tra prodotto artigianale e industriale, il fatto a mano, il fatto ad arte, o con l’idea di unicità dei risultati che produce… [Maldonado 1979 e 1991; Branzi 1984 e 1988; Sennet, 2008; Lovell, 2009; Mendini 2010; Antonelli, 2012]. In realtà il concetto di autoproduzione ha a mio parere un senso soprattutto cognitivo e organizzativo ancorché abilitato dalla tecnologia.
Cognitivo perché per la prima volta nella storia della cultura materiale umana si è congiunto il cerchio tra dimensione del fare artigianale e industriale, condensando nella dimensione dell’individuo ciò che prima era possibile solamente immaginare e realizzare come organizzazione (che fosse atelier, bottega o industria): ovvero attribuire le capacità e le potenzialità di un’organizzazione a un soggetto individuale. Organizzativo perché allo stesso modo è possibile intraprendere operazioni di produzione materiale complessa ideate e gestite da una prospettiva individuale. Per questo motivo possiamo definire quindi l’autoproduzione come un insieme di attività organizzate che hanno lo scopo di materializzare nuovi prodotti-servizi attraverso un processo costituito da auto-orientamento/scelta strategica, auto-progettazione, auto-costruzione, auto-comunicazione, auto-distribuzione. Tutte queste dimensioni possono essere compiute in modo differente e libero ma devono coesistere in maniera sistemica per poter parlare davvero di autoproduzione. E non necessariamente quanto elencato deve essere compiuto in prima persona da un individuo/collettivo che, quando non lo realizza direttamente, deve averlo almeno come committente-organizzatore. L’autoproduzione rappresenta quindi un percorso possibile per un individuo che intende attuare un progetto nella sua dimensione concreta. E in questo può evitare due equivoci: uno, che riguarda il fatto che egli debba materialmente (e possibilmente attraverso il suo lavoro manuale) realizzare tutte le fasi di questo processo escludendo di fatto la possibile costruzione di reti relazionali collaborative [Himanen, 2003; Shirky, 2009; Van Abel, B., Evers, L., Klaassen, R. e Troxler, P., 2011; Sissons, 2011] che invece sono alla base di qualunque dimensione produttiva contemporanea sia nella parte ideativa (open design) che nella sua parte produttiva ovvero la costruzione di reti collaborative distribuite di fabbricazione (che hanno a che fare con una rinnovata visione dei distretti industriali/sistemi produttivi locali).
Il secondo è che l’autoproduttore debba realizzare un perimetro fisico e organizzativo stabile ovvero debba materialmente far coincidere la realizzazione dell’autoproduzione con la realizzazione effettiva di una impresa. Si tratta invece di designer=impresa [Arquilla, Bianchini e Maffei 2010 e 2011; Maffei, 2011] ovvero “[…] independent agents who work with various design, production and distribution networks without being constrained by the need, even in the presence of a market success, to automatically make scale changes or stabilize their activities or products (thus becoming outright enterprises)”1 [Bianchini e Maffei, 2012b]. Possiamo definire quindi gli autoproduttori alla maniera di Bruce Nussbaum, ovvero come i nuovi alfieri di un indie capitalism [Nussbaum, 2011]. Sono in sostanza degli innovatori indipendenti o indie innovators [Bianchini e Maffei, 2012a] che si muovono all’interno di una dimensione contemporanea in cui tutte le condizioni in cui il design operava sono cambiate: – la diffusione e l’accessibilità delle tecnologie di progetto (sistemi di rilievo e modellazione parametrica 3D semplificati e gratuiti con annessi moduli di trasformazione dei modelli 3D in istruzioni macchina di lavorazione); – il cambiamento della produzione (diffusione e abbassamento dei costi per fabbricazione additiva 3D, fabbricazione sottrattiva miniaturizzata) e dei suoi modelli (produzione di 1 “[…] il designer si assume il rischio di un’idea – investendovi il proprio brand e il proprio denaro – per trasformarla in un prodotto o in un’attività imprenditoriale da immettere nel mercato, cercando per quanto possibile di ridurre il rischio attraverso il coinvolgimento di altri attori o degli stessi utenti finali (molte attività produttive di questo tipo iniziano solo oltre una soglia minima di ordini). Questa nuova generazione di progettisti-produttori è in grado di innescare processi temporanei di sviluppo di singoli prodotti-servizi, creando dei community market personali. Adottando il modello dell’autogestione questi designer interagiscono personalmente con gli utenti finali, con contatti diretti e controllo personale in tutti i processi. Inoltre l’indie innovator, anziché essere esecutore o interprete di progetto innovativo altrui, rappresenta il proprio. È all’avanguardia del processo di innovazione perché è in grado di realizzarlo in termini concreti e tangibili […]”.
serie limitate a piccoli lotti taylor made e/o made to order, spesso in condizioni fisiche produttive on site); – il cambiamento dei mercati (con la presenza di una struttura a coda lunga) connesso a quello dei luoghi e dei modelli distributivi (sempre più connessi, integrati e dipendenti dalle tecnologie ICT). Mentre la struttura tradizionale dell’impresa manifatturiera tradizionale viene messa a dura prova dalla crisi, questi nuovi protagonisti costruiscono sempre di più esperienze e storie di successo. La capacità di questi autoproduttori di attivare processi temporanei di fabbricazione e distribuzione pur molto spesso senza possedere i mezzi di produzione ma semplicemente scovando e organizzando il surplus delle risorse produttive libere nei territori/reti e costruendo un filo di relazione diretta sia con i clienti sia in termini di progettazione (co-design e personalizzazione) sia in termini di mercato (partecipazione e relazione con comunità di lead user) rappresenta un possibile importante segno della possibile biodiversità produttiva. Che non si applica, nelle sue forme più sofisticate, solamente alla produzione di merci finali ma incorpora i processi di fabbricazione stessi fino anche agli strumenti e alle macchine/tecnologie necessarie. Una possibile tassonomia può iniziare a essere immaginata secondo lo Schema 1. Questa dimensione di parallelismo tra l’agire come un autoproduttore (designer = impresa) e il ruolo consulenziale classico del designer rappresenta una delle linee più interessanti di frizione/ cambiamento (anche non indolore) del prossimo futuro. L’idea che il ruolo professionale possa comprendere la coesistenza di un atteggiamento e un ruolo imprenditoriale rappresenta a mio avviso una delle novità del dibattito disciplinare futuro. Futuro in cui “[…] the designer takes a chance on an idea – investing their own personal brand and money – to turn it into a product or business that they then launch onto the market, trying to reduce risk as much as possible by involving other players or the end-users themselves (many productions of this kind only start when
Schema 1. Nuove tipologie di innovatori indipendenti 1. Designer – produttori di parti e componenti
Remaker Usa il progetto e le competenze tecnico-produttive (sue o di altri) per elaborare soluzioni creative allo scopo di recuperare o arricchire la funzionalità di prodotti esistenti (per esempio lavorando in direzione opposta alla logica dell’obsolescenza programmata). Customizer Usa il progetto e le competenze tecnico-produttive (sue o di altri) per intervenire su prodotti esistenti riprogettandoli e producendone singole parti o componenti, con lo scopo generale di modificarne l’aspetto e le prestazioni pur conservandone le funzioni e il modo d’uso originali.
2. Designer – produttori di prodotti e servizi
Hacker Usa il progetto e le competenze tecnico-produttive (sue o di altri) per intervenire su prodotti esistenti riprogettandoli e producendone singole parti o componenti, con lo scopo generale di modificarne o aggiornarne l’aspetto, le funzioni e il modo d’uso. Maker Autoproduttore dilettante o professionista che usa il progetto e le competenze tecnico-produttive (sue o di altri) per elaborare soluzioni di prodotto/servizio, compresi tecnologie e dispositivi necessari alla produzione se non già disponibili sul mercato.
3. Imprese impegnate nella microproduzione
Designer = Enterprise Imprenditore a titolo temporaneo che usa il progetto e le competenze tecnico-produttive e distributive (sue o di altri) per elaborare soluzioni di prodotto/servizio da immettere nel mercato, compresi tecnologie e dispositivi necessari alla produzione se non già disponibili sul mercato. Microfactory Evoluzione del Designer = Enterprise in imprenditore permanente dell’autoproduzione che usa il progetto e le competenze tecnico-produttive e distributive (sue o di altri) per elaborare soluzioni di prodotto/servizio da immettere nel mercato, realizzando microstrutture dedicate alla progettazione, alla manifattura / fabbricazione e alla distribuzione (per esempio microfabbriche, laboratori, piattaforme di servizio per i Maker).
Fonte: Bianchini e Maffei, 2012a e 2012b.
a minimum number of orders have been received). This new generation of designer-producers is able to activate temporary processes for the development of single product-services, creating personal community-markets. Adopting a self-management model these designers interact personally with their end customers having direct access to, and personal control over, all processes. Moreover, the indie innovator, rather than being the executor or interpreter of a third party’s innovative project, represents their own. They leads the process of innovation because they are able to implement it in concrete and tangible terms […]”2 [Bianchini e Maffei, 2012a]. Una prospettiva che genera nuove condizioni di indipendenza, allargamento democratico delle possibilità, distribuzione delle opportunità che potranno originare la nascita di numerosissime prospettive micro-imprenditoriali distribuite all’interno di quei sistemi produttivo-distributivi locali che riusciranno a sviluppare pienamente questa relazione virtuosa individuo/collettivo/rete. Una grande chance per il futuro che taglia corto con la nostalgia per un passato industrialista (alla vecchia maniera) che immagina al massimo nella mass customization o nella specializzazione flessibile [Rullani, Belussi e Gottardi, 2003; Piller, 2006] la risposta alla domanda sul come e perché sia interessante immaginare e realizzare nuovi prodotti e servizi.
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