Op. cit., 148, settembre 2013

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numero 148

Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli

Electa Napoli



Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Imma Forino, Emma Labruna, Livio Sacchi Segreteria di redazione: Ciro Olisterno Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 081/7690783 Amministrazione: 80146 Napoli, Via F. Imparato, 190 - Tel. 081/5595114 Un fascicolo separato e 9.00 (compresa IVA) - Estero e 10.00

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Grafica Elettronica


F. Purini, Innovazione e tradizione tra origine e inizio G. Dal Canton, La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali C. Cecchini, A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri V. Cristallo, L’autore e la firma nel progetto di design Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Pasquale Belfiore, Jessica Bianchera, Jacopo Leveratto, Raffaella Rosa Rusciano, Paola Scala



Innovazione e tradizione tra origine e inizio FRANCO PURINI

Per inquadrare in modo relativamente completo il rapporto tra innovazione e tradizione, affronterò in prima istanza tre questioni che mi sembra possano delimitare con una certa esattezza il campo tematico in discussione. La prima riguarda la profonda trasformazione che la storiografia del­ l’architettura ha vissuto negli ultimi anni. Essa ha rinunciato a proporre interpretazioni generali delle vicende che essa interroga trasformandosi in una narrazione articolata in singole monografie, nella ricostruzione di percorsi frammentari, in ipotesi parziali. I giovani che frequentano le nostre facoltà di architettura non hanno più la possibilità di avere a disposizione delle grandi sintesi complessive che le generazioni precedenti le ultime avevano potuto utilizzare come potenti sistemi di orientamento. Le storie dell’architettura moderna di Nikolaus Pevsner, di Sigfried Giedion, di Leonardo Benevolo, di Renato De Fusco, di Manfredo Tafuri e di Francesco Dal Co, sono state per me e per molti altri architetti altrettanti luoghi centrali per la nostra formazione. Venire a contatto con scritture storiche animate dalla volontà di dare vita a veri e propri affreschi narrativi nei quali le motivazioni delle avverse ricerche architettoniche, le evoluzioni delle particolari vicende creative, le interazioni conflittuali o solidali tra l’architettura e la società, le relazioni tra l’arte del costruire e le altre discipline trovano adeguati spazi di esposizione e di riflessione.

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La seconda questione che vorrei porre è la condizione attuale della critica. Essa ha smesso di organizzarsi attorno al problema del valore, non preoccupandosi più di stabilire se una certa architettura sia nata da intenzioni che abbiano un vero significato e un contenuto. La critica si occupa oggi solo sull’effetto che una certa opera fa, un’opera considerata, più che un manufatto, un evento. L’esercizio critico è divenuto un semplice servizio che segnala ciò che è avvenuto, ma che tralascia di fatto il senso di ciò che si è costruito. Il risultato di questo esercizio è l’esposizione di dati di natura merceologica. Si indica il luogo di produzione di un’o­ pera, il suo autore, qualche circostanza relativa alla sua realizzazione ma si dice molto poco sul modo con il quale essa si colloca nel panorama dell’architettura contemporanea. In sintesi la critica concerne oggi, quasi esclusivamente, la dimensione mediatica e informativa relativa a un edificio tralasciando di entrare nel difficile territorio della ricerca dei contenuti che sono il motivo stesso della sua esistenza. A Londra si è chiusa da poco una mostra che poteva essere una delle occasioni più importanti per comprendere cosa è avvenuto negli ultimi quaranta anni, Postmodernism: style and subversion 1970-1990, a cura di Jane Pavitt e Glenn Adamson. In questa ampia rassegna c’è tutto tranne che una visione critica nutrita di una vera conoscenza di ciò che è successo. Si cercherebbe inutilmente nei fogli del catalogo e nelle opere esposte tracce del grande dibattito che si svolse allora sul tema del passato, sia inteso in chiave più soggettiva, ovvero come una memoria culturale che può avere forti declinazioni individuali, sia come mediazione sulla tradizione in quanto luogo teorico di importanza collettiva. La terza questione alla quale vorrei che si dedicasse qualche riflessione concerne il progetto, che per la mia generazione e per quelle precedenti era prima di tutto un atto di conoscenza del mondo, di giudizio sui processi che modificano la realtà, di intervento su questa. Un atto che richiedeva una grande responsabilità oltre che una valutazione attenta sulle conseguenze future di ciò che si prevedeva. Oggi invece il progetto è diventato qualcosa di intermedio


tra la performance artistica e un’azione comunicativa. Concludo queste notazioni introduttive richiamando alcune tesi che Vittorio Gregotti sostiene da anni. Tesi che in sostanza condivido, ma che andrebbero riconsiderate alla luce della constatazione che non appare produttivo praticare un’opposizione a un sistema di valori che non si accettano se questa stessa opposizione rimane sul piano concettuale senza poter toccare i processi degenerativi contro i quali si esprime un giusto dissenso. Praticare ad esempio la distanza critica dai fenomeni che oggi insidiano l’architettura non è quasi più possibile dal momento che la pressione del presente e il grande numero delle cose che avvengono impediscono di poter osservare la realtà con il necessario distacco. Alla distanza critica, che presume la possibilità di effettuare altrettanti fermo immagine, ovvero un arresto virtuale del flusso degli accadimenti necessario per poterli considerare nella loro vera essenza, va sostituita un’analisi dinamica che consenta di seguire puntualmente l’evoluzione della disciplina sempre più difficile. Nello stesso modo occorre rendersi conto che, se in tutto il mondo la cosiddetta architettura mediatica suscita l’interesse di milioni di persone, tanto da avere generato una nuova forma di turismo, non più rivolto al patrimonio storico delle città ma alla produzione contemporanea, non ha più molto senso negare in qualche modo questa discutibile deriva restando sul piano di una denuncia tanto giustificata quanto poco incisiva. Sembra più efficace, invece, agire all’interno di questa deriva producendo al suo interno una serie di incidenti significativi, tesi a sovvertire le finalità propagandistiche introducendo in essa, al contempo, enzimi rigeneranti. Il lavoro sul rapporto tra tradizione e innovazione che è stato recentemente presentato a Napoli può essere inquadrato nella condizione triangolare che ho appena descritto. Una condizione che va accettata seppure, seguendo Vittorio Gregotti, criticamente. Pensiamo un attimo alle recenti mostre del MAXXI, costruite sull’ormai avvenuta identificazione tra l’architetto e l’artista installatore. Ma è forse utile anche riprendere le argomentazioni di Umberto Eco quan-

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do, riflettendo sul primato dell’interpretazione rispetto al testo – forse il principio fondatore della postmodernità – fa un passo indietro recuperando, attraverso ciò che egli ha definito il realismo negativo, un rapporto diretto con ciò che è esteso a noi. In sintesi non credo che sia obbligatorio essere fedeli ai paradigmi che nel passato abbiamo assunto come riferimenti. E probabilmente e una scelta migliore quella di rivolgersi a ciò che può aprire prospettive nuove con l’architettura, piuttosto che affidarsi a un’estetica della contraddizione. Ciò che potrebbe aiutarci nella costruzione di un punto di vista teoricamente valido e positivamente operante è fare chiarezza su quale sia il fine dell’architettura. Ritengo che tale fine consista nel migliorare l’abitare in vista dell’incremento delle possibilità dei membri delle comunità umane di essere più felici e più liberi. Tale fine può essere perseguito attualmente solo attraverso la dimensione artistico-mediatica, ma solo a patto che questa venga rimotivata su basi alimentate da una vera conoscenza critica del mondo, quella conoscenza velocizzata, ma anche puntualmente precisa. Il problema è, in una parola, sempre quello del valore. Oggi si tende a ritenere che un edificio sia un evento o al massimo un fatto. A questa concezione riduttiva, ma estremamente diffusa, va contrapposto un punto di vista alternativo che ri­porti in primo piano la dimensione valoriale come esito di un giudizio tendenzioso sul rapporto tra la realtà e l’architettura. Veniamo ora ad alcune questioni che la mostra solleva. Osservando le tavole che sintetizzano ricerche di notevole livello innovativo e sfogliando il libro che documenta i lavori dei partecipanti a questa importante iniziativa espositiva, come pure il recente volume della UTET Progetti di giovani architetti italiani si può constatare come la produzione degli architetti appartenenti alle ultime generazioni abbia nulla da invidiare a quella dei coetanei architetti americani, inglesi, olandesi, spagnoli, tedeschi. Tuttavia, se que­ sta equivalenza è evidente, è altrettanto evidente che l’ar­ chitettura italiana, anche quella prodotta dagli architetti più giovani, non ha lo stesso risalto mediatico di quella pensata


e costruita da altre culture progettuali. La mia spiegazione, che vi propongo come un’ipotesi da verificare, è che la nostra offerta disciplinare, che è ampia e complessa, manchi di una vera e propria architettura tematica. Ciò che non si comprende facilmente è da che cosa questi progetti sono ispirati, a quali principi essi si riferiscono, quali sono gli obbiettivi reali che vogliono raggiungere. Anche con un rimando alla questione della tradizione credo che un architetto riesce a esprimersi compiutamente, riuscendo per questo a essere veramente incisivo nella realtà, se riduce la propria tematica invece di ampliarla. La volontà di dilatare gli ambiti operativi dell’architetto e parallelamente le sue responsabilità, è stato l’effetto negativo di una hybris demiurgica che ha sottratto all’architetto gran parte delle sue concrete possibilità di intervento, vanificate proprio dall’eccesso pro­blematico dalle quali erano accompagnate. A mio avviso è quasi fondamentale individuare per la nostra architettura non più di tre grandi tematiche condivise, senza temere che esse possano limitare la libertà degli architetti. Si può infatti essere originali e creativi anche lavorando all’interno di un campo tematico sul quale altri architetti stanno operando. In Olanda, ad esempio, la questione dell’housing sociale è da un secolo il tema per eccellenza. Un secondo tema è la costruzione fisica del suolo, dal momento che la geografia olandese è in parte considerevole artificiale. La terra, gli argini, i canali, gli alberi, le dighe sono l’esito di sistemazioni progettate. Questa tradizione dà un significato profondo all’architettura di Rem Koolhaas, che non guarda certo al passato, perché, continuandolo, lo considera una invariante del presente. La stessa cosa si potrebbe dire per architetti come Toyo Ito, Kengo Kuma, Kazujo Sejima. Essi sono integralmente giapponesi. Nelle loro opere la tradizione scintoista si configura come una piattaforma tematica che si risolve in invenzioni spaziali, formali e materiche di indubbio valore. Invenzioni poetiche che pervengono a risultati di grande intensità e dal carattere sorprendentemente nuovo. Non è difficile individuare un tema centrale per l’architettura del nostro paese. Noi possediamo un territorio-pae-

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saggio, una volta straordinario, che negli ultimi cinquanta anni è stato devastato. Ciò sia sul piano della sua realtà geo­ logica sia su quello ambientale e architettonico. La progressiva mancanza di manutenzione e una edificazione selvaggia hanno distrutto alla radice molte aree della penisola. Ogni anno assistiamo a frane, smottamenti, alluvioni, crolli, fatti che provocano morti e feriti. Quando si verifica un evento sismico le costruzioni, sia antiche sia moderne rivelano una loro endemica fragilità, anche essa causa di numerosi decessi. Il nostro dovere nei prossimi decenni è quindi quello di ricostruire letteralmente il nostro suolo, dando a esso un significato diverso. È infatti finito il mito dell’Italia come giardino del mondo che tanto aveva affascinato la cultura europea del Gran Tour, alla quale Cesare de Seta ha dedicato studi esemplari. L’Italia dobbiamo rifarla perché non è più il bel paese di Dante e di Antonio Stoppani. La questione è come ripensare la bellezza perduta in una nuova condizione territoriale-paesistica e architettonica nella quale i segni della distruzione sono trascesi in un nuovo ordine formale. Il secondo pensiero che viene in mente osservando i progetti dei giovani architetti che sono presenti alla mostra è il loro essere quasi tutti soggetti più o meno consapevolmente a un modello storiografico e critico nato negli Anni Trenta a opera soprattutto di Edoardo Persico che dice in sostanza che gli architetti italiani sono per loro natura incapaci di far fronte ai loro impegni. In questo modo è nata e si è sviluppata nel corso del Novecento, continuando anche nel nuovo secolo, un’estetica del fallimento, causa nello stesso tempo di frustrazione e, contraddittoriamente, di gratificazione. I numerosi ostacoli che l’architetto deve affrontare nel nostro paese – si pensi al celebre libro Difficoltà politiche dell’architettura italiana, 1920-1940 di Giulia Veronesi – hanno generato un senso di impossibilità, di inadeguatezza e di sconforto. Profezia dell’architettura, di Edoardo Per­sico è uno scritto la cui lettura finisce con il negare la fiducia nel futuro presentando un quadro sconfortante che enumera eventualità fosche e minacciose. Il modello della crisi, che fa temere e al contempo esalta il fallimento


è stato successivamente condiviso da Ernesto Nathan Rogers, Ludovico Quaroni, Saverio Muratori, Vittorio Gregotti – si ricordi il suo articolo Il piombo nelle ali – per trovare il suo culmine nelle pagine cupe e ultimative di Manfredo Tafuri. La visione negativa derivata da questo modello storiografico e critico permea talmente la nostra cultura che riesce molto difficile rendersene conto. Eppure l’idea della crisi come forma permanente dell’architettura italiana ha gravemente danneggiato a mio avviso, e continua a danneggiare, la nostra cultura progettuale inoculando in essa il germe del dubbio non tanto come elemento in grado di aumentare la nostra consapevolezza conoscitiva e la nostra attitudine critica, ma come fattore distruttivo della stessa capacità di pervenire a effettive scelte adeguate. La prevalenza e la grande durata nel dibattito disciplinare del modello della crisi credo derivi dal fatto che gli architetti italiani hanno maturato un resistente complesso di colpa, derivante dal fatto che l’architettura moderna non è stata inventata da noi, ma l’abbiamo importata da fuori: ciò ha generato negli architetti italiani anche un ulteriore complesso, quello di inferiorità rispetto ad altri contesti culturali. Il compito che ci siamo assunti, data questa condizione iniziale, è stato quello di trasformare ciò che veniva prelevato dal­l’esterno. In realtà anche la nostra struttura produttiva è un’industria di trasformazione. Noi non possediamo materie prime ed energia, e dobbiamo provvedere a cercarle al di là dei nostri confini. Ciò non ci ha però impedito di creare il Made in Italy, una dimensione stilistica famosa e apprezzata in tutto il mondo. Giuseppe Terragni non ha inventato le sue più note soluzioni. L’angolo stondato e poi riportato all’ortogonalità del Novocomum l’ha prelevato da un edificio di Ilya Golosov, mentre lo spazio interno della Casa del Fascio deriva da una scuola di Otto Haesler. Tuttavia Giuseppe Terragni aveva una tale capacità di reinventare ciò che imitava che i suoi risultati appaiono paradossalmente precedenti rispetto agli elementi tratti da opere già realizzate. In breve la grandezza dell’architettura italiana moderna sembra consistere nel modo con il quale essa ha saputo fare

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propri temi e motivi importati riformandoli totalmente al­ l’insegna di quella misura che ho identificato in un mio libro come il tratto distintivo del nostro sentire architettonico. Una misura che è proporzione, equilibrio, armonia, compresenza conflittuale e, contemporaneamente concorde di elementi urbani e architettonici. Questa misura permea anche la relazione tra l’architettura e la città, altra invariante fondamentale della cultura progettuale della penisola. Oltre alla mancanza di un’architettura tematica e alla oppressiva immanenza del modello della crisi c’è un terzo elemento sul quale riflettere se si vuole comprendere perché la produzione dei progettisti italiani non è apprezzata nel suo complesso come lo sono invece produzioni analoghe provenienti da altri contesti. Questo terzo elemento deve molto probabilmente riconoscersi in un persistente idealismo e nella conseguente disattenzione dei confronti della problematica relativa alla tecnica. Anche se molti architetti italiani hanno studiato a lungo la filosofia di Martin Heidegger il loro pensiero è ancora per molti versi crociano. Corretto via via da innesti marxisti, positivisti, strutturalisti, fenomenologici, decostruzionisti è ancora l’idealismo di Benedetto Crocce, anche se assorbito quasi inconsapevolmente, che costruisce, ancora oggi, la base culturale degli architetti italiani. Aldo Rossi è un caso esemplare di subordinazione della tecnica al puro disegno, ma al di là di questo estremo anche l’opera architettonica di Vittorio Gregotti, così come quella di molti altri architetti, predilige il piano della concettualità a quello della tecnica. Anche a Napoli gli esempi positivi di Marcello Canino e, all’opposto, di Luigi Cosenza non sembrano, tranne qualche eccezione, avere avuto seguiti decisivi. È noto che gli architetti italiani non apprezzano molto l’high-tech, senza pensare che in questa tendenza contemporanea, che appare egemone, la maggioranza degli abitanti delle città individuano un forte messaggio di un futuro possibile, avventure spettacolari, dense di felicità. Renzo Piano, pressoché l’unico architetto italiano protagonista dell’orientamento neocostruttivista è riuscito a semplificare l’orditura macchinista tipica degli edifici ispi-


rati alla dimensione tecnica introducendo in essi una semplicità di linee che in qualche edificio raggiunge quasi completamente la perfezione assoluta. Una semplicità che deriva da una classicità italiana reinterpretata con grande intelligenza e con notevole sensibilità. Concludendo, penso che sia necessario, a partire dalle tre condizioni di cui ho parlato all’inizio, proiettarsi su un nuovo orizzonte di senso. Un orizzonte nel quale non ci si contrapponga frontalmente ai processi che non condividiamo, ma si adotti una strategia più flessibile e pervasiva, capace di trovare spazi interstiziali di cambiamento di una situazione teoricamente sempre più incerta e operativamente tanto molteplice quanto ambiguamente relativistica. È indubbio che quasi tutto sia cambiato. La storiografia, la critica e il progetto hanno smarrito o gravemente alterato i loro spazi discorsivi e l’eredità della Scuola di Francoforte, dalla quale Vittorio Gregotti è in grado di trarre ancora indicazioni significative, non è certo in grado di fornire risposte adatte a padroneggiare gli scenari culturali del post postmodernismo. In momenti così liquidi, citando Zygmunt Bauman, la tradizione torna a essere il paradigma più solido ed efficace, in quanto solo attraverso di essa è possibile identificare in termini sufficientemente chiari l’innovazione. Per quanto mi riguarda ciò in cui mi riesce più convincente credere è la tradizione di cui parla René Guénon, il quale scrive Tradizione con la T maiuscola attribuendole così un valore universale. Tutti gli esseri umani e tutte le culture del mondo si basano in realtà sugli stessi principi. Esiste una sola religione, un unico modo di concepire il cosmo, un modo di organizzare la società che è uguale in ogni parte del pianeta. Questo sapere originario si specializza successivamente in forme avverse, ma queste non toccano il nucleo interno di tale conoscenza unitaria. Questa è l’unica tradizione, assieme a quella di cui ha scritto Thomas Stearns Eliot, anche se il filosofo francese è stato considerato da molti come un fondamentalista e un reazionario, destino che fu già di Friedrich Nietzsche e di altri grandi pensatori. Quindi la tradizione non va presa molto in considerazione

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perché facendo così si rischia di estrarla da noi stessi vanificandola, così come la storia è necessaria ma solo in quanto va dimenticata. Io sono sempre stato d’accordo con Walter Gropius sulla scelta di escludere la storia dell’architettura dall’insegnamento di questa, anche se personalmente credo che occorra conoscerla. Conoscerla, come ho già detto, per azzerarla nell’invenzione. Non credo neanche nella dialettica tra tradizione e innovazione perché tale dialettica limita entrambi i termini del rapporto. Dobbiamo sapere che la tradizione è spesso inventata, rispetto alla tradizione di René Guénon che è sempre se stessa, ma entrambe debbono essere superate da un’innovazione intesa non tanto come una novità ma come il nuovo. Ciò perché tra novità e nuovo c’è una differenza importante. La moda va alla ricerca delle novità, mentre la letteratura, la poesia, il cinema, la scultura, la pittura e l’architettura tendono a esprimere e a realizzare il nuovo. Questo può anche essere una forma del­ l’antico che si ripresenta, ma più realisticamente è il nuovo che determina ciò che l’antico è. Antoni Gaudì diceva, ripreso da Picasso, che se si vuole essere originali occorre tornare alle origini. Tutto ciò va però inserito all’interno della dialettica tra origine e inizio. Origine e inizio sono due cose diverse. Chi pensa all’origine pensa alla scena dalla quale le cose sono nate. Chi si riferisce all’inizio si interroga su come procedere nella formazione delle cose. La parola inizio viene dal latino in-ire, che significa mettersi in cammino. L’inizio è quindi il momento aurorale dell’entrare in un percorso conoscitivo, configurandosi così come un concetto dinamico, che si fa analitico e insieme sintetico, mentre il termine origine riguarda un pensiero stabilmente primario legato a un luogo o a un non luogo della mente che rimane sempre se stesso. Considerato tra l’origine e l’inizio il rapporto che lega la tradizione all’innovazione si trasforma nel confronto tra lo stare e l’andare, due momenti della conoscenza e della vita che si alimentano l’uno dell’altro, riflettendosi come in uno specchio.

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La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali GIUSEPPINA DAL CANTON

Come è stato sottolineato in diverse occasioni dal presidente Paolo Baratta, la Biennale di Arte, così come quella di Architettura, dal 1998 – con un’anticipazione sperimentata nel 1993 – è un’esposizione che si regge su due pilastri portanti: le mostre per padiglioni nazionali, ciascuna con un proprio curatore e un proprio progetto, e la grande mostra internazionale a tema, affidata ad un direttore artistico. Que­ st’ultima ambisce quest’anno a porsi come una grande “mo­ stra-ricerca” ed è stata affidata ad un giovane curatore, Massimiliano Gioni, direttore artistico della Fondazione Nicola Trussardi di Milano, direttore associato del New Museum of Contemporary Art di New York, nonché curatore di mostre all’estero tra le quali la Biennale di Berlino del 2006 (assieme a Maurizio Cattelan e ad Ali Subotnick) e la Biennale di Gwangju (Corea del Sud) del 2010. Gioni si è ispirato all’utopistica idea di Marino Auriti, carrozziere e artista autodidatta emigrato in America negli anni Trenta, che nel 1955 depositò all’ufficio brevetti statunitense il progetto di un Palazzo Enciclopedico, una sorta di museo immaginario di centotrentasei piani e settecento metri di altezza che, occupando più di sedici isolati della città di Washington, avrebbe dovuto ospitare tutto il sapere del­ l’umanità. Il modello del Palazzo Enciclopedico, impresa ov­viamente rimasta allo stato progettuale, apre infatti l’e­ spo­sizione alle Corderie dell’Arsenale, a simboleggiare il

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sogno di una conoscenza universale e totalizzante [che] attraversa la storia dell’arte e dell’umanità e accomuna personaggi eccentrici come Auriti a molti artisti, scrittori, scienziati e profeti che hanno cercato – spesso invano – di costruire un’immagine del mondo capace di sintetizzarne l’infinita varietà e ricchezza1. Convinto che oggi, alle prese con il diluvio dell’informazione, questi tentativi di strutturare la conoscenza in sistemi onnicomprensivi ci appaiono ancora più necessari e ancora più disperati2, Gioni ha predisposto, all’Arsenale così come al Padiglione Centrale ai Giardini, dei percorsi espositivi basati su un approccio antropologico applicato alle arti visive, puntando sul dominio dell’immaginario e sulle funzioni dell’immaginazione3 e facendo in tal modo sfumare le distinzioni tra artisti professionisti e dilettanti, tra outsider e insider4, con opere che spaziano dall’inizio del secolo scorso ad oggi5, dal manufatto al ready-made non senza i filmati e le videoinstallazioni. Suddividendo lo spazio delle Corderie, peraltro scenograficamente suggestivo nella sua originaria, lunghissima prospettiva, in tanti scomparti atti ad esporre materiali eterogenei, si intende praticamente perseguire l’ideale delle Wunderkammern cinque, sei e settecentesche, in una sequenza che alterna le proposte odierne di professionisti con curiosità e “meraviglie”, opere di reclusi, alienati, ex voto, prodotti etnici di culture fiorite sotto le occupazioni coloniali e così via, che non possono che richiamare alla mente le incursioni in questi territori alternativi da parte del Surrea­ lismo e, sia pure diversamente, da parte dell’Art Brut, nonché le suggestioni della grande mostra Magiciens de la Terre, organizzata nel 1989 al Centro Pompidou di Parigi e curata da Jean-Hubert Martin. Una dettagliata scheda esplicativa accompagna le opere, ad informare adeguatamente sugli espositori, la loro attività e le tecniche usate, con grande utilità ma anche, inevitabilmente, dato il numero eccezionalmente elevato di espositori, con un impiego di tempo che costringe chi vuol “capirci qualcosa di più” ad una visita di una durata fuori misura. Daremo qui pertanto solo


un’idea della sequenza delle diverse presenze, a partire dal­ l’ossessiva, ancorché interessantissima, vasta antologia di fotografie in bianco e nero di acconciature di diversi gruppi etnici della Nigeria presentata da J. D. ’Okhai Ojeikere, alla quale seguono i raffinati disegni ad inchiostro su carta realizzati solamente con un bastoncino di bambù da Lin Xue, che si ispira alla montagna e più in generale al mondo naturale, e l’imponente scultura di Roberto Cuoghi (menzione speciale della giuria per l’artista) intitolata Belinda, che assomiglia ad un aggregato molecolare visto al microscopio, apparentemente realizzato in pietra, in realtà ottenuto usando una stampante 3D e successivamente rivestito di polvere di dolomite. Inoltrandosi nel percorso, ci si imbatte nella sequenza classificatoria, “alternativa” alla tassonomia scientifica, costituita dai fiori di vetro della Harvard’s Ware Collection riprodotti nelle stampe alla gelatina d’argento di Christopher Williams con un intento demistificatorio, quello cioè di mostrare solo gli esemplari autoctoni provenienti da paesi – per lo più ex colonie – in cui nell’anno 1985 erano stati denunciati sparizioni e rapimenti per motivi politici6 e via via nelle quasi miniaturistiche Artures (termine composto da “art” e dal suffisso francese “-ture” di parole come peinture ed écriture) del turco Yüksel Arslan, che, nei suoi disegni a penna colorati, da un lato intende fare riferimento a scrittori e pensatori a lui particolarmente cari come Bataille e Nietzsche, dall’altro indaga maniacalmente su affezioni fisiche e mentali dell’essere umano. È un video girato in notturna quello di Neïl Beloufa, che presenta interviste agli abitanti di Mali, mentre è un video “classificatorio” e ambiziosamente mirante a mostrare i tentativi di sintesi dell’intera conoscenza umana quello del “Leone d’argento per un promettente giovane artista” Camille Henrot, film maker e scultrice parigina che ha realizzato la sua Grosse fatigue durante una borsa di studio presso la Smithsonian Institution di Washington. In Once Upon a Time (2002) Steve McQueen proietta centosedici immagini tratte dal Golden Record di Carl Sagan, il disco lanciato nello spazio nel 1977 sulle sonde spaziali della NA-

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SA Voyager 1 e 2 e vi abbina le registrazioni sul campo effettuate dal linguista William J. Samarin sul fenomeno della glossolalia7, mentre Sharon Hayes (menzione speciale della giuria), socialmente impegnata, intervista un gruppo di studentesse dell’università del Massachusetts su sessualità e amore, in qualche modo richiamando le interviste di Pier Paolo Pasolini nel documentario Comizi d’amore (1965). Il vietnamita Danh Vo sorprende con una megainstallazione costituita dai resti ben conservati di una chiesa cattolica di epoca coloniale databile a circa duecento anni fa, in cui si mescolano elementi locali con altri di tipo occidentale, mentre l’installazione di Rossella Biscotti consiste in strutture elementari costruite utilizzando mattoni ottenuti dalla compressione dei rifiuti del carcere femminile dell’Isola della Giudecca, accanto alle quali è stato posto un sonoro che registra le voci delle carcerate che parlano dei loro sogni e delle loro aspettative. Dopo una lunga e per certi versi vertiginosa sosta davanti ai fumetti di Robert Crumb, che illustrano i centocinquanta capitoli del libro della Genesi, costatigli cinque anni di lavoro, le sorprese non mancano con le misteriose sculture di un soggetto autistico come il giapponese Shinichi Sawada, di cui viene presentato un vasto bestiario di creature ibride in terracotta, tutte contraddistinte da un corpo irto di punte acuminate, né con il brasiliano Arthur Bispo do Rosário, che trascorse cinquant’anni in un ospedale psichiatrico, in cui produsse un gran numero di arazzi, vesti cerimoniali e sculture fatte di oggetti trovati, qui parzialmente esposti. Prima di passare nello spazio dedicato alla sezione della mostra curata dall’artista Cindy Sherman, ottanta personaggi dai corpi filiformi, ricoperti di polietilene e resine che fanno l’effetto di lunghe bave vischiose, realizzati dal polacco Paveł Althamer, accolgono il visitatore suggerendo l’idea di una Venezia spettrale in quanto si tratta di sculture in scala reale raffiguranti alcuni abitanti della città di cui sono stati realizzati calchi in gesso, poi riprodotti in plastica, dei volti e delle mani.


Cindy Sherman ha messo insieme un folto numero di opere di cui risulta molto difficile trovare il filo conduttore: il suo museo immaginario va dalle fotografie di vecchi album da lei raccolti nei mercatini di tutto il mondo alla scultura di impressionanti proporzioni di Charles Ray (Fall ’91 del 1992), alle sculture iperrealiste di John DeAndrea (Ariel II del 2011) e di Duane Hanson (Stop Lady del 1983), dall’enorme bambola sventrata di Paul McCarthy (Anatomical Educational Figure del 1990 ca.) al neonato in culla con un insetto sul volto e accostato a un’inquietante pelliccia che respira di Rosemarie Trockel e Günter Weseler (Fly Me to the Moon del 2011), ai provocatori disegni acquerellati di Carol Rama passando per gli ex voto del Santuario di Romituzzo e le chiassose bandiere vudù haitiane. Non si capisce poi quale denominatore comune – stilistico o almeno concettuale – leghi le ben note opere di Enrico Baj, costituite da bizzarri personaggi realizzati usando tappezzerie, passamanerie e altri materiali vari, con quelle che sono esposte vicino ad esse: i disegni paños, realizzati con mezzi poveri dai carcerati delle prigioni degli Stati Uniti sudoccidentali per comunicare con i loro cari e più in generale con il mondo esterno, e le opere dell’ucraino Sergey Zarva, che con una satira corrosiva e crudele stravolge espressionisticamente, in modo tale da renderle mostruose, immagini emblematiche di politici così come di rassicuranti contadini riprodotte sulle copertine di “Ogoniok”, una rivista sovietica popolare durante la sua infanzia. Dopo l’antologia della Sherman, la mostra di Gioni riprende presentando un altro consistente gruppo di opere di autori eterogenei e si conclude, a consolazione di chi ama maestri ormai storici, con le suggestioni luminose di un protagonista del tedesco Gruppo Zero e più in generale del­ l’arte cinetica internazionale come Otto Piene e con Apollo’s Ecstasy, l’installazione, sapientemente orchestrata nello spazio, di venti risplendenti barre cilindriche in bronzo dorato disposte diagonalmente e parallelamente, opera di Walter De Maria, mentre la videoinstallazione di Bruce Nau­man, che mostra la sua testa che gira all’ingiù su se

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stessa ripetendo continuamente “mmm”, sembra suggellare il percorso espositivo con un ironico, metaforico commento visivo e sonoro. Al Padiglione Centrale dei Giardini il Palazzo Enciclopedico si apre con la presentazione del Libro Rosso o Liber Novus, il manoscritto illustrato al quale lo psicoanalista Carl Gustav Jung lavorò per circa sedici anni, e subito dopo con i disegni che il fondatore dell’antroposofia Rudolf Steiner tracciò con gessetti colorati su grandi fogli di carta nera usati come lavagne per illustrare le sue conferenze nel Goe­ theanum di Dornach, sede degli incontri dell’organizzazione antroposofica. Dietro la scorta di questi numi tutelari non ci si può che attendere una mostra sul potere dell’immaginario, dei sogni e delle visioni e sull’investigazione interiore. Infatti Gioni segnala tra le immagini più toccanti e complesse della mostra […] i disegni di Pirinasau, uno sciamano delle isole Salomone che traccia su un foglio i suoi sogni, le sue visioni, i demoni e le divinità del suo pantheon8. Indubbiamente il progetto curatoriale per parecchi versi richiama precedenti, importanti mostre dedicate a tematiche analoghe come The Spiritual in Art: Abstract Painting 1890-1985, tenutasi al County Museum of Art di Los Angeles nel 1986 e poi a Chicago e a L’Aja e Okkultismus und Avantgarde: Von Munch bis Mondrian, 1900-1915, tenutasi alla Schirn Kunsthalle di Francoforte nel 1995. Difatti non manca nella rassegna di Gioni una pioniera dell’Astrattismo come la svedese Hilma af Klint9, che studiò alla Reale Accademia di Belle Arti di Stoccolma, producendo inizialmente opere di impronta tradizionalmente naturalistica, ma poi abbandonò questa strada a favore di opere astratte ispirate ad un simbolismo di matrice occultista. Si occupò infatti di spiritismo e nel 1896 fondò, con quattro ex compagne di studi, il gruppo occultista “Le cinque”, che comunicava con entità ultraterrene dalle quali riceveva messaggi attraverso il disegno e la scrittura automatici. Ma se Hilma af Klint è una rappresentante del côté propriamente artistico, nel percorso della mostra ci imbattiamo anche nella


svizzera Emma Kunz, che, dotata fin da bambina di poteri paranormali, a partire dal 1939, guidata da un pendolino, produsse disegni caratterizzati da interessanti motivi decorativi geometrici, peraltro non con l’intento di farne delle opere d’arte, bensì come rituale di guarigione dei suoi pazienti. Rientrano fra le opere realizzate a scopo terapeutico anche i complessi disegni a inchiostro colorato della cinese Guo Fengy che, affetta da artrite acuta, alleviò la sua sofferenza praticando il Qi Gong il cui diretto prolungamento fu un’intensa produzione grafica ispirata dalla spiritualità cinese. Aveva studiato odontoiatria e aveva poi lavorato come odontotecnica la ceca Anna Zemánková, che, caduta in un profondo stato depressivo sul finire degli anni Cinquanta, si svegliava ogni giorno di primo mattino per disegnare febbrilmente con colori a pastello, talvolta integrati da vivaci ricami, forme biomorfiche e motivi floreali frutto delle sue fantasticherie, da lei ritenute di “ispirazione medianica”, in realtà formalmente analoghe a certi motivi decorativi della cultura popolare del suo paese. Colpiscono poi alcune grandi, elaboratissime tele ad olio gremite di motivi caleidoscopici fra i quali talora spuntano immagini dell’iconografia cristiana, opera del minatore francese Augustin Lesage, che sosteneva di conversare con gli spiriti tra i quali quello di Leonardo Da Vinci e lavorava lasciando che fossero proprio gli spiriti a guidare la sua mano (quando, nel 1924, conobbe un egittologo, affascinato da motivi tratti dal repertorio egizio, cominciò a inserirne nei suoi dipinti dichiarandosi la reincarnazione di un artista dell’epoca dei faraoni). La galleria delle opere legate all’occultismo continua con i tarocchi ideati da Aleister Crowley, iniziato dell’Hermetic Order of Golden Dawn, e realizzati dalla pittrice Frieda Harris, con i disegni-dono degli Shaking Quakers (letteralmente “quaccheri agitanti”), più tardi noti come Shakers, che si riferivano a se stessi come a “strumenti” investiti del compito di registrare le visioni a loro inviate da esseri celesti10, con i dipinti tantrici dei devoti indù, in cui ricorre il linga, rappresentazione aniconica del dio Šiva, ai quali si possono aggiungere le opere di autodidatti come Levi Fi-

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scher Ames, che scolpiva creature bizzarre di un suo bestiario fantastico e Friedrich Schöder-Sonnenstern, personaggio dalla vita molto movimentata, naturopata, chiromante con fama di guaritore, ricoverato in diversi ospedali psichiatrici, apprezzato dai surrealisti come autore di straordinari disegni a matite colorate popolati di creature demoniache, figure femminili sinistramente provocanti e vari elementi simbolici. Non mancano le opere frutto di ossessioni e manie: trecentottantasette piccoli edifici di diverse tipologie, dalle abitazioni monofamiliari alle banche alle chiese, sono stati costruiti con puntigliosa accuratezza fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, in materiali comuni come cartone e carta da parati, da Peter Fritz, un impiegato austriaco delle assicurazioni, e sono ora esposti in mostra dopo che l’artista Oliver Croy e il critico di architettura Oliver Elser li hanno recuperati nella bottega di un rigattiere. Le ossessioni non sono assenti, come si sa, anche fra gli artisti di professione. Ecco quindi la maniacale puntigliosità del nostro Domenico Gnoli, ossessionato, nei suoi ben noti dipinti, dalle riprese ravvicinate e ingrandite di particolari, ma presente in mostra con alcuni disegni della serie What is a Monster? (1967), in cui il realismo della tecnica si sposa con la visionarietà delle immagini, come quando viene rappresentato, steso su un divano, un ibrido fra un’enorme lumaca e un pesce o un altrettanto enorme uccello notturno che si affaccia inquietante fra i vestiti appesi in un armadio. Alla precisione puntigliosa di Gnoli si avvicina l’iperrealismo degli oli della statunitense Ellen Altfest, in particolare di quelli con nudi maschili in cui l’artista, con occhio clinico, […] indaga meticolosamente la topografia della carne11. Nel percorso quasi labirintico del Padiglione Centrale uno spazio considerevole è dedicato alla vasta collezione di pietre di Roger Callois, il grande scrittore e critico dedito all’esplorazione dei mondi poetici del fantastico e dell’immaginario, in gioventù per breve tempo vicino ai surrealisti. L’autore di Pierres (1966) e di L’écriture des pierres (1970), così come di molti noti saggi di vario argomento, aveva in-


fatti raccolto oltre cento pietre insolite che presentano al loro interno immagini strane, talvolta assai complesse, paesaggi straordinariamente articolati e così via, insomma gli esemplari di un linguaggio criptico, di una “sintassi universale”, che ora sono ordinatamente conservati al Musée d’histoire naturelle di Parigi. Alcuni artisti fanno esplicito riferimento agli scrittori: i diari di Kafka sono illustrati dal colombiano José Antonio Suárez Londoño, mentre è ispirato al Libro degli esseri immaginari di Jorge Luis Borges il bestiario fantastico disegnato dalla greca Christiana Soulou; richiama la Biblioteca di Babele di Borges La grande biblioteca (1976-1986) di Gianfranco Baruchello, un assemblaggio di sei scatole in legno con vetro, modello di una grandissima biblioteca con scaffali a forma di cellette di un alveare, la quale raccoglie, miniaturizzati, volumi contenenti tutto lo scibile umano e immagini che si riferiscono all’arte e alla cultura del passato, specialmente del passato recente (l’artista è presente anche con due grandi pannelli in tecniche miste su tela facenti parte di un’opera in quattro pannelli del 1967, A chi di ragione). Figurano nello stesso padiglione gli artisti premiati con i Leoni d’oro: l’inglese Tino Sehgal, Leone d’oro per il miglior artista della mostra di Gioni, Marisa Merz e Maria Lassnig, entrambe Leoni d’oro alla carriera. Il primo solitamente non presenta opere, ma azioni, sicché in questo contesto due performer di età diversa, uno molto giovane e un altro già anziano, seduti a terra, muovono braccia e mani con gesti lenti e armoniosi, come per una danza rituale, cantando una nenia, così da dare l’impressione di un dialogo tra generazioni. Di Marisa Merz, negli anni Sessanta e Settanta unica donna della tendenza dell’Arte Povera, sono qui esposte opere su carta e su tavola realizzate con tecniche miste, tutte senza titolo, ma per lo più evocanti teste e busti femminili, e una testa in argilla e altri materiali, mentre le tele ad olio della ormai novantaquattrenne Maria Lassnig colpiscono per la violenza espressionistica del linguaggio col quale la pittrice rappresenta il suo corpo nudo in pose diverse.

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Non mancano i filmati e i video, come l’onirico film Heaven and Earth Magic (1959-1961) di Harry Smith, di ispirazione surrealistica, e il video Blindly (2010) di Artur Z≥mijewski, in cui dei non vedenti adulti sono stati invitati a dipingere prima se stessi e poi un paesaggio su grandi fogli di carta fissati a terra: è un video toccante, in cui a contare non sono i risultati estetici, ma l’espressione delle visioni interiori dei soggetti coinvolti. Il percorso si conclude con una sala di forte impatto estetico: vi sono collocati due scuri, imponenti blocchi di acciaio forgiato del minimalista Richard Serra, interpretabili come un monumento funebre in memoria di Pier Paolo Pasolini (Pasolini è infatti il titolo di quest’opera del 1985) e, alle pareti, i quadri di Thierry De Cordier con mari in tempesta (meno uno con una gelida vetta montuosa), che sembrano ben rappresentare in chiave contemporanea l’e­ stetica del sublime. Fra i padiglioni degli ottantotto paesi presenti quest’anno quelli per così dire storici hanno sede ai Giardini. Qui Francia e Germania, in una logica di transnazionalità artistica, si sono scambiate le sedi. Così il padiglione tedesco accoglie l’artista albanese Anri Sala a rappresentare la partecipazione della Francia con un’installazione di quattro filmati e un sonoro musicale che, ispirati a Maurice Ravel, giocano sullo sfasamento dell’esecuzione del Concerto in re per la mano sinistra del celebre compositore francese da parte di due diversi pianisti fino alla coincidenza finale, mentre il padiglione francese accoglie, in rappresentanza della Germania, il tedesco Romuald Karmakar, il sudafricano Santu Mofokeng, l’indiana Dayanita Singh e il cinese Ai Weiwei. Quest’ultimo presenta all’ingresso della sede una suggestiva installazione di sgabelli in legno sospesi e intrecciati, mentre in una mostra collaterale intitolata Disposition presenta due opere in due sedi diverse. La prima opera, Straight, è allestita allo Zuecca Project Space presso il complesso delle Zitelle alla Giudecca e consiste in un progetto sviluppato usando le barre di rinforzo in acciaio recuperate dalle scuole crollate durante il terremoto di Sichuan


nel 2008; la seconda opera, S.A.C.R.E.D., è un’installazione nella chiesa di Sant’Antonin consistente in sei grandi contenitori neri in ferro sigillati, sui quali si aprono delle piccole finestre dalle quali si può vedere l’artista durante la sua detenzione illegale di ottantuno giorni, nel 2011, nelle carceri cinesi, causata dalle denunce da parte sua della politica repressiva del governo locale: il recluso vi appare sempre strettamente controllato anche quando mangia, dorme o va in bagno. La Gran Bretagna dedica l’intero padiglione ad una mostra di Jeremy Deller intitolata English Magic, una sorta di percorso antropologico per installazioni, dipinti e fotografie nella complessità della società britannica e dei suoi problemi. Anche il Canada ha puntato su un solo artista: la scultrice, pittrice e film maker Shary Boyle, solitamente impegnata ad affrontare problemi sociali e di genere. Per il padiglione la Boyle ha creato un ambiente popolato di sculture accuratamente rifinite e di varie dimensioni in bronzo, in porcellana, in gesso e un filmato, il tutto con un effetto che intende essere visionario ed evocativo di significati profondi e riposti ma che, nell’insieme, risulta decisamente kitsch. Il Giappone, che ha ricevuto la menzione speciale della giuria per le partecipazioni nazionali, si rifà al tema del terribile terremoto con tsunami del 2011, che l’artista Koki Tanaka affronta con un video girato prima del sisma, ma [che] a chi vive ora in Giapppone e ha vissuto l’esperienza definitiva del disastro, […] sembra una metafora del lavoro congiunto per la ricostruzione12; a questo affianca immagini video che documentano forme precarie di dialogo. L’allestimento del padiglione è basato sul recupero di materiali – per lo più pilastri di legno erosi dalla salsedine – già utilizzati per la partecipazione giapponese alla Biennale di Architettura del 2012, in una sorta di ideale continuità fra le due esposizioni. La Corea invita il visitatore ad un viaggio sensoriale, visivo e tattile, in quanto l’artista Kimsooja, che potremmo definire neocinetico, lo espone alla luce caleidoscopica provocata dai riflessi del vetro del pavimento e delle pareti e

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all’esperienza straniante di un percorso affidato solo al tatto in una stanza buia e priva di rumori. La Russia invece, con Vadim Zakharov, membro del gruppo cosiddetto dei “concettualisti moscoviti”, ci induce a riflettere sull’avidità umana con una messa in scena del mito di Danae, facendo piovere, su un pubblico esclusivamente femminile, appositamente invitato a dotarsi di ombrelli, una fitta pioggia di monete dorate, mentre un performer, facendo cadere dall’alto arachidi sbucciate e altri materiali, intende suggerire diversamente il flusso continuo dei beni. Se il Venezuela presenta esempi di arte urbana sui muri delle città, la Spagna, richiamando alla mente l’Arte Povera e altre analoghe esperienze della fine degli anni Sessanta, occupa tutti gli spazi della sua sede con una grande installazione di Lara Almarcegui, che, impegnata a mostrare la materia degli edifici e la loro rigenerazione, invade gli ambienti con cumuli dello stesso materiale e nella stessa quantità adoperati per la realizzazione dell’edificio ed espone anche un’installazione fotografica dedicata alla raccolta dei rifiuti e degli scarichi vetrari delle fornaci di Murano in quella Sacca San Mattia che sarebbe dovuta invece diventare un parco urbano. Sembra poi di tornare al 1978, con la Biennale a tema intitolata Dalla natura all’arte e dall’arte alla natura, quando si entra nel vicino padiglione del Belgio, in cui Berlinde De Bruyckere espone un grandissimo “albero storto” (Kreupelhout), con nodi naturali e nodi prodotti artificialmente dall’uomo. Gli Stati Uniti si affidano alla serie di installazioni di Sarh Sze, che trasforma il padiglione in una sequenza di stanze da lavoro tra loro collegate nelle quali si possono vedere congegni intricati, oggetti sparsi sui tavoli, filamenti intrecciati e poi lasciati sciolti, che trasmettono un senso di complessità, ma anche di instabilità e precarietà inducendo ad interrogarsi sul senso finale di questo elaborato progetto. Il Padiglione Venezia, un tempo consacrato alle arti decorative, quest’anno ci riporta all’originaria missione di questo storico edificio13, rivisitando le più importanti pro-


duzioni tessili legate agli antichi legami fra Venezia e l’Oriente. Pertanto la maggior parte degli artisti invitati (AES + F, Marya Kazoun, Mimmo Roselli, Marialuisa Tadei, Yiqing Yin) interpreta “la via della seta” utilizzando tessuti pregiati in opere che, pur riallacciandosi ad una lunghissima tradizione, generalmente risultano innovative e non prive di un particolare fascino. Ai film e alle videoinstallazioni si affidano la Danimarca con Jasper Just, la Grecia con Stefanos Tsivopoulos, la Serbia con Miloš Tomic; e altri paesi come Israele, che espone un’“installazione multicanale site-specific” di Gilad Ratmav, o come l’Austria, che presenta un cartone animato di Mathias Poledna esemplato sui modelli forniti dall’epoca d’oro della produzione cinematografica di animazione americana degli anni Trenta e Quaranta. Il Padiglione Italia, assieme ad altri più recenti, si trova all’Arsenale. L’edizione di quest’anno è stata curata da Bartolomeo Pietromarchi, direttore del Macro, che ha puntato su una formula prevalentemente concettuale con una mostra intitolata Vice versa. Ispirandosi al principio delle “serie di concetti polarmente coniugati” teorizzato da Giorgio Agamben e partendo dalla constatazione della natura prevalentemente dialettica della cultura e dell’arte italiana odierne, l’esposizione ospita coppie di artisti di diverse generazioni in dialogo, quindi in un rapporto prettamente dialettico di affinità ma anche di differenze, disposti in sette “stanze”. Così la stanza intitolata corpo/storia ospita una performance di Fabio Mauri del 1973, Ideologia e natura, in cui l’arista mette in guardia dai rischi della manipolazione del pensiero: vi appare infatti una ragazza che indossa la divisa fascista di “giovane italiana”, la quale, spogliandosi lentamente e rivestendosi in modo volutamente maldestro, finisce per perdere la logica, l’ordine del suo abito “simbolico” (la ragazza in carne e ossa dei giorni della vernice e del­ l’inaugurazione viene ora rimpiazzata dal filmato della performance). In dialogo con Mauri, un dialogo non immediatamente comprensibile dal visitatore che si accontenti di un approccio alle opere diretto e senza supporti didascalici, è

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Francesco Arena con quattro grandi pilastri di legno contenenti terra, tanta quanto è il peso del suo corpo moltiplicato per il numero di morti sepolti in cinque fosse comuni europee. Le combinazioni binarie proseguono con la coppia Giulio Paolini - Marco Tirelli per la stanza prospettiva/superficie, entrambi con opere in bianco e nero messe in scena come quadri di un’esposizione (Quadri di un’esposizione è infatti il titolo dell’opera di Paolini), la coppia Luigi Ghirri - Luca Vitone per la stanza veduta/luogo, la coppia Massimo Bartolini - Francesca Grilli per suono/silenzio, Marcello Maloberti - Flavio Favelli per familiare/estraneo, Elisabetta Benassi - Gianfranco Baruchello per sistema/frammento, Sislej Xhafa - Piero Golia per tragedia/commedia. Nel percorso colpisce, dal punto di vista estetico, il Viaggio in Italia di Ghirri, un interessante lavoro del 1983 che vide coinvolti dal fotografo diciannove colleghi, mentre si guarda il quale si è colpiti, dal punto di vista olfattivo, dall’odore che Vitone ha chiesto di creare a Maria Candida Gentile: quello del letale eternit. Gianfranco Baruchello ricrea una specie di laboratorio eco-sostenibile, mentre Elisabetta Benassi espone un pavimento di mattoni di argilla del Polesine, teatro dell’alluvione del 1951. Ridondanti le installazioni di Flavio Favelli, con la sua gigantesca, rozza cupola allusiva a quella di San Pietro alla quale fanno esplicito riferimento i piatti-souvenir con le riproduzioni di una serie di varianti della cupola michelangiolesca, e di Marcello Maloberti, col su monolite di marmo di Carrara circondato da mezzi tavolini, specchi e altri oggetti (nei giorni della vernice anche da figuranti) di cui risulta difficile afferrare il senso. Sorprende per la bella impaginazione e per la coerenza del progetto presentato un nuovo padiglione, quello della Santa Sede, ospitato nelle recuperate Sale d’armi. Qui il commissario, il cardinal Gianfranco Ravasi, e i curatori, con Antonio Paolucci in testa, hanno predisposto un percorso tematico attraverso i primi undici capitoli del libro della Genesi. Dopo un incipit costituito dalla famosa Creazione dell’uomo (d’après Michelangelo) di Tano Festa, ci si inoltra in tre ambienti dedicati rispettivamente al momento del-


la Creazione, a quello della De-Creazione causata dall’uomo e a quello della Ri-Creazione o della Nuova Umanità, che segue il diluvio. Ad interpretare il primo è stato chiamato Studio Azzurro con una videoinstallazione interattiva di forte coinvolgimento sensoriale, mentre il secondo e il terzo sono stati affidati rispettivamente a Josef Koudelka con le sue fotografie in bianco e nero potentemente evocatrici di rovine e distruzioni e a Lawrence Carroll con le sue grandi tele realizzate con tecniche miste e materiali di recupero. Nello stesso spazio delle ex Sale d’armi gli Emirati Arabi Uniti, con un’installazione di Mohammed Kazem intitolata Direction 2005/2013 ovvero Walking on Water, coinvolgono lo spettatore che, al buio, ha l’impressione di trovarsi a galleggiare, scosso dalle onde, in un mare senza limiti, così come accadde effettivamente all’artista quando visse l’esperienza angosciante della caduta da una barca senza che nessuno se ne accorgesse: questo grazie al moderno perfezionamento di una tecnica che originariamente il pittore inglese Robert Barker sperimentò nel 1787 e il cui brevetto portava il titolo di La Nature à Coup d’Oeil. Se l’Argentina evoca la mitica figura di Eva Perón mediante quattro videoinstallazioni, la Repubblica Popolare Cinese colpisce con la plastica figurazione digitale degli ignudi di Miao Xiachung e le animazioni “allegoriche”, an­ ch’esse digitali, di Zhang Xiaotao. Infine, fra i diversi padiglioni ospitati in spazi alternativi a quelli dell’Arsenale e dei Giardini, occorre segnalare quello della Norvegia, che invita a riflettere sulle contraddizioni dell’emancipazione14 esponendo alcune opere di Edvard Munch e un film di Lene Berg, quello della Slovenia, per il quale Jasmina Cibic ha riorganizzato lo spazio espositivo della Galleria A + A con installazioni di notevole impegno concettuale (il progetto si intitola For Our Economy and Culture), l’Angola, Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale, e i due paesi che si presentano assieme e hanno entrambi ricevuto la menzione speciale per le partecipazioni nazionali, Cipro e Lituania. L’Angola punta sulla serie fotografica Found not taken di Edson Chagas, che si dedica alla catalo-

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gazione sistematica di oggetti abbandonati che vengono ricontestualizzati all’interno della città di Luanda, gli altri due paesi presentano invece esperienze diverse di una pattuglia di artisti il cui progetto espositivo è tracciato in catalogo semplicemente attraverso una conversazione avvenuta via e-mail, nel febbraio 2013, tra Raimundas Malašauskas, curatore, e Gabriel Lester, espositore. I riconoscimenti ad un paese che espone per la prima volta alla Biennale come l’Angola e a due paesi che si presentano assieme vanno evidentemente a sottolineare la nuova impostazione della rassegna, attenta ad un panorama internazionale in continua evoluzione e ai riflessi esercitati sul sistema dell’arte da nuovi assetti socio-politici e da nuovi, sia pur talvolta precari, equilibri.

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1   M. Gioni, È tutto nella mia testa?, in Il Palazzo Enciclopedico. Biennale Arte 2013, catalogo della mostra, 2 voll., Fondazione La Biennale di Venezia, Marsilio Editori, Venezia 2013, vol. I, p. 23. 2   Ibidem. 3   Ibidem. 4   Ibidem. 5   Ibidem. 6   CW (Ch. Wiley), Christopher William, in Il Palazzo Enciclopedico cit., vol. I, p. 420. 7   Id., Steve McQueen, in Il Palazzo Enciclopedico cit., vol. I, p. 401. 8   M. Gioni, È tutto nella mia testa? cit., pp. 24-25. 9   A proposito di questa pittrice segnalo che non casualmente que­ st’anno la sua opera viene rivisitata a tutto tondo dall’esposizione Hilma af Klint. Eine Pionierin der Abstraktion, a cura di Iris MüllerWestermann, esposizione che, dopo esser stata tenuta al Moderna Museet di Stoccolma, è ora in corso al Museo Hamburger Banhof di Berlino e passerà successivamente al Museo Picasso di Malaga. 10   CW (Ch. Wiley), Disegni-dono degli Shakers, in Il Palazzo Enciclopedico cit., vol. I, p. 413. 11   Id., Ellen Altfest, in Il Palazzo Enciclopedico cit., vol. I, p. 378. 12   M. Kuraya, Giappone, in Il Palazzo Enciclopedico cit., vol. II, p. 92. 13   M. Gambier, Padiglione Venezia, in Il Palazzo Enciclopedico, cit., vol. II, p. 178. 14   Paesi nordici Norvegia, in Il Palazzo Enciclopedico cit., vol. II, p. 118.


A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri CECILIA CECCHINI

«Fatto il polipropilene», così annotava sulla sua agenda l’11 marzo 1954 Giulio Natta riferendosi alla scoperta del polipropilene isotattico, commercializzato con il nome di Moplen, che gli fece ottenere insieme a Karl Ziegler il premio Nobel per la chimica nel 1963, l’unico che l’Italia abbia mai avuto. Il prestigioso riconoscimento era frutto del suo intuito e del paziente lavoro condotto con i collaboratori del Politecnico di Milano. Si è trattato di un’avventura scientifica, sostenuta con lungimiranza dalla Montecatini, che ha avuto significative ricadute sul piano sia produttivo che sociale e che consentì alla ricerca italiana di arrivare ai vertici della chimica mondiale contribuendo in maniera determinante allo sviluppo di un settore industriale che è stato per decenni uno dei più attivi e avanzati del nostro Paese. Va anche ricordato che è stato un caso esemplare di collaborazione tra università e industria – a tutt’oggi tanto auspicata quanto rara – che prevedeva accordi economici e scientifici su temi di interesse comune e l’inserimento di neo laureati nei laboratori dell’allora fiorente industria chimica, che negli anni Cinquanta esportava più della metà dei materiali polimerici prodotti1. Natta era interessato alla ricerca applicata, gli studi condotti con il suo gruppo diedero vita a più di trecento brevetti e resero possibile lo sviluppo di processi per la sin-

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terizzazione di una intera famiglia di polimeri atti a cristallizzare, diventati poi materiali a grande diffusione come il polistirene. Così come Leo Baekeland è definito il «padre delle plastiche» per la realizzazione nel 1907 della Bakelite, il primo materiale polimerico interamente artificiale, Giulio Natta può essere considerato il «padre delle plastiche moderne», quelle eclettiche e performanti che hanno cambiato il mondo degli oggetti. Il mezzo secolo trascorso dalla consacrazione con il Premio Nobel della scoperta del Moplen è un lasso temporale congruo per riflettere sulle conseguenze positive e negative che questo materiale ha determinato, insieme al resto di quella sterminata famiglia che per comodità chiamiamo genericamente delle plastiche, perfetta sintesi lessicale che fa coincidere il loro nome con la loro principale caratteristica prestazionale, l’unica che accomuna materiali che non sembrano essere neanche lontani parenti, idonei nelle loro diverse declinazioni a produrre flessibilissimi film da imballaggio così come rigidissimi componenti strutturali degli aerei. Ho trovato solo il modo di mettere in fila le molecole come soldatini in parata

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Questo diceva Natta, e ancora: Un chimico che si accinge a costruire una gigantesca molecola è nella stessa posizione di un architetto che progetta una costruzione. Egli ha una quantità di mattoni di alcune forme e dimensioni e cerca di metterli insieme per formare una struttura che abbia un determinato scopo ( ). Quasi ogni giorno, in questi ultimissimi anni, si scoprono nuovi metodi per unire questi mattoni, e queste scoperte promettono una grande massa di materiali mai prima esistiti sulla Terra. Parole che ben sintetizzano i prodromi dell’attuale approccio tailor made secondo il quale i materiali vengono manipolati ad hoc a livello molecolare a monte dell’oggetto, per soddisfare al meglio le sue specifiche prestazioni. Nel


caso del polipropilene isotattico i ricercatori riuscirono a ordinare il concatenamento dei monomeri che danno origine alle lunghe catene macromolecolari caratteristiche dei materiali plastici, in modo da rispondere perfettamente a numerosi requisiti fondamentali per la realizzazione di oggetti diversissimi, da qui la sua rapida diffusione planetaria. La lunga storia del rapporto tra l’uomo e i materiali è un susseguirsi di ricerche, tentativi, fallimenti, casualità, a cominciare da quella del vetro che secondo Plinio (Naturalis historia, 77 d.C) fu scoperto accidentalmente da alcuni mercanti fenici che intorno al 5.000 a.C. si fermarono presso il fiume Belo in Siria, accesero un fuoco e poggiarono i loro recipienti per cucinare su blocchi di nitrato che si sciolsero con il calore delle fiamme e si mescolarono con la sabbia, dando così vita ad un miscuglio liquido trasparente. La storia giovane dei materiali sintetici inizia non così casualmente, ma a seguito dei tentativi che potremmo definire alchemici condotti da ostinati sperimentatori nei primi dell’Ottocento, che hanno portato alla realizzazione delle plastiche semisintetiche partendo da materiali naturali: il nitrato di cellulosa e la canfora impiegati da John W. Hyatt per la realizzazione della Celluloide; il lattice unito allo zolfo per la formazione dell’Ebanite ad opera di Charles Goodyear; gli oli vegetali, la nafta e la canfora che portarono Alexander Parkes alla creazione della Parkesina. Era così tracciata la promettente strada che porta sino alle ricerche contemporanee condotte nei laboratori di tutto il mondo dove le materie vengono manipolate per realizzare materiali mai esistiti in precedenza, usate come lettere di un alfabeto per comporre nuove parole. Dalla fine dell’Ottocento vi fu una grande accelerazione nella realizzazione di materiali ormai del tutto sintetici: nel giro di pochi anni apparvero sul mercato in rapida successione la Bakelite, il Nylon, la Gommapiuma, il Polimetilmetacrilato… I semisintetici e soprattutto i polimeri totalmente di sintesi si diffusero velocemente in sostituzione dei loro progenitori di origine naturale divenuti rari e costosi – avorio, tartaruga, corno, gommalacca – dei quali all’inizio

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imitavano anche l’aspetto. La loro versatilità cominciò a essere sfruttata nei settori più diversi, anche in campo aereonautico nel corso della seconda guerra mondiale2. Subito dopo la fine del conflitto la loro diffusione crebbe in modo esponenziale, fino al 1973 anno della crisi petrolifera e della prima presa di coscienza dei problemi ambientali. In questa epifania di scoperte il polipropilene ha segnato un punto di svolta, dando concreto avvio all’era contemporanea dei materiali progettati, un polimero con caratteristiche prestazionali mai possedute prima da un unico materiale: peso specifico minore di quello dell’acqua; notevole resilienza; colorabile nella massa; alto punto di fusione; ottime proprietà dielettriche; termoplastico. Di conseguenza: oggetti leggeri, facilmente trasportabili e galleggianti; infrangibili; colorati; resistenti alle alte temperature e sterilizzabili all’occorrenza; adatti ad applicazioni in ambito elettrico; riciclabili tramite calore. Soprattutto il Moplen era – ed è tuttora assai diffuso anche se non più di proprietà italiana – un materiale facilmente plasmabile in forme complesse e spessori sottili tramite termoformatura e stampaggio, lavorabile per estrusione, adatto alla realizzazione di film (Moplefan) e fibre (Meraklon), accoppiabile con la termosaldatura. Infine, era economico. L’insieme di questi fattori determinò la sua rapida diffusione nella realizzazione di stoviglie e accessori per la casa e in molti settori industriali, dall’elettromedicale al­l’a­ gricoltura. Il superamento dell’inerzia della materia e l’avvento dei materiali consenzienti

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Complice la grande festa del consumo degli anni del boom economico, la moltitudine di materie plastiche che arrivarono sul mercato furono percepite come simboli di benessere e di modernità. Ben rispondevano alla voglia di cambiamento di un’Italia in grande fermento reduce dalla catastrofe del fascismo; grazie alla loro versatilità ed economicità diventarono in breve tempo i materiali della de-


mocratizzazione dei consumi. Le plastiche erano perfette sia per la nascita di nuove tipologie di prodotti, che per il rinnovamento formale e/o funzionale di oggetti in precedenza realizzati con materiali e forme della tradizione. In pochi anni si compì la rivoluzione delle bacinelle: con venti anni di ritardo rispetto all’America, nelle case operaie e piccolo borghesi italiane sparivano le bacinelle di metallo zincato o smaltato – pesantezza, ammaccature, rumore – insieme alle vecchie madie di legno, che non entravano più nelle cucine dell’Ina-Casa. E via di seguito, in una girandola di vecchi e nuovi bisogni, reali o presunti, veicolati anche dalla nascente televisione. Le cucine «all’americana», componibili, rivestite di laminato plastico, complete degli elettrodomestici e dei tupperware dove conservare cibi non più preparati quotidianamente in casa ma acquistati surgelati, liofilizzati, precotti, erano l’agognato simbolo della modernità domestica cui la classe media italiana aspirava. Tra kitsch imitativo, improbabili pezzi frutto della libertà progettuale consentita dalle plastiche, originali di famosi designer, copie prodotte in migliaia di pezzi e mirabili esempi di design anonimo, il paesaggio domestico intraprese in quegli anni una trasformazione senza ritorno, cui le plastiche contribuirono in maniera significativa3. Se l’estetica ottimista delle plastiche ha cambiato l’iconografia e l’uso degli oggetti, la loro lavorabilità docile e veloce ha inciso sul rapporto tra la libertà dell’idea progettuale e gli obblighi imposti dalle caratteristiche fisiche dei materiali. Ha modificato, cioè, i presupposti che sono alla base della cultura del fare: la fatica – del lavoro artigiano ma anche di quello delle macchine, in termini di possibilità e facilità nella realizzazione delle diverse lavorazioni – e il compromesso, intesi, parafrasando Ezio Manzini, come lavoro necessario per superare i vincoli della materia (la fatica) e come necessità di tenerne conto nella prefigurazione dei risultati (il compromesso). Così, nei secoli, è stata questa inerzia della materia che ha stabilizzato le forme nel tempo, che ha ridotto il numero delle alternative, che, in

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definitiva, ha rallentato l’introduzione del nuovo e affinato le soluzioni possibili all’interno dei vincoli dati. E, d’altra parte, è questa inerzia della materia che ha fatto sognare un mondo dove tutto fosse possibile, dove nuove forme – e quindi nuove prestazioni – si ottenessero senza fatica e senza compromessi. Un mondo in cui l’antica dialettica tra idee e materia si risolvesse in un monologo delle idee: le idee che producono esattamente se stesse, la materializzazione delle idee. Questo sogno non si è mai avverato e non si avvererà mai. Tuttavia con l’introduzione della plastica gli si è andati molto vicino4. Oggi molti materiali – leghe a memoria di forma, superconduttori, ceramici avanzati, compositi, aerogel – ci hanno abituato a un assortimento prestazionale strabiliante, che grazie a tecnologie produttive sempre più avanzate sembra essere in grado di superare vincoli fisici e tecnici di ogni tipo. Questo tempo affascinante dei materiali consenzienti ha avuto inizio con l’avvento delle plastiche. Lo spessore dell’artificiale

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Sulla contrapposizione tra materiali naturali considerati poco inquinanti e materiali artificiali considerati inquinanti, non varrebbe la pena di soffermarsi se non fosse per quel pensiero di ritorno che si diffonde di pari passo all’aumentare dei danni ambientali prodotti dalla normalità deviata della società contemporanea, per cui il passato – nella fattispecie i materiali naturali – è comunque migliore. Il che talvolta è vero, ma certamente non sempre. Il punto, però, non è questo, e quanto scritto da Manzini quasi trenta anni fa avrebbe dovuto essere dirimente: L’opposizione naturale/artificiale è, a rigor di termini, inapplicabile ai materiali usati dall’uomo: il legno del tavolo, in quanto materiale lavorato, è parte dell’artificiale come la plastica della sedia (…) ciò che cambia, e che rende così diversi i due materiali, è il livello a cui è arrivato l’intervento tecnico, cioè quello che vorremmo chiamare lo «spessore del­l’artificiale»5. Il punto è che per frenare il consumo oltraggioso delle


risorse della terra, è necessario introiettare e imparare a governare il concetto di limite che è, o dovrebbe essere, ormai a tutti noto. Ma questa consapevolezza non determina il conseguente agire a livello politico, economico e sociale, nonostante si parli in ogni dove di ambiente, di green economy, di eco-design, e che l’appeal di tutto ciò che è «verde» sia così forte da causare sempre più diffusi fenomeni di green washing6. Nella nostra cultura dell’eterno presente la calamita dell’oggi ci attrae in modo troppo potente; non vogliamo pensare alle conseguenze dei nostri comportamenti su un ipotetico domani. Attenendoci all’ambito dei materiali – che sono alla base della produzione delle merci, dunque a pieno titolo protagonisti di tali dinamiche – è bene sottolineare che oggi lo «spessore dell’artificiale» di cui parlava Manzini è enormemente aumentato in quanto la quasi totalità dei materiali contemporanei è il risultato di mescole, giustapposizioni, manipolazioni a livello macro, micro e nano. Anche il naturalissimo legno viene impiegato come massello sempre più raramente, al contrario dei suoi artificialissimi derivati prodotti con le parti inutilizzabili delle alberature, con gli sfridi di lavorazione, le polveri, i chips ricomposti con collanti generalmente sintetici. In merito alla plastica, se si valuta la sua origine, può essere considerata la madre di tutti i materiali naturali in quanto derivata dal petrolio, che è la sedimentazione millenaria delle creature animali e vegetali della terra. Per quel che attiene il suo essere inquinante, se da una parte la sua permanenza nell’ambiente in condizione di abbandono può durare secoli e la sua produzione non controllata può essere catastrofica, dall’altra il suo uso appropriato contribuisce a limitare l’inquinamento su molti fronti. Basti pensare al risparmio energetico derivante dall’isolamento degli edifici realizzato con gli espansi; alla maggior leggerezza delle automobili, degli aerei, delle imbarcazioni, che impiegano in percentuali crescenti polimeri e compositi in sostituzione dei metalli, che permette una forte riduzione dei consumi; alla loro lavorabilità che richiede un limitato impiego di

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energia; al rapporto resistenza-peso dei compositi che consente di usare spessori sottili. Dunque, qualsiasi semplificazione rispetto alla natura dei materiali e alla loro conseguente bontà o meno rispetto all’ambiente attiene alla sfera dei vezzi nostalgici. Temporalità lineare vs temporalità ciclica: il superamento della cultura dell’eterno presente

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Oggi le differenze significative tra materiali attengono più che alla loro origine alle trasformazioni produttive, a quello «spessore dell’artificiale» che nel caso delle plastiche avviene per mezzo di processi chimici, che possono causare enormi danni o essere gestiti in sicurezza; non è detto, infatti, che siano più inquinanti o pericolosi di quelli che servono per la produzione dell’acciaio o per la concia delle pelli. Nodale invece è la questione della rinnovabilità o meno della fonte di provenienza. Il petrolio come si sa non lo è e, al di là delle diverse stime che ne annunciano la fine imminente o lontana, si esaurirà. In luogo di usarlo come combustibile mandandolo in fumo, con tutte le conseguenze ambientali e politiche del caso, potremmo impiegare quel che ne resta proprio per la realizzazione delle plastiche, una percentuale che oggi si attesta attorno al 4% del petrolio estratto. Non per aumentare la produzione attuale dei polimeri, ma per far sì che anche in futuro se ne possano produrre, con la dovuta moderazione e attenzione, in attesa che si realizzino materiali con analoghe performance e minor impatti. Persino il settimanale economico inglese The Economist ha intitolato un recente articolo redazionale dedicato al petrolio «Il combustibile di ieri», corredandolo con l’immagine di un T-Rex che tiene in mano un erogatore di benzina7. Usiamolo per produrre polimeri da impiegare in nobili artefatti, non certo per il mercato dell’usa e getta che nonostante gli ottimi risultati raggiunti dalla filiera del riciclo, resta per le plastiche il più improprio. La vera questione è la volontà di governare in modo ambientalmente e socialmente consapevole: le due cose non


possono infatti essere disgiunte, come dimostrano i casi in cui i comportamenti predatori non sono rivolti alle risorse della terra ma al lavoro degli uomini. In particolare si tratta di indirizzare la produzione, l’uso e la dismissione dell’artificiale verso il tanto abusato quanto disatteso principio «dalla culla alla tomba», anzi «dalla culla alla culla», nel rispetto del tempo ciclico della natura. Principio che deve essere perseguito attraverso il progetto e attuato grazie alla mediazione della tecnica e al giusto riconoscimento del lavoro. Oggi abbiamo le conoscenze, gli strumenti, le tecnologie per amministrare i diversi processi, per annullare o mitigare i loro impatti; per gestire un’industria per la produzione della plastica così come per salvaguardare i boschi per l’approvvigionamento del legname. Se non si può parlare di cultura senza natura è vero anche il contrario, e ai nostri giorni proteggere l’ambiente vuol dire governarlo intervenendo, il che non esclude fare qualcosa di nuovo facendo qualcosa di antico. Per quel che riguarda le plastiche, ad esempio, l’impiego dei biopolimeri – i nipoti tecnologici di quelli usati prima dell’era della chimica – ottenuti da risorse rinnovabili in sostituzione di quelli derivati dal petrolio per gli usi che richiedono prestazioni meccaniche e temporali limitate, può essere un’ottima scelta. Specie se sono realizzati con materiali di scarto – dalle bucce di pomodoro a quelle delle arance ai gusci delle uova – o da piante a basso impatto coltivate in terreni marginali nel rispetto della biodiversità dei territori, come ad esempio il cardo in Sardegna. Evitando di trasformare in plastica quello che si può mangiare, per non creare squilibri ancora più forti tra popolazioni ricche e popolazioni povere. La seduzione del provvisorio e l’aldilà degli oggetti: il paradosso delle plastiche L’economicità, la formabilità e la versatilità delle plastiche hanno decretato la loro diffusione che è stata in qualche modo funzionale alla cultura del consumo secondo la quale nulla deve essere durevole, iniziata alla fine degli anni Cin-

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quanta in concomitanza con l’indebolirsi della parsimoniosa civiltà contadina. La loro disponibilità fisica ed economica è stata usata per assecondare la tendenza all’accorciamento della vita degli oggetti, alla loro transitorietà forzata, e ciò è paradossale se si pensa che le plastiche hanno – se scelte correttamente e opportunamente additivate – una durata molto lunga. I più importanti designer dell’epoca e dei nostri giorni – come Philippe Starck, solo per citare il più famoso sostenitore del «materiale meraviglioso» – hanno fatto delle plastiche i loro materiali d’elezione, così come moltissimi progettisti anonimi che con esse hanno realizzato oggetti perfetti dal punto di vista formale e funzionale, ma la quantità di quelli privi di qualità, o nati per costare e durare poco ha determinato profondi danni sia ambientali, causati soprattutto dall’alta percentuale di plastiche abbandonate che non sono entrate nella filiera del riciclo, che culturali. Lo sfruttamento distorto della loro economicità ha infatti veicolato una estetica banale e transeunte che è alla base di una sorta di perdita di spessore semantico degli artefatti, e ha contribuito all’indebolimento del rapporto affettivo tra oggetto e consumatore, uno dei fattori su cui si basa la società del consumo quantitativo, (…) un consumo che non è la fine naturale di ogni prodotto, ma il suo fine8. Se le performance meccaniche dei polimeri artificiali hanno consentito di scardinare in pochi decenni la stabilità delle forme, la loro economicità ha favorito la rapida e spensierata alienazione degli oggetti – figlia delle migliorate condizioni economiche di vasti strati della popolazione e di una scarsa coscienza ambientale generalizzata – causando i problemi che ben conosciamo e facendo guadagnare alle plastiche la fama di materiali poveri e inquinanti. Un marchio alimentato dai suoi usi impropri, primo tra tutti l’usa e getta, che le accompagna come la lettera scarlatta, nonostante le infinite applicazioni per le quali non hanno rivali. Se, infatti, le plastiche sono maestre nel rispondere alla cultura della quantità, lo sono anche per la tanto auspicata cultura della qualità, come hanno dimostrato nel corso di tutta


la loro storia, dalle prime raffinate applicazioni della Bakelite alle mirabolanti prestazioni dei polimeri di oggi. Ovviamente le dinamiche del consumo quantitativo e della gadgettizzazione degli oggetti sono complesse, essendo determinate da logiche politiche ed economiche che – senza scomodare il capovolgimento dei mezzi (produrre) con i fini (fruire) di marxiana memoria – attengono ai valori propri della società contemporanea basata sull’imperativo dell’eterno avere. In questo quadro la produzione, l’uso e la dismissione dei materiali per la realizzazione degli artefatti, e delle plastiche in particolare, non è che una tessera in un mosaico composito che andrebbe ripensato. Anche il design che, come diceva Charles Eames, è un «sistema di possibilità», è chiamato a fare la sua parte.

1   Nel 1951 l’ingegner Piero Giustiniani, alla guida della Montecatini, accolse la proposta di collaborazione dell’Istituto di Chimica Industriale del Politecnico di Milano dove Natta conduceva i suoi studi. Venne così istituita una sorta di joint venture tra pubblico e privato su temi di ricerca nevralgici per lo sviluppo del Paese quali quelli applicativi delle macromolecole di sintesi. Nel 1952 la Montecatini inaugurò a Ferrara il primo grande impianto petrolchimico europeo; nel 1957 iniziò la produzione del polipropilene isotattico. 2   In particolare il Polimetilmetacrilato era usato per fabbricare i tettucci degli aerei e la Gommapiuma per foderare i serbatoi della benzina; il Nylon per il confezionamento dei paracadute. Le industrie inglesi, americane e tedesche produttrici di questi materiali ebbero l’urgente necessità, una volta terminata la guerra, di trovare loro nuovi impieghi civili. 3   C. Cecchini, Splendori e miserie delle materie plastiche 19501973, in C. Cecchini (a cura di), Mo’… Moplen. Il design delle plastiche negli anni del boom, Rdesignpress, Roma 2006. 4   E. Manzini, Nuove risposte per nuove domande, in E. Manzini, A. Petrillo (a cura di), Neolite, Domus Academy Edizioni, Milano 1991, p. 10. 5   E. Manzini, La materia dell’invenzione, Arcadia Edizioni, Milano 1986, p. 30. 6   Il green washing è la pubblicizzazione di virtù ecologiche non possedute finalizzata alla creazione di un’immagine positiva di prodotti o attività che, invece, hanno impatti ambientali negativi. 7   Yesterday’s fuel, in The Economist, 3 agosto 2013. 8   U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 2002, p. 611.

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L’autore e la firma nel progetto di design VINCENZO CRISTALLO

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L’espressione ‘design anonimo’ è un’autorevole convenzione critica utilizzata per indagare un’area ben precisa della fenomenologia storica e coeva del design nella sua versione di prodotto. Indica, com’è noto, l’insieme degli oggetti di cui, pur essendo il prodotto materiale di bisogni personali e collettivi, non conosciamo l’autore o gli autori. Il tema dell’anonimo inoltre ha a che fare con una sostanziale ‘non intenzionalità’ estetica. Di solito gli oggetti anonimi non hanno pretese di bellezza. I criteri estetici sembrano esclusi da ogni tipo di ricerca sulla forma. Seppure la bellezza non venga ricercata, essa appare comunque una conseguenza del tutto naturale di un processo ‘giusto’, ‘corretto’, in cui la forma ‘logica’, in quanto puramente necessaria, produce un’alta qualità estetica1. Per cui, considerando il fatto che si tratta generalmente di ‘cose ben fatte’, la sintesi tipologica e formale di questi manufatti incarna implicitamente una sorta di retorica della democrazia del design. Ed è per questa ragione che si collocano di diritto nello spazio della civiltà del buon senso che abbatte le barriere tradizionalmente elevate tra il fatto a mano e il prodotto seriale. Da sempre, poi, gli oggetti senza autore (senza patria e senza tempo in molti casi), dominano il nostro panorama artificiale. Nella piccola come nella grande scala. Si tratta di un campo equamente diviso tra forme discrete e sistemi complessi che accoglie un racconto


dell’artificiale nel quale i processi ideativi non appaiono mai più del dovuto sottomessi alle restrizioni dei linguaggi, all’estemporaneità delle mode, alla pervicacia dei simboli culturali, così da renderli, come sosteneva Bruno Munari, emancipati dall’eventualità di poter appartenere ad esclusive classi sociali. L’intelligenza spontanea e lo stile ordinario presente in questi manufatti, suggeriva a Munari di conferire un doveroso e ideologico Compasso d’Oro ai loro progettisti ignoti. Il susseguirsi infine d’innovazioni tecnologiche e il debutto di nuovi materiali si sono rivelati complici naturali per far resistere all’usura del tempo le buone idee2. Non a caso il fenomeno del no-name design si riproduce con continuità dal progetto storico-artigianale al progresso tecnico-industriale attraversando la cultura popolare dell’inventiva sperimentale e dell’autoproduzione. Qualsiasi oggetto della cultura materiale di conseguenza (ndr), anche il più umile, incorpora saperi, ingegnosità, scelte e cultura, tali da meritare una narrazione3. Ogni prodotto è pertanto un atto narrativo che merita un diritto di cronaca la cui opportunità dipende esclusivamente dalle chiavi di lettura utilizzate. Ma il punto, se non altro rispetto alle finalità di questa esposizione, non è stabilire quanto e quale ‘design ignoto’ vada raccontato, ma riconoscere che l’ampio e consolidato uso che si è fatto di questa ‘formula dissertativa’ attraverso un considerevole numero di repertori critici4, non evita comunque l’emergere di un suo contenuto ambiguo alla luce del senso che l’attualità destina alla funzione della firma di oggetti e condotte progettuali. Per quanto banale possa apparire dirlo, l’uso di un’e­ spressione come ‘design anonimo’ prevede esplicitamente che vi sia un ‘design firmato’. Esiste l’anonimo perché esiste il noto. È come dire che il design è innanzitutto ‘firmato’ ma è tuttavia visibile una sua variante ‘non firmata’ che si esercita tra arte e tecnica attraverso pratiche quotidiane e intuizioni di persone colte e meno colte. Utilizzare la dualità che vige tra firma o non firma ci porta a riconoscere le contraddizioni che certe variabili narrative del design hanno

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inserito nel dibattito disciplinare di tipo storico e sul progresso dei profili contemporanei. Ricordando che la comparsa dell’industrializzazione segnò l’avvento dei brevetti e con questi la necessità di dare un autore a ogni nuovo modello – soltanto negli Stati Uniti furono depositati più di 600.000 brevetti dal 1836, anno della legge della cosiddetta ‘Patent act’, al 19005 – s’intuisce che d’allora il rapporto che intercorre tra oggetto e contrassegno della firma ad esso apposta, oltre che duraturo è piuttosto complesso. Una relazione in questo momento mutata nei valori a fronte di un sistema design che assegna al suo divenire in termini di cultura del progetto, economie di scala, progresso e benessere sociale, il compito di farsi interprete di un cambiamento sostenibile nei fatti e nei numeri, nell’immaginario e nelle pratiche6. La firma in quanto tale è un segno grafico che afferma l’identità di chi lo esegue. Una specie di logotipo della personalità. In grafologia la firma è l’interazione tra l’io ‘sociale’ (l’immagine che vogliamo trasmettere agli altri) e l’io ‘profondo’ (il reale sentimento che abbiamo di noi stessi, nel nostro intimo). Non è certamente in questi termini che pensiamo al design firmato ma questo inciso, se correttamente manipolato, chiarisce all’opposto quanto sia contraddittorio l’uso formale del termine anonimo se confrontato a quello della firma quando è utilizzato nelle ‘pagine’ del design. Sul rapporto firma-design interviene anche il filosofo Maurizio Ferraris. Egli ritiene sbagliato sostenere, come pure si afferma, che la nostra è un’epoca più estetizzata di altre (…) Si potrebbe obiettare che l’estetizzazione non riguarda il fatto che si ornino le cose, ma che si firmino, appunto con il fenomeno del design7. Ma di questo Ferraris non è convinto perché gli oggetti firmati sono sempre esistiti a cominciare dai romani che siglavano tutto nelle loro botteghe. La stessa firma sui quadri non è l’eccezione che dimostra un proprio statuto artistico dell’opera rispetto all’oggetto, bensì, al contrario, ciò che determina la continuità tra l’opera d’arte e l’artigianato, poiché


mentre Tiziano firmava i suoi quadri, c’era chi firmava pistole e armature8. L’unicità del design, così com’è comunemente intesa, non si ravvisa secondo il filosofo nel prevalere di una condizione di estetica oggettuale, né tantomeno nella presenza di una firma, ma nel fatto che i designer si mostrino e che agli oggetti assegnino un nome assumendosi il compito di una autorità, per così dire, battesimale (…). Ecco il punto: la produzione di massa non introduce né l’estetizzazione né la firma, che c’erano già, ma il nome dell’oggetto, appunto perché ciò che viene introdotto nel mondo non è un esemplare, bensì una specie: ci sono i letti tassa proprio come ci sono i gatti soriani, ci sono le automobili panda proprio come ci sono i panda. Senza dimenticare che ci sono le automobili Giulia e le mutande Roberta. Con il nome, l’oggetto diventa quasi un soggetto, o almeno finge di esserlo9. In prima battuta si può replicare che il nome è comunque in molti casi una sorta di firma. Un successivo autografo del progettista talora utilizzato con intenzioni affettive dissimulate sotto appellativi curiosi. Ma le riflessioni di Ferraris ontologicamente confermano soprattutto che catalogare e interpretare il design secondo la dicotomia conosciuto/anonimo rappresenta un calcolo con un risultato incerto poiché gli oggetti firmati sono sempre esistiti analogamente a quelli non firmati con la differenza che questi ultimi, secondo Andrea Branzi, esibendo un’incerta collocazione temporale, rappresentano un ‘fenomeno extrastorico’10. Questi artefatti, sintesi di una cultura esperienziale, continua Branzi, sono il segno dell’esistenza di un sapere popolare e diffuso che si colloca al si sotto della fascia dei brevetti ufficiali e prima del progetto di un designer11. Ed ecco il motivo per cui in essi si può riconosce finanche un carattere polemico nei confronti del ‘design colto e ufficiale’, per la possibilità che hanno di rappresentare una sorta di progresso spontaneo che si attua sulla base di una logica di semplicità invece che di razionalità12. Una Semplicità sinonimo di essenzialità, evidente soprattutto nel design italiano che a differenza di molte culture del progetto, europee e in-

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ternazionali … ha conservato le sue radici con la cultura popolare e contadina, elaborando ‘prototipi semplici’, che interpretano la modernità come la nascita di un nuovo alfabeto elementare, che permette di riscoprire valori spirituali e ideali. La ‘semplicità’ dunque non è il risultato di un processo ingenuo, ma al contrario è il risultato di un procedimento molto sofisticato, che seleziona le forme e le tecnologie per ottenere il massimo risultato espressivo con il minimo sforzo formale13. Considerando che la categoria anonima dei manufatti quotidiani di cui disponiamo ci perviene come il risultato di un processo naturale e condiviso, frutto della selezione di forme elaborate secondo criteri di utilità civile, non ricopre allora un particolare rilievo confinarli nella categoria dei N.N. (Nomen Nescio)14. Il valore di un manufatto, il suo significato, non aumenta conoscendone l’autore. Anzi, quando trasferiamo l’anonimo alla classe del conosciuto è come se nel passaggio cancellassimo quella specie di suggestione che possiedono le cose dalle origini enigmatiche. E probabilmente è un’osservazione che nasconde una doppia verità: la prima ci dice che tutte le volte che attribuiamo paternità e provenienza a un oggetto, rischiamo di eliminare il carattere che lo ha reso attraente (…) perché quando veniamo a conoscere l’origine, il nome dell’autore, questo disegno smette di essere anonimo per entrare nella galleria dei progetti di autore; ma è pur vero – ed è la seconda verità, che – anche se l’anonimo come condizione ci attrae, non possiamo reprimere una tendenza irresistibile a dargli un nome, a scoprirlo, a classificarlo e quindi a dominarlo15. L’apparente opposizione tra ‘anonimo’ come sinonimo di tolleranza poiché prodotto attraverso esperienze comuni, e ‘firma’ come paradossale segno di una singola identità documentata ma confinata dal fatto di essere il solo volto di un singolo, impone di rivedere il senso da attribuire alla paternità delle ‘cose’ concepite e realizzate in un sistema postindustriale che assegna al ruolo classico del progettista, all’ordinamento del progetto e ai processi produttivi nuovi mandati. È sufficiente osservare come la ‘fabbrica’ come


luogo fisico-produttivo (ma anche la cosiddetta bottega artigiana) stia riformando il binomio contenitore-contenuto per il mutare delle relazioni che intercorrono tra mercati locali e globali, tra innovazione e tradizione, tra consumi singoli e di gruppo, tra modelli di vita tradizionali e futuribili. Il procedere di queste tesi – i cui effetti sono già visibili nelle sembianze degli oggetti di cui ci dotiamo nei nostri ambienti domestici, di lavoro e negli spazi urbani – focalizzano l’attenzione sul tema dell’autorialità, sul ruolo che l’autore progettista occupa oggi nella contemporaneità assumendo con Maffei che la strada obbligata sia l’abbandono di un’autorialità demiurgica (Maffei, 2012) per avvicinarsi ad una narrazione in ‘real time’ a più mani. L’evidenza empirica rileva, ad esempio, quanto siano aumentati i gruppi di designer che si riconoscono dietro sigle che sono, a tutti gli effetti, veri e propri manifesti programmatici, principi di narrazioni accoglienti e aggreganti. Fenomeno in contrasto con buona parte della storia del design, italiano e non solo, legato a grandi nomi e perpetuato – ancora oggi – da uno Star System sostenuto dai media (e da imprenditori in gap di visione) che continua ad alimentare il mito del Grande Designer. La nascita di collettivi e gruppi può essere, in parte, spiegata dal fenomeno del design come professione di massa ma non è solo questo: emergono, infatti, altri oggetti di progetto che ampliano, pur non abbandonandoli, i tradizionali campi del progetto16. La relazione tra anonimo e design si configura così attraverso due domini distinti. Il primo, classico e tradizionale, comprende gli oggetti che accompagnano da sempre la nostra quotidianità: arnesi, protesi e tools che sono la conclusione di una creatività civica, il manifesto dell’equilibrio tra forma e struttura che possiedono il più delle volte le cose indispensabili, oggetti per lo più archetipi di se stessi e con un DNA che respinge l’effimero. Il secondo anonimato è di tipo politico e non insegue generi, eticamente coinvolto nella vita del prodotto, consapevole dei risvolti morali di ogni gesto ed evento al suo contorno e tecnologicamente impe-

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gnato. È la diretta conseguenza di un approccio ideologico e valoriale nel quale gli orientamenti culturali dell’open source, dell’open design, del social design, del co-design, del maker design si autoalimentano e si congiungono, restituendo in primo luogo un modello pubblico e associativo del progetto moderno tale da poter superare la dimensione romantica e individualista che può comunicare l’attività di un singolo. Un progetto così rifondato fa da ponte tra l’esercizio di talenti personali e i nuovi paradigmi di utilità e bellezza che s’intendono oggi a tutti accessibili sotto ogni profilo e status perché accreditati dalle esperienze della social utility e dell’handmade. In entrambi i casi si reclama un protagonismo intellettuale che riconsegna a chi fa cosa la responsabilità del risultato pieno delle proprie azioni. Il fatto a mano esercitato con attrezzi manuali o computerizzati, inoltre, incoraggia il riemergere dell’Homo Faber, l’uomo che, nell’ipotesi di Matthew Crawford, riscopre il lavoro pratico come ‘medicina dell’anima’ in un momento in cui si sgretolano le carriere professionali, si capovolgono le competenze e si rimettono in gioco vecchie e nuove attitudini pur di reagire17. Il filosofo-meccanico Crawford è convinto che l’Homo Faber del terzo millennio è libero dall’alienazione della classe operaia, il suo ideale è un moderno artigiano che padroneggia tutte le fasi della costruzione di un oggetto (…) Dedicarsi ad un lavoro manuale, inoltre (ndr), significa scoprire dei criteri di valutazione oggettivi, misurabili, concreti. Si torna a esser parte di una comunità di utilizzatori, in cui i rapporti personali hanno un senso; tanto più che lavorare con le mani, (ndr) è un antitodo per certe malattie dell’anima: il narcisismo della società dello spettacolo; il delirio di onnipotenza da superuomo18. Prima ancora ne aveva parlato Richard Sennet rappresentando la necessità di un ‘uomo artigiano’ che deve mettere in gioco conoscenze tradizionali e correnti all’interno di una modernità che richiede una mobilità di pensiero e di progettualità senza precedenti19. Gli artefici di questo cambiamento devono essere individui capaci di emanciparsi attraverso le proprie evolu-


zioni professionali in una società nella quale le competenze hanno la tendenza a diventare obsolete assai rapidamente20. Si riabilita il concetto di mestiere sul principio dell’artigianato, e, come fa Sennet, si considera il lavoro in sé a cominciare dal piacere che esso restituisce nello svolgerlo correttamente, indipendentemente da questioni remunerative. Ma il ‘fatto a mano’ va oltre le affermazioni di Sennet perché diversi sono – e ne abbiamo già fatto cenno – i modi di pensare al prodotto, di fare il prodotto, di vendere e condividere il prodotto. Cambiato, radicalmente, è in aggiunta – oltre ai luoghi fisici e virtuali dove tutto ciò si realizza – l’abito mentale di chi vi opera in prima persona. Makers sono chiamati coloro che indossano il nuovo modello e Crafters la versione di questi più propriamente artigiana, quella che talvolta evita l’elettronica. Questo fenomeno complessivamente l’ha avvistato prima di tutti l’Institute of the future di Palo Alto a Stanford. Nel 2008 ha pubblicato The future of Making, una mappa che provava a raccontare come sta cambiando il ‘mondo in cui fanno le cose’. Ovvero il modo in cui si progettano, realizzano e distribuiscono beni e servizi. Due le forze in campo, scrivevano i futurologi: una tecnologica e l’altra sociale21. La prima si può ascrivere al tema dell’accesso agli strumenti di produzione per l’abbassamento dei costi. La seconda possiede anime e attributi diversi: accoglie l’etica del riuso (reduce, reuse, remake) e intende, attraverso l’uso dei ‘social network’, trasformare politicamente (ndr) il fai-da-te in un inedito facciamo-da-noi collettivo. E c’è il tentativo di fare emergere una nuova democrazia dal basso: passare cioè dai negozi alle reti, dai consumatori alle comunità d’interessi. Dai prodotti alle storie22. Narrazioni che dicono di una combinazione virtuosa tra artigianato, rete, tecnologia e talento. Essenzialmente è cambiato il mercato potenziale di chi si mette in proprio cercando di trasformare la passione in business: si passa dalla cerchia di conoscenti affezionati al mondo intero, dimostrando come la divisione classica tra progettisti, produttori e consumatori sia tutta da

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rivedere. Oltre a rigenerarsi automaticamente, perché così concepite, queste attività prefigurano un modo nuovo di calcolare la ricchezza di un paese, che alcuni oggi (ndr) chiamano il PIL dei dilettanti23. Icona di quest’attività di progetto partecipato che ha forzato il senso dell’autorialità del progetto/prodotto firmato sono i già citati Makers (creatori in inglese). Il termine individua comunità di persone, professionisti o principianti che progettano e poi realizzano ‘cose’ singolarmente o in gruppi all’interno di spazi condivisi che indifferentemente possono essere tangibili o intangibili. Il metodo di lavoro e l’autoproduzione non sono la loro unica caratteristica e si può sostenere che l’uso delle tecnologie produttive digitali, di componenti hardware e software nonché di servizi fondati sui social media e l’adozione di una posizione di libera condivisione delle conoscenze siano anch’esse caratteristiche importanti24. Non si tratta, ciò nonostante, di un fronte omogeneo. Non tutti questi fenomeni condividono gli stessi valori tenendo conto che l’etica del faida-te si ritrova in parecchi casi dai garage dello spirito americano della Frontiera all’anticonsumismo dei gruppi punk degli anni Settanta. Ci sono profonde differenze tra i designer professionisti che producono autonomamente i loro oggetti e la grande industria dell’arredamento domestico di Home Depot, Leroy Merlin e simili. Non è quindi chiaro se si tratti davvero di un fenomeno nuovo o se invece non sia sempre esistito sottotraccia, per venire alla luce a livello mondiale non appena sono stati disponibili strumenti di condivisione, di comunicazione, di collaborazione, nonché strumenti che hanno democratizzato la disponibilità di tecnologie di prototipazione e di produzione abbastanza facili e a buon mercato da poter essere assimilate e usate rapidamente. Come naturale conseguenza della possibilità di collegamento in rete e di cooperazione fornita da Internet stiamo oggi sperimentando come gestire organizzazioni e imprese che non riguardino solo l’informazione digitale ma anche i beni fisici e personali25. Come comunità articolata


e trasversale il movimento Makers prende forma intorno alla metà degli anni 2000: il primo convegno sul Web 2.0 fu organizzato dall’O’Reilly Media nel 2004 e nel 2005 abbiamo assistito al debutto di Arduino (la piattaforma hardware libera per la prototipazione), di RepRap (la stampante tridimensionale libera in grado di autoriprodursi), di Instructables (la piattaforma web per la condivisione dei progetti fai-da-te) e della rivista Make (la più significativa pubblicazione a stampa destinata ai maker)26. Essere Maker o Fab Lab (ovvero le officine di fabbricazione digitale numerose anche in Italia) non significa solo usare tecnologie di produzione digitali di rapid prototy­ ping e manufacturing abbinate al lavoro manuale, ma far parte di una particolare rete sociale mondiale che raggiunge ora anche l’Africa. Un’organizzazione sempre più estesa che cresce fattivamente e rende visibile la teoria della creatività dal basso sviluppata soprattutto nell’ambito della condivisione della conoscenza. Il principio dell’open si misura concretamente nello scambio dei progetti nella rete da cui ‘pesca’ la partecipazione di chi intende migliorare e implementare il progetto di altri attraverso il proprio, perché incuriosito e sollecitato da interessi culturali e competenze tecniche di vario genere. Il progetto Open nella variante più stabile e sviluppata del Source (aperto, collettivo, autogestito), rappresenta una strategia sempre più diffusa per alimentare conoscenza. Comporta significative valorizzazioni di risorse e capitale umano, mette in discussione i modelli centralizzati di elaborazione e gestione del sapere, ma anche quelli della sua tutela, come dimostra la crisi del sistema brevettuale del copyright (…). Tutto questo ha cospicue conseguenze sui sistemi produttivi industriali, post-indutriali e neo-industriali. L’i­dea di “fabbrica infinita” si muove in questa prospettiva: un luogo di elaborazione strategica e progettuale affiancato da infinite propaggini produttive ampie o dimensionalmente ridotte (appunto individuali) in tutto il mondo, per una produzione just in time solo quando richiesta “a chilometro zero”27. Il modello appena descritto rappresen-

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ta un esempio del fare tipicamente orizzontale che destina valore e autorialità al progetto di design secondo processi opposti al passato. Pertanto, per usare le parole di Branzi, il contesto nel quale si muoverebbe oggi una possibile variante teorica dell’anonimo design, da ‘extrastorico’, passerebbe a essere solo ‘extra’, poiché fuori da ogni possibile catalogazione di tipo storico, e, poiché tale, dovrebbe esistere solo come categoria politica e manifestarsi unicamente in chiave ideologica.

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1   Anonimo, Gli ‘anonimi’ che hanno cambiato la nostra vita, in ‘Domus’ n. 811, editoriale domus, Milano, gennaio 1999, p. 82. 2   Cfr. B. Munari, Compasso d’Oro a ignoti, in ‘Ottagono’ n. 27, dicembre 1972, pp. 72-92. 3   R. Riccini, Cose di tutti i giorni: progetto, autore, narrazione, in: ‘diid’ disegno Industriale/industrial design, No Name Design, n. 55, trimestrale, edizioni Rdesignpress, Roma 2012, p. 13. 4   Cfr. A. Bassi, Design anonimo in Italia, Electa, Milano 2007. Si tratta di un testo di rilievo che esaustivamente affronta dapprima il fenomeno del design anonimo nei tratti generali per poi indagare il progetto incognito nei territori storici e contemporanei del design italiano. 5   Cfr. Anonimo, ‘La firma e l’egotismo, in ‘Domus’ n. 811, editoriale domus, Milano, gennaio 1999, p. 101. 6   Sul tema della ‘aggiornate modalità’, da cui possono discendere input per emancipare forme e procedure progettuali cominciando dall’essere imprenditori di se stessi, si leggano: A. Bonomi, E. Rullani, Il capitalismo personale. Vite al lavoro, Torino, Einaudi 2005; S. Miceli, Futuro artigiano, L’innovazione nelle mani degli italiani, Marsilio, I grilli, Venezia 2011. Uno sguardo anche a: Recession Design, Design fai da te. Idee contro la crisi, Rizzoli, Milano 2011. 7   M. Ferraris, Il tunnel delle multe. Ontologia degli oggetti quotidiani, Einaudi, Milano 2008, pp. 70-71. 8   Ibidem. 9   Ibidem. 10   A. Branzi (a cura di), Capire il design, Giunti Editore, Firenze 2007, p. 49. 11   Ibidem. 12   Ibidem. 13   S. Annichiarico, A. Branzi (a cura di), Che cosa è il design Italiano, Le sette ossessioni del design Italiano, Triennale Electa, Milano 2008, p. 314. 14   N. N. è l’acronimo dell’espressione latina Nomen Nescio (Nescio: non conosco, Nomen: nome), e si usa abitualmente per indicare l’anonimato di una persona.


15   Anonimo, Anonimo, sconosciuto, ignorato, in: ‘Domus’ n. 811, editoriale domus, Milano, gennaio 1999, p. 70. 16   F. Zurlo, Autorialità del design e nuovi oggetti di progetto, in: ‘diid’ disegno industriale/industrial design, No Name Design, n. 55, trimestrale, edizioni Rdesignpress, Roma 2012, p. 19. Per il riferimento a ‘Maffei, 2012’ presente nel testo richiamato in nota, si veda: S. Maffei, Artigianato oggi, in “Venanzio Arquilla”, Intenzioni creative, Maggioli editore, Milano 2012. 17   M. Crawford, Il lavoro manuale come medicina dell’anima, Mondadori, Milano 2010. 18   F. Rampini, Homo Faber, in “La Repubblica”, sabato 20 marzo 2010. 19   R. Sennet, L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano 2008; titolo originale: The Craftman, Yale University Press, New Haven & London, 2008. 20   Homo Faber, cit. 21   R. Luna, Crafters, in “La Repubblica”, domenica 17 febbraio 2013. 22   Crafters, cit. 23   Ibidem. 24   M. Menichinelli, Artigiani e designer: per una comunità dei maker, in: Domus Web, published: marzo 2012, http://www.domusweb.it/it/search.html?type=author&key=Massimo+Menichinelli. 25   Artigiani e designer: per una comunità dei maker, cit. 26   Ibidem. 27   A. Bassi, Design. Progettare gli oggetti quotidiani, Il Mulino, Bologna 2013, pp. 116-117.

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Libri, riviste e mostre

R. Pasini, Teoria generale del­ l’im­magine, Mursia, Milano 2012.

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Per la collana “Saggi di estetica e di poetica” di Mursia, Roberto Pasini pubblica Teoria generale dell’immagine. Il testo esamina per la prima volta in modo globale il tema dell’immagine dal punto di vista dell’arte, della fotografia, della letteratura, del plesso cinema-televisione-video, unendo all’analisi teorica lo studio specifico dei vari settori. Dopo essersi domandato, in una precedente pubblicazione, «che cos’è l’arte?» (da cui il titolo del volume edito nel 2007 per la collana “Gli Spicchi” di cui è direttore), Pasini si appresta qui a sviscerare i misteri di un altro quesito fondamentale: che cos’è l’immagine? Lo stesso autore confessa la propria passione per le analisi teo­riche e una curiosa sindrome per le domande a cui non si può dare una risposta univoca. Ma proprio qui sta il gusto della sfida: nell’affrontare problematiche

che suscitano la riflessione e il dibattito. La sfida è certamente ardua, ma anche molto stimolante se si considera che nell’affrontare un tema vasto e inafferrabile come quello dell’immagine, egli ha potuto spaziare in tutti i campi della creatività: dall’arte alla fotografia, dalla letteratura al cinema, analizzandoli finalmente in uno stesso testo e su un terreno comune. Il fine di questa analisi, dichiara Pasini, non è tanto quello di collazionare tipi di immagini provenienti da campi differenti, quanto di trovare uno statuto in base al quale si possa definire che cosa effettivamente sia l’immagine, senza tuttavia avere la pretesa di trovare una definizione universalmente valida e immodificabile. È sempre bene fidarsi di chi cerca la verità e non di chi la trova, ci ricorda André Gide, e il nostro autore naturalmente sottoscrive in pieno. Per cominciare occorre ricordare la natura visiva dell’immagine: per quanto si possano trovare differenze sostanziali nel modo


in cui essa si declina all’interno delle aree individuate (arte, fotografia, letteratura, cinema-televisione), queste sono congiunte in partenza alle altre dal carattere oculare dell’immagine. Non c’è alcun dubbio: l’immagine appartiene alla sfera dell’occhio. Ma non basta: in quanto figlia dell’occhio, l’immagine rivela in partenza una forte componente mentale, essendo la vista il meno fisico dei cinque sensi. Ne deduciamo quindi che l’immagine ha di per sé una vocazione precisa: stabilire una relazione intellettuale con il mondo. Non dobbiamo dimenticare inoltre che l’immagine si colloca nel­l’esperienza esistenziale di ognuno di noi come momento essenziale e fruizione non solo quotidiana, ma primaria: la troviamo al primordio della nostra esistenza, ponte fra noi e il mondo, unità di misura del vivere, mezzo per stabilire un rapporto preliminare con quanto è esterno a noi, anche se spesso la percepiamo in maniera più inconscia che conscia. Tuttavia l’immagine, e in particolare l’immagine artistica, fotografica, letteraria, cinematografica, non è semplice elemento del­ l’esperienza quotidiana: è il prodotto di una mente creativa, è protagonista di un sistema comunicativo, nell’ambito del quale si connota come il messaggio che da un emittente (il creatore) si indirizza a un ricevente (il fruitore). In questo caso però dobbiamo parlare di messaggio cifrato: qual­ siasi sia l’ambito creativo a cui essa appartiene, l’immagine è un messaggio da decifrare; senza questo passaggio fondamentale essa ci apparirebbe sostanzialmente muta.

L’immagine è sempre silenziosa, scrive Pasini, c’è, ma non si svela, e questo vale non solo per quella artistica, che necessita dell’intermediazione critica per consegnarci, almeno in parte, il suo segreto, ma anche per le consorelle fotografiche, letterarie e cinematografiche. Le prime, per esempio, pur essendo dotate di una referenzialità immediata, portano con sé un bagaglio emotivo che solo chi ha scattato la fotografia può comprendere. Nell’ambito della scrittura, invece, dobbiamo considerare l’immagine come segno o insieme di segni (i caratteri che compongono lettere, frasi, pagine intere), da decifrare in base a convenzioni linguistiche più o meno conosciute e poi da interpretare, eppure mai saremo in grado di leggere veramente nella mente e nel cuore dello scrittore che le ha prodotte. Infine, nel caso dell’immagine cinematografico-televisiva, dobbiamo affrontare l’aggravante della durata: la durata iscrive la cinematografia fra le arti in grado di manipolare lo spazio e il tempo, in tal senso l’immagine rischia paradossalmente di essere la più silenziosa proprio perché non la puoi fermare, scivola via in un’altra e in un’altra ancora. Stabilito quindi che la fruizione di una immagine, di qualsiasi natura essa sia, non è così immediata e naturale quanto credevamo, affrontiamo ora con l’autore l’etimologia della parola immagine, dal momento che la natura della cosa si nasconde spesso nell’origine della parola. Se in latino la trasposizione da imago a immagine non ci aiuta,

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dobbiamo rifarci al greco eidolon per approfondire la conoscenza del nostro tema. All’origine del termine eidolon c’é l’aoristo irregolare del verbo oran (vedere), eidon (da cui idolo), il quale a sua volta ci dà eidos (aspetto, figura, forma). Il passaggio fisio-logico è da vedere a sapere: so in quanto ho visto, la conoscenza intellettuale passa attraverso lo strumento principe del mondo fenomenico e percettivo, torniamo così all’occhio. In definitiva, Pasini ci suggerisce che nella natura dell’immagine si nascondano eidolon e eidos, idolo e idea. Eidolon in quanto essa veicola ciò che non c’è, mente; eidos in quanto ogni immagine prodotta, al di là della sua apparenza nuda e cruda, è il risultato già in partenza di un’i­ dea. Pasini ci rivela così la natura menzognera dell’immagine: essa è una realtà più complessa di quello che possa apparire, ha la vocazione a presentarsi nella più lampante immediatezza, ma riserva sorprese, in quanto ci chiama a superarla pur senza negarla. L’immagine si compone in definitiva di un significante e un significato; per una sua fruizione completa, non possiamo prescindere da nessuna di queste parti. È evidente che esistono immagini puramente visive, che non ci offrono alcun mistero se non la loro beata apparenza, e infatti Pasini distingue tra immagini ontiche e immagini artiche: le prime sono quelle immagini che ci vengono incontro tutti i giorni e su cui non fissiamo la nostra attenzione se non in casi specifici e motivati da interesse personale,

le seconde sono figlie di un’ars che in qualche misura le ha determinate. Sono certamente le artiche che stuzzicano maggiormente la nostra curiosità in questa analisi, immagini che sono state messe lì proprio perché la nostra ricevuta visiva le avalli, la richiedono come certificato della loro esistenza. Il destino di queste immagini, è di essere fruite e interpretate, passaggio che in genere postula anche il processo di traduzione, un meccanismo che esplicita il senso dell’immagine. Naturalmente questo prevede precisi criteri di lettura, affrontati dall’autore con puntualità nel testo, operando i dovuti distinguo a seconda che si tratti di un’immagine artistica, fotografica, letteraria o cinematografica. Destino dell’immagine è perciò avere senso; ma, attenzione, questo non significa un senso: ogni interprete, ogni contesto culturale, ogni epoca forniranno della stessa opera pareri diversi, interpretazioni diverse. Questa multiforme natura dell’immagine introduce il problema della verità che essa veicola: se non c’è un senso ma più d’uno, ci sorge un dubbio: dobbiamo credere all’immagine? Pasini definisce l’immagine eikasia: una pura congettura, qualcosa che si suppone sia realtà, ma non lo è. Da qui uno dei motivi di fondo espressi nel testo: la natura dell’immagine artica è di per sé una «bella menzogna». Prendiamo per esempio l’immagine artistica. Non importa molto ch’essa sia referenziale o areferenziale: anche quando ci troviamo in presenza di un’imma-


gine referenziale, stiamo comunque guardando la trasposizione virtuale di una dimensione reale. Si tratta di quella che Pasini battezza “sindrome di Magritte”: nel famoso quadro Questa non è una pipa, Magritte ci invita a riflettere sul fatto che effettivamente di fronte a noi sta solo l’immagine di una pipa, un fenomeno illusorio e virtuale, non la pipa reale, la cosa. Negli anni Sessanta e Settanta i poveristi avevano tentato di far virare la ricerca artistica dall’illusione alla realtà: «Il mare è il mare», era il loro slogan, ma la verità è che l’arte, e con essa l’immagine, si nutre di illusioni, di menzogne: è questo che le chiediamo; dall’arte pretendiamo qualcosa di più, non vogliamo solo la realtà, sappiamo che ci può dare molto altro. La “sindrome di Magritte” sem­bra venire contraddetta dal­ l’immagine fotografica: nella maggior parte dei casi la nostra percezione non vede l’immagine, ma la cosa. La menzogna qui è molto più sottile: se di fronte al famoso quadro con la pipa siamo ben consapevoli che la pipa raffigurata non è una pipa ma solo l’immagine di una pipa, quando guardiamo un’immagine fotografica […] abbiamo immediata la percezione che quella non sia immagine ma realtà. Siamo stati ingannati di nuovo quindi, questa volta dall’ambigua veridicità cosificante dell’immagine fotografica. È forse più difficile in questo caso, rispetto alla pittura, ma dobbiamo prendere coscienza del fatto che anche la fotografia si compone di un significato e di un significante. Tendiamo con mag-

giore facilità a bypassare que­ st’ultimo e a considerare una fotografia solo come cosa e non come linguaggio, ma non dobbiamo dimenticare che qualsiasi foto, indipendentemente dal suo autore, è segno, come lo è qualsiasi immagine e qualsiasi parola. Arriviamo così all’immagine letteraria: anche in questo caso prima di essere significato la pagina scritta è puro e semplice significante, un insieme di segni grafici disposti in un certo modo. Di nuovo però dobbiamo considerare che la matericità della parola corrisponde alla matericità del mondo, ma non lo è. La parola dice davvero la real­tà, oppure solo se stessa? Probabilmente sono vere entrambe le cose e nessuna di esse: innanzitutto il passaggio da immagine visiva della parola a immagine mentale è immediato nel lettore; ogni vocabolo ha una duplice realtà, quella fenomenica e quella noumenica, ma difficilmente si può svincolare la prima dalla seconda. Secondariamente la letteratura è affascinante perché ognuno la riscrive nella propria testa, creando così una serie interminabile di realtà dietro a quella già opinabile del testo. In letteratura, esattamente come in una matrioska, l’immagine alla prima contiene un’immagine alla seconda. Con questo passaggio interno si lascia il visivo grafico per accedere al visivo sceno-grafico. Ma c’è un terzo stadio, relativo all’immagine come forma retorica del discorso. Quindi la parola creativa genera una serie di possibili immagini, oltre a essere essa stessa

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immagine, un processo che ci allontana irrimediabilmente e in maniera molto stimolante dalla realtà e dalla verità… ci risiamo con le menzogne, con la bella menzogna. Eccoci infine all’immagine cinetelevisiva, quella che ci parrebbe più reale del reale… ma invero ci troviamo in presenza, nuovamente, di un’immagine vera e falsa al tempo stesso. Una sequenza cinematografica in effetti si compone di immagini che si evidenziano in un susseguirsi di scene che tramano alle spalle dello spettatore: gli fanno pensare implicitamente che quello che sta accadendo sia rea­le mentre non lo è, come non lo è per nessuna delle altre sorelle, però in questo caso si utilizzano i mezzi e le forme della realtà, il che rende l’immagine cinematografica davvero imperdonabile rispetto alle altre tre. Con Teoria generale dell’immagine, testo ricco di altri – e tanti – spunti, ci avviamo così ad esplorare il mistero delle immagini, tra le verità e le menzogne che esse custodiscono, consci del fatto che mai il loro significato recondito potrà essere esaurito. J. B. Architettura e realismo. Riflessioni sulla costruzione architettonica della realtà, a cura di S. Malcovati, F. Visconti, M. Caja, R. Capozzi, G. Fusco, Maggioli, Milano 2013.

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Un piccolo libro compatto … una raccolta di contributi, curata da un gruppo di docenti e giovani ricercatori della composizione

architettonica provenienti dal Politecnico di Torino, dalla prima e seconda Università di Napoli e dal Politecnico di Milano, che rappresenta una prima testimonianza documentale, certamente provvisoria, di una serie di iniziative riunite sotto il titolo di Architettura e Realismo. Gli articoli raccolti nel volume sono in parte l’esito delle riflessioni sviluppate nell’ambito di due convegni – “Il sempre teorizzar nulla rileva…” (Torino, 4 dicembre 2012) e “Uno spazio reale e adeguato. Architettura e realismo” (Napoli, 11 dicembre 2012) – connessi alla mostra itinerante “Nuovo realismo e architettura della città” sulle trasformazioni urbane di Amsterdam, Barcellona e Berlino. Le iniziative si sono concluse con il convegno “Per una nozione operativa di realismo: espressione critica e impegno civile” a sua volta connesso alla mostra “Il realismo nella didattica del progetto: Torino-Napoli-Milano. L’esperienza dei docenti di una nuova gene­ razione” (Milano, 12 giugno 2013). Il libro, introdotto dalle presentazioni delle autorità che hanno aperto i lavori dei due convegni di Napoli e Torino, si articola sostanzialmente in due parti. La prima, strutturata in “documenti” e “interventi”, è più strettamente collegata alle due iniziative. Nel primo gruppo rientrano le relazioni di Vittorio Gregotti, Maurizio Ferraris, Antonio Monestiroli e Fritz Neumeyer, e il gruppo degli interventi, organizzato in base all’ordine di apparizione e composto dai contributi di Silvia Malcovati, Carlo Olmo, Petar Bo­ janic, Henco Bekkering, Antonio


Pizza, Alessandro Armando, Luca Taddio, Antonio Franco Mariniello, Valeria Pezza, Roberta Amirante, Luca Ortelli, Francesco Vitale, Carlo Alessandro Manzo, Francesco Rispoli, Renato Capozzi, Gaetano Fusco e Federica Visconti. Gli interventi e le relazioni erano state “sollecitate” da un “Documento di indirizzo” sui temi del “Nuovo Realismo” che i curatori avevano inviato in precedenza ai convenuti. La seconda parte del volume è invece dedicata alle “idee”, e raggruppa gli articoli di alcuni docenti e ricercatori che, pur non essendo stati direttamente coinvolti nei convegni, sono stati invitati dagli autori a fornire il loro contributo in una ricerca che senza includere o escludere posizioni o atteggiamenti, cerca piuttosto di sensibilizzare la discussione architettonica – al di là degli esiti formali e figurativi – verso la necessità di tornare a riflettere sul senso e sul destino di una disciplina che nella sua specificità ha dei compiti insostituibili. Sono inseriti in questa seconda parte i contributi di Michele Caja, Maurizio Conte, Alberto Cuomo, Adal­berto Del Bo, Renato De Fusco, Marco Dezzi Bardeschi, Massimo Fagioli, Pasquale Miano, Carlo Moccia, Giancarlo Motta, Pierluigi Panza, Alexander Pellnitz, Uwe Schröder, Fabrizio Spirito. Dicevamo dunque, un libro compatto. Già nella copertina una Mole Antonelliana “compressa” sembra anticipare la ricchezza dei contenuti che puntano a costruire non un libro di architettura ma di “teoria dell’architettura”, muovendosi sulla difficile linea di confine tra questa disciplina e la

filosofia, un territorio MI-NATO, come lo definisce Roberta Amirante nel suo testo giocando con le sigle delle città di appartenenza dei docenti e ricercatori promotori delle varie iniziative. E dunque anche un libro difficile da recensire perché ogni contributo è una “storia a sé” che racconta non solo il punto di vista dell’autore sulla questione del rea­lismo o del “nuovo realismo” ma anche, come è ovvio che accada, la “scuola” di appartenenza di ciascuno, il suo pensiero (forte o debole), il suo percorso formativo e di ricerca, le sue posizioni culturali e talvolta ideologiche. Più che analizzare ciascun saggio, allora, è utile forse tracciare un percorso trasversale segnato da alcune questioni che appunto “attraversano” tutto il libro: il rapporto tra architettura e filosofia, la critica verso il postmodernismo e infine il tentativo di definire il realismo in architettura. Cominciamo dal rapporto tra filosofia e architettura, quel rapporto che Jacques Deridda definisce la più essenziale delle coabitazioni. Francesco Vitale nella parte introduttiva del suo intervento, aperto appunto dalla citazione di Deridda, sottolinea che il più delle volte le importazioni dall’uno e dall’altro campo, e in entrambe le direzioni, implicano delle deviazioni, delle piegature, se non proprio delle distorsioni del senso originale, dal Timeo platonico fino a Peter Eisenman che addirittura rivendica la fecondità per il suo lavoro del­ l’incomprensione (misreading) di quello del filosofo, nel suo caso proprio di Deridda. Una incomprensione che, conviene sottolinearlo, il più delle volte non è

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l’esito di una non corretta conoscenza, ma di un’interpretazione “forzata” per sostenere, spiegare, talvolta legittimare, le proprie tesi. Renato De Fusco nel citare il pensiero di Lyotard, sottolinea come il compito di chi aspira a produrre un’opera sia non quello di “fornire realtà” ma piuttosto di inventare allusioni al concepibile che non può essere presentato. Di fatto dunque la realtà non può essere spiegata se non attraverso l’uso di “artifici storiografici” di “riduzioni” di tutti quegli strumenti “metodologici” in grado di semplificare il complesso e di renderlo accessibile. Nel rapporto tra architettura e filosofia dunque ciascuna cerca nell’altra una specie di “sogno”, come più volte sottolineato da Ferraris, una ragione più profonda del proprio essere e della propria relazione con il mondo. Nel libro il “misreading” è spesso in agguato in quello scambio di ruoli che porta i filosofi, in particolare Ferraris, a parlare di architettura e molti, tra gli architetti, a parlare di filosofia. Così il saggio di Maurizio Ferrarsi è l’unico a tenere al centro un’opera di architettura, quella del Palazzo Nuovo di Gino Levi-Montalcini a Torino. L’edificio degli anni ’70, indubbiamente invecchiato male, sede delle Facoltà Umanistiche e dunque frequentato dal filosofo da più di quarant’anni, viene indicato come esempio di “architettura concettuale”, un’architettura tesa cioè più a inseguire un’idea, un concetto astratto che a misurarsi con i propri limiti. L’architettura, come tante altre attività umane, ha inizio con il limite, con vincoli estetici culturali, materiali,

economici, tecnici, legislativi, sociali. Detto così il nuovo realismo sembra, per l’architettura, semplicemente un richiamo al­ l’ordine, un invito a smettere di “sognare” per concentrarsi sulle cose “concrete”. Per fortuna altri all’interno del libro ricorrono alle tesi esposte altrove dallo stesso Ferraris per articolare meglio la ricaduta del “new realism” in architettura. Nel saggio di Renato Capozzi le posizioni di Ferraris vengono riprese e sostenute attraverso un raffronto con la teoria dei “tre mondi” di Popper interpretata e specificata in ambito architettonico da Carlos Martí Arís nel saggio “Le variazioni del­ l’identità”. Il passaggio attraverso la filosofia serve dunque a riaffermare che cos’è la realtà in/ dell’architettura ovvero ad affermare che questa realtà specifica è incorporata nello statuto materiale e formale delle opere e che senza di esse non si potrebbe neanche discutere di architettura. È chiaro dunque il riferimento a un corpus disciplinare, a una struttura concettuale e a una tradizione che rappresenta l’unico vero fondamento in grado di arginare le “derive” dell’architettura contemporanea. Dunque la nozione di realismo è un richiamo alla responsabilità civile dell’architettura, nei confronti dei suoi effetti fisici e immediati sulle trasformazioni concrete e materiali del nostro vivere quotidiano ma soprattutto ciò che si intende proporre è il superamento del “relativismo immobile” di questi anni e un possibile ritorno “alle cose stesse”, alle regole e alla tradizione non transitoria dell’architettura capace, come poche tra le attività umane, di


determinare condizioni di longue durée del nostro stare al mondo. Colpisce come, procedendo nella lettura dei saggi, le posizioni più “deboli” nei confronti di questo nuovo realismo non siano quelle della generazione dei più giovani che, al contrario, si dimostra molto più convinta e assertiva degli “adulti”. Così mentre da un lato Renato De Fusco definisce il postmodern come qualcosa capace di inventare una brutta architettura ma una convincente condizione postmoderna, Marco Dezzi Bardeschi confessa, nelle sue “impressioni”, di aver seguito con buona attenzione i primi due incontri (a Torino e a Napoli) ma di esserne uscito (fatto indubbiamente positivo!) con più perplessità di prima e Francesco Rispoli si rivolge con veemenza non ai filosofi, ma agli architetti che non sono architetti qualsiasi. Quanto piuttosto eredi – e spero non orfani! – di un punto di vista sull’architettura che ha fatto dell’autonomia disciplinare uno dei suoi emblemi. C’è forse in alcuni “grandi” più che nei “giovani” il timore che questo “nuovo realismo” più che rappresentare un avanzamento della ricerca costituisca un ritorno a posizioni relativamente recenti. Alberto Cuomo, citando Umberto Eco all’apertura di una conferenza sul nuovo realismo, si chiede “cosa ci sia di nuovo (per quanto mi riguarda) in posizioni che sostengo almeno dagli anni Sessanta”. Un timore legittimo forse, perché negli interventi dei più giovani che pure sottolineano con forza la volontà di evitare recuperi nostalgici, improbabili richiami all’ordine o pretese veri-

tà, è evidente un atteggiamento di critica del pensiero post-moderno, critica che peraltro accomuna senza distinzioni pensieri e figure talvolta non perfettamente assimilabili, mentre manca sostanzialmente una riflessione sul perché dei fallimenti, che pure ci sono stati, dell’architettura “realista” degli anni ’60 fondata sul­ l’au­tonomia della disciplina e sul suo valore e sulla sua responsabilità civile. Una revisione critica che forse pure sarebbe necessaria a un vero avanzamento della ricerca. Come invece sottolinea Francesco Rispoli, in molti saggi non è la cattiva architettura a essere processata, ma è il “pensiero debole” a salire sul banco degli imputati. Andare a caccia di una origine filosofica per trovare una forma di giudizio per quel­ l’architettura assomiglia molto al “dagli all’untore” di manzoniana memoria capace di addebitare al primo che passa la pestilenza. La tesi sostenuta in diversi saggi è dunque quella che stabilisce un legame tra il pensiero postmoderno e la condizione di crisi del­ l’architettura contemporanea nelle sue diverse forme: l’architettura dell’immagine e dello spettacolo, l’architettura cinica e barbara che acriticamente sposa le logiche di una società capitalistica e consumistica, l’architettura come narrazione autobiografica, l’architettura come fenomeno (non urbano). La reazione a questa condizione di crisi è dunque, come spesso accaduto nella storia dell’architettura, un “nuovo realismo”. Come sottolinea Federica Visconti, il richiamo alla realtà è una costante ciclica in architettura apparso con diverse carat-

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teristiche e spesso aggettivazioni, in diversi momenti della nostra storia: i diversi realismi sono però tutti accomunati dall’essere una reazione a una condizione della disciplina considerata negativa. I saggi di Luca Ortelli, di Silvia Malcovati e di Michele Caja provano a tracciare un quadro di questo continuo riproporsi della “realtà” nell’ambito della teoria architettonica. Se il primo di questi articoli ripropone una ricostruzione accurata di questo ciclico “rappel à l’ordre”, gli altri due attraverso una scelta consapevole delle esperienze a confronto (Malcovati) o attraverso una tematizzazione in “tre forme possibili di realtà” (Caja) finiscono per evidenziare anche le contraddizioni insite nello stesso termine “realismo”. Lo stesso Carlo Olmo sottolinea come, discutendo su un tema come “realismo”, il rischio di usare questo termine come un’etichetta dentro la quale far rientrare esperienze e concezioni del tutto differenti, da quelle ontologiche a quelle metafisiche, sia molto forte. E infatti nell’articolo di Silvia Malcovati scopriamo che, il termine “realismo” viene usato nel 1975 da von Moos nella rivista “Archithese” per definire l’atteggiamento antimodernista del­l’architettura di Venturi e Scott Brown che nel tentativo di rispondere alla crisi del pensiero moderno rinuncia ad avere un ruolo sociale e diventa uno specchio, ironico, della realtà. Solo un anno dopo sul numero doppio della stessa rivista per Bruno Reichlin e Martin Steinmann lo stesso termine designa una revisione critica della nozione stessa di architettura che viene ricono-

sciuta come un fatto reale, frutto di una realtà sociale e al tempo stesso di una realtà formale. Al realismo socialista elaborato prima della seconda guerra mondiale, e contrapposto al rea­ lismo materialista del Neues Bauen, si affianca così un realismo “razionalista” che identificando Realismus e Sachlichkeit riabilita il moderno, affiancandogli una nuova dimensione storica. Oggi, con il senno della prospettiva storica, l’apparente contrapposizione tra i concetti di realismo contenuti nel numero 1 e nel numero 19 della rivista “Archithese”, può apparire più come una dialettica costruttiva (talvolta anche molto vivace) che ha consentito nei casi più felici l’avanzamento di una ricerca oltre i confini chiusi delle rigide etichette. È il caso del controverso e fecondo rapporto tra Aldo Rossi e Robert Venturi raccontato da Martino Stierli nel saggio Congruenze nascoste. Differenza e Analogia tra Aldo Rossi e Robert Venturi, edito nel volume La lezione di Aldo Rossi a cura di Annalisa Trentin, nel 2008. Ecco, forse è troppo presto e la prospettiva storica è ancora troppo “corta” per poter provare a definire che cosa sia invece questo nuovo realismo cui aspirano i curatori del libro, al di là di una legittima aspirazione e rivendicazione ad una nuova consapevolezza del significato, del ruolo e delle responsabilità del­ l’architettura nella società contemporanea. Resta perciò assolutamente condivisibile l’appello, rivolto ai giovani docenti e ricercatori da Roberta Amirante a “armarsi di ardente pazienza” e a lavorare sul terreno della condivi-


sione, andando oltre la volontà assertoria di definire, per usare le parole di Renato Capozzi, “cosa non può essere l’architettura realista”. Non è detto – scrive Roberta Amirante – che il “Documento di indirizzo” debba essere letto come un estenuato ed estenuante rappel à l’ordre. Può essere invece che, legittimamente e utilmente (per certi versi con mossa tipicamente postmoderna), voglia costituirsi come uno dei due termini della coppia oppositiva dentro cui l’architettura (non solo italiana) oggi è confinata: consistenza del­l’ar­chi­tettura e dei suoi “fatti” vs “liquidità” dell’architettura del­l’im­magine. Se così è, sui tanti territori intermedi che questa coppia racchiude (ben oltre la triangolazione geografica proposta dal­ l’attuale dislocazione dei nuovo realisti che fatalmente definiscono un terreno MI-NA-TO) molti potranno incontrarsi per opporsi a un futuro senza architettura, e magari provare a vincere la battaglia. P. S. TDM6: La Sindrome dell’Influenza, Triennale Design Museum, Milano, 6 aprile 2013 - 23 febbraio 2014, a cura di Pierluigi Nicolin. Catalogo edito da Cor­ raini Edizioni, Mantova 2013. La formula del Triennale Design Museum è ormai nota, questa stessa rivista se ne è occupata in più occasioni. È un museo che, se inteso nel suo senso più classico, praticamente non esiste. Certo ha una sede, ricavata da

Michele de Lucchi negli spazi della Triennale di Milano; e ha anche una collezione permanente in costante crescita, alimentata com’è da un sistema diffuso di collezioni private, musei aziendali, archivi e fondazioni, capace di mettere in rete un patrimonio di risorse preziosissimo. Quello che non ha, invece, è un allestimento permanente, un progetto comunicativo definitivo. Anno dopo anno, dal 2007, viene incaricato un curatore d’eccezione perché dia la sua personale risposta a quella domanda sulla natura e sull’essenza del design italiano che la direzione si pone; una risposta in parte implicita nella stessa concezione museologica, che va al di là del­l’interesse per il singolo prodotto, per richiamare la capacità del nostro design di rappresentare un sistema composito di progettisti, produttori, distributori e comunicatori, tanto puntiforme quanto coordinato. Un sistema che prende forma negli allestimenti annuali e monografici del museo, componendo gradualmente un quadro identitario piuttosto mutevole, fatto di interpretazioni e travisamenti paralleli. Quest’anno, per la sesta edizione del museo, il tema scelto per sondare l’identità del design italiano sarebbe dovuto essere quello dell’influenza, quell’insieme di scambi, prestiti, inclusioni e apporti che [ne] hanno stimolato, sollecitato e arricchito i percorsi progettuali […]. L’o­ biettivo era di provare a ricostruire quella rete di influssi, folgorazioni, suggestioni, imitazioni, rivisitazioni, riletture, alterazioni e riproposizioni che il design italiano ha saputo tesse-

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re e assemblare nel corso degli anni, unendo la sua innata curiosità con la sua altrettanto congenita vocazione al pragmatismo e all’assimilazione (Silvana Annichiarico, catalogo della mostra, p. 14). Una vera e propria «sindrome», una sorta di destino obbligato, di coazione al confronto con il mondo che, però, nelle mani di Pierluigi Nicolin, si è evoluta e deformata, frammentandosi in una serie di riferimenti sottili e non sempre immediati. Ciò che nelle parole della direttrice risulta così limpido, nell’allestimento sfuma, si perde; a volte invece si moltiplica sul filo di un discorso diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto. La mostra, è vero, è dedicata a quel «genio del design italiano» a cui si vuole far risalire la sua inclusività e la sua inventiva transdisciplinare; ma il senso di quest’influenza in realtà è un altro. Il tema non dichiarato, sotterraneo e manifesto allo stesso tempo, è la stessa storia del disegno industriale italiano, che Nicolin interpreta nel suo processo evolutivo da sistema di straordinarie individualità progettuali, identificate dai maestri del Primo Dopoguerra, a sistema di mercato, caratterizzato dal­ l’emergere di un gruppo di aziende capaci di esportare il design incardinandolo nella nascente iconografia del Made in Italy. Il tema, in altri termini, è la sua tenuta, la sua capacità di attraversare le vicende della seconda metà del Novecento […] per cui da una fase etica e volontaristica, dove un manipolo di autori individualisti e di aziende altrettanto speciali guarda il mondo con un nuovo interesse, il design italiano approda «felice-

mente» a quella religione della merce raffigurata nel culto del brand, del marchio famoso (Pierluigi Nicolin, catalogo della mostra, p. 20). Per rappresentare questa imperturbabile e organica cangianza, Nicolin, grazie anche all’elegantissimo progetto di allestimento dello Studio Cerri, organizza la mostra in due sezioni principali, due poli narrativi sostanzialmente simmetrici, interrotti e collegati da un’area di transizione non meno lineare che struttura un percorso espositivo tripartito di ispirazione musicale, in cui al tema segue un intermezzo e poi la sua ripresa. E proprio nell’articolazione dei singoli episodi di questo percorso, il tema ufficiale, quello del­l’influenza, gioca un ruolo essenziale; non tanto per gli argomenti trattati, né per il taglio, quanto per la metodologia di indagine. La mostra, infatti, non è costruita attraverso i progetti e i prodotti che hanno determinato questa precisa lettura storica, ma attraverso la visione di altri giovani architetti e designer che dei principali attori in gioco offrono la loro personale interpretazione. Un’interpretazione che non viene indirizzata al singolo attore in sé, designer o azienda che sia, ma alla sua capacità di guardare altrove, di stabilire relazioni e di assimilare riferimenti multipli. Così facendo, Nicolin prova a misurare il grado di influenza del design italiano, sia orizzontalmente che verticalmente, da una prospettiva ugualmente diatopica e diacronica, attraverso un gioco concentrico di riletture di altre letture, affidato alla profondità e alle capacità dei designer coinvolti nel declinare il tema.


Nella prima sezione del museo questa «sindrome dell’influenza» non rappresenta altro che il rapporto obbligato che la cultura contemporanea del disegno industriale ha con l’eredità di una generazione che, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, evadendo il clima di autarchia culturale del­ l’epoca, ha di fatto «inventato» il design italiano. Sperimentalismo, nuova ricerca formale, interdisciplinarità sono alcune fra le caratteristiche di un gruppo inquieto di architetti e designer descritti, in questa prima parte della mostra, nella loro curiosità, nella loro attenzione verso il mondo: verso una visione quasi naturalistica del­l’estetica industriale come nel caso di Marco Zanuso, verso il repertorio formale di culture «altre» come quello rappresentato dal Brasile di Roberto Sambonet o dall’India di Ettore Sottsass, o ancora verso un razionalismo internazionale ma antidogmatico come nel caso di Franco Albini. L’esposizione si apre con un percorso articolato in dieci stanze, attorno a dieci di questi protagonisti del cosiddetto periodo d’oro del design, il cui allestimento è affidato ad altrettanti designer contemporanei chiamati a ricevere quest’eredità. E siccome ogni lascito richiede un’interpretazione personale di quanto avuto, in ogni installazione si attua un agone psicologico dove i maestri sono sottoposti a letture irregolari, procedimenti per antitesi, dove i più giovani designer costruiscono il proprio spazio immaginativo attraverso una lettura erronea e creativa dei precedenti […] la stessa affezione provata dagli «antichi maestri» nei confronti dei loro stessi pre-

cursori (Pierluigi Nicolin, catalogo della mostra, p. 22). Così Paolo Ulian, per esempio, rappresenta il lavoro di Vico Magistretti materializzando la semplice linea­ rità del processo di ispirazione quotidiana, attraverso una serie di oggetti più o meno anonimi, modellati con leggeri tondini metallici bianchi, che proiettano sui muri le ombre disegnate dai progetti del designer, dalla libreria Nuvola Rossa alla sedia Selene. Matilde Cassani e Franco Librizzi, invece, con corde e attrezzi ginnici, ricostruiscono a misura d’uomo una «macchina inutile» di Bruno Munari di cui il visitatore può entrare a far parte, sperimentando il gioco e l’inquietudine di cambiare posizione nello spazio tridimensionale. Mentre Italo Rota conclude questa prima sezione con un bellissimo e affettuoso omaggio a Joe Colombo, protagonista di una breve video­ installazione, in cui viene fotografato con la malinconia di un cosmonauta sovietico che sa che non toccherà mai la luna. Nulla, però, accomuna i singoli allestimenti, a parte le dimensioni delle stanze, delle semplici scatole bianche aperte su un lato. Ognuno è diverso dagli altri per concezione, forma e materiali; ognuno ermeticamente separato, quasi a sottolineare la fortuita eccezionalità di un sistema di individualità tanto notevoli. La seconda parte della mostra, anche dal punto di vista spaziale, chiude improvvisamente il discorso, tentando di mettere faticosamente a fuoco un momento non meglio identificato della storia presentata, quello in cui, dopo la mostra del MoMA Italy: The New Domestic Landscape del

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1972 e malgrado le proposte più radicali di quegli anni, il design italiano si avvia a una graduale transizione verso un sistema di marketing a cui viene lentamente assoggettato. E qui la tradizione diventa memoria, ancora viva nel ricordo dei suoi protagonisti, anche se lontana, contraddittoria o incerta. Così per rappresentare questo mosaico di voci, la mostra si apre in un’unica sala a pianta curva con pavimento e soffitto a specchio, ai cui lati, tra cumuli di oggetti, si ripetono dodici video­ interviste ai protagonisti più o meno diretti di questa transizione, da Enzo Mari a Paolo Deganello, da Giulio Iacchetti a Joseph Grima. Al centro del percorso il brusio risulta indistinguibile, mentre l’effetto ottico degli oggetti riflessi all’infinito è quasi straniante; ma avvicinandosi agli schermi si può ritrovare il filo di un racconto ancora non riconciliato che tenta di spiegare come in pochissimi anni si sia passati dalla contestazione a quel consumismo che rappresenta il nostro attuale contesto, che è poi l’ultima possibile declinazione di quella sindrome di cui il design è destinato a soffrire. È il brand oggi a stabilire la direzione delle nuove progettualità, spingendo i designer all’innovazione e orientando i comportamenti dei consumatori. Ed è appunto al brand che sono dedicate le installazioni dell’ultima parte della mostra; alla filosofia delle aziende protagoniste, al modo con cui determinano le proprie strategie di vendita, alla loro immagine coordinata. Dodici marchi di punta del mercato internazionale del design si presentano attraverso l’interpretazione di al-

trettanti progettisti, in una serie di allestimenti articolati in una serie di piccole stanze, questa volta disposte a raggiera attorno a un centro, quasi a voler definire le qualità di un sistema produttivo più conscio e coordinato. E anche la qualità delle singole installazioni appare, nel bene e nel male, più omogenea di quelle della prima sezione, livellata com’è dalla necessità di offrire un determinato prodotto. Così Ron Gilad mette in scena una cena dal sapore vagamente inquietante fra lampade Flos, Mario Bellini accatasta LC2 come se lo stand di Cassina fosse un container e anche Pierluigi Cerri, autore dell’intervento più raffinato, non fa che ricostruire una libreria Unifor. Ma guai a lamentarsi; d’altra parte se il mondo in un primo momento ansiosamente ricercato è finalmente giunto a noi [è] tramite l’apporto di numerosi designer stranieri chiamati dalle aziende ad immaginare i nuovi prodotti del design italiano da proporre nei vari show-room e destinazioni del mercato globale (Pierluigi Nicolin, catalogo della mostra, p. 24). E come scriveva Bruno Munari nel 1971, se il museo è il sogno di ogni artista, il mercato è quello del designer. J. L. C. Cecchini, Le parole del design. 150 lemmi tecnici liberamente scelti, List Lab Laboratorio Internazionale Editoriale, Trento 2012. L’importanza delle parole, elementi costitutivi del linguaggio, si pone alla base di questo testo,


all’interno di un itinerario guidato attraverso 150 termini tecnici afferenti il campo del design. Cecilia Cecchini, architetto, docente presso “la Sapienza” Università di Roma e curatore scientifico della fondazione Plart di Napoli, pensa questo volume nella forma di un glossario, dove le parole attentamente scelte e selezionate, sono illustrate secondo la loro definizione, ma soprattutto mettendo in luce la loro complessità e trasversalità. Il testo è corredato da una sezione iconografica, che mostra macchinari, oggetti o momenti della lavorazione, inoltre i lemmi più interessanti vengono spesso corredati da immagini esplicative (i disegni realizzati da Teresa Falanga). Questo scritto indirizza ad una lettura lenta, come suggerisce la stessa autrice, stimola a cogliere le relazioni e interazioni tra le parti e il tutto, fornendo gli strumenti per orientarsi nel design e in genere nel campo della progettazione degli artefatti. A tal proposito, Cecilia Cecchini apre la pubblicazione con un breve saggio che richiama la teoria della “conoscenza pertinente”, citando il sociologo Edgar Morin, il quale per l’appunto, la definisce come capacità di contestualizzare le informazioni e riferirle ad un insieme più complesso di relazioni. Tale riferimento appare quanto mai opportuno riguardo al discorso sul design, disciplina eterogenea e ricca di legami e attinenze con numerosi campi, basti pensare alle connessioni con questioni tecniche, di marketing, sociologiche, comunicative, ambientali, etiche, etc. Il design comunemente implica un atto di progettazione dell’oggetto basata sulla dualità funzione/este-

tica, finalizzata alla riproduzione seriale; tale processo certamente comporta implicazioni di tipo com­merciale, ma anche antropologico e culturale, nell’intento di interpretare le esigenze della collettività di una determinata epoca incontrandone possibilmente il gusto. Tutti temi e discipline oggi sempre più legati all’interno di una fitta rete di rapporti e influssi reciproci che ampliano fortemente la materia e ne spostano i limiti concettuali. Il breve saggio d’introduzione centra questioni legate sicuramente alla comunicazione, possibilmente chiara ed univoca, ma anche alla divulgazione didattica del sapere, temi questi molto attuali nella cosiddetta “era digitale”, che inevitabilmente offrono lo spunto per riflessioni più profonde su quanto siano cambiati i contesti e le modalità di apprendimento. Interessante la riflessione sulla “screen generation” (letteralmente “generazione dello schermo”). Figlie dell’avvento di internet, le generazioni moderne, ormai sempre più distanti dai tradizionali metodi di acquisizione della conoscenza, attualmente basata principalmente sul reperimento di enormi quantità di informazioni attraverso il web, si trovano di fronte ad una sconfinata massa di dati di cui difficilmente però ci si appropria. La facilità con cui oggi si possono raccogliere informazioni non corrisponde spesso ad una facilità nell’acquisirle e farle diventare conoscenza, bagaglio culturale. Per questo una sistematizzazione razionale e pensata di un corpus di termini appare ancora un modo estremamente efficace per illustrare concetti ma soprattutto ri-

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mandare ad un approfondimento, anche in rete, con una chiave di ricerca in più. L’accento sull’aspetto temporale, inteso come scorrere del tempo che muta gli scenari, è posto anche da Felice Ragazzo nel suo contributo al testo, in cui, designer ed esperto di tecnologie innovative, evidenzia come finanche le lavorazioni, le modalità di eseguire una stessa azione o procedimento, o i termini usati per descriverle, cambiano nel corso dei decenni, portando a nuove configurazioni di questo articolato sapere. Sono cambiati le finalità, gli obiettivi strategici, i mezzi per fare design. Grandissima importanza in tal senso acquista sicuramente il fenomeno della “globalizzazione”, che più di tutti ha contribuito a mutare l’assetto delle relazioni economiche, insieme allo sviluppo tecnologico. Ragazzo pone quindi un interessante quesito: quali nuove immaginazioni sono possibili con il nuovo design?, ponendo l’attenzione sul fatto che mutando le condizioni del design mutano le risposte: nuovi prodotti per nuovi consumi. Tutto ciò risulta facilmente comprensibile pensando ad esempio a tutte le immaginazioni che si rendono possibili grazie all’uso di materiali innovativi che presentano comportamenti e caratteristiche fisiche assolutamente rivoluzionarie (si pensi ai materiali di derivazione nanotecnologica), che sembrano sovvertire le più comuni norme della fisica tradizionale. Il corpus di termini si compone di definizioni che descrivono tecniche di produzione innovative o lavorazioni artigianali del passato, materiali frutto della più avan-

zata ricerca scientifica, loro proprietà e caratteristiche, sistemi attuali meccanici e computerizzati di generazione dei prodotti, o ancora approcci diretti ad una progettazione ecosostenibile, spes­ so con importanti riferimenti anche all’aspetto normativo (norme ISO, norme CEI) che oggi gioca un ruolo fondamentale nella diffusione del prodotto a larga scala soprattutto nell’ottica di una produzione organizzata secondo un sistema efficace di gestione della qualità e di conformità alla “regola dell’arte”. Interessante il metodo con cui viene condotto l’excursus di termini, costruito in modo da dare un quadro chiaro dell’argomento trattato, come già detto, attraverso una sequenza di voci selezionate e attentamente scelte all’interno di un sistema evidentemente molto ampio. Il glossario si apre infatti con la parola «affordance», proprietà di un oggetto per cui questo risulti autoesplicativo, cioè suggerisca il suo corretto uso; principio perfettamente in linea con il tema portante del testo, la comunicazione chiara ed univoca di un design moderno, che introduce subito ad una lettura consapevole. Le voci proseguono, toccando vari temi, come quelli inerenti l’ecologia, descrivendo la «biomimesi» che si basa sull’ottimizzazione delle forme, secondo il principio del minimo impiego di materia partendo da processi e modelli mutuati dalla natura; ancora gli approcci progettuali come il «Design for Disassembling», volto alla possibilità di scomposizione e dismissione di un manufatto, o valutativi come il «Cradle To Cradle» (C2C), progettazione consapevole, basata


sulla circolarità delle risorse, o il «Life Cycle Assessment» (LCA) e il «Life Cycle Design» (LCD) con cui si valuta l’impatto ambientale di un determinato prodotto o attività, tutti volti a considerare l’intero ciclo vitale degli artefatti. Grande attenzione poi, è data ai sistemi attuali di lavorazione dei materiali, che hanno cambiato radicalmente i procedimenti, ma soprattutto il ruolo dell’uomo, si pensi agli ormai diffusissimi «CNC», letteralmente Centri di Lavoro a Controllo Numerico, i quali grazie al­l’unione di un sistema informatico e di uno elettromeccanico, per­mettono di eseguire lavorazioni anche complesse su svariati tipi di materiali. L’itinerario prosegue poi passando per la voce «forma», a metà del testo, quasi a rilevare la centralità di un concetto così vasto che abbraccia pensieri e materia attraverso la percezione sensoriale. L’autrice a tal proposito spiega questa parola riportando una teoria che ha evidentemente influenzato quelle del design e ripropone quella pluralità di fattori che ne costituiscono il contesto e lo spettro di relazioni: la Gestalttheorie, corrente della psicologia la quale indaga, per l’appunto, la percezione delle cose muovendo dal principio per il quale essa è presieduta da un sistema più complesso del semplice organo visivo, il quale regola quindi percezione, pensiero e sensazione. La forma è certamente la proprietà più evidente degli oggetti, sembra essere indissolubilmente legata all’idea che si ha di questi, talvolta alla funzione, ma spesso essa è suggerita dal materiale; proprio questo aspetto è ampiamente trat-

tato dalla Cecchini, nella scelta di esaminare alcuni dei materiali più innovativi (grafene, silicene), di de­ rivazione nanotecnologica. Que­ sti hanno cambiato il modo di con­cepire certi oggetti o le componenti degli oggetti stessi, data la loro caratteristica di essere nanostrutturati, cioè composti da strati monoatomici, permettendo dimensioni sempre più piccole e impiego di spazio sempre minore. Il loro utilizzo nel campo del design evidentemente implica numerose variazioni e infiniti sviluppi nella configurazione estetica ma anche nella composizione strutturale di alcuni artefatti. Tuttavia ciò che sta mutando profondamente nel design, ma più in generale nel mondo del mercato, investe anche altre sfere. Attualmente la possibilità di accedere all’informazione tramite la rete web, come già detto, ha liberalizzato la fruizione di tantissimi prodotti (software, testi, musica, immagini); è il fenomeno caratterizzato dalla cosiddetta «open sour­ ce», (sorgente aperta), che talvolta supera anche il diritto d’autore in una comunità assolutamente aperta e collaborativa. Sempre nella scia della stessa tendenza, pare fondamentale soffermarsi su un paio di vocaboli ancora che forniscono certamente una tangibilità di questo fenomeno; si pensi a «prosumer», parola coniata negli anni ottanta da Alvin Toffler. Il prosumer, frutto del­l’u­ nione tra producer e consumer, è un nuovo tipo di consumatore che è in grado di produrre ciò che ha intenzione di consumare. Ancora a tal proposito rivoluzionaria sembra essere una macchina che permette di fare esattamente questo: pensare ad un oggetto e produrlo

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personalmente, la «stampante 3D», la quale grazie ad un meccanismo che consente di generare un oggetto mediante la sovrapposizione di strati, sembra allontanare notevolmente i limiti di ciò che fino a qualche tempo fa era considerato possibile, ma soprattutto, e questo sembra essere il dato più interessante rispetto al discorso propriamente sul design, tali nuovi dispositivi, procedimenti e approcci stanno cambiando i tradizionali schemi di produzione verso un’evoluzione dei potenziali destinatari sempre più prossimi ad una condizione di autonomia. Affascinante la chiusura del testo che termina con la definizione di una tecnologia nata negli anni sessanta; il «vetro float» (vetro piano), è infatti prodotto mediante questo procedimento che permette di avere lastre perfettamente piane, prive di quella caratteristica ondulazione presente su quelle antiche, raffreddando la pasta vetrosa, la quale viene poi colata e fatta galleggiare nello stagno fuso: essendo il vetro più leggero, si formano così nastri continui e lisci, che vanno poi cotti, raffreddati nuovamente e finalmente tagliati in dimensioni standard 3 × 6m. Metaforicamente questo lemma ci riporta al tema del profondo cambiamento in atto, che investe il campo del design nella sua totalità, e se vogliamo interessa soprattutto la visione delle cose, il modo di rivolgersi ai diversi momenti del design, il modo di guardare all’oggetto di design, un cambiamento più in generale della società, la cui portata è comprensibile solo se si possiede una “conoscenza pertinente”.

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R. R. R.

A. D’Auria, Architettura e arti applicate negli anni Cinquanta. La vicenda italiana, Marsilio, Venezia 2012. Anche per gli anni Cinquanta del Novecento sembrerebbe giunta quell’ora della conoscibilità che per Benjamin è il vero tempo di ogni tempo, cioè, il momento della piena comprensione e frui­ zione di un periodo, e quasi della attualizzazione del suo potenziale storico. In realtà, siamo già in forte ritardo per il mezzo secolo che ci separa da quel decennio. L’ora della sua conoscibilità doveva scoccare nei primissimi anni del decennio successivo, allorché appariva evidente che nell’ideale istogramma d’una scansione per decenni delle vicende architettoniche del secolo, gli anni Cinquanta mostravano un picco e dunque un potenziale storico che mai s’era registrato nel passato, almeno prossimo. Fu lo spazio temporale della sostanziale continuità con gli anni Trenta dell’architettura italiana nonostante la lacerante parentesi bellica, e al tempo stesso, del profondo cambiamento di contesti dentro i quali si progettavano e realizzavano architetture, arredi e oggetti d’u­ so. Accaddero fatti tanto importanti, in architettura e soprattutto in altri ambiti, da farli definire i «favolosi» anni Cinquanta. Quando tuttavia la prospettiva sia quella dell’architettura, vale a dire della forma più compromessa con le ragioni e le passioni della realtà, quegli anni, oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, ci appaiono come i piccoli e faticosi Cinquanta. Così D’Auria chiude la densa introduzione a un saggio atteso, che fa avanzare, e


di non poco, la soglia della conoscibilità degli anni Cinquanta, ma che ci avverte nello stesso tempo che essi presentano ancora contorni non certi, non ancora consolidati. Come a dire, e ad avvertire gli storici, che su questo periodo c’è ancora molta da indagare e dire. Per ora, diamo conto di questo risultato, positivo per il recensore e provvisorio secondo la condivisibile avvertenza dell’A. Dal titolo del libro – pienamente esplicativo del contenuto, così come dovrebbe sempre accadere per ogni saggio scientifico – emergono due temi storiografici di rilevante interesse e sui quali articoleremo prevalentemente la nota critica che segue: il tema delle periodizzazioni e quello della monografia (un decennio e la sola vicenda italiana). Il tema della periodizzazione. Questione di grande complessità teorica e sulla quale esiste una specifica riflessione. Nel caso del­ l’architettura, pagine di esemplare chiarezza sono state scritte da Renato De Fusco nel volume Dal­ l’architettura al design per la UTET del 1995, laddove si poneva, tra altri, appunto il problema dei termini a quo e ad quem dai quali principia e termina un secolo di storia architettonica, essendo oltremodo evidente che l’inizio e la conclusione temporali non coincidono mai con quelli della sostanza storica analizzata. Nel caso del Novecento ad esempio, il secolo sarebbe stato tutt’altro che breve se il suo incipit fosse stato fissato, con ampio respiro storico e sostenibilità critica, negli ultimi due decenni dell’Ottocento con l’emersione delle avanguardie figurative che alimenteranno poi l’architettura europea fino allo

scoppio della seconda guerra mondiale. Sarebbe invece ritornato breve, se la sua vicenda avesse preso le mosse, con una visione più ristretta ma comunque pertinente e corretta, dalla nascita del razionalismo che genera i suoi primi riconoscibili testi dal secondo decennio del secolo. Quanto alla conclusione, molti autori la fanno coincidere con il tramonto del post-modernismo e l’affermarsi dei principi decostruttivisti, transito che avviene almeno un decennio prima della chiusura temporale del Novecento. In ogni caso, i due eventi che aprono e chiudono il secolo breve – la fine della prima guerra mondiale e la caduta del muro di Berlino – non hanno alcun significato precettivo sulla storia dell’architettura, appartenendo a quella civile più generale. Analoghe considerazioni propone l’A. nell’introduzione ma con una novità critico-metodologica molto interessante e «rischiosa» che merita la precedenza sulla periodizzazione intesa come scansione cronologica. D’Auria opera la scelta, certo rischiosa, di un approccio sincronico tale da sventare la facile retroattività sul passato di idee che si sarebbero affermate in seguito e perciò capace, forse, della compresenza di eventi progettuali, tutti in un certo momento dotati di futuro. Ciò significa, scelta sincronica e doppia circoscrizione della storia e della storiografia: per meglio indagare le sopravvivenze storiche nella storiografia, quelle di lunga durata che hanno resistito agli oblii più o meno interessati degli storici; per sottrarsi al gioco delle scoperte e riscoperte che l’industria culturale ci pro-

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pone di frequente; per evitare che molte tracce di quel periodo vengano cancellate perché contrastanti con «percorsi omogenei» o «monografie-monumento dai forti tratti apologetici»; per sperimentare in concreto il doppio paradosso messo in luce da Croce che se da una parte ogni storia è sempre storia contemporanea, dall’altra si può fare storia solo di fenomeni conclusi. Si tratta, come appare evidente, d’una scelta di non poco conto che blocca gli eventi storici e la loro narrazione critica nella flagranza, ma anche nell’assolutezza e quasi autonomia, della sincronia, rinunziando al flusso storiografico che dall’evento passato giunge fino al tempo presente. Flusso storiografico che si avvale in genere di riflessioni più ampie e mature, ma non può sottrarsi ai fenomeni delle mode editoriali, delle scoperte e riscoperte in precedenza citate, delle idiosincrasie degli storici, delle manipolazioni interessate, tutti comportamenti favoriti dalla distanza dall’evento e dunque dalla cancellazione di tracce che invece la sincronia non può ignorare. Oggi, per citare alcuni casi che il libro fa emergere con generosità di spazio dedicato e acute analisi dell’A., il ruolo che negli anni Cinquanta hanno avuto linguaggi come il neorealismo, architetti come Ponti o storici e critici come Zevi, non è da tutti riconosciuto e anzi il valore stesso del loro contributo viene fortemente ridimensionato. Viceversa, la scelta sincronica dimostra che questo linguaggio e questi autori hanno avuto presenza e ruolo da protagonisti. Ponti e Nervi sono stati i progettisti italiani più noti nel mondo, Zevi e Rogers erano

gli unici in grado di interloquire alla pari con i Maestri. A conclusione della lettura del libro, si deve riconoscere che i rischi di cui parla l’A. sono stati inferiori ai risultati acquisiti perché gli anni Cinquanta recuperano in questo saggio una gerarchia più sostenibile di valori e presenze. Per la periodizzazione in senso cronologico, il discorso ritorna a problemi di date e limiti. Per l’Italia il periodo storico in esame, al di là del decennio, potrebbe iniziare il 28 luglio del 1945 quando finì la guerra o il 2 giugno 1946, giorno del referendum; secondo alcuni cominciò il 18 aprile 1948, giorno delle elezioni più drammatiche e decisive della storia repubblicana; oppure, perché no, con l’Anno Santo proprio nel 1950. Per quanto concerne l’inizio della vicenda della nostrana architettura, due potrebbero essere i termini cronologici discriminanti: il 1945 con l’inizio della ricostruzione e il 1949 quando fu promulgata la Legge Fanfani e si avviò l’attività dell’INA-Casa. La fine del nostro decennio, così ampliato, potrebbe coincidere con le Olimpiadi romane del 1960, il primo, nel dopoguerra, dei tanti anniversari o momenti di costruzioni e trasformazioni urbane straordinari. Ma se inseriamo anche eventi d’altra natura, scrive sempre D’Au­ria, anche il 1962, anno dei nuovi scioperi operai, o il 1965 con la fine dell’egemonia culturale italiana nel cinema, nell’arte, nel design, o infine il 1968 che chiude un’epoca e ne apre un’altra, possono essere assunti come limite concettuale a valle del decennio. Confini molto variabili


dunque, come dimostra una narrazione che ora prende l’avvio negli anni Trenta con Persico, Pagano e Giolli quando si tratta di mostrare la sostanziale continuità di pensiero tra il periodo pre e post bellico, ora parte dal 1945 per il tema Architetture e ideologie, ora ancora dal 1941, anno del Congresso Nazionale degli Architetti a Milano, per Architettura e innovazione tecnologica, ora, infine e necessariamente, da date sempre diverse quando si parla di architetti, città e programmi urbanistici, non potendosi ad esempio mutilare biografie come quelle di Albini, Rogers e Ponti (tra i più citati nel libro) o le vicende urbanistiche di Roma, Milano e Napoli con la loro riduzione ai soli anni Cinquanta. Si dovrà ricorrere a vere e proprie strategie critiche della tensione, nel senso che spesso il decennio in esame viene teso e allungato per meglio comprendere la portata storica degli accadimenti che in esso hanno avuto sede. La convenzionale partizione per decenni o per altre misure del tempo, si conferma artificio storiografico utile. Nel caso del libro in esame, utile e correttamente inteso, perché il decennio non si rivela una camicia di forza nella quale comprimere gli eventi ma una rete sulla quale ordinarli per meglio valutarne le connessioni. Il tema della monografia. Non si tratta, ovviamente, di proporre qui la questione tipologica, cioè la monografia come tipo storiografico. Si tratta invece di svolgere qualche considerazione sulla scelta specifica degli anni Cinquanta, nel merito dei materiali analizzati e sulle tesi avanzate. Pro­cediamo nell’ordine. Perché

pro­prio questo decennio e non altri? Al centro di questo libro c’è il passaggio decisivo degli anni Cinquanta, il fare e ripensare l’architettura nella temperie del secondo dopoguerra e, contestualmente, l’apparizione sulla scena del design italiano, vale a dire di un prodotto e di un modello di produzione affatto nuovi e fortemente caratterizzanti. Il contraccolpo è costituito dalla riformulazione, su diversi livelli e versanti disciplinari, del discorso pertinente, tra recuperi e soluzioni di continuità rispetto al ventennio, tra rinascite e antiche inquietudini, infine tra prassi organica alla modernità e riflessione critica. Gli anni Cinquanta, dunque, perché in quel periodo l’architettura italiana affronta per la prima volta nella sua storia, con piena consapevolezza, il «discorso pertinente» sui differenti modi di declinare la disciplina e la sua presenza nella società; gli anni Cinquanta, perché comincia ad affermarsi sulla scena nazionale e soprattutto internazionale il design italiano. Senza negare il contributo di riflessione teorica e confermando l’alta qualità delle architetture paradigmatiche realizzate nel decennio, è del tutto evidente che il «passaggio decisivo» degli anni Cinquanta avviene prevalentemente nel­ l’ambito e per merito del design che emerge come evento-protagonista. Lo è anche in questo libro, protagonista con la sua prevalenza numerica di pagine specificamente dedicate e una trattazione più partecipe; protagonista prevedibile, occorre aggiungere, perché la produzione scientifica di D’Auria registra la netta prevalenza di contributi in questa dire-

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zione, a partire da Il progetto del design scritto con Renato De Fusco nel 1992 e le cui tesi sono qui più volte chiamate in causa. Entrando nel merito dei materiali analizzati, ribadiamo subito che dei tre capitoli in cui è organizzato lo studio (Architettura degli anni Cinquanta, Architettura degli interni e La vicenda del design e la nascita del made in Italy), il terzo è quello che presenta le maggiori novità argomentative. Si segnala in particolare il paragrafo Identità del design italiano: un problema storiografico, che tocca la questione centrale e singolare del design italiano, il suo carattere cioè di italianità in un settore, quello dell’Industrial design, che per origine, sviluppo e soprattutto istanza culturale, mira ad essere internazionale. D’Auria si tiene lontano da tentazioni nazionalistiche, peraltro ampiamente presenti nell’epopea letteraria del made in Italy, e parla più correttamente di importante contributo italiano alla storia del design. Quanto agli altri due capitoli, il primo contiene nei suoi sette paragrafi la narrazione delle vicende architettonico-urbanistiche del decennio, con la ricostruzione delle città, dei quartieri, le istanze ideologiche che animavano il dibattito, le vicende dei maggiori architetti allora attivi, la nascente innovazione tecnologica, l’incidenza della critica soprattutto con le riviste specializzate, il ruolo infine dei Maestri nella partecipazione della vicenda italiana ad un contesto internazionale. Il paragrafo sull’innovazione tecnologica è forse quello più istruttivo perché documenta il successo internazionale dell’architettura «ingegneresca» dei Nervi, Morandi,

Musmeci e l’apprezzamento critico di opere basate su avanzamenti del rapporto struttura-forma e della sperimentazione tecnologica. Autori e opere a basso contenuto politico-ideologico, per così dire, e dunque non valorizzati appieno nella storiografia «troppo» ideologica (la sottolineatura è del recensore) dei decenni successivi. Proprio attraverso questi autori e queste opere invece, si esprimeva una nuova modernità altrove già ampiamente praticata, qui invece ancora espressione minoritaria e che coglievano solo critici italiani attenti come Rogers o Zevi. Merito di D’Auria d’averlo posto in evidenza. Il secondo capitolo fa da cerniera tra architettura e design e si occupa degli arredamenti, degli allestimenti di musei e mostre, delle navi da crociera. Quest’ultimo argomento è interessante per gran parte dei lettori perché poco noto, ma il primato dell’interesse spetta di diritto al capitolo della museografia italiana che ha fatto scuola nel mondo. E qui, a differenza del design, la marca nazionale può legittimamente affiorare con gli allestimenti di Albini, Scarpa, dei BBPR, Gardella e di Michelucci. Le prove più originali del progetto di interni sono riscontrabili negli allestimenti di musei e di mostre temporanee: la fattispecie progettuale, che imponeva un serrato dialogo con reperti e con le opere d’arte e postulava un commento spaziale che tuttavia non doveva soverchiare gli artefatti esposti, fu perfettamente interpretata dagli architetti italiani che fornirono prove di assoluta eccellenza. Molto ancora resterebbe da di-


re sulle cose interessanti presenti nel libro, ma anche una recensione, come un qualsiasi testo storico-critico, è selezione e non elenco esaustivo. Le poche cose dette possono essere considerate sufficienti per un primo orientamento. Si raccomanda al lettore un’attenta riflessione sui contenuti della Introduzione, densa, ben scritta, guida efficace alla lettura. Da non perdere, le ultime righe del saggio affidate con scelta felice alla sulfurea levità di Flaiano. Si parla dell’identità del design italiano e

si ricorda un frammento dell’intervista immaginaria di Flaiano a Paolo Uccello. L’opera d’arte, diceva il pittore, era innanzi tutto un «prodotto». Per farlo, bisognava conoscere «le fasi di lavorazione del prodotto, i materiali, prevedere il risultato. […] Ogni minimo risultato richiedeva infinita pazienza». Il genio – concludeva – era sottinteso. Ecco, forse in questa formula è racchiusa una essenziale identità italiana. P. B.

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Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 81.  Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82.  Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre N. 83.  Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre N. 84.  Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85.  Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86.  Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87.  Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88.  L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89.  Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90.  L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91.  «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre

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N. 92.  Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre


N. 93.  La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94.  Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95.  Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96.  Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97.  Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98.  Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99.  Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre N. 100.  Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101.  Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102.  Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103.  Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104.  La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105.  L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106.  Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107.  Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108.  Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre

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N. 109.  Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110.  Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111.  Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112.  Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113.  Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114.  L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115.  L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre N. 116.  Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117.  Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118.  Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119.  L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120.  Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121.  La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122.  L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123.  Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 124.  Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI


N. 125.  Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126.  L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127.  Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128.  Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129.  Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130.  Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 131.  Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132.  Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133.  Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134.  Abitare la razionalità - Per una nuova clas­si­ficazione delle arti - Il design ae­ro­nautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135.  Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136.  Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­ l’ADI N. 137.  Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 138.  Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­ l’ADI N. 139.  Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Common Ground - Per il centenario di Jackson Pollock - Design: segni del tempo - Interni d’avanguardia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998

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«Grafica Elettronica» - Via Ferrante Imparato, 198/F4 - 80146 Napoli


Le pagine dell’ADI Associazione per il disegno industriale a cura di Dario Moretti

Un fiume, anche di libri Non è fuori luogo, sulle pagine di una rivista come “Op.cit.” – che di immagini è da sempre programmaticamente avara, orgogliosamente impiantata sulla parola scritta – notare come negli anni recenti il discorso sul design mantenga viva la capacità di articolarsi non solo per immagini (spesso le immagini prevaricanti della comunicazione autoreferenziale di cui parlava anni fa Mario Perniola)1 ma soprattutto per parole. Non è poco, per una disciplina assediata quotidianamente dai comunicati stampa dei produttori, sempre anodini nelle immagini fotografiche dei prodotti, e da un’informazione professionale sempre attenta più agli interessi degli inserzionisti che alla critica a favore dei consumatori del design. Di questa sempre più salutare attenzione del design alla parola scritta presentiamo qui due esempi: il primo è un commento alla pubblicazione, su questa rivista2, dell’articolo di Giovanni Cutolo dedicato al Grande Fiume del Design Italiano. Un’immagine anch’essa, certo, quella del Grande Fiume. Ma un’immagine mentale, una metafora non a caso ispirata alla cultura orientale: uno spunto articolato per fare da innesco intellettuale a una valutazione panoramica del fenomeno del design italiano, che il dibattito professionale – stretto più che mai dalle necessità di concentrarsi sul breve periodo per rimediare alla crisi – rischia di trascurare. E le reazioni ci sono, come mostra l’intervento di Angelo Cortesi, per due volte presidente dell’ADI (1985-1987 e 1991-1992), progettista che la visione prospettica del design la coltiva da sempre: nel 1988 fu   Cfr. M. Perniola, Contro la comunicazione, Torino, Einaudi, 2004.   G. Cutolo, Il Grande Fiume del design italiano, in “Op. cit.”, n. 147, maggio 2013, p. 40. 1 2


promotore per ADI di un manifesto etico, il Design Memorandum, che l’asso­ciazione ha sviluppato recentemente in un nuovo documento, adeguato alle nuove prospettive globali della disciplina e della professione. Grande attenzione alla parola scritta, quindi, per definire la condizione attuale del design; che si traduce ovviamente in una grande attenzione ai libri che parlano di design e dintorni, che di questa condizione sono la memoria e, a volte, il preannuncio. Maria Cristina Tommasini – curatrice delle edizioni 2011-2013 di ADI Design Index, il panorama annuale della produzione del design italiano – passa in rassegna le scelte che, in preparazione del prossimo Compasso d’Oro, quest’opera e chi la realizza (i circa cento esperti dell’Osser­vatorio permanente del Design ADI) hanno fatto in materia di libri e di riviste specializzate. La sorpresa positiva, per chi vede riunite tutte insieme queste scelte, è che non si tratta mai di monografie celebrative o di coffee-table books, e non si tratta solo di interventi teorici o storici specifici sul design; ma di un repertorio che tende ad allargare i confini della disciplina come richiede la condizione contemporanea del sapere, con una salutare attenzione a ciò che succede in tutti gli altri campi, dalla ricerca scientifica a quella sociologica, dalla tecnologia alla cultura materiale in ogni sua declinazione culturale. Questa scelta di dare – letteralmente – la parola al design in maniera non autoreferenziale da due anni ha trovato espressione anche in un’altra iniziativa: gli incontri intitolati Design da Leggere, a cura di Vanni Pasca e del Dipartimento Generale ADI, che nel 2012 hanno presentato nuovi libri e nuove riviste, ma nel 2013 si sono orientati più apertamente, presentando (sempre attraverso i libri) testimonianze di applicazione delle nuove tecnologie al design. Nell’autunno 2013 lo stesso tema viene ripreso in un appuntamento inserito nel programma della maggiore manifestazione milanese dedicata al libro: gli incontri, frequentati insieme da specialisti e da grande pubblico, della seconda edizione di Milano Book City. ADI Design Index, così, può essere anche letto come ‘un libro che parla di libri’ e che, segnalando i più importanti volumi che riguardano il design, contribuisce in maniera essenziale a diffondere il discorso sul progetto e su ciò che lo circonda attraverso la parola: uno strumento che ritorna a essere sempre più importante per comprendere la situazione. Alla maniera di “Op.cit.”.


Il Grande Fiume del design italiano di Giovanni Cutolo Angelo Cortesi Far capire la ricchezza espressiva e l’articolazione del design italiano agli stranieri, di qualunque latitudine culturale essi siano, è sempre stato un compito difficile. Giovanni Cutolo, con la metafora del Grande Fiume, riesce a illustrare con grande efficacia la complessità e le interconnessioni geografiche e temporali che hanno contribuito alla creazione del fenomeno. Rimangono tuttavia in sospeso alcune domande: perché tanti designer stranieri progettano per la manifattura italiana e perché esiste tanta disponibilità nell’accogliere anche idee di giovani sconosciuti? Le risposte stanno nella curiosità, nel desiderio di informazioni, nella fame di diversità, di esotico, nella voglia di sfida, nel desiderio di sperimentare e realizzare cose difficili in particolare se altri le hanno ritenute impossibili. (Vale la pena ricordare che l’Opera di Sidney è stata realizzata da Permasteelisa perché nessuno al mondo voleva prendersi il rischio della costruzione). Le aziende italiane raramente rifiutano a priori un progetto: prima lo analizzano e, se il progetto dispone di una pur minima credibilità, lo sperimentano fisicamente. Questo atteggiamento contribuisce a creare una cultura d’impresa praticamente unica al mondo. Si può obiettare che questo atteggiamento comporta l’assunzione di costi che non sempre vengono recuperati dal mercato ma, come tutti sanno, la ricchezza culturale e tecnologica è una merce che assume valore nel tempo. Anche se il settore dell’arredamento è il più conosciuto nel mondo, l’atteggiamento che ho descritto è condiviso da tutto il sistema industriale italiano. La necessità di dotare di una carrozzeria un motore automobilistico nasce all’interno dell’ADI da una discussione con il rappresentante dell’industria – che in quel caso era il direttore del Centro Ricerche Fiat: parlando del Fire nacque l’idea di carrozzarlo, idea poi adottata da tutte le case automobilistiche. L’idea di trasformare una semplice scatola per il comando a distanza delle gru in uno ‘scettro’, affinché il muratore abbia la sensazione di ‘comandare’ la sua gru, nasce nel mio studio da una discussione con il produttore.


Per contro un elemento innovativo per creare la clip di una penna, direttamente ricavata dal cappuccio con una semplice fresata, non viene accettata perché la cultura industriale tedesca della Faber Castell richiede di lavorare perfezionando l’esistente e quindi scegliendo all’interno del panorama e delle tipologie conosciute. Un grande artigiano, Pierluigi Ghianda, andò in Giappone nei primi anni Sessanta insieme con Gianfranco Frattini per incontrare i maestri della famosa lacca e quindi introdurre in Italia un metodo semi-indu­ striale che si avvicinava all’originale. Ritengo di poter concludere che il Grande Fiume del design italiano sia il più grande centro di ricerca diffuso sul territorio al mondo.


Le parole del design Maria Cristina Tommasini Il ciclo di lavoro che si conclude con la pubblicazione di ADI Design Index 2013 corrisponde a un periodo (2010-2012) che sarà ricordato tra i più difficili per l’economia mondiale. Se e quando ne usciremo, saremo tutti profondamente diversi. Come un animale che cambia pelle, una larva che diventa insetto, la metamorfosi comporta sofferenza. Per l’editoria, la crisi economica si è innestata in una più generale e profonda trasformazione che riguarda l’esistenza stessa di giornali, riviste, libri su carta. Tutto può e deve essere disponibile online! Il giornalismo rappresentato dalla statua di Indro Montanelli raffigurato con la Lettera 22 appoggiata sulle ginocchia è morto. I social network sono diventati la forma di comunicazione principale e il veicolo privilegiato per la diffusione delle informazioni. Face­ book e Twitter muovono le masse, contribuiscono a far nascere le rivoluzioni, grazie al loro tam-tam che in tempo reale può essere udito ovunque nel mondo. Che cosa ne facciamo di giornali e riviste? Anche i libri sono più comodi nella versione elettronica. Aboliamo la carta, poteva essere lo slogan da invocare e spesso invocato! Ne sono andati di mezzo tanti posti di lavoro, nelle testate giornalistiche e in tutta la filiera dell’editoria. Eppure, proprio perché la rivoluzione informatica ha messo a disposizione un’infinità di caratteri tipografici, di layout preimpostati, di impaginazioni guidate, di correzioni ortografiche automatiche, mai come oggi è possibile a tutti essere in rete con un proprio sito, creare un blog. O editare un libro e stamparlo a costi che non spaventano. La professionalità del tipografo, del correttore di bozze, del grafico è stata sostituita da software presenti in qualsiasi computer. Ciascuno può fare da sé! Fin qui gli aspetti pratici, il fare accessibile a molti. Ma i contenuti chi li produce e controlla? In che cosa consiste la creatività? Nell’editoria è avvenuto in anticipo quello che forse sta accadendo ora nel campo del design, grazie a piattaforme gratuite di progettazione accessibili online (v. arduino®), e alla disponibilità generalizzata di stampanti in 3D in grado di realizzare, strato dopo strato, qualsiasi tipo di manufatto. Il fenomeno dei makers, nato in America, si sta diffondendo anche in Italia, ma con esiti sostanzialmente diversi, perché negli


USA manca il tessuto delle piccole e medie imprese italiane, realtà ad alta specializzazione e caratterizzazione sulle quali si basa da sempre il successo del Made in Italy. Realtà che possono, anche attraverso questi nuovi strumenti e insieme ai giovani designer, contribuire alla rigenerazione dell’intera filiera produttiva. Bisogna però trovare le parole per spiegare tutto questo. E spesso un libro è ancora lo strumento più efficace per farlo. Esaminando la selezione di libri e progetti editoriali ospitati dai tre ADI Design Index propedeutici all’assegnazione nel 2014 del XXIII Compasso d’Oro, queste questioni sono tutte sotto esame, con appassionanti testimonianze su protagonisti e opere del design, insieme alle immagini, alle copertine, ai caratteri tipografici, alle diverse carte che fanno di ogni libro un potenziale oggetto di desiderio.


I libri e i progetti editoriali selezionati per ADI Design Index 2011 La grafica del Made in Italy - Comunicazione e aziende del design 1950-1980 Mario Piazza (a cura di) | Aiap Edizioni Il libro racconta come innovazione imprenditoriale e peculiarità stilistica e originalità di grandi progettisti hanno costruito, comunicato e diffuso il Made in Italy in tutto il mondo. A fianco delle aziende e dei designer, grafici come Enrico Ciuti, Giulio Confalonieri, Ilio Negri, Michele Provinciali, Pino Tovaglia, Dante Bighi, Franco Maria Ricci, Bob Noorda, Albe Steiner, Mimmo Castellano, Massimo Vignelli, Giancarlo Iliprandi e molti altri sono stati capaci di rappresentare il volto di questo sistema, disegnando marchi, logotipi, cataloghi, inviti, annunci e pagine pubblicitarie. Opere straordinarie che hanno lasciato il segno nella storia della grafica e della comunicazione. Un libro che mette in rassegna per la prima volta le pagine migliori di questa esperienza progettuale, raccontando con le immagini gli stili e le invenzioni grafiche, ma ripercorrendo in parallelo la vita di oggetti e prodotti della grande stagione del design italiano. A lezione con Carlo Scarpa Franca Semi | Cicero Editore Libro per architetti, storici dell’arte e dell’architettura e l’affollato mondo degli appassionati estimatori di Carlo Scarpa. Il volume tratta l’unico materiale esistente sulla didattica del professor Carlo Scarpa, raccolto dall’autrice negli ultimi due anni accademici (1974-75, 1975-


76) che Scarpa svolse presso l’IUAV, prima del pensionamento. È un materiale ampio, composto da registrazioni in 23 cassette, di circa un’ora l’una, alle quali sono riferiti i disegni (21 inediti, solo in parte utilizzati per la pubblicazione). Creatività Emilio Garroni | Quodlibet Fare o dire qualcosa di nuovo, di imprevisto, di sorprendente: in che cosa consiste questa capacità tipicamente umana? Come spiegare la trasformazione radicale delle nostre forme di vita e dei nostri modelli teorici? C’è qualcosa che unisce l’invenzione di un utensile da parte del cacciatore preistorico ai dipinti di Michelangelo nella Cappella Sistina? Sono queste alcune delle domande alle quali tenta di rispondere Emilio Garroni in questo saggio. Per chiarire in che modo riusciamo a variare la nostra prassi e i nostri discorsi, Garroni mobilita molte discipline diverse: la biologia, la teoria dell’evoluzione, la linguistica e, naturalmente, l’estetica. A suo giudizio, lungi dall’essere un lusso, il comportamento creativo svolge una funzione essenziale nel modo in cui la nostra specie si adatta all’ambiente. L’arte non è altro, quindi, che l’espressione specializzata di un’attitudine comune a ogni essere umano, senza la quale non sapremmo orientarci nel mondo. Food Mood Stefano Maffei, Barbara Parini | Mondadori Elec­ta Il cibo è ricerca, ritualità, creazione artistica capace di coinvolgere spazi, oggetti, strumenti, materie prime, esperienze. Il food, nella sua accezione più ampia, è protagonista di un percorso attraverso ambiti diversi, dalla ricerca sperimentale dei grandi chef al design applicato agli strumenti e alle tecniche, dalla tavola nella sua dimensione funzionale ed estetica alle sperimentazioni artistiche e culturali più innovative. Inventario Beppe Finessi (direttore) | Corraini Editore per Fosca­rini Inventario è un progetto editoriale dedicato alla cultura del progetto, declinata nei temi del design, dell’architettura e dell’arte. Inventario


è un contenitore trasversale, programmaticamente libero, centrato sull’innovazione e sulla ricerca, sulla creatività, sulla forza delle idee e delle intuizioni. La rivista è fatta solo di rubriche, scatole ‘progettate’ per ospitare contenuti espressamente ricercati e ordinati in un certo modo, e solo in quello, perché visti solo con quegli ‘occhiali’ particolari. Inventario è a metà strada tra un magazine e un libro: ha la periodicità di alcune riviste di approfondimento, e una modalità di ricerca, raccolta e riflessione normalmente tipica dei libri. Ritratti e autoritratti di design Andrea Branzi | Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte - Marsilio Editori Il volume descrive le vicende di tre generazioni di designer, dai cosiddetti maestri del design italiano alle tendenze del Nuovo Design. Le biografie dei grandi designer si incrociano con l’autobiografia, le esperienze personali con quelle di interi movimenti, come quello radicale o Alchymia e Memphis, di cui Branzi è stato uno dei protagonisti. Il “sistema dinamico” del design italiano, nel quale queste esperienze si collocano, viene analizzato nei suoi molteplici aspetti, con riflessioni sul ruolo di una nuova didattica e sul design come professione di massa.

I libri e i progetti editoriali selezionati per ADI Design Index 2012 On the road. Bob Noorda, il grafico del viaggio Cinzia Ferrara, Francesco E. Guida (a cura di) | Aiap Edi­zioni Olandese di nascita, Bob Noorda è stato uno dei grandi grafici italiani. Con il suo lavoro ha definito l’immagine visiva di alcuni dei più


importanti marchi italiani (dall’ENI alla Regione Lombardia, ma anche Coop, Feltrinelli, Mondadori e tanti altri). Tra i marchi industriali e istituzionali che Noorda ha inventato o ridisegnato, vi è quello del Touring Club Italiano, con il quale ha collaborato dal 1978 per più di vent’anni, curando l’immagine, le copertine e gli impaginati per molte delle collane storiche e delle pubblicazioni che annualmente il TCI editava per i soci e per tutti gli appassionati del viaggio e della cultura. Il lavoro di Noorda non ha dato solo un carattere all’identità di un’associazione, qual è il Touring, ma l’ha resa riconoscibile a milioni di italiani, tanto da entrare nell’immaginario di più generazioni. Il volume, interamente bilingue, attraverso un ricco apparato iconografico (circa 170 immagini a colori e in bianco e nero) e un’importante raccolta di contributi (tra cui quelli di Carlo Vinti e Mario Piazza) approfondisce questa emblematica microstoria della grafica italiana. I libri di Ettore Sottsass Giorgio Maffei, Bruno Tonini (a cura di) | Corraini Editore Il volume, a cura di Giorgio Maffei e Bruno Tonini, raccoglie le riviste e i libri che Ettore Sottsass ha scritto, illustrato o curato nell’arco di sessant’anni, tra il 1947 e il 2006. Opere su carta stampata per le quali Sottsass ha realizzato appositamente testi, illustrazioni e/o invenzioni grafiche. La multiforme produzione editoriale di Ettore Sottsass è raggruppata in otto sezioni – la rivista Room East 128. Chronicle, i libri editi per le edizioni East 128, Pianeta Fresco, gli inserti nelle riviste d’architettura e design, i libri illustrati e i testi teorici, i cataloghi del gruppo Memphis, la rivista Terrazzo e le pubblicazioni augurali dello Studio Sottsass Associati – ed è accompagnata da brevi ma toccanti contributi di Barbara Radice, Andrea Branzi, Michele De Lucchi, Nathalie Du Pasquier, Elio Fiorucci, Christoph Radl, Franco Raggi e Lea Vergine. Uffici. Interni, arredi, oggetti Imma Forino | Giulio Einaudi Editore Scenario di quotidiana relazione fra le persone, luogo prediletto di autodeterminazione e sopraffazione, specchio di tensioni e gerarchie sociali, l’ufficio costituisce fin dalla nascita del mondo industriale un fattore decisivo del processo sociale ed economico: le sue articolazioni coin-


volgono, su scala planetaria, l’esistenza di milioni di esseri umani che operano nel segno del progresso e delle sue contraddizioni. Con qualità di documentazione e di sintesi, Imma Forino indaga interni, arredi e oggetti, attingendo alle risorse della sociologia e del pensiero architettonico, della letteratura e del cinema, della storia economica e del design. Futuro Artigiano. L’innovazione nelle mani degli italiani Stefano Micelli | Marsilio Editori Il libro è presentato come il manifesto di un nuovo immaginario dell’industria italiana: la virtuosa contaminazione tra lavoro artigiano ed economia globale. Il lavoro artigiano è un ingrediente essenziale della competitività della nuova media impresa che rappresenta il Made in Italy nel mondo. Il lavoro artigiano è comunicato in modo nuovo (lavorazioni specifiche affidate a fornitori locali, “passaporti” che certificano la produzione italiana fase per fase), valorizzato come stru­mento per aprirsi alla globalizzazione, inserito in una proposta di valore più sofisticata che si confronta senza timori con la tecnologia. Avvalendosi di esempi concreti e dell’analisi delle esperienze più interessanti di questi ultimi anni, il libro mostra come il “quarto capitalismo” italiano – le nuove multinazionali tascabili che portano il prodotto italiano nel mondo – non solo non hanno rinnegato il saper fare con le mani, ma danno oggi nuovo valore alla competenza artigiana, offrendo infinite possibilità per mettere in moto dinamiche di crescita assolutamente originali e sorprendenti. Il volume è disponibile anche in formato e-book. Disegno e design. Brevetti e creatività italiani Alessandra Maria Sette, Enrico Morteo | Fonda­zione Valore Italia, Marsilio Editori Il volume presenta il valore della creatività italiana applicata alla produzione industriale, e sottolinea l’importanza che riveste una corretta tutela della proprietà industriale per mantenere la competitività del sistema paese nei mercati internazionali. Presenta centinaia di brevetti, disegni, marchi, che testimoniano l’evoluzione e l’espansione della crea­tività italiana degli ultimi cento anni. I documenti brevettuali accompagnano il lettore lungo un percorso che parte dall’inizio del Novecento e arriva fino all’attualità, snodandosi attraverso i più importanti settori merceologici: arredamento, moda, agroalimentare e trasporti.


I libri e progetti editoriali selezionati per ADI Design Index 2013 Le parole del design Cecilia Cecchini con Felice Ragazzo | List Lab Labo­ra­torio Internazionale Editoriale Il volume è un glossario ragionato, pensato come uno strumento di rapida consultazione. I lemmi – compaiono solo quelli ritenuti i più importanti per il design contemporaneo – sono riportati in ordine alfabetico e per ciascuno di essi vi è una sintetica ma esaustiva spiegazione. I lemmi sono stati scelti perché illustrano tecnologie innovative o lavorazioni artigianali che rischiano di perdersi; perché raccontano nuove strumentazioni o attrezzi quasi scomparsi; perché legati alla gestione ambientale o alla proprietà intellettuale; perché restituiscono una classificazione di prodotti diversi o perché fanno riferimento alle nuove frontiere dell’infinitamente piccolo. Ultrabody Beppe Finessi | Corraini Edizioni Ultrabody propone un viaggio suggestivo e inedito attraverso una sequenza transdisciplinare di opere tra design e moda, tra architettura e arte, che parlano del rapporto tra corpo e spazio, raccontando le infinite modalità di relazione tra le persone, le cose e gli ambienti intorno ad esse: 208 tipi diversi di ‘corpo’, dai più evidenti ai più enigmatici e sperimentali, in un possibile e aggiornato dizionario di autori/opere/


parole chiave del nuovo millennio. Il volume comprende una scheda per ognuna delle 208 opere esposte nell’omonima mostra tenutasi al Castello Sforzesco di Milano (aprile-giugno 2012), inserite nell’immagine grafica progettata da Leonardo Sonnoli, che per l’occasione ha studiato un nuovo carattere tipografico. A lezione con AG Fronzoni Ester Manitto | PLUG_IN Rielaborando materiali, annotazioni e scritti, Ester Manitto ci fa entrare nella scuola bottega di AG Fronzoni, fondata a Milano nel 1982 e attiva fino al 2001. AG Fronzoni è stato grafico, architetto, designer e ha influenzato molti progettisti sia in Italia che in Europa. La prima parte del libro contiene un dialogo tra l’autrice e lo storico del design Gabriele Oropallo, seguito da un ricordo di Enrico D. Bona su Fronzoni grafico della rivista Casabella; la seconda parte ospita un atlante delle parole che sono alla base delle teorie di AG Fronzoni e ne contestualizzano la portata di personaggio a tutto tondo. Giuseppe Pasquali e il caso di Forma & Memoria Claudio Andreoli, Anna Lucia Di Dio, Milly Mille­simi | L’Erma di Bretschneider Il libro racconta l’avventura di Gino Pasquali, architetto e fondatore nel 1981 dei Magazzini di Forma & Memoria, bottega e laboratorio multidisciplinare che contribuì a diffondere a Roma la cultura del design. I prodotti realizzati rimasero pezzi unici, speciali e prototipali, adatti al mercato dell’arte più che al consumo. La seconda stagione coincise con il trasferimento dei Magazzini presso un’ex tipografia, mentre contemporaneamente nasceva MAGAZINE, il foglio che accompagnò la vita di Forma & Memoria, e di cui il libro dà puntuale testimonianza. Pensare la tecnica, progettare le cose Raimonda Riccini | Clueb Il volume propone storie che portano in primo piano la componente tecnico-scientifica del progetto, dando risalto a episodi di solito lasciati sullo sfondo, illustrando strategie, percorsi e personaggi forse meno conosciuti, ma che hanno avuto un ruolo centrale nelle vicende del design


italiano. Seguono la prefazione di Vanni Pasca i capitoli: la storia che non c’è; premesse storiche del disegno industriale in Italia; disegno industriale, una cultura del dopoguerra; disegno industriale al tempo del miracolo; designer, imprenditori e imprese. Sei proprio il mio typo Simon Garfield | Ponte alle Grazie Pressoché sconosciute fino a vent’anni fa, grazie all’avvento della tecnologia informatica oggi le font sono a tutti gli effetti protagoniste del nostro quotidiano. Il saggio, autentico compendio della storia della tipografia, da Gutenberg ai giorni nostri, descrive oltre centomila tra font e caratteri tipografici, ognuno con proprie peculiarità e alterne fortune. Le font non sono il semplice disegno di lettere dell’alfabeto, ma un vero e proprio veicolo di emozioni, come attesta l’aneddoto riguardante il giovane Steve Jobs e il suo interesse per la calligrafia. Il rifiuto degli Dèi Maurizio Vitta | Einaudi Tesi centrale del libro è che anche le arti marcatamente industrializzate e di massa, prodotte in vista di una funzione d’uso e di una strategia di mercato, possono essere luoghi di produzione di forme, sensazioni, sentimenti al pari delle arti tradizionali. A cambiare sono i modelli progettuali e la diffusione delle opere. Il testo inizia con una panoramica sulla nascita delle arti industriali in epoca moderna, analizza l’atteggiamento di rifiuto o accettazione della cultura ufficiale nei loro confronti, descrive il loro rapporto con la tecnologia, esamina la trasformazione della figura dell’autore in tale contesto, approfondisce la complessa interazione fra l’opera d’arte industriale e il suo destinatario, e riflette infine sulla necessità di un rinnovamento della cultura estetica alla luce di queste novità ormai diffuse in tutto il mondo. La vita privata degli oggetti sovietici Gian Piero Piretto | Sironi Editore “La gazirovka: il distributore pubblico d’acqua gassata; il nomerok: il ‘numeretto’ dei cappotti; le papirosy: le sigarette scadenti…”. I pro-


tagonisti di questo libro sono 25 oggetti, semplici cose di uso comune che offrono uno spaccato della vita in URSS. A cosa servivano, che importanza avevano nella vita dei cittadini sovietici, qual è la loro storia? Unendo l’esperienza personale a citazioni letterarie, artistiche e cinematografiche, l’autore costruisce 25 percorsi che non solo raccontano il passato ma anche il presente di questi oggetti, nell’uso e nell’immaginario collettivo. Il libro descrive un mondo che davvero è stato altro, dove si lottava per la rarissima e quasi introvabile gigenic]eskaja bumaga, la carta igienica del popolo. Car design Enrico Leonardo Fagone | Editrice Compositori Considerata uno degli emblemi della modernità, l’automobile rappresenta oggi il campo in cui la pratica del design si è forse più acutamente realizzata. Il libro fornisce un itinerario attraverso il mondo del design automobilistico, rivolgendo particolare attenzione ai più recenti sviluppi che ne hanno decretato l’importanza strategica come autentico vettore per l’innovazione dell’industria del settore. Il volume è completato da alcune testimonianze raccolte tra i più autorevoli car designer della scena internazionale. La storia del mondo in 100 oggetti Neil Macgregor | Adelphi Raccontare la storia della civiltà umana attraverso 100 oggetti: come definire questa impresa? Neil MacGregor non solo ha raccolto la sfida, ma ha anche pensato di descrivere i 100 oggetti, tutti provenienti dalle collezioni del British Museum, in altrettante puntate radiofoniche da un quarto d’ora l’una trasmesse dalla BBC, sostituendo alle immagini un numero equivalente di storie, raccontate con la sua voce, ma anche lasciando la parola a studiosi, esperti, artisti. Ne è nato un grande successo di pubblico, che ha incoraggiato MacGregor a trasformare il materiale in un libro, da visitare come un museo portatile, seguendo le connessioni che il direttore del British Museum di volta in volta indica, oppure stabilendone di nostre, sino a vedere anche il presente con occhi diversi.


Gino Sarfatti Marco Romanelli, Sandra Severi | Silvana Edito­ria­le Gino Sarfatti (Venezia 1912 - Gravedona 1984) è considerato il primo grande progettista italiano nel settore dell’illuminazione. Dopo gli studi in Ingegneria aeronavale, a 27 anni fonda Arteluce, azienda di illuminotecnica oggi conosciuta in tutto il mondo. Sarfatti ha progettato e realizzato più di 600 lampade, prestando una continua attenzione alla ricerca di soluzioni innovative nei materiali, nelle sorgenti luminose e nelle tecniche produttive. Tra i riconoscimenti conseguiti, si ricorda il Compasso d’Oro ricevuto nel 1954 per la lampada da tavolo mod. 559 e nel 1955 per la lampada scomponibile mod. 1055. Il catalogo ragionato, il primo dedicato alla sua opera, è corredato da oltre mille immagini. Le schede tecniche dei prodotti scelti forniscono informazioni dettagliate su ciascun modello, mentre il testo introduttivo ripercorre la biografia del progettista, la cui opera ancora oggi sorprende per bellezza e attualità. Mappamodello Nanni Strada | Corraini Edizioni Il Mappamodello raccoglie i modelli creati nel 1974 da Nanni Strada per il concorso “Abito Nazionale Arabo-Islamico”. Consiste di una serie di capi ispirati alle tenute professionali e ad altri modelli che, grazie alla loro vestibilità free size, sono stati pubblicati dai più importanti settimanali femminili e copiati in tutto il mondo. Il Mappamodello riproduce il tracciato di questi storici vestiti in un unico cartamodello. Il risultato è un prodotto ibrido, versatile, adatto a un pubblico vasto e multigenerazionale.



ISSN 0030-3305

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