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maggio 2014

numero 150

Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli

Electa Napoli



Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Imma Forino, Emma Labruna, Livio Sacchi Segreteria di redazione: Ciro Olisterno Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 081/7690783 Amministrazione: 80128 Napoli, Via B. Cavallino, 35/G - Tel. 081/5595114 Un fascicolo separato e 9.00 (compresa IVA) - Estero e 10.00

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R. Amirante, O. Scotto di Vettimo,

Abduzione e valutazione 5 Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva 19 M.A. Sbordone, R. Veneziano, Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo 30 Libri, riviste e mostre 38 Le pagine dell’ADI

Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Pasquale Belfiore, Jacopo Leveratto, Alfonso Morone, Valeria Pagnini, Francesco Rispoli, Raffaella Rosa Rusciano.



Abduzione e valutazione ROBERTA AMIRANTE

Come si spiega che un insieme di soggetti che non condividono paradigmi scientifici (i docenti/ricercatori dei settori della progettazione architettonica) insegni una disciplina dallo statuto «incerto» nell’Università (e non più nelle Accademie)? L’ipotesi, solo apparentemente banale, che potrebbe spiegare il fatto sorprendente è questa: quei soggetti possono essere considerati un esempio di comunità scientifica; e il prodotto tipico di quella disciplina, il progetto di architettura, può essere considerato un esempio di attività scientifica. Ma come si fa a portare il progetto di architettura, se non dentro, almeno accosto alle pratiche della ricerca scientifica e della sua valutabilità?1. Forse, piuttosto che continuare a domandarci in astratto se il progetto di architettura ha valore di ricerca scientifica, possiamo, più pragmaticamente, chiederci se può valere come ricerca scientifica. Non si tratta di aderire passivamente alle logiche, certamente discutibili, dei meccanismi recentemente applicati dalla nostra Agenzia di Valutazione2 o dalle commissioni di abilitazione, ma di cogliere opportunamente (e, visto come sono andate le cose, perfino «opportunisticamente») un segnale dei tempi. È tempo di trovare i modi per esibire il progetto come prodotto di una ricerca3, magari non proprio scientifica ma almeno scientificamente disciplinata: «senza se e senza ma» rispetto alla sua origine (pura, applicata, professionale, di-

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dattica …) ma con svariati (e concordati) «se» rispetto alla sua potenziale «traduzione» in materiale valutabile da una comunità scientifica in grado di riconoscerne il valore. Compiti difficili: il rischio di ripercorrere sentieri interrotti è altissimo. Ma proviamo a metterla in un altro modo: immaginiamo che i membri della virtuale comunità scientifica composta da tutti quelli che insegnano la (e fanno ricerca sulla) progettazione architettonica nei Dipartimenti (Scuole, Facoltà, qui i nomi non contano: a oggi sono 475 tra ordinari, associati e ricercatori, quelli che hanno dovuto sottoporsi alla valutazione dell’ANVUR4), delle Università italiane (tanto per cominciare, ma poi, prima possibile, di tante altre Università) si mettano d’accordo per inventare (nel senso latino di invenire) i linguaggi convenzionali utili a tradurre il progetto di architettura in una forma testuale comune, capace di raccontarlo attestandone il valore come elemento di avanzamento della conoscenza. E che questo/ questi linguaggi convenzionali siano fondati su un «codice multiplo» capace di comunicare convenzionalmente con le altre comunità scientifiche (che, non da oggi, guardano con sospetto al suo potenziale accreditamento) … beh, forse così si potrebbe cominciare a ragionare. È qui che entra in gioco l’abduzione: l’inferenza «di terzo tipo» che tra qualche rigo vedremo definita – accanto alla certa deduzione e alla fideistica induzione – come la spiegazione «incerta» (ma credibile e soprattutto in qualche modo utile) di un fatto che colpisce l’attenzione di un osservatore (perché è sorprendente o anche perché l’osservatore ha occhi per vedere). Che il progetto, o almeno il «racconto del progetto», possa essere ricondotto a una forma di inferenza, fa sì che si possa accostarlo al linguaggio codificato delle pratiche scientifiche (sfruttando l’evidente crisi di un’interpretazione troppo rigida del problema della demarcazione5); e, in più, la costruzione di questi racconti abduttivi, «scritti» con parole e immagini dai singoli progettisti/ docenti/ricercatori, potrebbe essere utile a dare progressivamente identità alla loro comunità, dotandola di un linguaggio comune in cui tradurre le tante lingue singolari. Solo a


partire da questo primo risultato si potrebbe cominciare a parlare di verifica, parola cara alla scienza sperimentale … Ma, per tornare alla domanda iniziale: è possibile accostare l’incerto statuto del progetto a una forma di inferenza, seppure «di terzo tipo»? Ed è possibile dare status di comunità scientifica a un insieme di soggetti apparentemente disinteressati a riconoscere metodi, tecniche e valori comuni alla disciplina che praticano e insegnano? Anche questa è una tipica «ipotesi creativa», un’abduzione, da verificare. Di seguito proverò a mettere qualche segnale sul percorso di questa verifica, consapevole che le incursioni degli architetti in ambiti filosofici non sempre sono foriere di buone notizie (e, del resto, recenti esperienze consentono di sostenere anche l’inverso). Consapevole che a decidere di tracciare questo percorso può essere solo la comunità scientifica di cui il progetto è prodotto. E consapevole che – paradossalmente – se nel tentare questa verifica ci dovessimo imbattere in una serie di considerazioni e di passaggi banali, scontati, già condivisi e magari già ampiamente praticati, questo sarebbe un ottimo risultato: significherebbe che manca veramente poco perché l’ipotesi di poter valutare convenzionalmente il progetto di architettura come prodotto di ricerca scientifica non sia più considerata stupefacente, non richieda spiegazioni complicate, possa dare origine a una prassi. Abduzione e progetto L’abduzione, come sappiamo, è quella modalità logi­ ca per cui, a partire da un oggetto o evento, visto e inteso come effetto, la mente è in grado di risalire alla sua cau­ sa possibile. Questa inferenza non avviene però meccani­ camente, dalla regola alla sua applicazione, come nella deduzione, né procede per progressivi accostamenti, mettendo insieme i dati sparsi osservati nell’esperienza, come nell’induzione: l’abduzione muove per salti e per azzardi immaginosi e incerti. Si è detto anche che l’ab­ duzione è un «pensiero laterale», ragionamento ipotetico

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che si sposta e discosta dal mondo conosciuto e che si spinge, per necessità o per avventura, per le vie del nuo­ vo. È il pensiero teso verso la ricerca … l’abduzione per­ mette anche di guardare in avanti, non si limita solo a svelare ciò che è stato. Permette di rappresentare ciò che può essere, interpretando un senso futuro. L’abduzione può essere allora considerata come un atto di pre­fi­gu­ razione: scorge l’assente possibile, fa vedere ciò che an­ cora non c’è. O che è lontano e fuori dal nostro orizzon­ te6. Vale sottolineare che, comunque intesa, per molti – e non solo per Charles Saunders Peirce che l’ha «inventata» – l’inferenza abduttiva è il primo passo di qualsiasi ragionamento scientifico non è una componente come le altre dell’inquiry, ma ne costituisce il vero e proprio motore propulsivo7; nel suo partire dall’osservazione della realtà è l’unico tipo di argomento che origina una nuova idea, che produce l’elemento sensuoso del pensieri8. Importante è la differenza tra induzione e abduzione: l’induzione si fon­ da su una procedura comparativa: essa paragona fatti omogenei, campioni di una certa classe; a partire da tale confronto, enuncia proprietà generali. L’abduzione si fonda invece su un fatto singolo, che talora si presenta enigmatico, inspiegabile: l’osservatore lancia allora un’i­ potesi, getta azzardatamente sulla realtà un’idea … non mera supposizione su un oggetto osservato … ma propo­ sizione aggiunta ai fatti osservati9: solo a partire da essa, dal suo carattere di «ipotesi» (un altro dei nomi che le dà Peirce, insieme a quello di retro-duzione), il ragionamento scientifico può procedere per successive induzioni e deduzioni alla ricerca della sua verità. Nota anche come «inferenza verso la soluzione semplice»10, costituisce l’ipotesi migliore … la più semplice e naturale, la più facile ed economica da verificare, e tuttavia quella che contribui­ rà alla comprensione della maggior gamma possibile di fatti11. L’abduzione non solo pretende – senza rinunciare alla sua appartenenza a un universo «logico» – di abbandonare il mondo della deduzione per dire qualcosa di nuovo, ma


sfida il pensiero logico-deduttivo su altri due punti: mentre i cartesiani … danno rilevanza al carattere cosciente del pensiero, nell’abduzione è essenziale il carattere tempo­ rale-sequenziale del pensiero, inteso come insieme di cognizioni-segni che si determinano l’un l’altro12; e, in più, l’abduzione azzera lo spirito del cartesianesimo nella sua sostanza, perché essa afferma che non si può pensare da soli (perché dobbiamo partire da quello che altri han­ no pensato prima di noi e perché quello che pensiamo avrà valore solo se tutti potranno accettarlo)13. Si tratta di un punto molto rilevante: è qui che il «to guess» (tirare a indovinare) che guida l’incerta inferenza abduttiva può trasformarsi nel «to guess right» (azzeccarci) che fa la fortuna del ricercatore: non si tratta solo di attrezzarsi individual­ mente per fare la scelta giusta, come Conan Doyle fa dire a Sherlock Holmes (lo studioso accorto seleziona accura­ tamente ciò che immagazzina nella soffitta del suo cer­ vello. Ci mette soltanto gli strumenti che possono aiutar­ lo nel lavoro, ma di quelli tiene un vasto assortimento, e si sforza di sistemarli nell’ordine più perfetto14) ma di usare quello che Galilei (e Peirce con lui) chiamava «lume naturale», magari contaminato anche con la sua versione «culturale» (qualcuno, dalle nostre parti, la chiamerebbe appartenenza): quando è necessario «tirare a indovinare» gli uomini si trovano a essere guidati da visioni sistema­ tiche e complessive della realtà, concezioni filosofiche, di cui essi sono più o meno distintamente consapevoli, ma che comunque stabiliscono degli abiti profondi, che de­ terminano gli orientamenti del giudizio. Queste filosofie sintetizzano e organizzano, in base a procedimenti di ge­ neralizzazione, di analogia e di gerarchizzazione, le co­ noscenze e le acquisizioni culturali, sedimentate nel cor­ so dei secoli, provenienti da estesissime pratiche sociali. Perciò non c’è da stupirsi che queste filosofie posseggano (ovviamente in vario grado) una loro forza di verità: tra l’altro la capacità di ispirare ipotesi scientifiche nuove e valide15. Solo così, parola di Pierce, il ragionamento filosofico può smettere di formare una catena che non è più

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forte del suo anello più debole e diventare una fune le cui fibre possono essere intrecciate tra loro16. Per usare un’espressione cara al direttore di questa rivista, «non è chi non veda» quanto questa definizione dell’abduzione possa avere delle risonanze molto forti con le caratteristiche del pensiero progettante, o almeno con molte delle sue formulazioni. Quasi tutte, direi, soprattutto se di questa inferenza si colgono le multiformi potenzialità: aderendo all’ipotesi di Pierce che vede nell’abduzione (la costruzione dell’ipotesi) solo il primo passo dell’inquiry (dell’avventura scientifica) che può poi tranquillamente procedere con logiche più lineari di carattere deduttivo o induttivo. O invece esaltando le sue potenzialità non lineari, ricorsive, analogiche. E ancora avventurandosi sulle strade che Umberto Eco (nel fortunato volume collettivo che accosta al nome di Peirce quello di due famosi eroi della crime story – Holmes e Dupin – sotto il titolo de Il segno dei tre) chiama meta-abduzioni: le inferenze creative che non procedono da fatto a legge ma da fatto a fatto, nella costruzione del «procedimento» (che meglio traduce il senso del metà-odòs – la strada verso il fine, che è percorso da seguire molto più che metodo sistematico). O perfino – dotati dell’anima bipartita del poeta-matematico di cui parla Edgar Allan Poe – costruendo abduttivamente catene associative del pensiero preconscio e analogie metaforiche, con un tipo più alto di raziocinio che non è schiavo delle proprie premesse e si traduce in un’operatività in grado di tagliare i vari livelli di realtà, una rêverie creativa che trascende ragione po­ sitivistica e assunzioni17: qualcosa di molto simile al Play of Musement di cui parla Peirce: ad occhi aperti, attenti a tutto ciò che accade attorno, in aperta conversazione con voi stessi; perché questa è tutta meditazione, o anche il libero gioco del pensiero: un vivace esercizio dei propri poteri, privo di regole eccetto la legge della libertà stes­ sa18. In questa accezione, il procedimento per abduzioni successive somiglia molto al gioco wittgensteiniano in cui si possono fare (e addirittura cambiare) le regole mentre si gioca. Queste morbide catene, o meglio funi, logiche, per


attestare il loro carattere di inferenze conoscitive, per essere accostate all’universo scientifico, devono rispondere a una sola condizione: essere narrativamente tracciabili19 ed essere riconosciute da una comunità scientifico-disciplinare (e, in molti casi, anche da altre comunità, talvolta molto più ampie, a cui potrebbero essere affidate le ulteriori verifiche del prodotto della ricerca … ma qui non conta parlarne, così come non possiamo aprire la riflessione sulla relazione tra il progetto come prodotto scientifico da valutare e tutte le altre forme in cui il progetto si dà, la costruzione in cui si invera, la critica esterna che lo commenta ecc. ecc.). Ho detto in apertura dell’obiettivo assai limitato, e perfino «opportunistico», di questo scritto. Confermo questa intenzione: non mi importa (e non mi sentirei) qui di affermare che qualunque azione progettuale, anche la più radical, anche la più anarchica, potrebbe essere ricondotta a una serie di inferenze abduttive20: voglio solo sottolineare la possibilità e l’opportunità, al mero fine della valutabilità (e, prima ancora, della autovalutabilità) del prodotto/progetto (absit iniuria verbis), di accordarci su qualche forma di «protocollo» (per usare un termine scientifico, ma queste forme possono essere anche moltissime, e comunque andrebbero costruite dal basso) che ci consenta di presentare i nostri progetti, alla nostra comunità scientifica, come prodotti di ricerca in sé (anche indipendentemente dalla pubblicazione su riviste più o meno patinate e dal piazzamento in concorsi internazionali: cose che vanno benissimo, tutt’e due, ma sono dubbia garanzia della qualità di una ricerca progettuale). Piaccia o non piaccia, in ambito universitario, la verifica di questa qualità spetta in prima battuta a una comunità scientifica che riconosca alcuni «paradigmi». Una necessità che è stata messa in evidenza perfino nell’ambito della formazione in campo «artistico»: valga per tutti il proliferante dibattito – sostanzialmente di matrice anglosassone (ma con echi significativi anche in Italia) – sul tema della research by design (e anche on, for, through) che, a partire più o meno dalla metà degli anni Novanta, ha visto tra i suoi protagonisti, per esempio, il londinese Royal College

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of Arts e ha provocato la nascita di un folto numero di riviste e collane editoriali. Comunità scientifica e paradigma

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Come si viene eletti a membri di una particolare co­ munità scientifica? Qual è il processo e quali sono gli sta­ di di associazione al gruppo? Quali sono gli scopi che il gruppo si prefigge collettivamente? Quali deviazioni, in­ dividuali o collettive è disposto a tollerare? E come con­ trolla le aberrazioni inammissibili?21. A lasciare aperte queste domande (nell’ultima pagina del Poscritto aggiunto nel ’69 al suo testo del 1962) non è proprio uno qualsiasi, ma il Thomas S. Kuhn che si è occupato della struttura delle rivoluzioni scientifiche individuando nella nozione di paradigma il loro motore. Nel tentare di sciogliere l’ambiguità del termine (un insieme di credenze condiviso dai membri di una comunità scientifica; e, inversamente, l’elemento che la identifica) rilevata da alcuni dei suoi commentatori, Kuhn introduce il tema della struttura comunitaria della scienza e, per specificare il senso di «quell’insieme di credenze» che aveva chiamato paradigma, parla di matrice disciplinaria: «discipli­ naria» poiché si riferisce al possesso, comune a coloro che sono impegnati nella ricerca, di una particolare di­ sciplina; «matrice» poiché è composta di elementi ordi­ nati di vario genere, ciascuno dei quali esige una ulterio­ re specificazione22. Componenti di questa disciplinaria sono: le generalizzazioni simboliche (espressioni usate senza discussione o dissenso dai membri del gruppo, spesso formulate in forma logica): io ho oggi il sospetto – commenta Kuhn – che tutte le rivoluzioni comportino, tra l’altro, l’abbandono di generalizzazioni la cui forza era stata precedentemente in parte quella delle tautologie; i paradigmi metafisici: se dovessi riscrivere il mio libro, descri­ verei ora tali dogmi condivisi dai membri di una comu­ nità come credenze in particolari modelli, ed amplierei la categoria dei modelli per includervi anche quelli di


genere relativamente euristico; i valori, in cui dovrebbe essere compresa l’utilità sociale e che possono essere condivisi da persone che differiscono tra loro nella loro applicazione: sebbene essi agiscano sempre, la loro importan­ za particolare si manifesta soprattutto allorché i membri di una particolare comunità si trovano di fronte a una crisi, o, più tardi, devono scegliere tra maniere diverse e incompatibili di praticare la loro disciplina; gli esemplari con cui si intendono: le concrete soluzioni di problemi che gli studenti incontrano fin dall’inizio della loro educa­ zione scientifica, ma anche alcune delle soluzioni tecni­ che di problemi presentate nella letteratura periodica. Dovendo scegliere tra quelli elencati, è proprio agli esemplari che Kuhn riconoscerebbe un privilegio: più di qual­ sia­si altro genere di componenti della matrice disciplina­ ria, le differenze tra insiemi di esemplari forniscono la sottile struttura comunitaria della scienza23. Generalizzazioni simboliche, paradigmi metafisici, valori, esemplari: non sarebbe difficile – ma un approfondimento anche parziale richiederebbe uno spazio incompatibile con la dimensione di questo scritto – classificare sotto questa terminologia i paradigmi, anche quelli più «sottili», che ciascuno dei 475 di cui ho accennato all’inizio (e probabilmente tutti quelli che nell’Università si occupano di progettazione architettonica) considerano tipici della propria ricerca progettuale. Il modello «rivoluzionario» di Kuhn prevede che di fronte alla crisi del precedente paradigma e prima che il seguente venga accettato dalla comunità scientifica (applicata fino a quel momento allo sviluppo di quella che definisce scienza normale), ci sia una fase di confronto di punti di vista incommensurabili: lo stesso linguaggio comincia a dire cose differenti ai «due gruppi» che vivono la crisi: co­ loro che fanno esperienza di tali interruzioni di comuni­ cazione devono, tuttavia, potere fare ricorso a qualcosa … per dirla brevemente, quello che possono fare coloro che si trovano coinvolti in una interruzione di comunica­ zione è di riconoscersi l’un l’altro come membri di comu­

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nità linguistiche differenti e di diventare quindi dei tra­ duttori … ciascuno può cercare di scoprire che cosa ve­ drebbe e direbbe l’altro quando si trovi di fronte a uno stimolo al quale la propria risposta verbale sarebbe diffe­ rente … ciascuno avrà imparato a tradurre nel proprio linguaggio la teoria dell’altro e le sue conseguenze e si­ multaneamente a descrivere nel proprio linguaggio il mondo cui si applica quella teoria … la traduzione … è un potente elemento di persuasione e di conversione. Ma non è detto che il tentativo di persuasione debba neces­ sariamente riuscire, e anche se riuscisse, non è detto che sia necessariamente accompagnato o seguito da una conversione24. Qui, apparentemente, è più difficile riconoscersi … a meno che al modello di Kuhn – che ragiona su una netta sequenza temporale: vecchio paradigma/nuovo paradigma e che postula su questa base l’esistenza di due gruppi contrapposti – non si sostituisca quello di Lakatos che legge l’evoluzione scientifica come un processo più complesso e sincronico e anche più articolato … a meno che non si faccia spazio all’idea di una comunità più destrutturata (molto più destrutturata) di quella a cui pensano gli scienziati «duri e puri» … a meno che non si adotti, esplicitamente o implicitamente, una logica convenzionalmente finzionistica nell‘apparentare tra loro cose non identiche e non identi­ tarie. E allora, a proposito di comunità, sentiamo cosa racconta Agamben: all’inizio degli anni settanta si poteva vede­ re nelle sale cinematografiche parigine uno spot pubbli­ citario che reclamizzava una nota marca di collants. Es­ so presentava di fronte un gruppo di ragazze che danza­ vano insieme. Chi ne ha osservato, anche distrattamente, qualche immagine, difficilmente avrà dimenticato la speciale impressione di sincronia e di dissonanza, di con­ fusione e di singolarità, di comunicazione e di estraneità che emanava dai corpi delle danzatrici sorridenti. Quest’impressione riposava su un trucco: ogni ragazza era filmata da sola, e, successivamente, i singoli pezzi ve­


nivano composti insieme sullo sfondo dell’unica colonna sonora. Ma da quel facile trucco, dalla calcolata asimme­ tria nei movimenti delle lunghe gambe guainate nella stessa merce a buon mercato, da un minimo scarto nei gesti, alitava verso gli spettatori una promessa di felicità che concerneva inequivocabilmente il corpo umano25. E sentiamo cosa dice Agamben anche a proposito di apparentamenti: un concetto che sfugge all’antinomia del­ l’universale e del particolare ci è da sempre familiare: è l’esempio. In qualsiasi ambito faccia valere la sua forza, ciò che caratterizza l’esempio è che esso vale per tutti i casi dello stesso genere e, insieme, è incluso fra di essi. Esso è una singolarità tra le altre, che sta però in luogo di ciascuna di esse, vale per tutte … Né particolare, né universale, l’esempio è un oggetto singolare che, per così dire, si dà a vedere come tale, mostra la sua singolarità. Di qui la pregnanza del termine che in greco esprime l’esempio: para-deigma, ciò che si mostra accanto (come il tedesco Bei-spiel, ciò che gioca accanto) … L’essere esemplare è l’essere puramente linguistico … non l’es­ ser-rosso ma l’esser-detto rosso … di qui la sua ambigui­ tà, non appena si decida di prenderlo veramente sul se­ rio. L’esser-detto – la proprietà che fonda tutte le possibi­ li appartenenze – è, infatti, anche ciò che può revocarle tutte radicalmente in questione … Non si tratta né di apatia né di promiscuità o rassegnazione. Queste singo­ larità pure comunicano solo nello spazio vuoto dell’e­ sempio, senza essere legate da alcuna proprietà comune, da alcuna identità … sono gli esemplari della comunità che viene26. Sembra poco, ma lo spazio vuoto occupato da questa comunità fatta di singolarità e nominata come esempio/paradigma è già qualcosa, e la sua labilità potrebbe essere addirittura promettente, viste le derive potenzialmente pericolose della ricerca dell’identità: tra un’idea di uguaglianza astratta e l’erezione di barriere culturali che si presumo­ no insormontabili non c’è il nulla: c’è quella vasta stri­ scia di terra di nessuno che, proprio perché è «di nessu­

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no», consente il dialogo tra gli individui. Invece di esal­ tare le diversità o di condannarle – oppure di tentare, a fin di bene, di renderle tutte uguali – sarebbe forse me­ glio spostarsi tutti, più frequentemente, in questa terra di nessuno, accostandosi gli uni agli altri27. Esser-detti comunità: sembra un obiettivo possibile, alla luce degli elementi richiamati. Cominciare a comporre le danze solitarie dei progettisti/ricercatori non dentro uno spot ma dentro lo spazio dell’Università, attraverso un paziente e continuo esercizio di traduzione (anche se nel nostro caso, considerata la relativa ristrettezza degli spazi «di nessuno» che le posizioni dei singoli individui disegnano, si tratterebbe di considerare la traduzione, come fa Benjamin, un virtuoso esercizio interlineare28…): questo il compito della comunità che potrebbe venire dalla ri-composizione dei compositivi italiani. Una ri-composizione che non neghi ma si fondi sulle differenze (anzi in questo caso, più propriamente sulle différances à la Derrida), individuando dal­ l’interno spazi di tolleranza, di condivisione e di avanzamento, potrebbe essere un modo esemplare di vivere la continua crisi del progetto architettonico postmoderno e dei suoi infiniti mutevoli esempi. Del resto, per dirla ancora con Derrida, gli amici della verità sono senza la verità, ben­ ché non vadano senza verità29. Con qualche sforzo, a partire da questa «comunità debole» si potrebbe provare a rispondere alle domande lasciate aperte da Kuhn … e non è affatto detto che le risposte sarebbero meno convincenti di quelle delle scienze che sono dette «dure».

Chi scrive è stata uno dei tre componenti del GEV (Gruppo Esperti Valutatori) del macro-settore 08D1 Progettazione architettonica e urbana, nominato dall’Anvur per la Valutazione della Qualità della Ricerca 2002/2010: un’esperienza complessa, di estremo interesse non solo documentario, che, applicata ai settori dell’Architettura ha messo in luce con particolare evidenza le proprie, più generali, criticità. Non è di queste che si discuterà in questo scritto: partendo anche dall’esperienza vissuta, mi è sembrato più urgente trattare alcune delle criticità che segnano invece, in modo assai specifico, l’attività di ricerca dei docenti “inquadrati” nei settori della progettazione. 1

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2   La discussione intorno al tema della valutazione, accesa da tempo soprattutto sulla rete, è diventata rovente quando si è passati dalle teorie ai fatti: in parte con accenti ideologi molto radicali (cfr. V. Pinto, Valutare e punire, Cronopio, Napoli 2012) in parte con argomentazioni propositive (cfr. il numero 360, ottobre-dicembre 2013, di «aut aut» dal titolo All’indice. Critica della cultura della valutazione, che contiene esempi dell’uno e dell’altro atteggiamento). Cfr. anche il fortunato volumetto di N. Ordine, L’utilità dell’inutile, Bompiani, Milano 2013, latamente connesso a queste tematiche, nella difesa delle ragioni di una cultura umanistica poco incline alle logiche quantitative della valutazione. 3  Il progetto è stato introdotto tra i prodotti valutabili nell’ambito della VQR: pochissimi sono stati però i progetti presentati alla valutazione dei GEV e molti dei valutatori hanno segnalato difficoltà nella definizione dei parametri di giudizio su quella tipologia di prodotti. 4   È noto che molti di più sono i soggetti che fanno ricerca nelle Università (dottorandi, assegnisti, contrattisti) e molti ancora sono quelli che la fanno fuori dall’Università: la restrizione del campo è funzionale all’identificazione della dimensione certa di una collettività chiamata a svolgere un ruolo di ricerca per mestiere. 5   «Il problema della demarcazione è quindi il problema di trovare i criteri per definire i confini tra ciò che è scienza e ciò che non lo è e tracciare questi confini. Tale quesito, quindi, non si propone di distinguere tra ciò che è “vero” e ciò che è “falso”, ma solo di trovare un criterio per stabilire i confini tra conoscenza scientifica e resto delle conoscenze e delle teorie. Nonostante il dibattito secolare su questo argomento, non si è riusciti a trovare una soluzione univocamente accettata da scienziati ed epistemologi» (Wikipedia, s.v. demarcazione). 6  S. Zingale, Immagini e modelli per l’invenzione, in L’inventiva. Psòmega vent’anni dopo, a cura di M.A. Bonfantini et al., Moretti Honegger, Bergamo 2006, p. 16. 7  E. Fadda, Peirce, Carocci editore, Roma 2013, p. 92. 8  C.S. Peirce, Collected Papers 2.643, cit in E. Fadda, op. cit. 9  G.P. Caprettini, Le orme del pensiero, in U. Eco, T. Sebeok (a cura di), Il segno dei tre. Holmes, Dupin, Peirce (1983), Bompiani, Milano 2004, p. 166. 10   Cfr. S. Okasha, Il primo libro di filosofia della scienza (2002), Einaudi, Torino 2005, pp. 30-35. 11  U. Eco, T. Sebeok (a cura di), op.cit., p. 41. 12  E. Fadda, op.cit., p. 38. 13   Ivi, p. 40. 14  A.C. Doyle, Uno studio in rosso, in Le ultime avventure dell’infallibile Sherlock Holmes, cit. in G.P. Caprettini, op. cit., p. 174. 15  M.A. Bonfantini, G. Proni, To guess or not to guess, in U. Eco, T. Sebeok (a cura di), op. cit., p.155. 16  C.S. Peirce, Collected Papers, 5.265, cit. in E. Fadda, op.cit., p. 32.

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17  N. Harrowitz, Il modello del detective. Charles S. Peirce e Edgar A. Poe, in U. Eco, T. Sebeok (a cura di), op. cit., p. 231. 18  C.S. Peirce, Collected Papers 6.458, cit. in E. Fadda, op.cit., p. 46. 19   Karl Popper costruisce addirittura un mondo per inserirvi gli «oggetti passibili di una discussione critica» staccandoli da quelli prodotti dal pensiero soggettivo: qui vale soprattutto ricordare la sua sottolineatura dell’importanza del passaggio da «un pensiero non linguistico a un pensiero formulato linguisticamente» (cfr. K.R. Popper, I tre mondi (1978), Il Mulino, Bologna 2012). 20  Le interpretazioni più estensive dell’inferenza abduttiva potrebbero essere convincenti perfino per Feyerabend che scrive: «Esistono miti, esistono i dogmi della teologia, esiste la metafisica, e ci sono molti altri modi di costruire una concezione del mondo. È chiaro che uno scambio fecondo fra la scienza e tali concezioni del mondo “non scientifiche” avrà bisogno dell’anarchismo ancora di più di quanto ne ha bisogno la scienza» (P.K. Feyerabend, Contro il metodo (1975), Feltrinelli, Milano 2002, p. 147). 21  T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962 e 1969), Einaudi, Torino 1999, p. 251. 22   Ivi, p. 221. 23   Ivi, pp. 220-226. 24   Ivi, pp. 242-243. A proposito della disponibilità a «farsi persuadere» Kuhn sottolinea quella dei neofiti, «giacché non hanno ancora acquistato gli specifici vocabolari e le specifiche credenze dell’uno o dell’altro gruppo» e le resistenze dell’anziano: costui, «come molti di coloro che hanno conosciuto per la prima volta, ad esempio, la teoria della relatività o la meccanica quantistica quando avevano raggiunto la mezza età, si trova pienamente convinto della nuova concezione ma nondimeno non è in grado di farla intimamente propria e di sentirsi come a casa sua nel mondo che essa ha contribuito a modellare … egli può nondimeno usare la nuova teoria, ma lo farà come uno straniero in un ambiente straniero, una alternativa che gli è possibile soltanto perché vi sono già individui nati in tale ambiente. La sua attività è parassitaria rispetto a quella di costoro, giacché gli manca quella costellazione di insiemi di forme mentali che i futuri membri della comunità acquisiranno mediante l’educazione» (pp. 244-245). 25  G. Agamben, Collants Dim, in La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 41. 26  G. Agamben, Esempio, in La comunità che viene, cit., p. 14. 27  M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004, p. 133. 28   Cit. in G. Steiner, La lezione dei maestri (2003), Garzanti, Milano 2004, p. 10. 29 J. Derrida, Politiche dell’amicizia (1994), Raffaello Cortina editore, Milano 1995, p. 90, cit. in G. Berto, Illuminismo, in «aut aut», n. 327, 2005.

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Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva OLGA SCOTTO DI VETTIMO

La costruzione di un pensiero critico sull’arte oggi, che consideri la coralità disarmonica delle attuali esperienze artistiche e l’esigenza di una diversificazione riflessiva capace di soddisfare percorsi e indagini eterogenei, permette di agire solo su terreni speculativi mobili e caduchi, privi di incisività teorica e, quindi, di fascinazione intellettuale. Ricercando invece tracce più fisse che rifuggano proposizioni nichilistiche del sapere e che oppongano a queste strumenti solidi di indagine, si perviene alla delimitazione di un campo di foucaultiana memoria, da assumere oggi necessariamente come ambito relativo e parziale, ma che impone la presa di responsabilità di un punto di vista imprescindibile non solo per l’affermazione dell’esistenza stessa di quell’ambito riflessivo, ma anche perché la strumentale centralità di quella posizione può consentire inaspettate e nuove ibridazioni di pratiche e di conoscenze. Si intende proporre, pertanto, lo scivolamento consapevole del pensiero nel suo costruirsi da ambito ad ambito, favorendo le pratiche connettive e meticce in cui la forma relazionale dell’arte contemporanea determina la dimensione teorica unificante, avendo già in precedenza e abbondantemente fagocitato la forza concettuale che ha attraversato il magistero novecentesco. Se Duchamp costituisce ancora oggi il sopravvissuto faro dello scorso millennio è perché senza infingimenti pro-

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pone innovative pratiche artistiche che, pur nell’assoluta (ri)affermazione della centralità del soggetto/artista come “egomaniaco”, abbandonano la preoccupazione estetica e si dedicano all’analisi del meccanismo linguistico che soggiace e sostanzia quella procedura. C’è un punto che voglio definire molto chiaramente: la scelta di questi readymade non fu mai dettata da qual­ che diletto estetico. La scelta era fondata su una reazione d’indifferenza visiva, unita a una totale assenza di buo­ no o di cattivo gusto… dunque un’anestesia completa. Una caratteristica importante: la breve frase che scri­ vevo sul readymade. Questa frase non descriveva l’og­ getto come avrebbe potuto fare un titolo, ma era destina­ ta a condurre la mente dello spettatore verso altre regio­ ni più verbali. Talvolta vi aggiungevo un particolare gra­ fico di presentazione; in tal caso, per soddisfare la mia simpatia per le allitterazioni, lo chiamavo ready-made aided (readymade aiutato)1. Così Marcel Duchamp racconta la sua prassi e la sua intenzionalità operativa in occasione di un breve intervento al Museum of Modern Art di New York nel 1961. La sospensione dell’attenzione sull’estetica a favore dell’artistico vuol dire innanzitutto concentrarsi sui procedimenti e sulle modalità, che in Duchamp prevedono una già imprescindibile partecipazione del pubblico per il compimento dell’esercizio linguistico che scatena l’intenzione. Il readymade, che non ha niente di unico e che, anzi, in ogni sua replica trasmette sempre lo stesso messaggio, richiede, in ogni caso, la presenza dello spettatore che stabi­ lisce il contatto dell’opera con il mondo esterno decifran­ do e interpretando le sue profonde qualificazioni e così aggiunge il proprio contributo al processo creativo2. Il ruolo dello spettatore nell’inverarsi di una proposizione linguistica, quale si può considerare il readymade duchampiano, suggerisce imprevisti e inesplorati confronti con i lasciti più evidenti che la pragmatica cognitiva ha ereditato e rielaborato dalle categorie postulate dal filosofo e linguista britannico Herbert Paul Grice, che ha distinto la


frase, intesa come oggetto astratto con le sue proprietà morfosintattiche e fonosemantiche, dall’enunciato, che, all’opposto, è un oggetto concreto, localizzato nello spazio e nel tempo, usato in uno scambio comunicativo effettivo3 e che prevede, quindi, strutturalmente un destinatario ‘cooperativo’. L’enunciato, pertanto, come l’esempio duchampiano, propone una struttura di comunicazione basata su un principio fondamentale, il “Principio di cooperazione”, senza il quale non sarebbe possibile il dispiegarsi sia delle regole sia delle rotture di esse, con le quali si genera la comunicazione reale. Nel processo sono coinvolte e interagiscono dunque proprietà linguistiche e non linguistiche, che si muovono attorno a tre nuclei concettuali: il “Significato come intenzione” che postula, quindi, il messaggio inteso esclusivamente come decodifica e riconoscimento delle intenzioni; le “Massime conversazionali” (cioè le regole di cui sopra), che richiedono che il messaggio soddisfi alcuni standard convenzionali e cioè che sia informativo, sincero, pertinente e chiaro; infine le “Implicature”, che determinano ciò che il messaggio implicitamente veicola, pur non ‘dicendo’ in termini di ‘codice’ esplicito, e che vengono generate proprio dalle violazioni di quelle massime conversazionali che caratterizzano il principio di cooperazione. Sebbene la teoria griceana sia costruita sull’impalcatura della comunicazione verbale, il sistema linguistico del readymade funziona proprio attraverso queste categorie interpretative e nella traslitterazione dei piani comunicazione verbale > comunicazione visiva. Stabilito con Duchamp che l’arte fosse linguaggio riflessivo e che non fosse necessariamente pertinente e coincidente con l’estetica, la disinvoltura rispetto alla contaminazione e l’ibridazione dei generi, all’attraversamento metalinguistico e alla partecipazione del pubblico nel farsi parte del procedimento artistico sono diventati tra le principali linee di una sintassi dell’arte che ancora oggi mantengono efficacia e pertinenza. Probabilmente più ancora dell’arte concettuale, intesa come quell’esperienza che dalla fine degli anni Sessanta

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dello scorso secolo ha scandito una ricerca asciutta, rigorosa, linguistica, antifigurativa e autoreferenziale, lo spaginamento e la decostruzione del pensiero tradizionale sull’arte impostata da Duchamp è stata recepita compiutamente da Fluxus, un campo dalle complesse procedure poetiche e sperimentali, la cui storia ‘ufficiale’ ebbe inizio nel 1961, quando George Maciunas utilizzò per la prima volta questo nome nell’invito per il ciclo di letture Musica Antiqua et Nova tenuto all’A/G Gallery di New York. Molteplici sono stati i tentativi di definire l’esperienza di Fluxus, di per sé non facilmente circoscrivibile nel suo rifiuto di ogni categoria critica tradizionale. Se pensate che le sale per concerti, i teatri e le gallerie d’arte siano i posti naturali dove pre­ sentare musica, performances e oggetti, o se li trovate mummificanti, preferendo strade, case e stazioni ferro­ viarie, o se non trovate utile distinguere tra questi due aspetti del teatro mondiale, c’è qualcosa associata con Fluxus che va d’accordo con voi4, afferma nel 1964 George Brecht, suggerendo, quindi, di procedere per suggestioni e similitudini piuttosto che per rigide griglie classificatorie. La modalità operativa e di pensiero, generata dall’esperienza liberatoria di Fluxus deriva, pertanto, dall’esempio duchampiano, che aveva messo in crisi la banale corrispondenza tra contesto e funzione, tra nome e cose, proponendo un’esperienza altra ed eccentrica, che scardinasse, per poi ricostruirle diversamente, le categorie logico consequenziali e spaziotemporali. Si è qui dinanzi a una scomposizione e a un’apertura dell’idea dell’arte, che si presta a farsi sempre più permeabile a nuovi indirizzi di senso. E questo oggi avviene, si ritiene, con una determinata accelerazione nel campo della prassi artistica mentre si mostra ancora incerta la riflessione filosofica e critica sugli enunciati protocollari primari su cui dovrebbe costruire il proprio discorso teorico. D’altra parte, afferma Dino Formaggio nel 1990, non è compito dell’Estetica dire cos’è o non è arte o poesia o poetica di questo o quell’artista o movimento. Suo compito, invece, è quello di portare avanti una metariflessione generale


sulle riflessioni particolari che in ogni momento sorgono dall’interno delle varie esperienze della sensibilità e dell’arte nel loro divenire: quindi di indagare sul “come” (anziché sull’essere dell’arte) tali complessi piani di esperienza e di primaria riflessione si dispongono, ordi­ nando e subordinando i molteplici campi interni e adia­ centi dell’esperire praxistico5. Questo significa che compito dell’Estetica è tradurre in chiave propria i risultati prodotti nella concezione del mondo da Einstein, alla quantistica, alla “Nuova Al­ leanza” tra natura e scienze fisiche, biologiche e fisiologi­ che (Prigogine), alle matematiche qualitative (che inte­ ressano da vicino l’Estetica) della Teoria delle Catastrofi di René Thom ai “frattali” di Mandelbrot6. Un’Estetica che si vuole scientificamente orientata non può attraversare, dunque, tutti i campi che, di contro, attraversa l’arte contemporanea, la quale, se di frontiera, attinge ai vecchi e nuovi media non solo e non tanto per riprenderne ‘immagini’, ma anche e soprattutto per proporne modalità di funzionamento, mescolando comunicazione ad arte e informazione a linguaggio. Nel 1994 Pierre Lévy pubblica L’intelligence collective. Pour une anthropologie du cyberspace, dedicando un intero capitolo al tema dell’arte e all’architettura del cyberspazio e all’estetica dell’intelligenza collettiva, in cui teorizza un passaggio nodale per comprendere alcune dinamiche del­ l’arte oggi. Poiché il cyberspazio – termine ormai desueto e mutuato dalla fantascienza7 ma che alla metà degli anni Novanta costituiva l’avanguardia linguistica per nominare un nuovo e indefinito universo delle reti digitali – è una zona aperta e permeabile alle interconnessioni, il passaggio dal­ l’opera come sistema chiuso all’opera come dispositivo è la conseguenza inevitabile. Le separazioni tra i messaggi e le “opere”, intesi come microterritori attribuiti ad autori, tendono a cancellarsi. Ogni rappresentazione può diven­ tare oggetto di campionamento, missaggio, riutilizzo ecc. Secondo la pragmatica emergente di creazione e co­ municazione, distribuzioni nomadi di informazioni flut­

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tuano su un immenso piano semiotico deterritorializzato. È dunque naturale che lo sforzo creativo si sposti dai messaggi ai dispositivi, i processi, i linguaggi, le “archi­ tetture” dinamiche, gli ambienti8. Lévy afferma che in questo nuovo spazio che si va prefigurando è possibile sperimentare altre modalità non solo di comunicazione, ma anche di creazione e che, dunque, l’arte non produce opere ma processi che si sviluppano da dinamiche collettive e non più da singoli individui. Quest’arte senza firma, che scaturisce dal collettivo intelligente, agisce in un tempo nuovo che è differito e interrotto e che si esprime attraverso il ritmo dell’immaginazione collettiva che assomiglia a quello di una danza molto lenta in cui i gesti si accordano a poco a poco e, ancora, in cui ciascuno apprende dagli altri a entrare in una sincronia tranquil­ la, lenta e complicata9. L’intelligenza collettiva, spostata dall’ambito sociologico a quello artistico, determina, pertanto, una riflessione sulla tendenza dell’arte contemporanea ad assumere modalità operative proprie delle tecnologie più che le tecnologie stesse, come ricorda Nicolas Bourriaud10 quando afferma che gli effetti della rivoluzione informatica non vanno ricercati negli artisti che utilizzano il computer, perché questi subiscono la tecnologia come strumento ideologico, limitandosi a un uso strumentale e illustrativo di manipolazione di frattali. Diversamente invece chi ne comprende il ‘processo’ di lavoro e lo applica all’arte – e, in particolare, il critico francese pensa alle operazioni compiute da artisti come Rirkrit Tiravanija, Philippe Parreno, Carsten Höller, Henry Bond, Douglas Gordon, Pierre Huyghe – farà funzionare modelli relazionali, proponendo soluzioni diverse e non sovrapponibili all’arte sociale. Le pratiche artistiche contemporanee sono orientate sempre più a un progetto culturale relazionale, indicativo della smaterializzazione dell’oggetto e del mantenimento di una forma altra, ma, soprattutto, di una coincidenza tra la modalità ipertestuale del pensiero dell’uomo e i meccanismi ipertestuali della Rete. Diversamente dalle tecnologie


precedenti il computer è una ‘protesi’, un’estensione fisica e virtuale del cervello umano, su cui la società si sta rimodulando. Il sociologo Derrick de Kerckhove, erede tra i più completi della lezione di Marshall McLuhan, sostituisce oggi all’idea di “intelligenza collettiva” di Lévy quella di “intelligenza connettiva”, riferendosi alle connessioni ipertestuali del pensiero dell’uomo che trovano un corrispettivo nel funzionamento delle Rete. Se trasferiamo questo modello all’arte, come avviene per molte sperimentazioni contemporanee più radicali, le connessioni determinano nuove reti relazionali in cui l’ambito artistico diventa una zona di interconnessioni pluridisciplinari che prevedono contaminazioni, remixaggio e ibridazioni di generi e di ambiti differenti. La dinamica relazionale, presa in prestito dall’ambito sociologico, attende nuove confluenze nell’arte del nuovo millennio, che, intanto, continua a riproporre instancabilmente posticci stilemi che soddisfano impalcature di sistema convenzionali e che reggono sul fittizio della finanza e non più sulla realtà del lavoro e del mercato. Il logos elettronico a cui fa riferimento de Kerckhove appartiene all’epoca attuale, che lo studioso definisce, mutuando il termine da Walter Ong, epoca dell’oralità terzia­ ria, quella dei sistemi multimediali, della realtà virtuale e della Rete che si basa sulla simulazione della sensoriali­ tà, non più sulla sua trasmissione11. In questo flusso di interconnessioni, dove all’antica pratica della citazione a cui l’arte ci aveva abituati si sostituisce la nuova pratica del remix, è possibile costruire una modalità di espressione artistica che riprenda i rigori linguistici e concettuali trasferendoli nell’ambito di un flusso ininterrotto relazionale. Determinante sarà, dunque, la dinamica processuale capace di innescare meccanismi che abbiano, però, una dimensione estetica e poetica in grado di sorreggere l’operazione artistica che sarà pratica di contaminazione, spostandosi spregiudicatamente sempre più avanti in un confine labile in cui ci sarà coincidenza tra arte e comunicazione dell’arte, tra arte e informazione sull’arte, tra arte e pratica e teoria del fare arte.

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Questa modalità, tuttavia, costituisce una proposta di segno diverso anche da quella già teorizzata da Paolo Rosa e Andrea Balzola nel 2011 in occasione della definizione di un manifesto di un’arte post-tecnologica e del ruolo assunto oggi dal cosiddetto artista plurale, produttore di opere artistiche di segno collaborativo, come testimonia la trentennale esperienza di Studio Azzurro, di cui Rosa era l’animatore storico. Qui viene definito l’autore collettivo come l’autore che diventa virtuale, si smaterializza nella rete e in una rizo­ matica mappa di collaborazioni che rivendicano lo sciopero dell’arte, l’anonimato, l’anticopyright, il plagio creativo, come strumenti di piazzamento del mercato dei “beni immateriali e intellettuali”12 e come quel nuovo soggetto che vive il suo presente e partecipa alla sensibi­ lità collettiva che lo circonda, non crea soliloqui o esibi­ zioni narcisistiche ma dialoga con il suo tempo e con il suo spazio13. Diversamente, il profilo tracciato precocemente in ambito sociologico – e che lascia ancora indietro gli storici dell’arte a cui, forse, spetterebbe il compito complesso di sistematizzazione o di rifiuto di queste nuove categorie interpretative per l’artista e per l’arte – è quello di una più avanzata proposta di arte relazionale che prevede nuovi e ancora non del tutto codificati passaggi formativi che consentono al gruppo di trasformarsi in collettivo dotato di un’intelligenza connettiva, per dirla alla de Kerckhove, capace di mettere in connessione idee, sviluppi, modalità, procedure e relazioni appunto. Si tratta, cioè, di costruire un meccanismo che mutui le dinamiche della Rete e che dia ad essa forma fisica all’interno di un flusso dove prassi e teoria costituiscano un unico momento ideativo e procedurale. L’opera, dunque, si sviluppa attraverso gli scambi e le interazioni, producendo errori e conferme di senso estetico e poetico, ma soprattutto determinando la costruzione di quella che può essere definita una scultura antropologica relazionale14, determinata dallo sviluppo del flusso relazionale e partecipativo che rompe i limiti della soggettività in-


dividuale per rifondare pratiche e modalità del fare artistico. Il senso dell’opera, dunque, va rintracciato nel processo innescato dai dispositivi che si attivano, lasciando in disparte questioni che in questo contesto afferiscono ad ambiti di indagine marginali o che appaiono come questioni eccentriche rispetto al tema. Tra tutte, il principio di autorialità dell’opera, non indifferente al sistema dell’arte tradizionale, perché l’assenza della realtà soggettivale forte lo diluisce fino a farlo svaporare in quanto superfluo e insignificante. Inoltre l’elemento residuale di qualsiasi dispositivo estetico così concepito perde la ‘forza’ del relitto, che pure il mercato normalmente assorbe e ricicla, dando importanza al solo plusvalore a cui viene riconosciuto senso: l’arte come dispositivo estetico e poetico partecipativo e relazionale. Tale approccio, che si ritiene come determinante frontiera dell’arte oggi – soprattutto perché tenta di sostituire il concetto di merce con lo scambio e con la relazione – pur mantenendo i caratteri dell’effimero e del caduco, sviluppa inconsueti meccanismi di pensiero nell’indistinzione del rapporto tra uno e molti e modifica il pensiero e, quindi, il vivere sociale. Tuttavia la specificità del singolo non si disperde in un generico anonimato, ma diventa funzionale alla costruzione del sapere pratico e teorico che determina l’operazione artistica stessa. Risulta allora ancora di grande pertinenza quanto scritto da Lévy nel 1994, quando afferma che dovranno essere in­ coraggiati i dispositivi che contribuiscono alla produzio­ ne di un’intelligenza o di un’immaginazione collettiva15 per la creazione di un nuovo ambito di comunicazione di pensiero, in cui però la coscienza rimane individuale. Fuori dalla loro vita e dai loro interessi, lontani dalle loro aree di competenza, separati gli uni dagli altri, gli individui “non hanno niente da dire”. La difficoltà sta nel cattu­ rarli – in senso emozionale come topologico – in un grup­ po, nel coinvolgerli in un’avventura in cui provino piace­ re a immaginare, esplorare, costruire insieme ambiti sen­ sibili. Anche se le tecnologie della diretta e del tempo reale hanno un ruolo in questa impresa, il tempo proprio

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al collettivo immaginante deborda da ogni lato la tempo­ ralità frazionata, accelerata, quasi puntiforme dell’“in­ terattività”16. Mentre questa è la posizione che esprime già dalla metà degli anni Novanta del Novecento la più avveduta e avanzata sociologia, in piena aderenza e comprensione della rivoluzionaria spinta e diffusione del digitale, la critica e la storia dell’arte ancora oggi lasciano il passo ad altre discipline, quasi in una manifesta incapacità (o non volontà?) di decodifica del presente dell’arte nelle sue forme di rottura di precedenti schemi. Pertanto, l’urgenza di una rifondazione di nuove categorie interpretative, per costruire un diverso e aggiornato ambito critico di riflessione anche per la critica d’arte, è dettata da un dislivello sempre più evidente tra le analisi delle scienze sociali o di quelle linguistiche più innovative – come la Relevance Theory –, spesso avanzatissime e foriere di intensi contributi per la comprensione della contemporaneità, e quelle più timorose e claudicanti che riguardano l’ambito artistico contemporaneo, ancora insoddisfacenti nel riconoscere e, quindi, nel nominare, campi di ricerca accelerati che si configurano come laboratori di sperimentazione critica, artistica ed estetica.

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1  M. Duchamp, Scritti, a cura di M. Sanouillet, Abscondita, Milano 2005 (ed. orig. 1975), p. 165. 2   Ivi, p. 163. 3  C. Bianchi, Pragmatica cognitiva. I meccanismi della comunicazione, Editori Laterza, Roma-Bari 2009, p. 10. 4  G. Brecht, George Brecht: qualcosa su Fluxus, maggio 1964, ora in Fluxus nella sua epoca 1958-1978, cat. mostra, a cura di G. Bonomi, B. Grimani, E. Mascelloni, F. Riccardo, Napoli, Casina del Boschetto (Villa Comunale, 5-25 aprile 2000), Parise Adriano editore, Verona 2000, p. 231. 5  D. Formaggio, Problemi di Estetica, Aesthetica edizioni, Palermo 1991, p. 211. 6   Ivi, p. 14. 7   Per la prima volta il termine compare nel romanzo Neuromante di William Gibson del 1984, pubblicato in Italia nel 1986 da Editrice Nord, Milano. 8  P. Lévy, L’intelligenza collettiva, Feltrinelli, Milano 2002 (ed. orig. 1994), pp. 128-129.


Ivi, pp. 131-132.   Cfr. N. Bourriaud, Estetica relazionale, postmediabooks, Milano 2010 (ed. orig. 1998). 11  A. Buffardi, D. de Kerckhove, Il sapere digitale, Liguori Editore, Napoli 2011, p. 41. 12  A. Balzola, P. Rosa, L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica, Feltrinelli, Milano 2011, p. 51. 13   Ivi, p. 47. 14   Avanzate riflessioni in tal senso vengono dalle modalità operative della Scuola di Nuove Tecnologie dell’Arte dell’Accademia di Belle Arti di Napoli che agisce sul tessuto urbano innescando un flusso relazionale attraverso interventi artistici che si attivano solo con l’interazione partecipativa della comunità e che si diffondono anche attraverso la comunicazione, tradizionale e 2.0, e il merchandising. 15  P. Lévy, cit., p. 133. 16   Ivi, p. 131. 9

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Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo MARIA ANTONIETTA SBORDONE, ROSANNA VENEZIANO

Premessa*

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I termini di riferimento su cui si fonda la teoria dei processi istantanei nel design contemporaneo sono da ascriversi al concetto di beni tangibili ed intangibili. In stretta relazione con gli assetti produttivi e con la proprietà intellettuale, svolgono un ruolo centrale nei programmi di sviluppo nord europei, traendo origine dall’evoluzione del concetto di prodotto-servizio e nel sostanziale accreditamento del capitale umano come valore intangibile e insostituibile. Cosicché, nelle economie occidentali si fa strada l’ipotesi che l’innovazione è multidimensionale; ad una sostanziale riferita alle tecnologie, si affianca la knowled­ ge based che contestualizzata diventa social innovation ed includendo la variante tempo si teorizza una combinato­ rial innovation, straordinaria intuizione determinata dalla manipolazione di componenti tangibili e contenuti intangibili digitali in una condivisione in rete. Termini di un excursus teorico che riserva ai processi istantanei un ruolo centrale nella dinamica del design contemporaneo; frutto dell’intermediazione tra l’agire locale e il pensiero interconnesso globale; espressione di modelli progettuali vicini alla natura interattiva dei software open-source che richiedono un comportamento progettuale altrettanto dinamico ed evolutivo.


Beni tangibili ed intangibili Il riconoscimento valso alla categoria dei servizi quali beni immateriali, ovvero beni d’uso, ha favorito la comparazione, in termini economici, ai beni materiali che per loro natura sono beni di scambio. Il processo di accreditamento è stato lento rappresentando un passaggio nodale nelle economie mature occidentali; di fatto, l’economia dei servizi ha sancito un principio fondamentale, secondo il quale i beni sfuggono al possesso per essere fruiti ed usati. La valorizzazione in termini economici ha determinato, infine, gli stessi processi di commercializzazione e distribuzione dei beni materiali; in virtù di ciò e diversamente da come si può immaginare, i ‘servizi’, quindi, non sono beni intangibili. A ciò si aggiunge una condizione nuova che prefigura un avanzamento sostanziale nello statuto dei beni. I servizi, beni immateriali, non appartengono alla categoria dei beni intangibili: infatti, secondo Peter Hill (1999), essi sono definiti da unità produttive o collegati ad esse come i beni materiali, mentre gli intangibili sono originali e poiché non hanno dimensioni fisiche o coordinate spaziali, sono frutto di iniziativa individuale perciò non seguono le stesse regole. La fase riproduttiva dell’originale, sia esso un contenuto narrativo, un software, un prototipo, un brevetto, ecc., destinato alla diffusione pubblica nel sociale, non de-valorizza l’originale anzi ne amplifica l’utilizzo, transitando nei beni comuni (public goods). Gli intangibili giocano un ruolo maggiore nell’economia dell’informazione, rappresentando l’avanzamento delle tecnologie audio-visive, delle comunicazioni e dei software open-source. Infatti, esistendo in rete, sono disponibili gratuitamente per combinarsi liberamente, dipendendo dalla capacità del singolo di creare il proprio spazio di opportunità nel dialogo interattivo ed istantaneo. Si apprende e si trasmette, facendo appello alla capacità del soggetto di realizzare se stesso. Una società che dispiega i suoi saperi è una società ricca e soprattutto riesce, integrando e tessendo nuove conoscenze, a trasformarle in saperi condivisi. Emerge una relazione vitale tra

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l’esperienza del sapere comune e quello individuale che, non essendo assimilato a capitale fisso, determina un nuovo capitale di tipo relazionale, eminentemente intangibile. Secondo A. Gorz, questo succede al di fuori del processo di produzione, perché la natura istantanea impedisce al bene di essere accumulato per diventare di essenza sociale, co­ mune a tutti1. La trasformazione dei consumatori da attivi utilizzatori a pro-attivi Makers, coloro che autoproducono beni e servizi in piena autonomia, dimostra la ferma volontà di produrre in collaborazione e non più in competizione. Combinatorial Innovation

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L’innovazione sociale con tutta la carica di novità e di possibilità, apre ad un tipo di innovazione che Hal Varian definisce combinatorial, ovvero: a set of component te­ chnologies that can be combined and recombined to cre­ ate new innovations, products and services that set off technology booms as innovators work through the possi­ bilities2. Il concetto di innovazione come combinazione o meglio, come cambiamento di combinazioni delle componenti esistenti, si ritrova nel pensiero dell’economista Schumpeter che all’inizio del secolo scorso afferma: non appena i vari tipi di resistenza sociale per qualcosa di nuovo sono stati oltrepassati, è molto più facile non solo fare la stessa cosa ma anche fare cose simili in diverse direzioni, in modo che un primo successo sarà produrre sempre un cluster3. Si tratta di rimettere in moto in termini creativi settori produttivi con l’economia lasciandoli agire in modo diverso al di fuori della pratica corrente: l’innovazione favorisce una nuova combinazione di elementi nella creazione di forme organizzative, nell’apertura di nuovi mercati, nella realizzazione di nuovi strumenti progettuali e produttivi; now what we see is a period where you have Internet compo­ nents, where you have software, protocols, languages, and capabilities to combine these component parts in ways that create totally new innovations4. L’innovazione


in questa accezione è intesa come combinazione di conoscenze diverse, di competenze tra i vari sistemi che grazie alla formazione di networking che definiscono nuovi percorsi, crea aree di contatto inedite tra le varie realtà produttivo-progettuali. Quando gli impulsi o segnali provenienti da altri cluster (nodi) sono compatibili, e superano una determinata soglia di intensità generano innovazione, permettendo al cluster di percepire lo stimolo, non rifiutarlo, ma adattarsi ad esso. Il processo di adattamento e poi di evoluzione delle relazioni tra i cluster di un network, può essere definito come un processo di apprendimento e di accumulazione di conoscenza da trasmettere e diffondere. In questo processo, la variabile tempo ricopre un ruolo fondamentale nello scenario evolutivo del Designscape trattandosi, infatti, di un tempo istantaneo: si produce nell’istante della creazione sia essa una performance sportiva, la produzione di uno spettacolo, il design e la realizzazione di un oggetto o di una strategia. La creazione perisce e si consuma nel momento stesso della sua manifestazione, il processo istantaneo annulla la temporalizzazione delle fasi ma, grazie alle ICT, essa è riprodotta in ogni sua fase e disponibile ad infinite re-interpretazioni. Si tratta di un approccio al progetto di Design che ingloba non solo il singolo artefatto (oggetto, sito web o altro), ma investe il Design del ruolo di ‘design abilitante’ che fa da ponte per incamerare esperienze da diversi contesti di vita e d’uso secondo una logica combinatoria. Il percorso del Design abilitante è fatto dei seguenti step: dall’interfaccia all’interazione; dal prodotto al processo; fino ad arrivare ad oggetti interconnessi, rintracciabili e aggiornabili online che daranno vita all’Internet delle Cose (Internet of Things, IoT). Instant goods Poiché i mercati sono conversazione, gli oggetti con i loro processi raccontano storie con le quali appassionare e creare la propria nicchia di produttore-cliente; secondo Sterling siamo di fronte ad una società sincronica che ge­

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nera miliardi e miliardi di traiettorie catalogabili, inda­ gabili, tracciabili: schemi di progettazione, produzione, distribuzione e riciclaggio che sono conservati in forma estremamente dettagliata. Sono le microstorie delle per­ sone in relazione agli oggetti5. In questa accezione si ritrovano tutti i riferimenti agli instant goods per loro natura imperfetti e modificabili, infinitamente performativi, prodotti da processi instabili frutto dell’innovazione tecnologica, sociale, culturale, che predispone le infrastrutture, affinché ogni cosa si realizzi e si auto-alimenti. Si delinea un sapere simultaneo e discontinuo senza storie rilevanti, un ambiente ricolmo di informazioni che si autoalimentano, grazie alla diffusione di tecnologie connettive si aprono strade inesplorate nello spazio virtuale. L’elaborazione di nuove proposte riflette la vera natura dell’uomo; una natura performativa che si lascia contaminare e che reagisce creativamente alle problematiche dei contesti di vita. L’istantaneità del tempo di ricezione della presunta novità, porta ad un’espansione inattesa delle conoscenze: si moltiplicano le connessioni e la diffusione dei saperi, si esplorano gli strumenti tecnologici dell’autoapprendimento si è proiettati in una a-temporalità, una sorta di acronia che si accentua durante la fase della creazione e della simultanea realizzazione; sembra che la fase della ideazione, se non conseguente, sia almeno sincronica a quella della produzione e distribuzione dei beni online. ICT e modelli collaborativi

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Il sistema complesso di relazioni tra ambiti sociali, progettuali e produttivi interagisce nei processi creativi dell’industrial design. Le competenze dei designer si estendono oggi in settori strategici legati a politiche di sviluppo e richiedono l’integrazione con altri ambiti disciplinari: ciò ha reso possibile la sperimentazione di modelli progettuali collaborativi. Tali modelli sono in grado di fornire visioni avanzate in riposta alle domande di innovazione che vengono espresse direttamente dai consumatori, dal mondo della


produzione e dalla società. Oggi la dimensione sociale del­ l’innovazione, in molti esempi, ha una rilevanza maggiore rispetto a quella più classica legata alle tecnologie, agendo sui comportamenti e sulle scelte che gli individui attuano nel quotidiano. Ciononostante, in assenza del supporto delle tecnologie dell’informazione, non sarebbe possibile fornire soluzioni alla domanda implicita di nuovi prodotti e servizi e dare luogo ad una partecipazione attiva dei consumatori. La tecnologia consente l’uso di strumenti in modo autonomo anticipando visioni e prefigurando nuovi comportamenti; con questi presupposti il design è in grado di umanizzare l’innovazione tecnologica, traducendola in prodotti e servizi socialmente accettabili. Il ruolo del design è, quindi, quello di costruire strategie, prodotti e servizi ma anche di incentivare comportamenti attivi e collaborativi. Il de­ sign ha il compito di tradurre l’innovazione sociale in si­ stemi abilitanti: soluzioni tecnologiche e organizzative appositamente concepite per sostenerla, consolidarla nel tempo, renderla più accessibile e replicabile6. I sistemi abilitanti sono la rappresentazione di forme innovative di organizzazione sociale che agiscono attraverso servizi collaborativi a cui partecipano, con diversi gradi di coinvolgimento, gli utilizzatori finali. L’accesso diffuso alle tecnologie ICT e l’impatto sui sistemi comunicativi-relazionali consolida queste forme di aggregazione sociale, basate sull’alta connettività e sulla condivisione. Il modello collaborativo è espressione di un’“architettura relazio­ na­ le”7, globale e paritaria, in grado di favorire le interazioni tra individui e di arricchire il patrimonio di esperienze e di conoscenza con la condivisione in rete dei risultati. Si tratta di una trasformazione radicale delle dinamiche relazionali che determina ricadute sociali e produttive di grande rilevanza; da un lato la diffusione di forme di organizzazione autonome e spontanee per la risoluzione di problemi del quotidiano, dall’altro processi progettuali condivisi che si propagano orizzontalmente in rete. Nella società della conoscenza l’innovazione dei modelli collaborativi è sostenuta da flussi continui di informazio-

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ni, da organizzazioni in grado di veicolare il sapere sociale attraverso software Open Source e pratiche Peer to Peer8. La configurazione reticolare del modello organizzativo è basata sul valore delle risorse complessive ed è unificatrice delle abilità individuali, consentendo alle comunità di sperimentare forme di apprendimento ampliando l’intelligenza globale, connettiva; una forma di estensione del­l’intelligenza e della memoria privata ma fatta collettiva9. Analogamente alla struttura della rete digitale, i sistemi distribuiti diffondono localmente e globalmente l’innovazione, la creatività, la conoscenza con conseguente impatto sui comportamenti collettivi. Secondo Ezio Manzini, questi rappresentano modelli innovativi di sviluppo tipici della società sostenibile, l’infrastruttura della “multi local society”, nella quale vengono sviluppate, dalle comunità locali, nuove idee e condivise ad una scala più ampia attraverso i network. Innovazione e creatività sociale

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La diffusione del fenomeno della social innovation è veicolato dalle communità creative e testimonia la transizione da un’economia fondata sulla produzione di beni di consumo, scollegati dai luoghi e dalle comunità, ad una nuova economia (prevalentemente) orientata al servizio e connessa al territorio e alle sue reti sociali10. Il binomio comunità e design, è oggi strutturato e diffuso e sperimenta strategie, sistemi e servizi che si sviluppano a partire da esigenze di gruppi di individui che partecipano al processo creativo come attori evoluti. Le esperienze creative si diffondono e coinvolgono risorse, spazi, prodotti e servizi, che rinnovano la relazioni tra produttori e consumatori, che valorizzano il tempo come risorsa, che consolidano il concetto di bene come entità complessa a favore della collettività. Si assiste quindi alla progettazione di soluzioni come il carsharing, il co-housing, i producer markets, co-working, servizi per soddisfare esigenze specifiche e dare risposta alla domanda di innovazione che nasce “dal basso” e che si sviluppa attraverso il social networking. Le potenziali doman-


de di innovazione sociale trovano risposte in servizi e forme di organizzazione attraverso cui promuovere nuove dinamiche di cambiamento; il progetto di design agisce come collettore per diffondere una società equa, etica e sostenibile. I valori su cui si fonda l’azione progettuale si orientano sulla comprensione e previsione di nuovi comportamenti che si concretizzano nel quotidiano e in progetti innovativi a cui partecipano le comunità nella loro interezza. Il fenomeno sociale delle creative communities11 prevede un iter creativo che parte dall’analisi di un bisogno e individua soluzioni progettuali alternative che si basano su nuovi comportamenti. I progetti promuovono la semplificazione delle azioni quotidiane utilizzando competenze e infrastrutture esistenti presso le comunità di vicinato, e combinano tra loro diverse forme di economie come il mercato, il baratto e il dono.

*  La Premessa e i paragrafi: Beni tangibili ed intangibili, Combinatorial Innovation, Instant goods, sono stati redatti da M.A. Sbordone. I paragrafi: ICT e modelli collaborativi, Innovazione e creatività sociale, sono stati redatti da R. Veneziano. 1  A. Gorz, Métamorphose du travail, Editions Galilée, Parigi 1988. 2  H.R. Varian, Computer Mediated Transactions, Guglielmo Marconi Lecture, Lisbon Council 2009. 3  J. Schumpeter, The Theory of Economic Development, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1934. 4  H. Varian, op. cit. 5  B. Sterling, Spime Watch: The Internet of Things, a Window to Our Future, Wired Online, Beyond the Beyond, 2011. 6  E. Manzini, Prefazione in C. Vezzoli, R. Veneziano, (a cura di), Pratiche sostenibili itinerari del design e della ricerca italiana, Alinea, Firenze 2009. 7  M. Menichinelli, F. Valsecchi, Le comunità del Free Software come organizzazioni complesse. Il ruolo del design verso una cultura Open Knowledge in Free Software, Italian Conference, Cosenza, 11-12-13 May 2007. ­http://www.confsl.org/ 2007. 8  G. Mulgan, T. Steinberg, O. Salem, Wide Open: Open Source Methods and their Future Potential, Demos, 2005. 9   H. De Kerckhove, L’intelligenza connettiva. L’avvento della Web Society, De Laurentis, Roma 1997. 10  E. Manzini, op. cit. 11  A. Meroni (a cura di), Creative communities, people inventing sustainable ways of living, Edizioni Poli.Design, Milano 2007.

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Libri, riviste e mostre

C. Alessi, Dopo gli anni Zero. Il nuovo design italiano, Editori Laterza, Roma Bari 2014.

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Il testo di Chiara Alessi si inserisce all’interno di una vasta casistica che, nel tempo, ha tentato di analizzare la fenomenologia, per molti versi imprevedibile e sorprendente, del design italiano. Ma, nello stesso tempo, si discosta per alcune sostanziali differenze da tutti i tentativi precedenti. Innanzitutto, ov­viamente, per il riferimento temporale. Il design italiano, come fa presente la stessa autrice, non è un fenomeno omogeneo, ma presenta almeno tre fasi, radicalmente differenti per modi e risultati. La prima, sino agli anni Settanta, è quella dell’Age d’Or, in cui il designer rappresentava una figura pioneristica ed elitaria che si identificava prevalentemente con quella dell’architetto. Nel ventennio successivo si affermarono i primi designer per vocazione che, allentati i legami con l’architettura, rappresentarono una delle figure simbolo del glamour mediatico degli anni Ottanta e Novanta.

L’epoca attuale, infine, è quella che, per utilizzare le parole di Andrea Branzi dal catalogo della mostra The New Italian Design del 2007, vede il design come il fenomeno di massa tipico del XXI secolo. La maggior parte della letteratura sul design italiano si concentra sul periodo del successo planetario di questa storia, identificandolo con le figure mitologiche dei maestri o delle icone di prodotto, attraverso le quali spiegare una vicenda che ha assunto il piglio di un’avventura, una delle poche epopee positive dell’Italia contemporanea. Dopo gli anni Zero interviene ad alcuni decenni dalla conclusione della stagione dell’egemonia del design italiano, in un momento, però, in cui sembra finalmente affacciarsi un nuovo senso di appartenenza legato ad una dimensione generazionale. L’autrice ha infatti deciso di concentrarsi solo su chi, dal Duemila circa in poi, ha deciso di avvicinarsi alla professione di designer, cioè quella massa finora abbastanza indi­ stinta ma rumorosa che da qualche tempo si affaccia alla


realtà del progetto, sgomitando per affermare la propria presen­ za in un sistema già consolidato, occupando interstizi vacanti e aprendone di nuovi. La storia raccontata da Alessi coglie proprio quella parte della stratificazione del design italiano contemporaneo, generazionale ed emergente, mostrando come si tratti di un fenomeno sostanzialmente nuovo e diverso dai precedenti nella diffusione, nella natura intrinseca e negli obiettivi. L’autrice racconta questa vicenda dal di dentro. Non solo come esponente di quella generazione, ma anche per altre circostanze. Chiara Alessi è parte di una delle famiglie di imprenditori che hanno fatto la storia del design italiano, scrive su riviste come Domus e Interni, ha un proprio blog di design, divide la sua vita tra Milano e Cape Town. Insomma possiamo immaginarla come una perfetta rappresentante di quel mondo che intende raccontare e non solo come una sua interprete. Questo connotato spiega alcune delle più apprezzabili specificità di questo libro. Il realismo innanzitutto. In un momento in cui il design sembra aver intrapreso una inarrestabile deriva verso una generalizzazione che lo porta ad essere genericamente affiancato a tutto ciò che ha una vaga affinità con un altro termine ampiamente abusato che è la creatività, il testo riporta l’attenzione sulla produzione, sul mestiere e sulle sue regole economiche, sui modi della progettazione cercando di porre un argine a quella nuvola di aria fritta che sembra avvolgere, sino a soffocarlo, il design come disciplina specifica e strutturata. Il testo cerca di indagare que-

sta fenomenologia di massa, individuando innanzitutto delle categorie aggregative, che permettano la comprensione di cosa sia il design italiano contemporaneo. Una delle più evidenti è la cosiddetta autoproduzione, che nelle sue modalità operative è la forma più evidente di una nuova figura di designer, rapido a reagire alle opportunità e a ritirarsi riducendo i danni di fronte alle difficoltà, molto più vicino all’idea di un free lance che a quella di un professionista consolidato. Questa figura, agile e instabile, muove i primi passi, non più in uno studio professionale tradizionale, primo indizio di una carriera codificata entro modelli precedenti, quanto in piccoli laboratori officina in cui la costruzione del proprio modo di operare risulta essere il primo atto inventivo su cui impegnarsi. Garage domestici in cui esercitare un’attività, molto spesso priva di un committente, che per buona parte è rivolta al tentativo di tradurre in un prodotto concreto un’inventiva progettuale che viene applicata, in primo luogo, a se stessi ed alla generazione di forme nuove di lavoro. Questo testo cerca, in primo luogo, di interpretare i modi in cui, in un sistema in crisi profonda, come quello italiano, i designer, cercano di trovare una via d’uscita, adattandosi a quello che è un dato sostanziale delle giovani generazioni italiane che è la precarietà. L’attività di queste nuove figure avviene all’interno di una singolare modalità di socializzazione della professione, attraverso realtà organizzative di pochi numeri, piccoli studi tendenzialmente individualizzati. Ma questi piccoli nuclei convivo-

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no tra di loro formando un esteso sistema comunitario che amplifica le potenzialità di ciascuno, attraverso una rete mobile di competenze che possono facilmente aggregarsi, per poi nuovamente sciogliersi, in funzione delle necessità derivanti dalle richieste della committenza. Il sistema di relazioni in cui il singolo designer è inserito, l’appartenenza ad un circuito comunitario, costituisce quindi la premessa indispensabile per guadagnare qualità competitiva nel lavoro progettuale, ma è anche un evidente segnale di precarizzazione del lavoro di designer, basato spesso su incerte occasioni di lavoro che difficilmente forniscono continuità e stabilità. Come si evince da dati elaborati dalla stessa autrice sulla base di un questionario inviato a cento studi di design italiani le cifre raccontano, quantitativamente, la stessa situazione descritta in precedenza, stavolta con la forza dei numeri. Per gli studi aperti dopo il 2008 la media dei componenti è inferiore a 3 e la superficie media è di 40 mq., pur avendo nel 28% dei casi un proprio laboratorio modelli, con un fatturato che nel 2012 per il 72% è tra i 20 e i 50.000 euro e solo per il 6% tra i 150 e i 250.000. La stragrande maggioranza dei progettisti investe sul proprio lavoro (affitto dello studio, approntamento materiali, collaboratori, prototipi ecc.) da metà a tutto il fatturato al netto delle tasse. Come afferma la Alessi: la progettazione del sé professio­ nale, della ricerca dello spazio, dell’apertura di un proprio sito internet, dell’offrirsi al mercato, è già di per se impegnativa. Dei numerosi studi che stagional­

mente tentano quest’impresa quelli che superano il primo an­ no di vita sono una percentuale minima… Far sentire la propria voce nel brusio generale del nuovo è il primo mestiere che un designer deve imparare… Ma in molti non ce la fanno, vengono riassorbiti da altre re­ altà e se ne perde traccia. Altro elemento di differenza con il passato, anche di quello più recente, è la forma e l’importanza della comunicazione. Attraverso gli strumenti diretti offerti dalla rete, il designer si fa narratore di se stesso e del proprio lavoro, senza intermediari critici. Il progetto stesso, attraverso la sua capacità di comunicazione virtuale, raggiunge una dimensione autonoma da quella dell’esistenza reale del prodotto. Come afferma la Alessi si sta imponendo all’at­ tenzione mediatica una miriade di progettisti la cui professione inizia e finisce nella comunica­ zione virtuale. Il prezzo da pa­ gare per questo momento di ce­ lebrità virtuale è la breve durata (il tempo di rigenerazione dei contenuti da parte dei blog di settore è in media un paio di giorni), oltre al fatto che il valo­ re del prodotto non è apprezza­ bile, monetizzabile, e si espone perciò a un mercato che non viaggia parallelamente a quello reale, ma oscilla con i ritmi di compravendita di visite o like. La modalità attraverso cui si esprimeva la tradizionale fenomenologia del design, che come sintetizzava De Fusco nella sua Storia del design assume la configurazione circolare di un “quadrifoglio”, attraverso la sequenza di progetto - produzione - vendita consumo, si è trasformata in un


percorso diretto, di natura lineare, in cui i designer, senza alcuna mediazione, si confrontano direttamente con i produttori o con il proprio pubblico di consumatori. Il fenomeno delle stampanti 3D che rappresenta la prossima prospettiva con cui si dovrà misurare il design, accelera quel processo di peer to peer production letteralmente produzione tra pari, per cui non esistono più gerarchie: produttore e consumatore sono di volta in volta intercambiabili. Ma le stesse modalità attraverso cui si esprime il modo di operare dei giovani designer italiani, anche nelle forme più legate al processo produttivo tradizionale, sono radicalmente cambiate. Il testo tenta di dare conto dell’attività di figure ormai affermate come Giulio Iacchetti, Matteo Ragni, Gabriele Pezzini, Paolo Ulian, Lo­ renzo Damiani in cui l’aspetto più interessante è la varietà degli interlocutori con cui si confrontano – istituzioni pubbliche e private, scuole e aziende – e il fatto che il prodotto inteso tradizionalmente rappresenti una percentuale relativa rispetto a tutti gli ambiti in cui la propria professione trova applicazione. Si tratta di designer spesso ricordati più per le iniziative speciali che sono stati in grado di aggregare o per le riflessioni teoriche che hanno prodotto, che per la progettazione industriale in senso stretto. Progettisti di iniziative strategiche, in cui confluiscono piccole aggregazioni temporanee di designer che si sciolgono una volta conclusa l’operazione produttiva a cui sono chiamati a partecipare. Per richiamare quella che forse resta la più nota: Design alla Coop nel 2005 in cui Giulio Iacchet-

ti chiama a confrontarsi una serie di designer della medesima generazione intorno al tema di un prodotto di massa ed a basso costo da inserire all’interno dei circuiti della Grande Distribuzione. Operazioni, appunto, finalizzate a creare prodotti concreti, ma soprattutto riflessioni potenzialmen­ te capaci di indicare una modalità di progetto in cui la strategia collettiva risulta prevalente rispetto alla visibilità individuale. Alla fine della lettura del testo resta, fondamentalmente, un dubbio: se cioè abbia ancora un senso, in un mondo così indissolubilmente integrato, tentare di fornire una spiegazione dei fenomeni riportandoli a sistemi nazionali, o se invece, pur cambiando i nomi ed i luoghi, i comportamenti del design contemporaneo siano sostanzialmente indifferenti ai confini, configurandosi con modalità analoghe e sostanzialmente apolidi. Ma qui forse il punto di vista generazionale utilizzato dalla A­lessi resta l’unica chiave utilizzabile come strumento di differenza, non più nello spazio, ma nel tempo. A. M. E.R. Rispoli, Ponti sull’Atlantico. L’Institute for Architecture and Urban Studies e le relazioni Italia-America (19671985), coll. “Città e paesaggio”, Quod­libet Studio, Macerata 2012. Il saggio, fondato su personaggi ed eventi appartenenti a un tempo relativamente remoto, va inteso nella chiave della nostalgia e nel conseguente confronto pole-

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mico con ciò che si è prodotto nei tempi più recenti. I «ponti» che Ernesto Ramon Rispoli costruisce attraverso la sua ricerca mettono in relazione le due sponde dell’oceano rappresentate dall’Institute for Architecture and Urban Studies di New York e dall’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, due grandi laboratori di idee che negli anni Sessanta e Settanta hanno contribuito sensibilmente al dibattito architettonico, misurandosi con l’eredità del razionalismo e della Tradizione del nuovo. Il racconto di questo importante capitolo della riflessione disciplinare si struttura nell’intreccio di tante storie, i cui protagonisti si muovono come pezzi di una scacchiera, sulla quale si svolge un “gioco” – fatto di molti “gio­ chi” – le cui singole mosse apro­ no molteplici sviluppi. Il confronto tra le diversi voci che hanno animato il dibattito sull’architettura costituisce la chiave del­ l’intera narrazione, non solo in funzione della natura dialogica del tema, ma anche perché rappresenta la struttura portante di una riflessione a più voci, intesa a ricavare dalle posizioni dell’altro la conferma delle proprie visioni. Come nota opportunamente Fulvio Irace nella Prefazione, l’autore riunisce il racconto delle singole posizioni – tra le quali si stagliano quelle di Rossi, Tafuri e Eisenman – e delle produzioni (libri, riviste, mostre, convegni) che ne documentano le idee, co­ me parti di una rappresentazio­ ne dialettica, di un campo ma­ gnetico dove ogni posizione è costretta a misurarsi (e ad esse­ re condizionata) dalla presenza delle altre. In questa prospettiva,

la critica di architettura assume un ruolo decisivo nel delineare un metodo di ricerca e di prassi architettonica, poiché ritenuta capace di autenticare scelte e valori. Nel raccontare questa storia, Rispoli adotta una puntuale collocazione nello spazio – l’ultimo piano di un edificio al centro di Manhattan, sede dell’IAUS – e nel tempo: il giorno 31 luglio 1976. In questa data, alla Biennale di Venezia si inaugura la mostra Europa/America. Centro storico-suburbio, organizzata da Vittorio Gregotti: il doppio dualismo evocato nel titolo dell’evento richiama le due «aree preferenziali di espressione» entro le quali sono invitate a confrontarsi la cultura architettonica europea, selezionata da Gregotti stesso – Ay­ monino, Rossi, De Carlo, Stirling, Ungers, van Eyck, Siza e molti altri – e quella americana, rappresentata da giovani architetti appartenenti a diverse linee di tendenza e scelti da Eisenman, tra i quali Hejduk, Meier, Pelli, Stern, il gruppo Venturi, Rauch, Scott Brown. Per l’occasione gli architetti italiani espongono progetti già elaborati in precedenza, che inseriscono i loro autori, a seconda della riflessione condotta, all’interno delle diverse concezioni architettoniche; quelli americani, su invito di Eisenman, hanno il compito di produrre ex novo un «prototipo suburbano», in risposta al problema di definire un nuovo modo di leggere e concepire la città: lungo questa linea di ricerca, i diversi progetti confermano la presenza delle due tendenze tra loro antitetiche attive in America, lo storicismo postmoderno dei Greys e il purismo razionalista dei Whites. La mo-


stra e il successivo dibattito, al quale partecipano tutti gli architetti invitati all’esposizione, costituiscono, quindi, l’occasione idea­le per analizzare e mettere in evidenza i molteplici orizzonti teorici che si stavano sviluppando in quegli anni. L’evento venezia­ no rappresenta infatti in qual­ che modo il “palinsesto” in cui si sovrappongono alcune tra le principali trame della riflessio­ ne teorica disciplinare di quegli anni e in cui proprio il loro con­ tributo assume una rilevanza fondamentale: lo studio, secondo una prospettiva antifunzionalista, delle città di nuova fondazione che, a partire dagli anni Sessanta, nascono in ambito sia europeo che americano; la posizione della critica dell’ideologia, che – anche contro il positivismo a oltranza del Team X – mette a nudo l’indissolubile legame del­ l’architettura e del progetto del­ la città con processi strutturali di carattere economico e politi­ co; l’applicazione di un approccio semiologico alla disciplina architettonica intesa come linguaggio, a fronte del quale riemerge all’interno del dibattito sull’architettura il tema del significato dell’oggetto architettonico e la discussione sul primato degli aspetti sintattici o semantici; l’emergere di un nuovo orizzonte post-fun­ zionalista e post-strutturalista, che mette in discussione la pro­ spettiva antropocentrica e de­ stabilizza le idee di origine e di unitarietà del significato a van­ taggio di un ininterrotto e fram­ mentario lavoro sui suoi testi. Il racconto della storia del­ l’IAUS, nato ufficialmente nel­ l’autunno del 1967, segue l’analisi dei grandi temi messi in evi-

denza dalla Biennale di Venezia. È nell’ambito di quelle stesse riflessioni, infatti, che Eisenman, Rowe, e più tardi Anderson e Schumacher, si riuniscono a formare l’Institute, che, soprattutto nei primi anni, si configura come una sorta di atelier, con docenti, ricercatori e studenti impegnati a elaborare insieme una serie di progetti urbani commissionati da una serie di enti governativi operanti a vari livelli […]: un’e­ sperienza di formazione “sul campo” del tutto estranea alle accademie tradizionali, sia per l’estrema concretezza dei temi affrontati – che rispecchiano questioni urbane di grande at­ tualità e urgenza – sia per la struttura non gerarchica dell’or­ ganizzazione del lavoro. Al centro della riflessione si colloca un rinnovato interesse nei riguardi della città storica intesa come artefatto collettivo, che si discosta dalle concezioni funzionaliste e antistoriche del moderno: in ambito americano, possono considerarsi suoi ‘antefatti teorici’ gli scritti The image of the City di Kevin Lynch e The Death and Life of Great American Cities di Jane Jacobs, che, con approcci diversi, mettono in discussione i principi dell’urbanistica razionalista in favore di una lettura più complessa della città come sintesi di tanti elementi eterogenei, la cui compresenza ne costituisce la struttura vitale. Nel solco di questi orientamenti si inscrive la prospettiva dell’IAUS, che dimostra un analogo atteggiamento nella revisione radicale delle posizioni funzionaliste adottate dal movimento moderno e nell’importanza attribuita al ruolo della forma materiale nella costruzione del­

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l’ambiente attraverso la rivalutazione della specificità dell’architettura in quanto disciplina autonoma. Nel contesto delle politiche di Welfare Reform avviate da Nixon nel 1969 come soluzione alla generale “crisi delle città”, di cui New York era l’esempio più evidente, l’IAUS elabora le prime riflessioni analitiche su casi studio concreti in ambito urbano, sfruttando gli incarichi che vengono commissionati all’istituzione da numerosi enti pubblici, tra cui, a livello rispettivamente locale e statale, la New York City Planning Commission e la Urban Development Corporation (U.D.C.), e l’U. S. Department of Housing and Urban Development a livello federale. Con il progetto di edilizia residenziale Low-Rise-HighDensity, elaborato congiuntamente con l’U.D.C., l’Istituto ha l’occasione di tradurre le idee sulla morfologia urbana in modalità concrete di intervento: in questo ambito, concepisce un prototipo di alloggio urbano ad alta densità abitativa alternativo al modello dell’edilizia residenziale in altezza, che sarà concretamente applicato a Brooklyn e Staten Island, ottenendo una grande fortuna critica. Con l’aggravarsi della crisi economica e la conseguente riduzione delle quote di bilancio destinate al settore delle abitazioni, l’Institute si trova costretto a ridurre il programma di Research and Development, per impegnarsi con ancora più slancio nell’ambito del dibattito architettonico e della diffusione delle idee. L’IAUS si riconfigura, così, in una sorta di “dispositivo mediatico”: dal programma di conferenze Open

Plan all’organizzazione di mo­ stre e all’impegno editoriale, la sua linea è ora tesa prevalente­ mente a occupare il centro della discussione disciplinare, di cui diventa, a tutti gli effetti, luogo privilegiato sulla scena newyor­ kese e più in generale ameri­ cana. Nell’ambito dei Public Programs, la rivista «Oppositions» nasce nel settembre del 1973 con l’obiettivo di stimolare il dibattito sui temi dell’architettura e di ricercare un metodo, una base ra­ zionale per le scelte di progetta­ zione e pianificazione. Tra i direttori-fondatori della rivista figurano Eisenman, Frampton e Gandelsonas: la distanza delle loro reciproche posizioni è la prima testimonianza della natura della rivista, che si fonda appunto sul concetto di opposizione, individuato nella non convergenza delle concezioni degli autori che scrivono nelle sue pagine. Un altro tema forte della rivista è rappresentato dall’interesse nei confronti della storia e della teoria, strumenti attraverso i quali è possibile promuovere un’interpretazione della disciplina architettonica come pratica culturale: assume quindi un rilievo centrale il contributo degli storici della Scuola di Venezia, tra cui Tafuri, Dal Co, Ciucci e Cacciari. In questa esperienza, si collocano alcuni incontri transoceanici, in cui diverse figure di spicco della scena architettonica italiana as­ sumono un ruolo di importanza primaria, pari a quella che l’In­ stitute gioca, dal canto suo, nell’introdurre al pubblico ame­ ricano uno sguardo che assegna alla riflessione teorica, storica e critica una diversa centralità:


l’Italia diventa interlocutore pri­vilegiato per una rivalutazio­ ne dell’architettura nel suo spe­ cifico disciplinare. L’autore opera una ricostruzione lucida e puntuale delle figure che hanno operato sulla scena internazionale in quegli anni, e degli scambi reciproci che in alcuni momenti hanno assunto il rilievo di nuove e autentiche interpretazioni: ne emerge una mappa di eventi e di relazioni, che permette di orientarsi in questo denso e importante processo, documentato anche attraverso il recupero di scritti inediti, testimonianze significative di progetti e piani editoriali non più portati a termine. Il libro documenta in questi termini una stagione ricca e produttiva, segnata dalla interazione di persone e progetti, che assume ai nostri occhi contorni più netti attraverso il confronto con l’oggi, dominato da una visione personalista del fare architettonico, causa o sintomo della crisi in cui versa il dibattito sull’architettura contemporanea. V. P. J. Pallasmaa, La mano che pensa, Safarà Editore, Pordenone 2014. L’architetto finlandese Juhani Pallasmaa intraprende in questo testo un interessante cammino nel mondo della conoscenza e del fare, non solo artistico. Il saggio, parte di una trilogia imperniata sul­ l’indagine circa l’essenza dei processi autentici che stanno alla base dell’attività creativa e di quella esecutiva, si articola in un percorso disciplinare ampio e va-

rio: dall’estetica all’antropologia, dall’architettura all’artigianato, attraverso una profonda riflessione sull’eterno dualismo corpomente. L’espressione “la mano che pensa” comunica subito la dimensione in cui è condotta l’analisi ed introduce chiaramente gli intenti speculativi che sono illustrati già nelle prime pagine, dove l’autore, fornendo un quadro esplicativo dei presupposti dell’intero testo, parla del valore di un’esistenza incarnata e di un pensiero sensi­ bile. Egli sintetizza in questa espressione volutamente sinestetica, il fulcro appunto della sua trattazione, l’importanza cioè di una fusione di campi tradizionalmente considerati opposti ed appartenenti a dimensioni percepite come disgiunte dell’essere umani, ma invece assolutamente complementari ed ugualmente complesse. La cultura consumistica occidentale continua a proporre un punto di vista dualistico sul corpo umano. Da una parte esi­ ste un culto del corpo ossessiva­ mente estetizzato ed erotizzato, mentre dall’altra l’intelligenza e la capacità creativa vengono ugualmente celebrate, ma come del tutto distinte […]. In en­ trambi i casi il corpo e la mente sono concepiti come entità di­ sgiunte che non formano un’u­ nità integrata. All’opposto, l’autore, evocando soprattutto l’immagine della mano, considerata qui come la massima espressione della dimensione del fare, sostiene l’esistenza di una complessa realtà legata al corpo, capace di una coscienza specifica. La struttura del testo è articolata infatti in capitoli nei quali questo organo sensibile viene osser-

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vato in relazione al corpo stesso, al lavoro, agli altri organi sensibili con i quali costituisce il sistema delle capacità sensoriali, all’uso di strumenti, al pensiero, alla mente e all’immaginazione, fino al rapporto tra teoria e fare nella vita, quasi ad immergersi gradualmente nel mare magnum dei processi creativi che stanno alla base di tutte le attività umane, e nella fattispecie di quelle concernenti l’arte e l’architettura. Il corpo qui assume quindi il senso di un’entità dotata di una sua saggezza, diversa dai processi intellettuali della mente; esso è in grado di immagazzinare ricordi, basti pensare al concetto di memoria muscolare nota soprattutto in ambito medico e sportivo; esso rappresenta il tramite principale di interazione con il mondo esterno: l’incarnazione non è un’e­ sperienza secondaria; l’esisten­ za umana è, fondamentalmen­ te, una condizione incarnata, conferma l’autore. A tal proposito è estremamente interessante la concezione quasi fisica dell’arte e dell’architettura che egli suggerisce parlando proprio del rilievo che assume, nel processo di apprendimento, il trasferimento del­ l’abilità attraverso l’osservazione diretta della gestualità, rispetto all’insegnamento verbale, riproponendo qui sicuramente un forte rimando alla cultura del passato e alla tradizione di certi mestieri. Leggiamo infatti, in un passo relativo al ruolo dell’architetto, che i problemi di architettura sono di gran lunga troppo complessi e profondamente esistenziali per essere affrontati in modo meramente concettualizzato e razionale. In architettura, idee profonde e risposte significative

non sono neppure invenzioni in­ dividuali ex-nihilo; esse sono radicate nell’essenza del lavoro stesso e delle vecchie tradizioni del mestiere. Nell’esplicitazione del concetto di esistenza umana incarnata, è evidente l’intento di unire la figura dell’architetto e il processo progettuale alla figura dell’artista, sottolineando come attraverso un’abilità fisica entrambi riescano a dar forma ad un’idea, ossia a materializzare ciò che nella mente viene concepito solo in forma embrionale, ribadendo che la crea­tività e l’immaginazione non sono peculiarità della mente ma coinvolgono l’intera dimensione corporea dell’individuo, in sostanza possedendo il corpo, fan­ tasie, desideri e sogni propri. Certamente seducente appare questa visione di architettura come compenetrazione tra la conoscenza esistenziale dell’individuo e lo spazio: le architetture di spessore articolano le esperien­ ze della nostra esistenza. Ed ancora l’autore scrive, in un continuo parallelismo tra arte ed architettura: le opere d’arte e di archi­ tettura estendono le mani del­ l’uomo attraverso lo spazio e il tempo, evocando la presenza di una traccia distinta e riconoscibile dell’artefice sulla sua opera, in un rapporto quasi viscerale, certamente fisico con la materia manipolata. Tuttavia, mentre risulta abbastanza immediato cogliere l’influenza di una saggezza del corpo in una dimensione fattiva come quella legata al lavoro dell’artista, dell’artigiano o dell’architetto, ancor più intenso appare nel discorso il riferimento alla nascita del linguaggio, attinente certa-


mente al dominio dell’astratto; l’evoluzione del corpo e delle sue abilità assume quindi un ruolo fondamentale nella storia evolutiva dell’uomo, fino alla nascita del linguaggio considerato in stretta connessione con lo sviluppo del­ l’uso di strumenti, sottolineando come anche lo sviluppo del lin­ guaggio sia legato alla coevolu­ zione della mano e del cervello. La rilevanza di questo aspetto è evidente. Infatti l’infinita varietà di mezzi e supporti al lavoro di cui l’uomo dispone corrispondono certamente all’infinita possibilità di progresso delle capacità umane. Lo strumento è una spe­ cializzazione della mano che al­ tera le capacità e il potere natu­ rale di questa, afferma Pallasmaa, rimarcando l’intima interconnessione tra mano e mente, ed ancora: gli strumenti non sono innocenti; essi espandono le no­ stre facoltà e guidano le nostre azioni e i nostri pensieri secon­ do modalità specifiche. Tale aspetto conduce in maniera diretta all’ambito del lavoro artigianale, nel quale forse più che in altri campi è evidente il valore dell’abilità manuale, la maestria nell’esecuzione, quella sapienza derivante appunto dall’esperienza consolidata di quel gesto pratico, che se vogliamo trova espressione nel linguaggio comune nella nota locuzione: «a regola d’arte». Ed è a tal proposito che l’autore riporta un passo del sociologo Richard Sennett: ogni bravo artigiano conduce un dialogo tra le prati­ che concrete e il pensiero; que­ sto dialogo si concretizza nel­ l’acquisizione di abitudini di sostegno, le quali creano un mo­ vimento ritmico tra soluzione e individuazione dei problemi,

vo­lendo evidenziare come il lavoro sia fatto in larga parte di quella che più avanti chiama un’imma­ ginazione manuale. Ed è vero che anche il mondo dell’architettura rivela una profonda aderenza con tale aspetto; il processo progettuale sebbene parta da una visione astratta, da un’idea tracciata nella mente dell’architetto, passa, negli stadi più avanzati, per vie molto più concrete dove il contatto con l’oggetto manipolato diventa assolutamente più materiale: il disegno a mano, la realizzazione di modelli in scala, pur essendo parte integrante della fase di studio della soluzione progettuale, consentono però quella visione più complessa e specifica, ma soprattutto più tangibile del problema. L’atto del disegnare infatti, profondamente fisico, consente di percorrere con lo sguardo e con la mano i contorni di un oggetto o di un’architettura, tutte le sue facce, i dettagli, le forme e i volumi che la costituiscono, in un fluire diretto di relazioni tra mano e mente, come se la matita fosse il ponte che media fra due realtà. Anzi, il disegno spesso è un modo più profondo e attento di guardare, perché permette di vedere oltre il semplice senso della vista, è in effetti un vero e proprio mezzo di conoscenza. Ma la fase successiva nella quale si affronta l’esecuzione del­ l’opera, presenta ulteriori sfaccettature che immergono ancora di più il lavoro dell’architetto in una dimensione concreta, materica, dove quel disegno si piega letteralmente sotto la materia e le sue proprietà, sotto le tecniche costruttive e soprattutto sotto il confronto con altre abilità specifiche,

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che certamente oggi pongono una maggiore frammentazione e specializzazione del lavoro stesso, rispetto al passato dove il progettista spesso era una figura professionale completa, dotta di molte pratiche e arti, non solo quella costruttiva. Tuttavia l’autore sottolinea come sia proprio questo profondo sodalizio personale con artigiani e artisti alla base di una conoscenza profonda, sensibile ed incarnata quindi. A questo punto però si pone la questione, assolutamente attuale, del­ l’ausilio, nel lavoro di designer e architetti, del computer. L’autore parla in proposito della mano computerizzata. È evidente il notevole sostegno e i grandi benefici di un mezzo che oggi permette di semplificare e velocizzare il lavoro, ma soprattutto pone lontanissimi i confini della modellazione, in particolare della resa e comunicazione del prodotto finito, (forse anche troppo finito) grazie a software che permettono di ottenere immagini iperrealistiche di un progetto. Ma sono ugualmente evidenti i limiti. L’abuso di un mezzo, o meglio l’uso scorretto di questo, crea grosse barriere, piuttosto che liberare il corpo dalle sue limitate, in quanto umane, capacità. Pallasmaa sottolinea infatti i problemi di una progettazione che si serva del computer sin dalle prime fasi, dove non è necessaria quella possibilità di dettaglio; ciò spesso è deleterio nella misura in cui distacca completamente dal sano approccio al progetto che non deve mai prescindere dal lavoro in scala, nonché dalla gradualità dell’avanzamento nell’acquisizione dell’immagine finita, anche attraverso la visualizzazio-

ne degli errori. Il computer crea una distanza tra l’artefice e l’og­ getto, mentre il disegno a mano o la costruzione di un modello mette il progettista a contatto di pelle con l’oggetto o lo spazio. Ma l’autore non nega l’importanza di tale mezzo, esprimendo infatti la necessità, per chi svolge tali attività, di servirsene solo dopo che si siano acquisite le giuste capacità di lavorare con l’immaginazione e con le mani appunto. Altro punto focale toccato dal­ l’autore, e che ci aiuta nella giusta lettura delle sue argomentazioni, è il concetto di «libertà». Egli riportando un’affermazione di Leonardo da Vinci: la forza nasce dalla costrizione e muore con la libertà, pone l’accento sul fatto che è proprio il vincolo derivante dal legame con la materia, dalla tradizione specifica di una forma d’arte, dalla dimensione concreta insomma, a dare luogo alle più alte espressioni; un pensiero ar­ tistico non è solamente una de­ duzione logica o concettuale, esso comporta anche una com­ prensione esistenziale e una sin­ tesi di esperienza vissuta, che fonde percezione, memoria e desiderio. Così si comprende per­ ché l’architettura soprattutto abbia un grande potere umanizzante; essa trasforma il mondo e lo riduce alla dimensione umana, ed è attraverso quest’ultima che l’uomo si identifica con lo spazio e con i luoghi. La parte conclusiva del saggio, a questo punto, porta il discorso sul rapporto tra realtà e immaginazione, ed infine tra teoria e fare. L’autore fa riferimento al concetto per cui facciamo esperienza di un’opera d’arte o di un’architet­ tura attraverso la nostra esi­


stenza incarnata e la nostra ca­ pacità di proiezione e identifica­ zione. In altre parole l’immaginazione sta alla base della nostra capacità di interrelazione con l’esterno; infatti anche in ambito neurologico e psicologico possiamo osservare che esperienza, me­moria e immaginazione sono qualitativamente equivalenti nella nostra coscienza; potrem­ mo commuoverci allo stesso modo sia a causa di qualcosa evocato dalla nostra memoria o dalla nostra immaginazione co­ me da un’esperienza vera. Questo intimo legame tra corpo e mente appare indissolubile, pur riconoscendo la separatezza di due dimensioni, o meglio, la forte indipendenza tra queste. Ma va comunque evidenziata la rilevanza ed imprescindibilità di quel rapporto di interconnessione che esiste tra idea e gesto, tra pensiero e azione, tra abilità manuale e fondazione teorica (Vitruvio). Infine tale rapporto, segnatamente nell’arte, per l’architetto finlandese, non si esaurisce nella semplicistica concezione per la quale questa assume il senso di una mera rappresentazione della realtà dominante; egli infatti chiude il suo saggio esprimendo una sua visione di quello che dovrebbe essere il compito dell’arte: ana­ lizzare ideali e nuovi modi della percezione e dell’esperienza e così aprire e ampliare i confini del nostro mondo vissuto. Verum ipsum factum, “la verità è nello stesso fare” affermava Vico, volendo significare, con tale breve proposizione che l’uomo può veramente conoscere solo ciò che da lui è affrontato al livello del fare; quindi per voler accostare al grande filosofo napoletano

questo affascinante percorso nei meandri della saggezza del corpo, si potrebbe concludere che la mano, intesa come prolungamento del pensiero umano nella realtà, è il mezzo più efficace per comprendere la vera essenza delle cose. R. R. R. D9 Il design italiano oltre la crisi. Autarchia, austerità, autoproduzione, VII Triennale Design Museum, Milano, 4 aprile 2014 - 22 febbraio 2015, a cura di Beppe Finessi, allestimento di Philippe Nigro, progetto grafico di Italo Lupi. Catalogo edito da Corraini Edizioni, Mantova 2014. Una tacita regola editoriale vuole che in determinati periodi di crisi le vendite di testi di autoaiuto si impennino. Ce n’è per tutti i gusti e le esigenze anche se, in fondo, sono comunque identici. Non spiegano solo «come» fare qualcosa ma, ancora più importante, come riuscire a farcela da soli, in ogni caso. Certo, affrontare una crisi economica globale può apparire più complicato che imparare a riscoprire la propria emotività, ma pare comunque non sia impossibile. O almeno è quello che l’economista francese Jacques Attali sembra intendere in un suo recente saggio (Survivre aux crises, 2009). E anche se probabilmente se ne avrebbe a male a sapersi accomunato a una certa manualistica, la struttura in sette passi e il tono fiduciosamente esortativo del suo testo permettono questa piccola licenza. Anche perché il succo del discorso è

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semplice e più che condivisibile. Alla fine, se non si hanno i mezzi per resistere nelle condizioni in cui ci si trova, occorre iniziare a pensare qualcosa di diverso. Alla resilienza, cioè, deve seguire la creatività. Il che significa molto di più che esercitare la propria capacità, come avrebbe detto il grande matematico Henri Poincaré, di unire elementi preesistenti in combinazioni nuove (Science et methode, 1908). Vuol dire, prima di tutto, esercitare un fondamentale principio politico di autoaffermazione che coincide, anche, con un vero e proprio ideale di vita. Non importa, infatti, quanto avverse siano le condizioni al contorno, ciò che oggi ci viene insegnato è che il modo migliore per promuovere la felicità personale consiste nel nutrire l’aspettativa che, per soddisfare i propri desideri, ognuno possa contare solo sulle proprie forze (Zygmunt Bauman, Liquid Modernity, 2000). Ma visto che le capacità personali di riuscirci sono strutturalmente inferiori ai requisiti minimi, tutto si basa su un proverbiale «colpo di genio», su un’invenzione che, per un attimo, scardini le regole del gioco per imporne di nuove. La creatività, allora, rappresenta quella «soluzione biografica a contraddizioni sistemiche» che non potrà presentarsi mai, ma in cui occorre credere per poter essere felici oggi (Ulrich Beck, Risk Society, 1992). Perché anche se le contraddizioni del reale sono ancora – e ora più che mai – prodotte globalmente a livello sociale, il dovere e la necessità di affrontarli sono stati definitivamente individualizzati. Ed è per questo motivo che creatività e crisi hanno inizia-

to ad apparire in coppia in sempre più occasioni. La settima edizione del Triennale Design Museum è, appunto, una di queste. La sua natura ormai è nota. Dal 2007, anno dopo anno, un curatore d’eccezione viene incaricato di rispondere a una specifica domanda che la direzione pone a proposito dell’essenza del design italiano. E così, dopo aver celebrato, lo scorso anno, la sua resilienza, la sua capacità, cioè, di attraversare sostanzialmente indenne la seconda metà del Novecento, oggi tocca alla creatività; all’abilità che esso ha mostrato nel reagire ai periodi di crisi, facendo «di necessità virtù». Cosa ha fatto il design ita­ liano […] quando si è trovato in una società «con le spalle al mu­ ro»? Ha saputo reagire alla sfi­ da e prendere decisioni innova­ tive o si è avvitato su se stesso e in sterili rituali di lamentazio­ ne? Si è adagiato nella auto­ commiserazione o ha risposto rilanciando […] esplorando nuovi paradigmi produttivi, creativi e progettuali? (Silvana Annichiarico, catalogo della mostra, p. 22). La risposta di Beppe Finessi, davvero notevole sia per ampiezza che per profondità, si articola su tre semplici concetti: quelli di autarchia, austerità e autoproduzione, che provano a descrivere la reazione creativa del design alla scarsità di risorse determinatasi durante tre grandi momenti di crisi epocale. Quella degli anni Trenta, aggravata in Italia dalle sanzioni imposte dalle Nazioni Unite dopo la guerra di Etiopia, quella della metà degli anni Settanta, innescata dalla crisi petrolifera, e quella odierna, a cavallo


fra decisioni globali e ricadute locali. Questa scansione, però, è poco più di una traccia. Ciò che conta nella costruzione di questa storia, infatti, non è tanto il tentativo di trovare risposte sintetiche o di costruire un quadro interpretativo di insieme. Importa, invece, provare a suggerire una serie di relazioni inaspettate tra fatti e oggetti – più di seicento – cronologicamente o concettualmente distanti. Al di là dell’obbligo imposto da uno sviluppo tematico esclusivo; lasciando semplicemente spazio al progetto. Una storia fatta di tanti episodi ap­ parentemente minori, spesso di­ menticati, di artigiani/artisti, di figure femminili che sempre hanno saputo fare tanto con po­ co, e di piccole realtà produttive capaci di agire libere nel cercare nuovi linguaggi e nuovi mercati (Beppe Finessi, catalogo della mostra, p. 28). Così, all’interno della tripartizione cronologica del percorso espositivo, trova spazio, in realtà, tutta una serie di ambienti minori dedicati ad approfondire singoli episodi molto diversi fra loro. Come quelli relativi a un autore o a un materiale, a un distretto produttivo o a una tecnica di lavorazione. Il tutto, però, nella complessa unità formale definita dallo straordinario allestimento di Philippe Nigro, che modula lo spazio come fosse la scenografia di un astratto paesaggio urbano, articolato e contemporaneamente ininterrotto. Con le sue piazze e i suoi edifici, ma anche i suoi fondali dipinti di bianco e le sue strutture in legno grezzo; la sua «artigianalità» povera e metafisica allo stesso tempo. Uno spazio unico e totalizzante, costruito da una

pannellatura «continua», che da parete diventa pavimento e poi superficie espositiva, come fosse un foglio continuamente ripiegato su se stesso, che mo­ stra un dentro e un fuori, un fronte e un retro (Philippe Nigro, catalogo della mostra, p. 393). La prima sezione, introdotta da una sorta di catalogo visuale della mostra e aperta dalla figura di Fortunato Depero, è forse la più ricca ed eterogenea. L’autarchia, d’altra parte, non è una semplice attitudine progettuale ma è legge e, in questo senso, tocca chiunque e qualsiasi prodotto dell’epoca, nella vertigine di un elenco che sembra inesauribile. Il Raion e il Lanital, Filippo Tommaso Marinetti e Bruno Munari, o ancora Franco Albini e Gio Ponti; ma anche i lavori meno conosciuti di Bice Lazzari e Cesare Andreoni, così come quelli più celebri di Giuseppe Terragni e Giuseppe Pagano. Una storia che, in un certo senso, sembra proseguire anche dopo la guerra, con una sperimentazione immaginifica e pragmatica a un tempo, fatta di materiali poveri e di cose a portata di mano, fino a toccare la nascita di realtà produttive «altre» rispetto all’industria che si sta consolidando. È qui, però, alle soglie degli anni Settanta, con la nascita dei primi distretti produttivi, che la storia sembra interrompersi momentaneamente, anche solo dal punto di vista espositivo. La linea­ rità del percorso si perde e gli oggetti si dispongono all’interno dell’allestimento con maggiore libertà. Come a denunciare più una crisi di senso e di valori che una semplice congiuntura economica. Come se l’austerità non fosse tanto una strategia politica,

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quanto una personale presa di coscienza nei confronti del mondo. A questo sembrano rimandare, per citare solo i più noti esempi, i primi tentativi di design «autoprogettato» di Enzo Mari e le incursioni nella land art di Ettore Sottsass, lo sguardo socio-antropologico di Ugo La Pietra come la personalissima poetica artistica di Gaetano Pesce. Ma è proprio da queste prime contaminazioni, dalle prime performance di questi anni, che sembra nascere una nuova sintonia fra il mondo del design e quello del­ l’arte contemporanea, che avvicinerà il primo all’estetica della piccola serie, del pezzo unico e dell’autoproduzione. È qui che il percorso torna nuovamente a ricomporsi, pur nell’assoluta diversità dei contributi di alcuni ormai «grandi» maestri, da Andrea Branzi a Riccardo Dalisi, da Alessandro Mendini a Fabio Novembre. La storia delle autoprodu­ zioni diventa [però] soprattutto quella dei giorni nostri, da quando cioè con maggiore con­ sapevolezza molti autori […] trovano in queste «modalità» il luogo ideale, o occasionale, per esprimersi e misurarsi con il pubblico e il mercato. […] Pen­ sieri ormai chiari … nelle teste di Massimiliano Adami, Denise Bonapace, Formafantasma, Martino Gamper e Nucleo, che hanno scelto di non preoccupar­ si dell’industria, perché l’indu­ stria sono loro (Beppe Finessi, catalogo della mostra, p. 238). Certo, al di là della qualità indubbia del racconto, rimane ancora da capire quale sia la reale consistenza dei singoli episodi. Se sia vera, cioè, la citazione di Paul Auster che apre la mostra,

secondo cui «i momenti di crisi raddoppiano la vitalità degli uomini». Perché alla fine, dalla spinosità dei tessuti autarchici ai bordi frastagliati degli oggetti stampati in tre dimensioni, quello che sembra emergere – con le dovute eccezioni, naturalmente – è una sorta di atmosfera estetica artigianale che, se in alcune occasioni arriva a conquiste sostanziali, in altre si ferma a un formalismo pauperista un po’ di maniera. E non aiuta a farsi un’idea chiara il fatto che, proprio da quest’anno, la direzione abbia voluto concludere la selezione «mutante» del Museo del Design con un’enorme teca, a firma di Antonio Citterio e Patricia Viel, disegnata per ospitare una sorta di «permanente» sulle Icone del Design Italiano; quello che resiste al tem­ po e alle mode, che va oltre le tendenze e le scuole, che si sta­ bilizza nella percezione e si de­ posita nel ricordo e nell’imma­ ginario. Quasi a celebrare l’ani­ ma duratura del design italiano (Silvana Annichiarico, catalogo della mostra, p. 23). Quasi a rassicurare visitatori e investitori che, a quanto pare, la creatività è una cosa e il «sistema» del design un’altra. J. L. I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento, a cura di C. Ajroldi, M.A. Crippa, G. Doti, L. Guardamagna, C. Lenza, M.L. Neri, Electa, Mi­ lano 2013. L’editoria delle ricerche universitarie PRIN degli ultimi anni si sta rivelando più accurata nella


forma e più utile per i temi che propone, superando così il modello ‘zibaldone’ – un’infinita varietà di scritti eterogenei (e di qualità talvolta discutibile) – che ne aveva segnato la fase pioneristica. Il rodaggio del sistema, risorse disponibili più ampie, norme chiare e controlli stringenti, sono probabilmente alla base d’una maggiore affidabilità scientifica dei prodotti PRIN di ultima generazione dei quali il presente volume è esempio probante. Deriva da un lavoro di cinque unità operative facenti capo a Cesare Ajroldi per Palermo, Maria Antonietta Crippa per il Politecnico di Milano, Laura Guardamagna per il Politecnico di Torino, Maria Luisa Neri e Gerardo Doti per Camerino, Cettina Lenza (coordinatrice nazionale del gruppo) per la Seconda Università di Napoli. Anche componenti degli atenei di Pisa e di Reggio Calabria hanno fornito contributi. Carolina De Falco ha coordinato la curatela del libro che conta 420 pagine con ricchissimo apparato iconografico, in parte inedito. Quasi una quarantina gli autori dei testi che sono stati divisi in Temi e Profili. I primi introducono le linee generali del vasto argomento dei complessi manicomiali italiani: dagli esordi del dibattito e la questione dei modelli (Lenza), alle relazioni che queste grandi architetture hanno istituito con la città e il territorio (Doti), dalla presenza della Natura nei manicomi (Giannetti) alla manualistica e pubblicistica del settore (Guardamagna), alla tradizione edilizia e innovazione tecnologica (Zanzottera). I secondi, sono una rassegna delle architetture manicomiali più significative, cir-

ca ottanta, divise nelle tre aree geografiche del nord (introdotta da Guardamagna, Guerra e Crippa), del centro (Codini e Neri), del sud e isole maggiori (Lenza e Marsala). In aggiunta, una breve antologia di progetti di riuso di complessi dismessi proposti da Ajroldi, Arcidiacono, Marino, Galliani e Salvo. Abstracts e adeguata bibliografia per chiudere. Fin qui il rendiconto quasi notarile del contenuto del volume, intenzionalmente scelto come lungo incipit di questa recensione perché ci troviamo di fronte a un libro che va giudicato – dapprima e positivamente – sul piano quantitativo: esso offre il più vasto, ordinato e informatizzato repertorio conoscitivo di sintesi finora espresso sui complessi manicomiali italiani, dalle origini nel XIX secolo al 1978, anno della legge Basaglia che decreta l’inizio della fine di questa speciale tipologia edilizia sanitaria. Repertorio vasto e ordinato per i motivi già detti, informatizzato perché tutti i complessi censiti, in accordo con la Direzione Centrale degli Archivi del MIBAC, costituiranno un portale tematico del Sistema Archivistico Nazionale al quale potranno attingere studiosi, enti di tutela e quanti lavorano al recupero e alla valorizzazione di questi beni. Giudizio positivo per il libro anche sul piano qualitativo, ma qui numeri e quantità non sono più protagonisti e cedono il passo ad alcune sintetiche considerazioni critiche proposte al lettore di questa nota. Sono almeno tre i motivi che rendono importante e utile questo libro. Intanto, la visione interdisciplinare ma fortemente unitaria che anima l’impostazione e lo

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svolgimento del tema. Nella tradizione storiografica i complessi manicomiali hanno avuto sempre declinazioni parziali riservate agli storici, ai medici, agli architetti, ai programmi delle politiche sanitarie. Poi, la sua visione proiettiva, volta a documentare, capire, orientare, proporre soluzioni per il futuro di queste parti delle città. Storia e progetto dunque, per rispolverare una dicotomia un tempo frequente nel lessico degli architetti. Infine, il suo carattere polivalente: riferimento di sintesi per gli studiosi, rassegna storicotipologica di progetti, strumento di tutela nella versione cartacea e ancor più nella sua versione informatizzata, antologia di possibili soluzioni cui attingere per il riuso di questo immenso patrimonio architettonico-urbanistico. Ve­ diamo più in dettaglio questi tre punti di forza della ricerca fedelmente trasmessi nella struttura e nel contenuto del saggio. Visione interdisciplinare. Problema storiografico classico nel quale si annidano due frequenti errori, la frammentazione e il riduzionismo ingenuo. Da un lato, i vari contributi interdisciplinari sono affiancati l’un l’altro senza alcun nesso logico o narrativo che li ponga nella doverosa relazione; dall’altro, rinunziando all’intervento dello specialista, si operano invasioni di campi disciplinari altrui con sintesi sommarie e spesso errate. Qui invece l’indispensabile intreccio di più discipline – almeno due principali, l’architettura-urbanistica e la medicina per la salute mentale, tema sul quale insiste in particolare il contributo di Guardamagna e Guerra – è perseguito con il metodo di traguardare sub specie architectonica quelle

proposizioni che hanno diretta incidenza sul discorso che si sta conducendo. Per circostanziarlo, per affrancarlo dall’isolamento disciplinare, per ricondurre a unità una possibile frammentazione del contenuto. Lo scrive nella Presentazione Cettina Lenza in coda a un passo che va citato per il suo chiaro contenuto programmatico. La pubblicazione si in­ centra su una rassegna di sinte­ tici profili storici dei singoli complessi… preceduta da saggi dedicati a rilevanti temi storio­ grafici e seguita da alcune rifles­ sioni e sperimentazioni di pro­ getto, che hanno dimostrato co­ me gli obiettivi della conserva­ zione e della valorizzazione propongano non solo questioni tecniche di recupero, ma so­ prattutto culturali di riseman­ tizzazione. L’adeguato riscatto di luoghi che hanno segregato e occultato la diversità prodotta dalla malattia, ma rappresenta­ to al tempo stesso il tentativo di curarla, non può non partire dalla ricostruzione critica di si­ gnificati e valori incarnati nel­ l’architettura, almeno inizial­ mente investita d’un compito terapeutico, chiamando in cau­ sa, produttivamente, gli studi storici, troppo spesso confinati in ambiti tradizionali e in uno specialistico, quanto sterile iso­ lamento disciplinare. Visione proiettiva. È l’aspetto metodologicamente più importante della ricerca che intercetta gli ultimi fotogrammi dei complessi manicomiali italiani ma non li considera definitivi bensì immagini di connessione per nuove narrazioni (termine abusato ma d’obbligo in ambito filmico) progettuali, funzionali e di senso.


Affidate ora agli stessi, e numericamente prevalenti, autori di matrice storica ora al più ristretto gruppo di formazione e militanza progettuale che qui riporta gli esiti di workshop didattici e sperimentazioni progettuali. Il patrimonio edilizio in esame – è la tesi da tutti condivisa – ha avuto ed ha tuttora un ruolo fondamentale nell’assetto urbanistico delle città, ma con due diversi destini. Laddove alla progressiva dismissione dopo la Basaglia non è seguito un tempestivo e adeguato programma di recupero, questi complessi rappresentano un intervallo funzionalmente silente nel continuum urbano. Di vaste dimensioni e di ancor più problematica soluzione è il manicomio Leonardo Bianchi a Napoli descritto dalla Lenza. Nei casi in cui si è intervenuti, comunque in tempi relativamente brevi, confermando o anche modificando del tutto la tipologia sanitaria, c’è stata continuità che ha evitato zone di degrado e aree dismesse. Un caso di promiscuità funzionale è il Manicomio di Santa Croce a Macerata, diviso tra funzioni sanitario-assistenziali e, in futuro, residenziali-universitarie di eccellenza, caso illustrato dalla Neri. Al capitolo Progetti è demandato tuttavia il compito più specifico di legare nozioni di metodo a casi concreti come l’ex ospedale psichiatrico di Palermo (Ajroldi), il Mandalari a Messina (Arcidiacono e Marino), il Paolo Pini a Milano (Galliani). Situazioni mol­ to diverse, ma tutte accomunate in sede progettuale dalla volontà/ necessità di aprire i complessi manicomiali alla città, segnale fin troppo evidente di riscatto urbanistico dopo decenni e secoli di se-

gregazione urbana e sociale. Valga per tutti la sintesi che Ajroldi riserva a Palermo. Nel loro com­ plesso, i progetti hanno ipotiz­ zato una maggiore compenetra­ zione tra ospedale e città attra­ verso l’eliminazione della recin­ zione e la soluzione di alcuni nodi irrisolti relativi ad ambiti particolari. Ma, avverte opportunamente la Salvo mettendo in guardia da operazioni drasticamente innovative, quella dei manicomi italiani è «un’eredità complessa fra memoria e oblio» e il progetto di intervento è in ogni caso un progetto di restauro che reintegra e non cancella immagini e storie passate. Sicchè, ricordare e dimenticare, conservare e di­ struggere, sono atti interpretati­ vi che – attuati con consapevo­ lezza – fondano la trasmissione della memoria. Il carattere polivalente. È l’aspetto strutturalmente più innovativo della ricerca che si è sviluppata su più mezzi di comunicazione, dal cartaceo tradizionale ai dispositivi informatizzati di archiviazione alla messa in rete per la condivisione dei risultati. Una sequenza oggi obbligatoria da seguire per lavori del genere, soprattutto per quelli con dirette implicazioni operative come l’argomento in esame. Non c’è altro da aggiungere su questo punto se non l’auspicio che la disponibilità pubblica di questo materiale messo a disposizione di studiosi, progettisti, responsabili ai vari livelli delle politiche sanitarie, enti di tutela e valorizzazione, non sia l’ennesima occasione sprecata del virtuoso rapporto ricerca-operatività concreta. P. B.

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R. Palma, C. Ravagnati (a cura di), Atlante di progettazione ar­ chitettonica, CittàStudi, Novara 2014.

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È possibile mettere a punto un libro di esercizi di progettazione – rivolto agli studenti dei primi anni delle scuole di Architettura – che possano essere svolti anche senza l’intervento del docente, dando luogo perciò ad una possibile didattica a distanza, e la cui impostazione teorica sia, anche se parzialmente, condivisa dalla comunità scientifica dei docenti di progettazione? L’Atlante cerca di dare risposta affermativa a questa domanda. Una risposta poco ambiziosa solo a prima vista. Sia perché assolutamente nuova nel panorama del­ l’insegnamento del progetto in Italia, sia per la sua dimensione collettiva, sia, ancora, per lo scarto che mostra rispetto alle attuali modalità di questo insegnamento nelle scuole di architettura. Ne sono autori ventisette docenti di progettazione architettonica che operano in quattordici Corsi di Laurea in Architettura (Aversa, Bari, Cagliari, Camerino, Genova, Milano, Napoli, Padova, Palermo, Parma, Pescara, Roma, Torino, Venezia) rappresentativi di una variegata articolazione geografica e culturale e, nello stesso tempo, di una precisa sezione generazionale (quasi tutti sono nati negli anni Sessanta o a ridosso di essi) della comunità di docenti di progettazione in Italia. Fattor comune è l’appartenenza al settore scientifico-disciplinare della Composizione architettonica e urbana e, più in particolare, il fatto di essere Dottori di ricerca che, come i curatori affermano

esplicitamente, sono cresciuti ac­ corgendosi che tra le barriere erette dai loro maestri per prati­ care la guerra delle teorie del­ l’architettura, il tema della di­ dattica, cioè del come si progetta, appariva sfuocato, forse ad­ dirittura assente e se le differen­ ze c’erano non erano comunque messe in valore. È questa condizione perciò a motivare il tentativo di dare una dimensione collettiva alla ricerca per la trasmissione dei procedimenti del progetto. Un tentativo che giunge a valle di un processo di ricerca, di dibattito e riflessione su questo tema caratterizzato da una stretta collaborazione tra molti dei suoi autori, segnatamente negli ultimi quindici anni, a partire – per indicarne soltanto il momento inaugurale – dalla ricerca CNR Teorie dell’architettura e strumenti del progetto. Un primo rapporto sulla teoria della progettazione. Italia 1945-1998, svolta in occasione del convegno romano Il progetto di architettura nel 1998. La struttura logica del libro trova esplicito riferimento nelle ricerche sul progetto di architettura – sviluppate presso il Politecnico di Torino sotto la guida di Giancarlo Motta e Antonia Pizzigoni – che hanno prodotto il portale web per la didattica New Polytecnic Grid, una griglia, che consente agli studenti l’upload dei loro elaborati in modo da ordinare le operazioni di progetto e di ricevere le correzioni del docente, articolata in quattro sezioni: il testo, il luogo, i riferimenti e le variazioni. Analogamente l’Atlante si articola in quattro parti. La prima – Progettare con i testi, curata da


Roberta Amirante e Emanuele Carreri (alla cui memoria il libro è dedicato) – analizza le questioni connesse agli impieghi della scrittura nel progetto. La seconda – Progettare con i luoghi, curata da Luigi Coccia – prova a rispondere alle domande connesse al rapporto tra progetto e caratteri del luogo. La terza – Progettare con i riferimenti, curata da Francesca Bonfante – ruota intorno all’impiego dei riferimenti, del­ l’immaginario architettonico del progettista nello svolgimento del suo lavoro. La quarta – Progettare e comporre, curata da Giovanni Galli – affronta il problema della composizione architettonica, dal­ la composizione per principi astratti fino alla composizione automatica e generativa, attraverso esercizi di addestramento alla manipolazione di differenti soluzioni individuando le loro regole di coesistenza. Ogni parte è introdotta da un saggio del curatore e si compone di tre coppie di lezioni che corrispondono agli obiettivi didattici che rendono operativi il suo tema. Ogni lezione si conclude con un’esercitazione progettuale divisa in due parti: la prima è costitui­ ta da un test che consente allo studente di verificare il proprio grado di apprendimento della lezione per poter affrontare l’esercizio progettuale vero e proprio; la seconda propone allo studente di sviluppare un elaborato progettuale descrivendone la costruzione attraverso una serie di istruzioni passo-passo per percorrere un tratto deliberatamente limitato di quel complesso percorso – non lineare e spesso circolare o reticolare – che è il progetto di architettura.

Al libro è connesso un sito web che consente allo studente di accedere alla soluzione (univoca) del test di apprendimento e di confrontare il proprio elaborato progettuale con una serie di altri elaborati progettuali come esempi, stavolta, di infinite possibili soluzioni. L’Atlante è, così, strumento che permette allo studente di svolgere esercizi progettuali in totale autonomia seguendo istruzioni man mano che procede, affrontando molteplici problemi che caratterizzano il progetto architettonico, sperimentando diversi approcci didattici espressi dalla varietà culturale dei suoi autori. Il libro esplicita programmaticamente il duplice carattere degli esercizi proposti, che possono essere osservati nella loro logica interna e nei loro obiettivi didattici, spiegati dal singolo autore, oppure come tasselli di un disegno complessivo desumibile dalla composizione dei testi che introducono le varie parti. Viene lasciato al lettore il compito e la libertà di decidere in che modo passare da un esercizio all’altro. In tal modo questi potrà sviluppare un’esperienza di notevole valore formativo nel senso di prendere via via – e sempre più! – coscienza delle pratiche in cui è impegnato. Nessuna volontà di presentare un quadro sistematico – e men che meno univoco! – di conoscenze sul progetto di architettura, quindi. Se senso si dà tra una arché e un telos, nessuna teoria unica dell’architettura è il fondamento di questo lavoro, i cui singoli contributi sono tenuti insieme dai problemi intorno ai quali si esprimono e da un preciso co-

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mune scopo: tendere a una teoria del progetto che sia, almeno in parte, trasmissibile. Osservando le operazioni che i singoli esercizi richiedono di compiere è facile constatare che essi hanno tutti come effetto la produzione di immagini. Da questo punto di vista l’Atlante è una macchina di produzione di im­ magini di architettura. Non solo, ma analisi e progetto perdono la loro tradizionale consecutio. L’immaginazione, tradizionalmente riferita all’attività progettuale, si trasferisce all’analisi. Che, alla maniera di quella freudiana, da pratica interpretativa diviene un’attività costruttiva. In definitiva l’obiettivo di questo libro è quello di fare della didattica del progetto il luogo di un dialogo sociale, considerandola e sviluppandola come processo condiviso. Una sorta di public authorship, di autorialità pubblica – che trova un ambito di riflessione analogo nell’ambito artistico, nella New Genre Public Art – che propone un modello reticolare della didattica del progetto di architettura, condiviso e partecipato da tutti gli attori che entrano nel processo – in questo caso docenti e allievi – come comunità a venire, che si forma attraverso un dialogo teso a dare valore ai tratti comuni e anche, ma in modo non banale, alle differenze. Il presupposto più o meno esplicito è che la conoscenza si articola in una serie di procedure del pensiero razionale e in un insieme di strutture/immagini ordinate negli archivi della memoria. In qualche modo, cioè, essa corrisponde anche a una personale, sempre provvisoria riserva di immaginazione. D’altra parte ima-

ginatio è, già in Aristotele, la facoltà che ritiene le forme raccolte del sensus communis (la koinè aisthesis) mentre phantasia è la facoltà di riaggregarle. E, se la prima sfuma nella percezione e nella memoria, la seconda assolve, in qualche modo, alle stesse funzioni di composizione e scomposizione proprie del concetto. L’imaginatio dà l’uomo e il cavallo, la phantasia compone il centauro. Hölderlin, Hegel, Schelling nel loro sodalizio giovanile a Tü­ bingen furono accomunati da un pensiero in cui conviveva la necessità di dare alle idee una forma sensibile e quella del recupero del passato per via mnestica. Così per Schelling la coscienza è insieme costituente e costituita e per questo si identifica con l’immaginazione trascendentale. Per Hegel l’intelligenza è due volte (ist wieder, come dire iter, è iterazione). E Hölderlin parlerà di «essenza poetante della ragione». Come termine di confronto per questo libro si può, con le dovute differenze, assumere Mnemosyne Atlas, l’atlante della memoria che Aby Warburg compose perché fosse anche un motore dell’immaginazione, in cui le immagini, dall’antichità al suo tempo, potessero liberamente dialogare tra loro suggerendo inattese collisioni figurali e molteplici costellazioni. Diversamente da quello di Warburg, le cui parole chiave sono memoria e immaginazione, questo atlante – i cui materiali possono anch’essi dar luogo a molteplici narrazioni – pone l’accento sui termini procedimento e immaginazione. Non è un inerte magazzino di progetti, ma un campo attivo e vitale per la costruzione di


immaginari che si rinnovano riconoscendo altre relazioni e corrispondenze, gettando un ponte tra differenti ordini di realtà . Non a caso la mappa concettuale che conclude il libro – e che mostra la distribuzione, nel testo delle varie lezioni, di ventiquattro parole chiave, la loro concentrazione o dispersione e la loro fre-

quenza – evidenzia con ogni immediatezza la netta prevalenza con cui ricorre il termine procedimento (90 volte) seguito da immaginazione (70), con largo distacco rispetto agli altri (meno di 40 per tipologia e meno di 20 per analogia). F. R.

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Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 86.  Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87.  Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88.  L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89.  Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90.  L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91.  «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92.  Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93.  La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94.  Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95.  Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96.  Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre

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N. 97.  Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre


N. 98.  Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99.  Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre N. 100.  Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101.  Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102.  Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103.  Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104.  La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105.  L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106.  Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107.  Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108.  Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109.  Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110.  Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111.  Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112.  Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre

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N. 113.  Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114.  L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115.  L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre N. 116.  Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117.  Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118.  Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119.  L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120. Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121.  La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122.  L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123.  Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125.  Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126.  L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 127.  Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI


N. 128.  Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129.  Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 131.  Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132.  Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133.  Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134.  Abitare la razionalità - Per una nuova clas­si­ficazione delle arti - Il design ae­ro­nautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135.  Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137.  Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138.  Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­l’ADI N. 139.  Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­ l’ADI N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibattito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998

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«Grafica Elettronica» - Via Bernardo Cavallino, 35/g - 80128 Napoli


Le pagine dell’ADI Associazione per il disegno industriale a cura di Dario Moretti

Per i 60 anni dell’ADI Carlo Forcolini, Past President ADI Il premio Nobel Paul Krugman sostiene che dopo più di due secoli la spinta economica della seconda rivoluzione industriale si è esaurita, e con essa è finita anche l’idea dello sviluppo permanente, sia economico sia sociale. Di fatto, le bolle speculative che hanno fatto implodere l’eco­nomia mondiale (l’ultima delle quali la crisi dei subprime) hanno avuto l’effetto paradossale di ri-vitalizzare solo apparentemente (nel senso di un sostegno drogato dei consumi) l’economia americana e di conseguenza quella mondiale, per poi condurla al tracollo generale. Krugman, e prima di lui Larry Summers, ministro del­ l’Econo­mia USA, giunge alla conclusione che da parecchi decenni la crescita reale dell’economia americana (e quindi dell’Occiden­te) è prossima allo zero, e che è molto probabile che dovremo riabituarci a una condizione di sviluppo molto lento e molto simile ai secoli pre-seconda rivoluzione industriale. Le diverse ragioni per cui si è determinata questa crisi storica esulano dal tema di questo scritto, però almeno una, che ha effetti diretti sul design, vale la pena di citarla: la sempre maggiore disuguaglianza che ha inflitto un ridimensionamento drammatico della classe media. Basta pensare che i benefici della crescita americana degli ultimi decenni sono andati nelle mani dell’1% più ricco della popolazione


che, per sua natura, accumula molto e spende molto meno di quanto ha sottratto alla ricchezza collettiva prodotta; per cui quella stessa abbondante ricchezza non viene impiegata in altrettanti investimenti produttivi. Dunque meno consumi, meno investimenti produttivi e più investimenti finanziari… il gatto si morde la coda accoccolato sempre su se stesso! La sempre maggiore polarizzazione dell’economia ha certamente influito, ad esempio, sulla percezione generale del design come lusso, allontanandolo sempre più dalla sua ragione storica di cultura propria della classe media. Verso l’alto abbiamo il lusso dell’alto artigianato e dei grandi brand, verso il basso abbiamo Ikea. Il design, che con la produzione industriale prometteva innovazione creativa e funzionalità, unitamente a innovazione tecnologica nei materiali e nei processi, che fine farà se la platea dei suoi consumatori si riduce sempre più? Eppure si fa un gran parlare di design e tutti i giorni appaiono innovazioni che ci proiettano in un mondo tecnologico sempre oltre, che sottende un’idea ottimistica di prosperità futura per tutti. Alcuni economisti che analizzano la questione dell’offerta e non della domanda, come Krugman, sostengono che la produzione riferita al digitale ha grandi effetti sociali, ma che la sua spinta reale sulla produttività si è fermata a un paio di decenni fa e che certamente non produce gli effetti straordinari della seconda rivoluzione industriale. L’auto, l’acqua nelle abitazioni, l’elettricità, il trattore in agricoltura, la ferrovia con la macchina a vapore ecc. modificarono radicalmente il modo di vivere delle persone e crearono una effettiva rivoluzione economica durata almeno cento anni. Sempre Krugman, citato in un bell’articolo di Maurizio Ricci su “la Repubblica”, osserva che se domani uscisse zione paragonabile alla lampadina, tutto questo un’inven­ pessimismo andrebbe in fumo. Fino a quel momento, però, se considerate il vostro iPhone la porta a un mondo nuovo, siete degli ottimisti.


Una politica per il design Stando nello specifico, qualcuno obietterà che i Led sono in effetti una rivoluzionaria invenzione paragonabile alla lampadina. In realtà l’invenzione è straordinaria ma sostitutiva e migliorativa dell’esistente, con una grande incidenza sulla riduzione dei consumi di energia e della durabilità delle sorgenti luminose. Però non paragonabile alla lampadina che sostituiva non solo le lampade a gas, e che richiedeva l’installazione delle reti e delle centrali elettriche a livello universale! Le considerazioni appena fatte, di stretta osservanza economica, hanno evidentemente poco a che fare con la portata rivoluzionaria sul piano sociale di queste innovazioni tecnologiche. E, a mio parere, queste stesse tecnologie sono un supporto di tale efficacia per i ricercatori che favoriranno certamente, come già sta avvenendo, le invenzioni di nuovi materiali e l’apertura di scenari del tutto inediti dovuti alle nanotecnologie. Fattori questi ultimi che avranno un impatto in tutti gli ambiti industriali e che costringeranno i designer (come in parte stanno già facendo) a ridisegnare il mondo secondo parametri più complessi quali: forma estetica e sensoriale, funzione/i arricchite, sostenibilità ambientale/recycle life e riuso; e comunicazione, entrata ormai di prepotenza in ogni ambito del progetto. Queste innovazioni in progress e questa nuova progettualità non sono ancora l’invenzione della lampadina ma il metodo della loro ricerca e gli stessi esiti sono un aspetto peculiare della terza rivoluzione industriale dei nostri tempi, che ha modalità scientifiche, artistiche, sociali e comunicazionali mai viste prima, e i cui esiti mi sembra difficile prevedere con i criteri del passato. Ho iniziato questo scritto riportando delle valutazioni generali di importanti economisti perché questa è in effetti la nostra quo­ti­dia­nità: bombardati costantemente da notizie depressive e da proiezioni fantascientifiche rischiamo, come si dice, di perdere la bussola.


Proprio per non perderla, prima di scrivere di realtà specifiche nell’ambito del design, vorrei affrontare un tema che mi sta a cuore da anni: la politica del design. Tema non più eludibile data la popolarità e l’incidenza economica assunta dal design e dalle attività creative in genere nel nostro paese (6% del PIL). Tema che deve essere inserito come priorità da tutti i protagonisti coinvolti nelle complesse filiere del design (in senso allargato, e non solo al Food, Fashion, Furniture) e in particolare dalle autorità politiche che si occupano del futuro dell’Italia. Così come è stato uno dei grandi temi affrontati da Churchill alla fine della seconda guerra mondiale per la necessità di riconvertire l’industria pesante di guerra in industria leggera, così come è stato per i paesi scandinavi dove il design è diventato parte dei programmi delle pubbliche amministrazioni, e distintiva della loro identità culturale. Un quadro di riferimento Un’assunzione di ruolo della politica importantissima per alcune ragioni. La prima è che, malgrado il design italiano sia celebrato in tutto il mondo, in Italia è ancora una cultura minoritaria ed elitaria. La seconda è che nei paesi avanzati lo Stato è il primo cliente delle imprese design oriented, contribuendo al loro sviluppo a alla implementazione della cultura del design a livello nazionale. La terza è che questo tipo di imprese mantengono un indotto artigianale di piccole e micro imprese importantissimo per l’economia e la sopravvivenza economica di interi territori. La quarta è che queste aziende vendono dal 50% all’80% dei loro prodotti all’estero, e questo fa solo bene al nostro paese. La quinta (e mi fermo) è che in Italia quello che viene chiamato “Sistema Design” non è per nulla un sistema: è un


insieme di attività e iniziative, a volte davvero straordinarie, che si muovono motu proprio. Università, imprese, progettisti, distributori, editori, associazioni ecc. operano fuori dal quadro di riferimento programmatico di un “Piano del Design” nazionale. Un piano che non deve burocratizzare un settore così dinamico (ci mancherebbe altro!), ma che individui le linee guida strategiche per lo sviluppo del design italiano nel mercato nazionale e internazionale e che dia il giusto riconoscimento a chi opera coerentemente in questo ambito. Lontana da qualsiasi forma di dirigismo, una politica del design italiano avrebbe l’effetto di massimizzare gli sforzi di chi è già in campo e di definire il profilo del contesto nell’interesse di chi, in questo campo, vuole entrare. Senza alcun obbligo o imposizione dall’alto, con soli meccanismi premianti del merito. Una iniziativa era stata avviata durante il passato governo Prodi ad opera dell’allora ministro Rutelli. Iniziativa timidamente ripresa dai successivi governi che però, allo stato attuale, non sembra abbia prodotto visioni, programmi e prassi portate a conoscenza dei più. A dire il vero, l’iniziativa di Rutelli – del tutto rispettabile nelle intenzioni – apparve però a chi, come il sottoscritto, vi partecipò un poco confusa e senza una cabina di regia con le idee chiare sugli obiettivi da raggiungere. Oggi abbiamo una compagine di governo efficiente e composta da ministri giovani che la parola “design” l’hanno appresa quando hanno iniziato a parlare. Non sono dei Millennium, ma sicuramente appartengono alla Design e Digital generation. Perciò continuiamo a sperare con fiducia e ottimismo. Il nuovo panorama Non essendo un politico, posso solo azzardare delle considerazioni per contribuire all’eventuale dibattito sulla politica del design italiano. Nel suo interessante volume La nuova geografia del lavoro1 Enrico Moretti, economista italiano docente all’Uni-


versità della California a Berkeley, sostiene che “il modo più efficace per creare posti per i lavoratori meno qualificati è attrarre imprese hi-tech con dipendenti altamente qualificati” perché per ognuno di questi dipendenti si creano cinque posti di lavoro non qua­lificati. Barbieri, camerieri, fattorini, parcheggiatori – e anche designer – sono al traino, secondo l’autore, di ingegneri specializzati nelle alte tecnologie informatiche. Sostiene sempre Moretti che, per aver perso l’Italia due industrie fondamentali come quelle del computer e della farmaceutica, il nostro paese rischia di diventare un insieme di città e distretti industriali in lento declino rispetto ai più avanzati paesi europei. La sua efficace analisi di ciò che sta avvenendo negli Stati Uniti, ormai incamminati verso una ripresa economica connotata dalle forti disuguaglianze sociali e territoriali, ci indica una realtà che probabilmente sarà quella europea nei prossimi anni. Previsioni infauste che però non tengono conto di alcuni fattori chiave. Gli elementi positivi Se è vero che l’Italia ha perso industrie strategiche, è pur vero che è ancora tra le prime dieci potenze industriali del mondo. Inoltre Moretti non valuta un fattore importantissimo: la storia di un paese che, unito soltanto da un secolo e mezzo, ha generato saperi multiformi in un contesto geografico lungo e stretto dove le prossimità delle diversità territoriali e culturali costituiscono un caso unico al mondo, a differenza degli USA che hanno una storia recente e che si sviluppano orizzontalmente su un territorio che è circa 32 volte l’Italia. Un terzo fattore è l’abilità di un paese abituato a importare materiali per trasformarli con intelligenza e bellezza per rivenderli agli stessi fornitori d’origine. La sottovalutazione di questi fattori impedisce al nostro   Enrico Moretti, La nuova geografia del lavoro, Mondadori, Milano 2013. 1


autore di considerare il design (e in genere la creatività non necessariamente hi-tech) come un vero e proprio asset economico in sé, a differenza degli Stati Uniti dove il design è considerato gregario ai grandi asset industriali, artigianato a parte. Inoltre, a differenza degli USA, per ogni dipendente delle fabbriche design oriented italiane si valutano sette lavoratori nelle piccole imprese del territorio. Certo, i distretti italiani sono, come scrive Aldo Bonomi nel catalogo della mostra Il design italiano oltre le crisi2, in una diffici­le transizione: tra il Non più e il Non ancora. Scrive Bonomi: “[…] nel ‘non ancora’ dei distretti e del capitalismo di territorio, progettare e ‘saper fare’ un buon prodotto non basta più. […] Per questo, la rete si allarga, il territorio si contamina con le metropoli, il locale con il globale, i saperi analogici dei maestri artigiani con quelli digitali degli ‘smanettoni’ […]. Tra Non più e Non ancora, ciò che rimane quale vero e proprio motore immobile è la cultura del progetto”. Una cultura che ha dilatato enormemente i suoi confini. E se la prossimità territoriale e l’estensione globale della rete sono la condizione operativa dei Maker (di certo il fenomeno più visibile della metamorfosi in atto, in quanto rivoluziona i modi della produzione e della vendita) esistono altresì una quantità di nuove professioni come Digital Media Manager, Interaction Designer, Trans Media Producer, Hospitality Designer – per ci­tar­ne alcune – di cui solo recentemente si è iniziato a parlare e i cui protagonisti sono i giovanissimi nativi digitali. Professionisti in grado di passare da una piattaforma all’altra, dalle immagini ai testi, dalla musica ai video, figure dalle competenze poliedriche che devono gestire forme di progetto complesse. Queste nuove professioni saranno sempre più richieste dall’e­nor­me mercato dei media, e perciò il loro inserimento nel mondo del lavoro sarà del tutto lineare. Al contrario dei Maker che incontrano notevoli difficoltà nella commercia  TDM7: Il design italiano oltre la crisi. Autarchia, austerità, autoproduzione, a cura di Beppe Finessi, Corraini, Mantova 2014. 2


lizzazione dei loro prodotti. Perché la vendita via Internet, se non è riferita a brand famosi, non risponde né ai criteri né alle strutture tradizionali del marketing. Perciò è davvero semplicistico pensare che basta fare un sito e poco più per essere in Internet e con questo inseguire il miraggio della drastica riduzione del prezzo di vendita finale! Nuovi ruoli professionali nello Smart Market O ci si affida a imprese specializzate come Yoox.com, brand fa­moso e in grado di operare a livello globale, o a nuove iniziative come Slow Wood di Gianni Cantarutti e Marco Parolini che coordinano il lavoro di artigiani e designer per realizzare prodotti d’artigianato vendibili via web. Altra strada è organizzarsi in proprio come ha fatto la Kickers di Monte Urano che, offrendo la possibilità di configurare le proprie scarpe in 215.940 combinazioni possibili, ha registrato un vero boom. Altro esempio è la Gas Jeans di Chiappano (Vicenza) che in pochi mesi ha creato una comunità di duecentomila fan sparsi in tutto il mondo con un gran successo delle vendite. Questi ultimi esempi indicano che in effetti il cosiddetto smart market è costituito da persone che dialogano e si riuniscono online per discutere di prodotti e servizi e magari suggerire di svilupparne di nuovi. Queste comunità trovano nei siti e nei social media quanto può soddisfare i loro bisogni, e Internet funziona come una sorta di “sistema limbico” in grado di trasferire informazioni ed emozioni superando qualsiasi barriera sociale, geografica e ideologica. La vendita attraverso lo smart market è l’altra metà del cielo dei Maker, che spesso considerano la questione solo dal punto di vista del progetto e della produzione. La quale, come scrive Bonomi, non è più sufficiente. Perciò chi non ha già formato una community può aggregarsi a strutture come H-Farm, così come ha fatto il giovane Davide Scomparin fondatore di Desall che media relazioni tra designer e


imprese. Riunendo 15.000 creativi Scomparin comunica loro i brief delle aziende (Alessi è stato il suo primo cliente) scatenando la vasta platea dei suoi associati. Nell’articolato panorama del cambiamento in atto, dobbiamo citare la mutazione dei cosiddetti terzisti o subfornitori che nella crisi delle grande aziende hanno trovato la forza di agire in prima linea. Un caso tra i molti è quello della Caino Design, marchio della Stv Italia di Venaria Rea­ le, azienda dell’indotto Fiat che ha “riciclato” la tecnologia della fotoincisione, usata per lo stampaggio di circuiti elettrici, in tecnologia per la produzione di pannelli d’arredo di grande formato. Questa piccola multinazionale che da subfornitore non aveva alcuna dimestichezza con la rete, oggi vende i suoi oggetti di design prevalentemente via Internet. Gli esempi portati seguono le tre regole d’oro del marketing online, che sono: essere presenti online, coinvolgere gli utenti e creare comunità. Non dimenticando mai che Twitter, Facebook e tutti i social sono portatori di emozioni (positive o negative) e che la promozione negli smart market avviene attraverso la pubblicità generata dagli utenti. L’evoluzione dell’ADI Questa rapida carrellata “dal macro al micro” aiuta a inquadrare il contesto complesso e in rapidissima evoluzione in cui l’ADI deve, a mio parere, reinventare il proprio ruolo se vuole essere all’altezza della sua storia e della sua responsabilità sociale. E a questo nuovo ruolo devono corrispondere nuovi contenuti e un altrettanto nuovo modello organizzativo. In estrema sintesi (per una più approfondita conoscenza consiglio vivamente la lettura del volume di Renato De Fusco Una storia dell’ADI3) possiamo tratteggiare l’evoluzione del modello organizzativo dell’ADI in almeno tre fasi.   Renato De Fusco, Una storia dell’ADI, Franco Angeli, Milano 2010. 3


La fase nascente, quella del primo Comitato organizzatore del 1955 (Giulio Castelli, Gillo Dorfles, Ignazio Gardella, Vico Magistretti, Angelo Mangiarotti, Bruno Munari, Marcello Nizzoli, Antonio Pellizzari, Enrico Peressutti, Alberto Rosselli, Albe Steiner) che sotto l’egida di Gio Ponti, dell’Olivetti, della Rinascente, della Pirelli, della Fiat e della Montecatini portarono alla fondazione dell’ADI (1956) e del suo primo Comitato direttivo, composto da Alberto Rosselli Presidente, Enrico Peressutti, Giulio Castelli, Antonio Pellizzari, Albe Steiner. In un paese prevalentemente agricolo e in rapida trasformazione industriale questi personaggi, alcuni dei quali saranno in seguito riconosciuti come i maestri del design italiano, inventarono nel 1954 una iniziativa del tutto inedita come il Compasso d’Oro (ideato da Ponti con l’appoggio di Cesare Brustio e Aldo Borletti della Rinascente, e con il contributo dell’allora giovanissimo Augusto Morello proveniente dall’Olivetti), ceduto nel 1959 all’ADI. Un’operazione d’avanguardia culturale ed economica, rispetto ai tempi e a ciò che da li a poco sarebbe successo nel nostro Paese. Nell’insieme, diremmo oggi, un illuminato club milanese di visionari pragmatici a cui non bastò fondare l’ADI perché subito, attraverso le loro personali relazioni internazionali, fondarono nel 1957 l’ICSID, International Council of Societies of Industrial Design. Nei decenni che seguirono, l’ADI continuò la sua efficace azione di “evangelizzazione” con iniziative culturali di tutto rispetto, una su tutte per i suoi contenuti anticipatori, il Design Memorandum del 1988 del Comitato di Angelo Cortesi Presidente. Sempre rigorosamente tra gli alti e bassi di micidiali scontri interni, ideologici e personali, che certamente impedirono all’as­so­ciazione uno sviluppo e una fama, almeno pari alla sua più conosciuta espressione pubblica: il Premio Compasso d’Oro. È bene dire che tutti i presidenti ADI e i loro Comitati si sono sempre spesi con grande passione e impegno personale e sempre a titolo gratuito. È questo un dettaglio non se-


condario nell’analisi utile per immaginare le future modalità organizzative di un nuovo corso dell’ADI. Un salto di qualità ineludibile che deve portare l’ADI a operare fuori da quella emergenza che la caratterizza da sempre. Bisogna anche dire che, nei paesi avanzati di vecchia e nuova denominazione, le strutture rappresentative del design sono finanziate pubblicamente e solo l’ADI vive di mezzi propri. Segno della grande arretratezza della politica italiana, che solo recentemente pare si sia accorta di quanto il design sia importante per la nostra economia. Ciò detto è chiaro che l’associazione non può aspettare i tempi della politica e, come ha sempre fatto, deve prepararsi ai soliti salti mortali, doppi e tripli che siano. Oppure deve elaborare una strategia di alleanze, di collaborazioni e altre iniziative che la collochino al centro della rappresentatività nazionale del design, secondo le sue più aggiornate ed estese declinazioni. L’ultimo presidente del secolo scorso e del primo anno del nuovo millennio, Giancarlo Iliprandi e il suo Comitato esecutivo – composto da Giulio Castelli (vicepresidente), Aldo Colonetti, Anna Del Gatto, Gianni Pasini – avviò un’iniziativa di fondamentale importanza per l’associazione: l’ADI Design Index. La selezione di prodotti, di progetti grafici, di Exhibit Design e di Design dei servizi che annualmente viene fatta dall’Osservatorio permanente del Design e il cui primo curatore è stato Daniele Baroni, personaggio storico dell’ADI. Personalmente considero l’invenzione dell’ADI Design Index il vero punto di svolta dopo decenni di sostanziale stagnazione della dinamica associativa. L’Index ha restituito all’ADI maggiore trasparenza e scientificità nelle scelte del Compasso d’Oro (i Compassi vengono attribuiti da una giuria internazionale che sceglie tra la selezione di tre annualità dell’Index), ha risvegliato l’interesse per l’ADI e ha permesso al sottoscritto (eletto presidente dopo Iliprandi) di immaginare che il Premio Compasso d’Oro ADI diventasse l’esito finale di una metodologia di censimento annuale delle qualità territoriali nazionali.


La svolta di oggi Questa metodologia (completata dalle selezioni territoriali dei Codex) ha di fatto ridisegnato la stessa struttura associativa: da Milano-centrica a network nazionale, con Delegazioni territoriali autonome in grado di accreditarsi nei propri territori come strutture di riferimento degli stessi, e con obiettivi operativi riconoscibili e continuativi nel tempo. Questa struttura è quella che caratterizza l’ADI ancora oggi. L’attuale presidente Luisa Bocchietto ha continuato l’opera con grande spirito di abnegazione, ma è evidente a tutti che, più l’ADI diventa importante, più il presidente promotore, controllore, organizzatore, presenzialista, presentatore e infine factotum, non regge più. Men che meno nella positiva contingenza di un risultato qualificante di tutta la sua presidenza come l’aver ottenuto la concessione dal Comune di Milano per la nuova Casa del Design. Personalmente considero l’aver portato a compimento un processo, iniziato ben prima, il vero grande risultato della presidenza Bocchietto, che però (come avevo avvertito nel luglio 2012 con uno scritto indirizzato all’intero Comitato direttivo) alza di molto l’asticella della sfida che l’associazione deve fronteggiare e, di conseguenza, pone diverse questioni economiche, organizzative e di contenuti strategici, che sono, o almeno dovrebbero essere, parte di una nuova politica associativa risultante da un profondo dibattito interno, in grado di rinnovare l’associazione nel quadro dei grandi cambiamenti globali e nazionali degli ultimi anni. Con tutti gli sforzi profusi negli ultimi dodici anni i soci ADI si attestano intorno ai 1.200, È una base in generale ancora troppo piccola e, in particolare, per reggere l’economia di un luogo che come promette il suo nome – Casa del Design – dovrà vedere la partecipazione di chi si occupa della cultura del progetto: dai teorici ai progettisti, dai produttori ai consumatori, agli utenti e al grande pubblico. Soggetti che solo in piccolissima parte si riconoscono nel­ l’ADI.


Come è noto, salvo rare eccezioni, le mostre autoprodotte sono un passivo e, con la giusta ambizione di offrire servizi e contenuti ai soci e alla vasta platea del design, la scorciatoia di generare un attivo economico ospitando eventi e mostre prodotte da terzi comporta il serio rischio di diventare un “mostrificio”, rischio troppo alto per le giuste ambizioni di un’associazione blasonata come l’ADI. La cultura costa, non è una novità. Per questo scrivevo che alleanze programmatiche (non dei pourparlers) con enti vicini all’ADI sono fondamentali e forse è ritornato anche d’attualità un progetto che avevo avviato nel 2006 per mettere l’ADI al centro di una nuova federazione di associazioni a livello nazionale, chiamata ai tempi FIAD. Da allora a oggi il mondo del design si è molto allargato, non solo per il numero di studenti che università e scuole diplomano ogni anno, ma anche e soprattutto per la quantità di nuove professioni che la cultura digitale ha generato. Dare una “Casa” a questi nuovi professionisti pone questioni che impattano direttamente con quanto in ADI si dà per scontato, rendendola fortemente conservativa. Un esempio immediato. ADI – Associazione per il Disegno Industriale – è un acronimo che la maggior parte delle persone, anche addette ai lavori, legge come Associazione del Design Italiano. A parte le infinite discussioni anche motivate del passato (il tema non è nuovo), bisogna al di là di ogni ragionevole romanticismo, prendere atto che il significato della parola “design” si estende oggi a mondi che con la parola industriale hanno poco a che fare. Le prospettive Questa è la realtà che peraltro ci obbliga a fare i conti con che cosa era l’industria sessant’anni fa e che cos’è oggi; con la questione dell’artigianato che si differenziava per modalità pro­duttive, numeriche e unicità dei manufatti e la stessa industria che nella sua evoluzione tecnologica è passata dal grande numero alla piccola serie. Inoltre, è cosa


frequente che designer industriali progettino e producano pezzi unici o piccole serie differenziate. Che cosa facciamo? Li perdoniamo? Gli dimezziamo la quota? Li radiamo dall’ADI? E con i designer che lavorano con le stampanti 3D che cosa facciamo? Forse dovremmo fare i conti con ciò che è successo dopo il 2008, e prima ancora con i fondamenti di un nuovo ciclo storico che molti definiscono come Terza Rivoluzione Industriale. A ben riflettere la nuova federazione che ipotizzavo sarebbe da estendere a tutte le attività creative perciò si potrebbe chiamare FIAC (Federazione Italiana Attività Crea­ tive). Fa ridere? Forse, ma non tanto, secondo me, se si pensa agli scenari dei Nobel e di Moretti sopracitati. Bisogna andare avanti nel costruire la rete e non arroccarsi presuntuosamente sulla nostra storia, perché nel declino dei distretti industriali, l’ADI potrebbe avere una centralità del tutto inaspettata. Dobbiamo dialogare e condividere prassi e obiettivi con la vasta platea di soggetti che soffrono degli stessi nostri problemi, con una politica inclusiva e rispettosa delle altre autonomie. D’altra parte “Casa del Design” pone la domanda: quale “Design”? E la questione non può essere di tipo astrattamente definitorio, perché alle – spero – tantissime iniziative culturali bisognerà dare un senso rispetto a come si configura l’associazione per la sua “missione” non solo ideale. Come parte di questo tema sorge anche la questione di come l’indirizzo delle future attività si collocherà nei confronti della Triennale di Milano, rispetto alla quale bisogna assolvere a un ruolo diverso, originale e virtuoso, e non di sciocca e perdente concorrenza. Fare rete e alleanze mi sembra la strada maestra, perché non riesco a immaginare di demandare ad altri soggetti, esterni all’associazione, ciò che compete ai soci dell’ADI. La soluzione delle questioni economiche, in particolare quelle connesse con la nuova Casa del Design, è strettamente legata ai contenuti culturali e alla strategia associativa dell’ADI, e sappiamo bene per esperienza diretta (dieci an-


ni di comodato d’uso del Compasso d’Oro al CLAC) quanto affidare ad altri sia poca cosa sul piano economico e quanto sia vincolante per lo sviluppo e l’immagine dell’associazione. Per questo sono fortemente contrario a chi pensa che l’ADI sia altro dalla Casa del Design. Potrà esserlo solo dal punto di vista gestionale, ma non certamente per i contenuti delle attività che vi si svolgeranno. Uscire dai confini Altra questione molto seria, l’internazionalizzazione del Compasso d’Oro. Da quanto ho capito, il tema è affrontato estendendo ad altri paesi la partecipazione al Premio in una speciale sezione a loro dedicata. Penso che l’internazionalizzazione del premio risponda alla giusta propensione di uscire dai limiti angusti dei confini nazionali e dall’altra di acquisire una sorta di leadership o, più modestamente, di allinearsi ad altri premi che già contemplano questa modalità. Mi sembra un adeguamento di tipo “markettaro”, che da una parte non risponde all’unicità della metodologia che l’ADI mette in campo nell’elaborazione del suo premio Compasso d’Oro, e dall’altra di basso profilo rispetto a una vera strategia di leadership di medio-lungo periodo che l’ADI potrebbe perseguire. Se dopo i suoi primi cinquan­ t’anni di vita l’associa­zione si è dotata di metodi più sofisticati di altre associazioni straniere, sarebbe più significativo esportare il “modello” ADI verso quei paesi (vedi Spagna, Brasile, Cina…) rispetto ai quali assumere un significativo ruolo di riferimento. Imitare ciò che altri già fanno, non mi sembra la cosa migliore. Internazionalizzarsi vuol dire anche aggregare soci da tutto il mondo, nuovi soci che attraverso la rete potranno portare il loro contributo ai temi di comune interesse dibattuti nell’ADI. Per questa ragione sarà importante creare una struttura di riferimento dell’associazione come un International Advisory Board formato da grandi personalità internazionali rappresentanti discipline diverse e che, oltre ai


contatti in rete, si potrebbero riunire almeno una volta al­ l’anno per dare l’opportunità ai soci di essere coinvolti su temi utili per ampliare gli orizzonti culturali loro e dell’associazione. Un’operazione come quella di Cernobbio dello Studio Ambrosetti darebbe all’ADI ulteriore visibilità e prestigio nazionale e internazionale. In buona sostanza, mi sembra un po’ velleitario pensare che si possa internazionalizzare il Compasso d’Oro con una sezione dedicata ai prodotti stranieri, senza che questo impatti sul tema più urgente e attuale del rapporto tra l’ADI, nata in un paese che appena usciva dall’autarchia, e l’attualità delle relazioni globali. Se non vogliamo che la Casa del Design sia un semplice trasferimento di sede dobbiamo affrontare, tutti insieme, temi dei quali quelli qui citati sono soltanto un esempio. Un progetto alto, condiviso dai soci, che riposizioni l’ADI per vincere le sfide che deve affrontare, mi sembra il modo migliore per onorare i suoi sessant’anni di storia.



ISSN 0030-3305

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